All My Sins – Pra Sila – Vukov Totem

Uno dei migliori dischi di black metal degli ultimi anni, potente, melodico ed affascinante, con una poetica musicale e non che non può lasciare indifferenti.

Arriva dalla Serbia un disco black metal furioso e con grandi melodie che farà la gioia di molti amanti del nero metallo.

I serbi All My Sins sono un gruppo con un talento compositivo molto particolare, con un timbro che si impone subito all’attenzione dell’ascoltatore. La loro storia è particolare, perché dopo due demo fra il 2002 ed il 2004 si va direttamente ad un ep del 2017. Dovendo semplificare la spiegazione del tipo di black metal che offrono si potrebbe affermare che facciano un qualcosa di classico, ma vanno oltre perché c’è anche quel ritorno alla natura ed il recupero delle proprie tradizioni che è uno degli effetti del genere. Le tradizioni degli slavi del sud sono molto presenti in questo disco, che ha un significato recondito molto profondo e si sposa inevitabilmente con ciò che noi chiamiamo occulto, ma che ai nostri antichi era molto ben chiaro e quotidiano. Il lavoro si basa soprattutto, oltre che su un robusto e bellissimo black metal della seconda ondata norvegese, sul concetto del lupo come essere lunare e sulla sua presenza nella cultura slava. Da lì si arriva alla similitudini fra questo animale e l’uomo moderno, il tutto senza preconcetti ed illustrando molto bene i passaggi. Le liriche sono in tutte in serbo, ma se si traducono con i mezzi moderni riservano più di una sorpresa. In questo caso il black metal viene usato come codice per indagare e spiegare la natura ancestrale e fortemente pagana della propria gente e delle proprie tradizioni, sopravvissute in qualche maniera al flagello chiamato cristianesimo che ha spianato in breve tempo culture millenarie. Il lavoro dei serbi ha una produzione grandiosa ed estremamente fedele, dovuta al fatto che un componente del gruppo, V, ha uno studio di registrazione e produzione di metal estremo, il Wormhole Studio di Pančevo e ha le idee molto chiare ed un bel talento dietro al controller. Il risultato è uno dei migliori dischi di black metal degli ultimi anni: potente, melodico ed affascinante, con una poetica musicale e non che non può lasciare indifferenti. Il black metal degli All My Sins è una cosa bellissima.

Tracklist
1.Vukov Totem
2.Zov iz Magle
3.Vetrovo Kolo
4.U Mlazevima Krvi
5.Opsena
6.Mesecu u Oko
7.Konačna Ravnodnevica (Čin Prvi)
8.Konačna Ravnodnevica (Čin Drugi)

Line-up
Nav Cosmos – Vocals / Bass / Vrg
V – Guitars / Keys
Nemir – Drums (Session)

ALL MY SINS – Facebook

Ildra – Eðelland

 Eðelland è sicuramente un album che va recuperato e, anche se non dovesse avere più alcun seguito, rimane senza dubbio uno degli esempi più efficaci di pagan black offerti nel decennio in corso.

Cominciamo subito col dire che questo album dei britannici Ildra è la ristampa dell’unico full length finora pubblicato, Eðelland, risalente al 2011.

Se molto spesso la riproposizione di lavori vecchi di diversi anni la si può ritenere un’operazione superflua, di sicuro questo non vale per un album di tale spessore: il black metal dalla cospicua componente pagan folk contenuto in questi tre quarti d’ora di musica è quanto di meglio si possa ascoltare in quest’ambito stilistico, e sarebbe stato delittuoso quindi lasciare che Eðelland continuasse a languire in una sorta di oblio.
Bene ha fatto perciò la Heidens Hart Records, etichetta olandese specializzata in black metal, a riportare alla luce questo spaccato di sonorità epiche che, ovviamente, non contengono alcun elemento di novità ma sono semmai l’esaltante perpetrarsi di una tradizione che parte dai seminali Bathory ed arriva ai giorni nostri con band della caratura dei Primordial, con tutti gli altri nomi di peso compresi in questo perimetro (Falkenbach, Moosorrow, ecc.) .
Del valore degli Ildra,  dei quali non si è mai saputa la composizione oltre che le attuali sorti (se si va sulla loro pagina Facebook, questa appare desolatamente vuota) la misura ce la offrono due tracce in particolare, Rice Æfter Oðrum e Swa Cwæð se Eardstapa, veri e propri concentrati di solenne epicità, con un magnifico lavoro chitarristico capace di delineare melodie evocative (specialmente il crescendo finale del secondo dei due brani).
Eðelland è sicuramente un album che va recuperato e, anche se non dovesse avere più alcun seguito, rimane senza dubbio uno degli esempi più efficaci di pagan black offerti nel decennio in corso.

Tracklist:
1. Sweorda Ecgum
2. Rice Æfter Oðrum
3. Hrefnesholt Dæl I
4. Esa Blæd
5. Ofer Hwælweg We Comon
6. Nu is se Dæg Cumen
7. Earendel
8. Swa Cwæð se Eardstapa
9. On Þas Hwilnan Tid

Nydvind – Tetramental I – Seas of Oblivion

I Nydvind non si risparmiano, offrendo oltre un’ora di pagan black metal al suo massimo livello, intenso e robusto allo stesso tempo e privo di punti morti.

Un ottimo pagan black metal è quello che viene offerto dai Nydvind, band francese in circolazione fin dai primi anni del secolo e giunta con Tetramental I – Seas of Oblivion al terzo full length di una carriera dalle uscite piuttosto diradate, nonché di pregevole qualità.

In questo trio troviamo comunque personaggi abbastanza conosciuti nella scena transalpina, a partire dal fondatore della band Richard Loudin, qui con lo pseudonimo di Hingard, vocalist che gli appassionati di doom conoscono molto bene per la sua militanza prima nei Despond e poi nei Monolithe, per arrivare poi a Olivier Sans (Nesh, chitarrista anche negli ottimi Azziard) ed Eric Tabourier (Stig, batterista, ex-Temple Of Baal).
Con queste premesse, l’operato dei Nydvind non poteva che rappresentare il frutto del lavoro di musicisti competenti e capaci di raccogliere e con buona personalità i dettami di uno dei generi nordici per eccellenza.
Ne scaturisce, quindi, un lavoro di notevole spessore, coinvolgente ed epico come devono essere gli album di matrice pagan, con riferimenti stilistici che riportano ai campioni del genere come i Primordial; è bene far notare, comunque, come la storia della band parigina tragga origine dalla precedente militanza di Hingard e Nesh in un’altra band dedita a sonorità folk e celtiche come i Bran Barr, tanto per dimostrare come questa inclinazione verso certe sonorità non sia frutto di una folgorazione improvvisa ma arrivi decisamente da lontano.
Al di là di tali premesse, l’operato dei Nydvind parla attraverso la musica contenuta in questo lavoro splendido per intensità e capacità di coinvolgimento, che si avvicinano non poco al meglio della produzione della citata band irlandese; al proposito va ribadito che tale riferimento è un’indicazione di massima utile a far capire cosa di debba attendere chi ascolterà l’album, visto che il sound dei francesi ha un propria peculiarità stilistica che si esplicita tramite uno spiccato senso melodico sviluppato in una direzione più epica che solenne.
Composto e suonato e prodotto come meglio non si potrebbe, Tetramental I – Seas of Oblivion si pone fin d’ora come uno dei probabile album di punta del genere negli ultimi tempi: il mare in tempesta che ci accoglie fin dalla copertina è l’ambiente naturale lungo il quale si dipana il racconto, con la band che mantiene sempre vivo tale immaginario a partire dalla fatica dei rematori evocata nell’opener Plying the Oars, fino allo sciabordio delle onde od ai versi dei gabbiani che sovente si manifestano nel corso dell’opera.
I Nydvind non si risparmiano, offrendo oltre un’ora di pagan black metal al suo massimo livello, intenso e robusto allo stesso tempo e privo di punti morti, con le quattro lunghe tracce superiori ai dieci minuti di durata (Sailing Towards the Unknown, Till the Moon Drowns, Through Primeval Waters, Unveiling a New Earth) che costituiscono la spina dorsale di un’opera davvero ispirata, alla quale non manca nulla per raccogliere i favori di chi ama questo sonorità ricche di fascino ed emotività.
Il fatto che Richard Loudin non faccia più parte dei Monolithe, con i quali è stato impegnato in maniera piuttosto intensa in questo decennio, fa ragionevolmente pensare e sperare che probabilmente non sarà necessario attendere altri sette anni prima di ascoltare un nuovo album dei Nydvind.

Tracklist:
1. Plying the Oars
2. Sailing Towards the Unknown
3. Skywrath
4. Till the Moon Drowns
5. Sea of Thalardh
6. The Dweller of the Deep
7. Through Primeval Waters
8. Unveiling a New Earth

Line-up:
Hingard: Vocals, Guitars
Nesh: Guitars, Bass nad Bouzouki
Stig: Drums

NYDVIND – Facebook

Man Daitõrgul – Gulkenha

L’auspicio è che Nagh Ħvaëre prosegua il suo cammino cercando di rimediare ai punti deboli evidenziatisi all’ascolto di questo full length, anche perché in quanto espresso dal progetto Man Daitõrgul ci sono diversi aspetti positivi sui quali porre le basi per ripartire.

Non è mia abitudine esprimermi in maniera poco lusinghiera su un disco sottoposto alla mia attenzione: è vero che spesso ciò non si rivela necessario, ma il motivo è che si preferisce dalle nostre parti lasciare spazio alle opere più meritevoli evitando di dedicare tempo e spazio a quello che talvolta viene visto come una sorta di accanimento nei confronti di musicisti che, a prescindere, meritano sempre e comunque il massimo rispetto come persone e come artisti.

Quando è però il musicista stesso a richiedere una recensione, bypassando quella che è la canonica trafila della mail o del comunicato proveniente da label o agenzie di promozione, è una dovere morale quello di acconsentire anche se, non necessariamente, quanto ne verrà fuori avrà connotazioni positive, con la certezza che sia sempre preferibile per chiunque ottenere un riscontro negativo, ma articolato, piuttosto che essere ignorati.
Di questo primo full length della one man band spagnola Man Daitõrgul bisogna innanzitutto dire che siamo di fronte ad un lavoro ricco di buone idee, che vanno dal songwriting al concept stesso, con tanto di lingua immaginaria (il baaldro) creata dalla fervida fantasia di Nagh Ħvaëre, purtroppo non assecondate a dovere a livello di realizzazione a causa di oggettivi e talvolta macroscopici difetti.
Il contenuto di Gulkenha è un black metal dai connotati pagan-epic che funzionerebbe discretamente se non fosse penalizzato da suoni rivedibili e decisamente scolastici per quanto riguarda la chitarra (molto meglio il lavoro tastieristico, per quanto piuttosto lineare) e da un’interpretazione vocale piatta, con un growl recitativo in stile Bal-Sagoth poco espressivo e troppo in primo piano rispetto al sottofondo musicale; purtroppo le cose non vanno meglio quando si tenta un approccio corale con voci pulite, perché per esempio le stonature in Kħazesis Gleivarka e Gulke Nagh non possono essere ignorate, pur con tutta la benevolenza possibile.
Così, alla fine, restano da salvare alcuni interessanti spunti strumentali come l’incipit della stessa Gulke Nagh, che riesce a restituire un po’ di quell’evocatività che dovrebbe essere il tratto distintivo dell’album, almeno prima che siano nuovamente le voci a riprendere il proscenio, e il ritmato incedere di Neħvreskйgaidaŋ, che essendo la traccia di chiusura lascia se non altro un ricordo piacevole del lavoro.
Spiace doverlo dire, ma Gulkenha ha poche speranze di ritagliarsi un minimo di spazio all’interno di una scena musicale cosi vasta e il più delle volte qualificata: un peccato, perché l’idea di partenza è sicuramente valida ma tale scintilla finisce per spegnersi in una trasposizione musicale che si rivela deficitaria.
L’auspicio è che Nagh Ħvaëre prosegua il suo cammino cercando di rimediare ai punti deboli evidenziatisi all’ascolto di questo full length, anche perché, ribadisco, in quanto espresso dal progetto Man Daitõrgul ci sono diversi aspetti positivi sui quali porre le basi per ripartire.

Tracklist:
1. Ħaram am Drokelйa
2. Kħazesis Gleivarka
3. Man Daitõrgul / Slăm Iƥe Kaldrath
4. Bo Sevakaëra na Drokeŋ
5. Togul Daitõren
6. Evaƥ og Ovre Voħrænŋ
7. Gulke Nagh
8. Neħvreskйgaidaŋ

Line-up:
Nagh Ħvaëre – All instruments, Vocals

MAN DAITORGUL – Facebook

Hetman – Sewn From The Ashes Book

Questa interpretazione del pagan black metal appare davvero accattivante, perché tutto sommato rifugge gli stilemi consueti trovando una sua peculiarità senza smarrire le coordinate di base del genere.

E’ ancora l’Ucraina ad offrire una nuova ottima one mand band che si muove in ambito black, anche se tecnicamente ad aiutare il bravo Cerberus ci sarebbe l’altrettanto  valido Storm alla batteria.

Comunque sia, questo progetto denominato Hetman arriva al terzo full length, un traguardo che, come spesso accade, ci fornisce elementi decisivi per determinare il valore di una band.
Ebbene, questa interpretazione del pagan black metal appare davvero accattivante, perché tutto sommato rifugge gli stilemi consueti trovando una sua peculiarità senza smarrire le coordinate di base del genere; addirittura mi spingerei a dire che inserire gli Hetman nel black metal è quasi una forzatura, visto che in certi momenti semmai uno dei riferimenti che emergono con più decisione sono gli Amorpohis, senza dimenticare chiaramente la lezione dei Bathorìy, al netto dell’uso dello screaming e di periodiche sfuriate in blast beat, che costituiscono i soli elementi che giustificano la collocazione nel genere.
Chiarito tutto ciò, non resta che ascoltare Sewn From The Ashes Book (tenendo conto che il tutto avviene in madre lingua e che la stessa band e il titolo dell’abum e dei brani si presentano al pubblico in cirillico) e ciò non si rivela affatto tempo perso, perché Oleksiy Bondarenko si dimostra un musicista di notevole spessore, sia per un songwriting vario e sempre orientato ad agganciare l’attenzione dell’ascoltatore, con passaggi di ampio respiro melodico ed il valore aggiunto di un pacchetto esecuzione/produzione inattaccabile.
Volendo trovare un piccolo difetto al lavoro si può dire solo che, dopo il magnifico trittico inziale The Gateway / The Seventh Heaven / How Quiet on Earth! How Quiet!… l’album tende a scemare leggermente di livello ed intensità, ma direi più per “colpa” della qualità eccelsa di questi brani che non per la pochezza dei restanti.
Poco male, visto quanto di buono Cerberus è in grado di offrire agli appassionati del metal dalle sfumature pagan black, i quali troveranno negli Hetman un nuovo gradito nome da appuntarsi sul proprio taccuino virtuale

Tracklist:
1.Брама (The Gateway)
2.Сьоме небо (The Seventh Heaven)
3.Як тихо на землі!Як тихо… (How Quiet on Earth! How Quiet!..)
4.Грудочка Землі (The Pile of Soil)
5.Пам’ятай хто ми (Remember Who We Are)
6.Доторкнись до каміння в степу (Touch the Stones in the Steppe)
7.Горде слово (The Proud Word)
8.В серце кожного (To the Heart of Everyone)

Line-up:
Oleksii Bondarenko – All instruments and vocals

Antiquus Scriptum – Antologia

Un pagan/epic black metal con potenziale qualità ma che di chiaro ha ben poco. Da parte degli amanti del genere, comunque, può meritare una possibilità.

Il pagan black metal di Antiquus Scriptum, one-man band portoghese con alle spalle una carriera ormai quasi ventennale, torna con il nuovo album Antologia che, dopo una breve intro soft con dei suoni della natura (nella stessa maniera si chiuderà), si catapulta nelle orecchie dell’ascoltatore con il massimo della violenza possibile, in chiave totalmente nichilista e senza alcuna traccia di benevolenza.

Ogni traccia di Antologia è intrisa, già dai titoli, di dissacrazione e malattia. Questa rimane una costante imprescindibile per tutta la durata del disco. Il musicista e compositore portoghese tira fuori un sound che ha anche tanto di epico e sinfonico, ma che comunque non cozza con la natura distorta dell’album.
Il risultato è, tutto sommato, una discreta miscela tra più stili, con qualche intermezzo come A shape of space & time che, in confronto al ritmo incessante dell’album, sembra quasi un pezzo pop.
Ad una valutazione complessiva, però, sono davvero molti i limiti del disco. Uno dei più importanti è senza dubbio la parte vocale, che qui naviga in maniera incerta tra frammenti death, voce pulita e raw. Proprio la voce, spesso ma non sempre, stona completamente con l’atmosfera musicale che si crea. È quasi come se fosse stata gettata in mezzo alla registrazione da un’altra fonte.
Anche sulla parte strumentale ci sono dei dubbi, infatti il ritmo eccessivamente forsennato dell’album sembra fine a sé stesso, confusionario e privo di criterio. Questo non aiuta certamente a capire cosa si sta ascoltando.
Insomma, c’è sicuramente del buono, ma c’è anche uno stile musicale ancora da comprendere.

Tracklist
1. Dance of the Sleepless Souls in a Dusk Called Night… (Intro)
2. In Pulverem Reverteris
3. Abi In Malam Pestem
4. Inner Depression (Syndromes of Fear)
5. I. N. R. I.: Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum
6. Thy Visionary
7. Den Nordiske Sjel Lever I Meg
8. Odi At Amo, Excrucior…
9. A Shape of Space & Time
10. In the Kingdom of Superstition
11. A Sea of Doubts
12. Dance of the Crying Souls in a Dusk Called Night… (Outro)

Line-up
Sacerdos Magus – Bass, Vocals, Guitars, Acoustics, Drums, Key Strokes

ANTIQUUS SCRIPTUM – Facebook

Zgard – Within The Swirl Of Black Vigor

Within The Swirl Of Black Vigor è un album caldamente consigliato agli estimatori del pagan folk black.

Zgard è uno dei molti progetti solisti gestiti da musicisti dalla prolificità superiore alla norma, in quanto tale si può considerare la media di un full length pubblicato per ogni anno di attività, anche se come abbiamo constatato in questi anni c’è chi riesce a produrre musica in maniera ben più compulsiva.

Nello specifico l’ucraino Yaromisl è appunto uno tra quelli che si segnala per la non troppo scontata capacità di coniugare quantità e qualità: il primo incontro con l’operato degli Zgard risale al 2012 con l’uscita di Astral Glow, nel quale veniva esibito un pagan folk black di assoluta sostanza ed oggi li ritroviamo con Within The Swirl Of Black Vigor, che giunge dopo altri due full length, Contemplation e Totem.
Il percorso stilistico di Yaromisl si va a comporre così di un nuovo tassello che mostra anche alcune differenze rispetto al passato, assumendo sembianze maggiormente orientate al pagan pur senza perdere le proprie connotazioni folk: il tutto pare giovare ulteriormente per quanto riguarda la resa finale, in quanto favorisce l’approdo ad un sound che fa proprie le pulsioni derivanti da gradi interpreti del genere come Moonsorrow e Negura Bunget, infondendovi però caratteristiche peculiari delle tradizione musicale ucraina, grazia anche al ricorso a diversi strumenti tradizionali (oltre a quelli a corde, troviamo un particolare flauto denominato sopilka, e la drymba, che è un po’ l’equivalente del nostro scacciapensieri).
Per questo lavoro Yaromisl si fa aiutare dal vocalist Dusk e dal batterista Lycane, andando a formare un trio capace di imprimere ritmo ed intensità ai vari brani; basti sentire a tale proposito una traccia come Confession of Voiceless, dal crescendo furioso e coinvolgente, oppure la “moonsorrowiana” e splendida Where the Stones Drone, per rendersi conto di quanto Within The Swirl Of Black Vigor sia un album imperdibile per gli estimatori del pagan folk black.
Se Astral Glow era già un album interessante ma che mostrava ancora ampi margini di miglioramento, quanto fatto da Yaromisl in questi cinque anni ha reso gli Zgard una tra le migliori realtà del genere, rendendola una credibile alternativa alle grandi band citate quali riferimento.

Tracklist:
1. Dive into the night (intro) [Занурення в ніч]
2. Forgotten [Забутий]
3. Confession of voiceless [Сповідь німого]
4. Frozen space [Замерзлий простір]
5. Where the stones drone [Там де камні гудуть]
6. KoloSlovo [КолоСлово]
7. Cold bonfire [Холодна ватра]
8. Winter lullaby [Колискова зими

Line-up:
Yaromisl – rhythm, solo, bass and acoustic guitar, sopilka, drymba, keyboards, back and clean vocals

Guests:
Dusk – vocals, clean vocals
Lycane – drums

ZGARD – Facebook

Black Messiah – Walls of Vanaheim

Walls of Vanaheim è un’opera di buono spessore in un genere in cui non è così semplice lasciare il segno, ma purtroppo non riesce a raggiungere l’eccellenza a causa dell’eccessiva e ridondante verbosità che rischia di tenere lontani gli ascoltatori meno avvezzi a questo tipo di sonorità.

I tedeschi Black Messiah sono una band dallo stato di servizio ultraventennale e, grazie ad un’attività piuttosto regolare, soprattutto nel nuovo secolo, giungono con Walls of Vanaheim al loro settimo full length.

Il combo di Gelsenkirchen in tutti questi anni ha distribuito la propria competente interpretazione di un pagan black sinfonico e dalle ampie sfumarture folk, che si è con il tempo stemperato in qualcosa di più vicino all’heavy metal; Walls of Vanaheim è un album che mantiene ben salde le coordinate stilistiche e liriche della band, capace di regalare un lavoro convincente ma che, con qualche accorgimento in più, avrebbe potuto risultare di livello ancor più elevato.
I nostri hanno la capacità di creare con disinvoltura atmosfere epiche di grande evocatività ed immediatezza, ma pensano bene di appesantire il tutto con ben sei tracce contenenti una voce narrante che sarà anche funzionale alla comprensione del concept (visto che diversi brani sono cantati in lingua madre) ma che, allo stesso tempo, affievolisce all’ennesima potenza la tensione di un lavoro sul cui aspetto musicale c’è invece davvero poco da eccepire.
Un peccato neppure troppo veniale, questo, se pensiamo che al netto delle parti recitate resta comunque un’ora abbondante di musica, che rappresenta pur sempre un fatturato impegnativo in un epoca nella quale la fretta e la necessità della sintesi paiono aver preso il sopravvento; detto questo, però, i Black Messiah regalano una prova bella e convincente, trasportandoci nel loro epico immaginario la cui colonna sonora abbraccia il viking black come il folk, fornendo un risultato complessivo gratificante per chi ama tali sonorità.
La parte del leone in Walls of Vanaheim la fa Zagan, vocalist espressivo e abile violinista, che imprime il proprio marchio in ottimi brani come Mimir’s Head, The Walls of Vanaheim e A Feast of Unity, che sono poi quelli meno folkeggianti e maggiormente orientati ad esaltare la vena epica, anche con bellissimi progressioni chitarristiche, oltre alla notevole chiusura offerta con Epilogue: Farewell, che dopo due minuti di chiosa narrativa si trasforma in uno splendido strumentale che rappresenta idealmente la summa stilistica della band tedesca.
Walls of Vanaheim è un’opera di buono spessore in un genere in cui non è così semplice lasciare il segno, ma purtroppo non riesce a raggiungere l’eccellenza a causa dell’eccessiva e ridondante verbosità che rischia di tenere lontani gli ascoltatori meno avvezzi a questo tipo di sonorità.

Tracklist:
1. Prologue – A New Threat
2. Mimir’s Head
3. Father’s Magic
4. Mime’s Tod
5. Call to Battle
6. Die Bürde des Njörd
7. Satisfaction and Revenge
8. The March
9. The Walls of Vanaheim
10. Decisions
11. Mit Blitz und Donner
12. The Ritual
13. Kvasir
14. A Feast of Unity
15. Epilogue: Farewell

Line up:
Zagan – Vocals, Guitars, Violin
Garm – Bass
Donar – Guitars (lead), Vocals (backing)
Surtr – Drums
Pete – Guitars (rhythm), Vocals (backing)
Ask – Keyboards

Tom Zahner – Narrator

BLACK MESSIAH – Facebook

Syn Ze Sase Tri – ZĂUL MOȘ

Il metal romeno in tutte le sue accezioni continua a stupire e a sfornare ottime opere, e questo è un gran disco di sympho pagan black metal.

Quarto album per i Syn Ze Sase Tri, per un massacro sympho pagan black metal.

I romeni con i tre dischi precedenti si erano già costruiti una solida e rumorosa reputazione di gruppo molto al di sopra della media, e con questo lavoro compiono un ulteriore salto di qualità. Il loro suono è un veloce e rabbioso sympho balck metal, con grandi parti di pagan e atmosfere folk metal, ma la loro peculiarità è una velocità metallica e sinfonica di grande effetto. Le tastiere qui non sono mero complemento ma protagoniste molto importanti di un disegno sonoro sofisticato e di grande impatto, che aggredisce l’ascoltatore dal primo minuto e non lo lascia mai, stupendolo per la varietà e la grande versatilità. L’immaginario è quello sconfinato delle leggende transilvane, quella fertile terra al confine tra oriente ed occidente, attraversata da molte culture ed altrettanti demoni, che prendono corpo nella musica dei Syn Ze Sase Tri, sembrando molto reali. La Transilvania e la Romania tutta hanno un corpus mitologico di grande rilievo ed importanza, che meriterebbe di essere ulteriormente approfondito, come fece Stoker per il suo celeberrimo Dracula, punta di un iceberg fatto di ghiaccio nerissimo. Il disco è un vortice di neve e metallo, un perdersi a rotta di collo vedendo l’antica Dacia con gli occhi di un lupo a caccia, o attraversando rituali innominabili, il tutto con un metal potente di una cifra stilistica unica. Il gruppo romeno è veramente efficace, e il suo quarto disco spicca per velocità, potenza e capacità compositiva, in un trionfo di sangue e metallo. Non ci sono momenti di stanca o tentativi di riempire spazi, perché la spontaneità e la carica sono tali da non lasciare spazio ad altro che non sia opera meritoria dei Syn Ze Sase Tri. Il metal romeno in tutte le sue accezioni continua a stupire e a sfornare ottime opere, e questo è un gran disco di sympho pagan black metal.

Tracklist
01-TĂRÎMU’ DE LUMINĂ
02-DÎN NEGRU GÎND
03-SOLU’ ZEILOR
04-DE-A DREAPTA OMULUI
05-ZĂUL MOŞ
06-PLECĂCIUNE ZĂULUI
07-URZEALA CERIULUI
08-COCOŞII NEGRI
09-ÎN PÎNTECU’ PĂMÎNTULUI (electric version)

Line-up
Șuier (Vocals)
Corb (Guitars, Vocals)
Moș (Guitars)
Dor (Drums)

SYN ZE SASE TRI – Facebook

Ashaena – Calea

Un album di grande sostanza che conferma quanto, in Romania, le varie forme musicali che prendono le mosse da una base black si stiano sviluppando con grande continuità, in diverse direzioni e con esiti sempre stimolanti.

A sette anni di distanza dal full length d’esordio, i rumeni Ashaena ritornano con un nuovo album, Calea, che segue l’omonimo ep uscito nel 2013.

Poca prolificità (visto anche che ben tre dei sette brani contenuti provengono proprio dall’ep) che per fortuna non va di pari passo con la qualità del pagan black offerto dalla band di Cluj, capace invece di modellare con buona padronanza e personalità un genere nel quale il rischio di scadere nella banalità è sempre dietro l’angolo.
Il valore che aggiungono gli Ashaena è il gusto est europeo per sonorità etniche, il che li porta a non aderire eccessivamente allo stile nordico per andarsi ad avvicinare più volte a sentori folk, naturali per chi fa musica nel medesimo paese dei Negură Bunget: lo stesso ricorso alla lingua madre rende più istintivo un accostamento che non si tramuta mai in un atteggiamento passivamente derivativo.
Del resto, sono proprio i momenti in cui Calea si illumina, ammantandosi di un’aura solenne ed ancestrale, a rendere l’album degno della dovuta attenzione, visto che le accelerazioni di matrice black, da sole, non sarebbero in grado di fare la differenza.
Troviamo così il fulcro nell’accoppiata centrale Crapat di Cer e Spirit-Sageata, dove un’aulica coralità si fonde con le asprezze estreme, creando un ibrido magari non inedito ma davvero riuscito e coinvolgente.
Comunque anche i brani più orientati al pagan godono di una buona personalità e di un gusto melodico sempre di prim’ordine, mentre lo strumentale Tara Berladnicolor è folk metal allo stato puro e, nonostante sia decisamente gradevole, risulta l’episodio più ordinario dell’album. Molto belle anche le più datate Zbor Insetat e Mos Urs, tracce che suggellano un album di grande sostanza, a conferma del fatto che, in Romania, le varie forme musicali che prendono le mosse da una base black si stanno sviluppando con grande continuità, in diverse direzioni e con esiti sempre stimolanti.

Tracklist:
1.Tapae 87
2.Calea
3.Tara Berladnicolor
4.Crapat di Cer
5.Spirit-Sageata
6.Zbor Insetat
7.Mos Urs

Line-up:
Cosmin “Hultanu” Duduc – Guitar, Clean Vocals, Aplehorn and Flutes
Alex “Strechia” Duduc – Drums, Percution, Bagpipe
Marius Gabrian – Bass
Alex “Vrancu” Vranceanu – Guitar and vocals

ASHAENA – Facebook

Paganland – From Carpathian Land

Il lavoro scorre molto fluido dall’inizio alla fine, regalando una quarantina di minuti di buona musica che, se non gode di una particolare peculiarità, neppure aderisce in maniera scoperta ad un preciso modello compositivo.

Gli ucraini Paganland sono una delle tante band che, nonostante una genesi risalente ai primi anni del secolo, hanno trovato un muovo impulso negli ultimi anni dopo un lungo silenzio discografico.

Questo From Carpathian Land è, infatti, il terzo full length negli ultimi tre anni per il gruppo di Lviv, dedito come da ragione sociale ad un black metal epico dalle venature folk
Niente di nuovo, ovviamente, ma eseguito nel migliore dei modi e qui potremmo chiudere, non potendoci essere particolare sorpresa nell’ascoltare i brani racchiusi nell’album e neppure nel constatare la bravura dei Paganland nel proporli, con una propensione assolutamente in linea con la buona tradizione della scena ucraina.
Il black metal offerto in From Carpathian Land, alla fine, mostra un lato ben più epico che folk ed è maggiormente caratterizzato da ampie aperture atmosferiche e da ottime progressioni chitarristiche; il lavoro scorre molto fluido dall’inizio alla fine, regalando una quarantina di minuti di buona musica che, se non gode di una particolare peculiarità, neppure aderisce in maniera scoperta ad un preciso modello compositivo.
Tra i brani segnalerei la magnifica Black Mountain, rimarcando il fatto che di passaggi a vuoto non se ne riscontrano anche grazie al buon gusto melodico che contraddistingue le parti atmosferiche.
Un buon lavoro che non deluderà gli appassionati di pagan black.

Tracklist:
1. Stozhary [Стожари] (Intro)
2. At the Heart of Carpathians [У Серці Карпат]
3. Black Mountain [Чорногора]
4. Belted by Spirit [Підперезаний Духом]
5. The Gloom [Морок]
6. From Carpathian Land [З Карпатського Краю]
7. Chuhayster [Чугайстер] (Outro)

Line-up:
Ruen – keyboards
Lycane – drums
Eerie Cold – guitars
Zymobor – vocals
Ivan – bass

Crystalmoors – The Mountain Will Forgive Us

I Crystalmoors hanno voluto offrire qualcosa in più rispetto ad un buonissimo e classico album, inserendo un secondo cd contenete le versioni folk di brani nuovi e vecchi

Non è così scontato imbattersi in band capaci di rendere in maniera così fluida e credibile la fusione tra la materia metal e quella folk: i cantabrici Crystalmoors ci riescono brillantemente con questo loro terzo full length intitolato The Mountain Will Forgive Us.

La band ha una genesi risalente ancora al secolo scorso ma il primo album su lunga distanza ha visto la luce nel 2008; a cinque anni dal precedente Circle of the Five Serpents, il gruppo di Santander presenta la propria personale interpretazione del pagan black metal che risulta avvincente ed accattivante, grazie alla dote non comune di costruire brani piuttosto aspri ma contenenti quelle linee melodiche che rimandano con decisione alla tradizione della musica popolare.
Non va dimenticato neppure che in questa occasione i Crystalmoors hanno voluto offrire qualcosa in più rispetto ad un buonissimo e classico album, inserendo un secondo cd contenete le versioni folk (ovvero scremate dalle loro componente metallica) di brani nuovi e vecchi; difficile quindi che gli appassionati al genere non possano apprezzare una simile scelta, in grado di accontentare tutti, al di là delle singole propensioni verso l’uno o l’altro genere.
La prima parte, intitolata The Sap That Feed Us, è fatta di nove brani di buona fattura, intensi e piuttosto diretti, tra i quali spicca l’anthemica Over The Same Land, tipica canzone capace di trascinare il pubblico in sede live, ma ottime sono anche Devotio Iberica e la più complessa When The Caves Spoke.
Il secondo cd, intitolato La Montaña, mostra il lato folk della band spagnola che, nonostante il ricorso a strumenti per lo più acustici, non rinuncia alle harsh vocals di Uruksoth Lavín, il che stende sul sound una patina ugualmente oscura, così come avviene nel cd, per così dire, più canonico. Nello specifico, come detto, vengono riproposte versioni di brani del passato, oltre ad una Over The Same Land sempre efficace anche nella sua nuova veste, tra le quali brilla di luce particolare la terna finale Greyland Lábaro, Crown of Wolves e Nabia Orebia.
Insomma, The Mountain Will Forgive Us si rivela un lavoro esaustivo e completo che, da un lato, rafforza lo status già soddisfacente raggiunto dai Crystalmoors con le precedenti opere, e dall’ altro ne fa emergere le doti di band capace di manipolare con disinvoltura la materia pagan folk black.

Tracklist:
CD 1: ‘The Mountain Will Forgive Us’
1. Memories
2. Devotio Ibérica
3. Over The Same Land
4. The Mountain
5. A Last Breath Of Peace
6. The Oldest One
7. The Eye Of The Tyrant
8. When The Caves Spoke
9. A Man Under Wolfskin

CD2: La Montaña
10. Over The Same Land (folk version)
11. The Mountain (folk version)
12. Defendiendo Amaia (folk version)
13. Since Old Times (folk version)
14. The Mountain Will Forgive Us (folk version)
15. Greyland Lábaro (folk version)
16. Crown of Wolves (folk version)
17. Nabia Orebia (folk version)

Line-up:
Uruksoth Lavín: vocals
Faramir: guitars, whistle, melodic vocals, bagpipes
Abathor: guitars, chorus
Thorgen: fretless bass, melodic vocals, chorus
Aernus: keyboards & samples, whistle, chorus
Gharador: drums & percussion

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Zgard – Astral Glow

Zgard è un progetto pagan black metal del prolifico musicista ucraino Yaromisl, che con Astral Glow giunge al terzo disco in poco più di un anno.

Ammetto subito di non essere in possesso di elementi sufficienti per poter fare un raffronto attendibile con le opere precedenti, di certo però, Astral Glow si rivela un lavoro sorprendente per maturità compositiva e per la carica evocativa che sprigiona da ogni nota.

La musica degli Zgard si muove su un’ideale di linea di contatto tra i Moonsorrow ed i Negura Bunget/Dordeduh: con questi ultimi il polistrumentista ucraino condivide non solo l’amore per sonorità folk affidate ad un uso particolare del flauto, ma anche per la natura incontaminata dei Carpazi (in un’epoca che disdegna l’insegnamento della geografia, è bene ricordare come, nel suo sviluppo, la catena montuosa attraversi sia l’Ucraina sia la Romania). I ritmi proposti sono impostati su dei mid-tempo nei quali la chitarra ricerca sovente linee malinconiche, talvolta accompagnate da solenni momenti corali (Stars in the Night Sky), ma anche quando la velocità aumenta non viene mai meno la componente bucolica, ottimamente rappresentata, come detto, dal flauto suonato da Hutsul. Il disco offre il suo meglio probabilmente nella parte iniziale, nella quale spiccano due gioielli come l’opener Balance In Universe e l’altrettanto lunga ed emozionante Letargy Dream, ma va detto che una lieve perdita di intensità nel complesso di un lavoro della durata di circa settanta minuti si può considerare un peccato veniale. Intendiamoci, gli Zgard non raggiungono le vette compositive pressoché inarrivabili dei maestri finnici e la loro musica appare meno intrisa dell’alone di spiritualità che contraddistingue le band di Hupogrammos e Sol Faur, ma proprio la sua maggiore immediatezza rende Astral Glow un lavoro piacevole da ascoltare, anche ripetutamente. Promozione a pieni voti, quindi, per la creatura di Yaromisl e, considerando il suo ritmo di un full-length ogni sei mesi, è lecito attendersi in tempi brevi ulteriori e stimolanti novità.

Tracklist :
1. Balance in Universe
2. When Breakin Down All the Ideals
3. Letargy Dream
4. Stars in the Night Sky
5. Old Woods
6. Astral Glow
7. Return to the Void
8. When Time Comes to Go Away

Line-up : Yaromisl – Guitars, Vocals, Keyboards, Mouth Harp, Programming, Lyrics

Hutsul – Flute

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