Marygold – One Light Year

One Light Year è tutt’altro che un lavoro superfluo o anacronistico e, di conseguenza, le band come i Marygold vanno solo supportate  e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.

La storia dei Marygold parte piuttosto da lontano, dovendo risalire alla metà degli anni novanta per trovarne la prime tracce nelle vesti di cover band dei Marillion eraFish e dei Genesis.

Dopo aver intrapreso la lodevole strada della composizione di brani originali ed aver ottenuto buoni riscontri all’epoca della loro unica uscita su lunga distanza, The Guns of Marygold, datato 2006, la band veronese ha dovuto far fronte agli intralci tipici di chi dalla musica trae gratificazioni di tutti i generi fuorché quelle economiche.
Il ritorno, concretizzatosi un paio d’anni fa e che ha dato quale frutto l’uscita di One Light Year sotto l’egida della Andromeda Relix, si può a buona ragione definire tra l’affascinante e l’anacronistico: infatti, chi ha apprezzato nello scorso secolo tali sonorità dovrebbe trovare di che compiacersi per una loro riproposizione così ortodossa ed efficace ma, d’altro canto, lecitamente molti potrebbero chiedersi se oggi abbia ancora un senso proporre qualcosa che appare così marcatamente legato ad un epopea ben definita temporalmente.
La risposta ovvia a quest’ultima domanda è che comunque la buona musica un suo senso ce l’ha sempre, sia che possa sembrare obsoleta sia che pecchi manifestamente in originalità; a tale proposito ribalto le perplessità sui molti che accorrono a frotte ad ascoltare quella stessa musica riproposta da pur ottime cover band ignorando del tutto, nel contempo, chi invece prova a rinverdirne le gesta con brani di proprio conio.
I Marygold appartengono appunto a quest’ultima categoria e non fanno nulla per nascondere la devozione per i Marillion dei capolavori corrispondenti ai primi tre full length della loro discografia e, conseguentemente, anche quella per i primi Genesis, oltre a riferimenti ad altre importanti band della seconda ondata del prog inglese come gli IQ e i Pendragon.
Le composizioni che fanno parte di One Light Year sono facilmente riconoscibili per le loro trame grazie a un tocco tastieristico e chitarristico inconfondibile e un cantato che si ispira all’accoppiata Gabriel/Fish, con risultati apprezzabili per intensità anche se brillando un po’ meno rispetto alla sezione strumentale.
Il progressive dei Marygold è competente, elegante ed ispirato il giusto per rispedire al mittente qualsiasi obiezione: i sette lunghi brani non cambieranno la storia del genere ma sicuramente sono funzionali a rinsaldarne il peso all’interno della musica contemporanea: perché, diciamolo forte e chiaro, ascoltare queste canzoni nelle quali una chitarra rotheryana regala più di un passaggio da ricordare è un qualcosa che fa bene all’animo e allo spirito di chi quei bei tempi un po’ li rimpiange, non solo per motivi strettamente musicali.
One Light Year si trasforma così in un sempre gradito e ben poco disagevole viaggio a ritroso nel tempo: per quanto mi riguarda, l’ascolto di brani splendidi come Spherax H2O e Without Stalagmite (ne cito due quali esempi ma il discorso lo si può fare indistintamente anche per le altre cinque tracce) si rivela come una sorta di ritorno a casa, dove ad attendermi ci sono i dischi e le musicassette del genere che mi hanno sempre accompagnato fin dall’adolescenza, facendomi scoprire quanto siano irrinunciabili le emozioni che le sette note possono donare.
Ecco elencati i motivi per cui One Light Year non è affatto un lavoro superfluo e perché, piuttosto, le band come i Marygold vadano solo supportate  e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.

Tracklist:
Ants in the Sand
2.15 Years
3.Spherax H2O
4.Travel Notes on Bretagne
5.Without Stalagmite
6.Pain
7.Lord of Time

Line up:
Guido Cavalleri – Voce, Flauto
Massimo Basaglia – Chitarre
Marco Pasquetto – Batteria
Stefano Bigarelli – Tastiere
Baro – Basso

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Glass Mind – Dodecaedro

Progressive metal che, senza bisogno del canto, esprime ugualmente una forte componente emozionale evidenziando l’ottima preparazione tecnica dei musicisti e le tante sfumature che toccano generi diversi, mantenendo il tutto perfettamente amalgamato in un sound che non provoca sbadigli.

Prog metal strumentale di altissimo spessore quello proposto dal quartetto messicano dei Glass Mind, che con Dodecaedro si affacciano in maniera importante sulla scena internazionale, grazie anche all’attivissima Rockshots, label dal roster molto interessante.

E l’album appunto è un’altra ottima opera proposta dall’etichetta italiana, ormai punto di riferimento per il metal classico ed alternativo ed i loro sottogeneri: un progressive metal che, senza bisogno del canto, esprime ugualmente una forte componente emozionale evidenziando l’ottima preparazione tecnica dei musicisti e le tante sfumature che toccano generi diversi, mantenendo il tutto perfettamente amalgamato in un sound che non provoca sbadigli.
E’ molto presente la componente metal nella musica dei Glass Mind, l’impatto è di quelli che fanno tremare i muri anche se a tratti spuntano, tra lo spartito elementi riconducibili alla musica etnica e al jazz.
Un primo lavoro che aveva già ben impressionato (Haunting Regrets del 2011), qualche sporadico singolo, ed ora questa nuova prova sulla lunga distanza che promuove la band di Città del Messico, bravissima a non cadere mai troppo nell’autocompiacimento e donando musica metal nobilitata da espressioni musicali alternative condensate in quaranta emozionanti minuti.
Una dozzina d’anni d’esperienza per la band non sono pochi, anche se la discografia è limitata a soli due full length e fanno di Dodecaedro un lavoro ispirato e dall’ottimo songwriting, così che tra lo spartito delle varie Babel, Fu e la conclusiva title track, troverete la perfetta sintesi del progressive metal di scuola Dream Theater, le ispirazioni che giungono dal mondo della musica etnica e dal jazz e quello delle nuove leve del progressive internazionale più ricercato e moderno.

Tracklist
1. Babel
2. Caliente
3. Fu
4. Húmedo
5. Inside the Whale
6. Frío
7. Detritus
8. Seco
9. Dodecaedro

Line-up
Benjamín Berthier – Guitars
Pablo Berthier – Guitars
Edgar Garduño – Drums
Michel Villamor – Bass

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Helvetestromb – Demonic Excrements Cursed With Life

Un album più che mai ad uso e consumo dei soli amanti del genere, che troveranno di che trastullarsi tra le blasfemie che caratterizzano il verbo malefico degli Helvetestromb.

Questo trio proveniente da Stoccolma si fa chiamare Helvetestromb è composto da tre luciferini personaggi che di metal estremo si nutrono e lo sparano in un delirio ritmico, un massacro diabolico perpetuato in mezzora di metallo incandescente: black metal old school, pregno di attitudine speed/thrash ma pur sempre legato al black di origine scandinava, quello storico, marcio, demoniaco e fuori da ogni compromesso.

Demonic Excrements Cursed With Life non lascia scampo, la sua natura fa tornare alla mente la vecchia scena estrema ed i suoi temibili eroi, attitudine ed impatto fanno dell’album una mazzata black/thrash dove i prigionieri sono torturati senza pietà e la morte è l’unica soluzione per riposare in pace.
Blasfemie varie fanno da contorno al sound che alterna parti veloci a pesanti mid tempo, un’anima punk aleggia sui brani, il cantato risulta uno scream sguaiato e alcolico, mentre Darkthrone e Carpathian Forest si alleano con Venom e Motorhead per avere la meglio sulla moltitudine di indifesi sostenitori del vivere comune.
Un armageddon, un girone dantesco che dall’opener, Tempesta di Merda (A legion of Jesus Christs), proseguendo con l’inno Restless Satan, porta all’inevitabile conclusione, dopo aver assaporato tutto il liquame diabolico che il trio ci riversa addosso, con Morningstar-Whore Crusher.
Un album più che mai ad uso e consumo dei soli amanti del genere, che troveranno di che trastullarsi tra le blasfemie che caratterizzano il verbo malefico degli Helvetestromb.

Tracklist
1.Tempesta di Merda (A legion of Jesus Christs)
2.Restless Satan
3.Skitberget
4.Holy Christian Airstrike
5.The Demon Bell
6.Kloakerna under Hel
7.Bog of Eternal Stench
8.Warmongo
9.Tormentive Retribution
10.Sifting Excrements (Through the Teeth)
11.Morningstar:Whore crusher

Line-up
Anal Desekrator – Guttural Screams ov Hate / Ass-opening Bass
Grym Ejakulator (ov Doom) – 666 Stringed
Chainsaw Überführer (ov Sado-Violations) – Gnawed Leper Bones

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Taake – Kong Vinter

Dopo tanti anni l’arte di Hoest, sempre sincera ed appassionata, convince ancora. con un’opera potente e ricca di inventiva.

Puntuale, ogni tre anni, ritorna Hoest, alias Taake , a deliziare i nostri padiglioni auricolari con la sua idea personale di black metal, ora con Kong Winter a livelli più consoni alla qualità dei suoi primi tre dischi veramente fondamentali per comprendere appieno la “second wave”dell’arte nera.

Come al solito, Hoest suona tutti gli strumenti e letteralmente riempie ogni brano con una miriade di riff tesi, simili a rasoiate; le sue idee melodiche sono sempre particolari e nel primo brano Sverdets Vei, potente e veloce, la parte centrale si apre in una parte melodica avvincente ed evocativa che cambia in toto la prospettiva del brano. Le intricate e serrate parti di Intrenger hanno un forte potere ipnotico nella loro ripetitività e danno un tocco molto groove, tipico della ricerca sonora intrapresa dall’artista, che memore delle radici del genere, cerca sempre di innestare un approccio progressivo nel tessuto sonoro dei suoi brani. Il suo non è un black metal atmosferico come è inteso oggi, spesso intriso di suoni post-metal, ma l’atmosfera che riesce a creare rimane gelida, carica come il miglior suono estremo scandinavo; potrà non piacere ai classici ricercatori del vero “true”, ma il sacro fuoco creativo non può non lasciare indifferente chi ricerca un’opera black, ben suonata e colma di inventiva. Hoest è sempre stato un personaggio controverso, un po’ una voce fuori dal coro ma la sua onestà artistica non può essere assolutamente messa in discussione. I primi tre dischi, che consiglio di riascoltare, sono dei veri classici e sono tasselli importanti nella evoluzione dell’arte nera; quest’ultimo album, accompagnata da una cover classica ma affascinante, non raggiunge i livelli qualitativi di quelle opere ma è lo sforzo sincero di un’artista che ha ancora molto da dire. A me il disco è piaciuto molto e consiglio di ascoltare con molta attenzione le cangianti atmosfere dell’ ultimo lungo brano Fra Bjoergegrend mot Glemselen per comprendere fino in fondo la magia dell’arte di Hoest.

Tracklist
1. Sverdets vei
2. Inntrenger
3. Huset i havet
4. Havet i huset
5. Jernhaand
6. Maanebrent
7. Fra bjoergegrend mot glemselen

Line-up
Hoest – All instruments, Vocals

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