The Erkonauts – I Did Something Bad

Prodotto da Drop, bassista degli immensi Samael,I Did Something Bad è un notevole esempio di metallo alternativo dalle reminiscenze prog e punk.

Mentre il music biz ed i canali più importanti dell’informazione musicale si chiedono che futuro avrà il rock, dopo la dipartita in poco tempo di alcuni degli artisti più conosciuti che, se non altro, riempivano le arene nei festival estivi e le tasche degli organizzatori, le ‘zine di riferimento sono travolte da una serie di gruppi e album che, nel sottobosco musicale, tengono accesa la fiamma con lavori di qualità in tutti i generi musicali.

E’ clamoroso a mio avviso, il fatto che un canale televisivo come Rock TV non abbia un programma, nel suo palinsesto, che parli delle scene underground sviluppatesi in questi anni, fornendo non solo supporto ai gruppi ed alle label, sempre più in crisi, ma un’informazione più approfondita ai molti fans sparsi sul territorio.
Ci sono le ‘zine, come detto, e meno male, visto che un lavoro del livello di questo I Did Something Bad, rischierebbe di passare del tutto inosservato, specialmente se parliamo nello specifico della nostra penisola.
I The Erkonauts sono un gruppo proveniente dalla Svizzera, fondato un paio di anni fa e dove milita l’ex cantante dei Sybreed Ales Campanelli, ora insieme ai suoi ex compagni della sua prima avventura (Djizoes), con cui ha composto questo straordinario lavoro di alternative metal, ristampato quest’anno dalla Kaotoxin con l’aggiunta di due brani registrati per l’occasione, ma uscito originariamente un paio di anni fa.
Prodotto da Drop, bassista degli immensi Samael, l’album è un notevole esempio di metallo alternativo dalle reminiscenze prog, ma attenzione non aspettatevi il solito disco alla Tool o un post grunge tecnico, qui si marcia spediti sull’ottovolante del punk e del metal moderno, i brani vorticano e rapiscono come in un’improbabile jam tra Primus, Jane’s Addiction e Suicidal Tendencies, anche se a tratti spunta una vena psichedelica che fa strabuzzare occhi e puntare orecchie, laddove le sei corde strizzano l’occhio al David Gilmour di pinkfloydiana memoria (la superba Hamster’s Ghosthouse).
Punk, alternative metal, progressive moderno, e rigurgiti settantiani, sono pane per i denti di chi, senza paraocchi di sorta si avvicina a questo immenso lavoro che sfiora il capolavoro.
La band si districa nel suo stesso travolgente songwriting con maestria, le chitarre formano un muro compatto di riff, mentre Campanelli è spettacolare al microfono, enorme nei brani che esplodono sotto la cascata di watts, personale e sanguigno quando la tempesta si calma un poco (Your Wife è una supeballatona da brividi).
Non manca la componente metal, violenta ad un passo dall’estremo suonare, come un bolide sparato a trecento all’ora su di un rettilineo troppo corto per fermarsi in tempo (Machine), mentre gli strumenti continuano a far uscire dalle loro corde e bacchette, note che si alternano e cambiano pelle come un grosso rettile che, dopo averci ingoiato, lascia il segno del suo passaggio con l’involucro vuoto del suo vecchio manto.
Siamo quasi a metà di questo 2016, ed in campo alternative metal troverete molte difficoltà ad ascoltare un album che si avvicini a I Did Something Bad, ve lo assicuro.

TRACKLIST
1. The Great Ass Poopery
2. Tony 5
3. All the Girls Should Die
4. Nola
5. Dominium Mundi
6. Hamster’s Ghosthouse
7. Gog
8. Your Wife
9. 9 Is Better Than 8
10.Machine
11.Culbutos

LINE-UP
Ales Campanelli – bass, vocals
Sébastien “Bakdosh” Puiatti – guitars
Adrien Bornand – guitars
Kevin Choiral – drums

THE ERKONAUTS – Facebook

Cretura – Fall Of The Seventh Golden Star

Se cercate un ascolto diverso nell’immenso panorama dei suoni sinfonici, sicuramente Fall Of The Seventh Golden Star riesce nella non facile impresa di risultare un album vario, violentissimo, epico e bilanciato da bellissimi momenti atmosferici a loro modo originali e dalla forte personalità.

I quattro cavalieri dell’apocalisse, immortalati sulla copertina, ci introducono al nuovo lavoro dei norvegesi Cretura, ottimo combo estremo arrivato al traguardo del terzo full length, licenziato dalla Wormholedeath, e successore dei precedenti Monsters of Wonderland (debutto del 2012) e When the Dead Goes to Dance, uscito nel 2013.

Symphonic extreme metal è il sound su cui si poggia questo bellissimo lavoro, prodotto da Wahoomi Corvi ai Realsound Studios, un’epica cavalcata di sessanta minuti in compagnia di guerra, morte, distruzione e carestia, una delle molteplici interpretazioni date ai quattro leggendari cavalieri.
E la musica dei Cretura ben si adatta al concept, un oscuro, debordante e devastante metal estremo, che pesca dal black metal sinfonico, caro a i Dimmu Borgir, ma non manca di potenziare il suo impatto con la forza del death metal, orchestrato a meraviglia da ottimi inserti tastieristici e reso affascinate dall’uso della doppia voce, uno screaming malvagio, ed una voce femminile (Sárá Márjá Guttorm) che, opportunamente, si discosta dai toni operistici tout court, per un apporto più concreto alle affascinanti atmosfere da tregende metallica del sound.
Come tutti i musicisti provenienti dal freddo nord Europa, anche i Cretura non lasciano indietro una tecnica strumentale sopraffina, la sezione ritmica risulta travolgente come raffiche di vento gelido che si abbattono sulle coste del mare del nord (Jørgen Beijer Johnsen al basso e Michael Sveri alle pelli), le chitarre sono armi micidiali , spadoni che tagliano e squartano con solos ora colmi di epicità, ora di tragiche melodie (Markus Oddekalv Pettersen, anche terrificante orco al microfono e Marius Toen) mentre le tastiere aggiungono feeling sinfonico al mood estremo e drammatico dell’album.
Si viaggia a velocità sostenute, a tratti qualche rallentamento alza l’atmosfera di brani d’assalto come l’opener Reign of Terror e la successiva Grand Warfare Through Dark Ages, anche se il cuore dell’album è lasciato alla marcia funebre, Funeral Roses, accompagnata da un video molto suggestivo, ed alla cavalcata in crescendo Northern Winds, che parte come un’oscura ballad per crescere di intensità e travolgere con una bordata di black metal epico.
Anche se ad un primo ascolto la sensazione rimane oscurata dalla violenza di brani come Voices Of Hunger e Når lyset dør, affiorano col passare del tempo affascinanti sfumature folk, che rendono l’atmosfera di Fall Of The Seventh Golden Star molto suggestiva, facendo respirare aria di tempi passati, lontani centinaia di anni, perennemente all’ombra della furia distruttrice del metal estremo suonato dal gruppo di Bergen.
Una menzione particolare per The Pale Horseman & the Hunter of the Sky , stupendo brano dalle sfumature gotiche che avvicina il gruppo al symphonic gothic, grazie all’interpretazione della singer, questa volta più in linea con le sue colleghe di genere.
Se cercate un ascolto diverso nell’immenso panorama dei suoni sinfonici, sicuramente Fall Of The Seventh Golden Star riesce nella non facile impresa di risultare un album vario, violentissimo, epico e bilanciato da bellissimi momenti atmosferici a loro modo originali e dalla forte personalità.

TRACKLIST
1. Past, Present & Future
2. Reign of Terror
3. Grand Warfare Through Dark Ages
4. Voices of Hunger
5. Funeral Roses
6. Northern Winds
7. Pray For A Brighter Tomorrow
8. Når Lyset Dør
9. At The 11th Hour
10. The Pale Horseman & The Hunter of The
Sky
11. The Last Song of The Earth

LINE-UP
Marius Toen – Guitars (lead)
Zlargh – Guitars, Vocals
Jørgen Beijer -Johnsen Bass
Michael Sveri – Drums
Sárá Márjá Guttorm – Vocals
Kine-Lise Madsen Skjeldal – Keyboards, Vocals (backing)

CRETURA – Facebook

Craigh – Of Dreams And Wishes

Of Dreams And Wishes esplora un po’ tutte le atmosfere racchiuse nel metal più cool, dal metalcore al nu metal, fino all’alternative, con buona padronanza degli strumenti ed un ottimo talento melodico.

Il pagliaccio in copertina ricorda lo Stephen King del capolavoro It o il circo degli orrori della quarta stagione di American Horror Story: Freak Show, un invito ad entrare sotto il tendone dove ad aspettarci ci sono i Craigh, giovane band svizzera, al debutto per la Dark Wings con questo intrigante Of Dreams And Wishes.

Molto attiva sotto il fronte live, dove i ragazzi d’oltralpe si sono fatti le ossa ed affinato la loro tecnica, la band sforna un debutto dall’alto appeal, il loro metal moderno che richiama il più estremo metalcore, è infarcito da una valanga di melodie orecchiabili, facendo del gruppo una band dall’alto potenziale commerciale.
Vedremo, nel frattempo Of Dreams And Wishes esplora un po’ tutte le atmosfere racchiuse nel metal più cool, dal metalcore al new metal, fino all’alternative, con buona padronanza degli strumenti ed un ottimo talento melodico
Se siete amanti di queste sonorità, l’album racchiude molte hits, un concentrato di quello che il genere, ormai inflazionato, a dire il vero, ha saputo donare ai fans di tutto il mondo, suonato con una carica di giovane pazzia che è la maggiore virtù dei nostri.
Ritmiche indiavolate, buone soluzioni chitarristiche ed un cantante a suo agio sia nello scream che troverete su ogni album del genere, sia soprattutto nelle clean vocals, pronto a far innamorare orde di giovani metallare dall’headbanging facile.
Quasi cinquanta minuti di suoni metallici moderni non sono pochi, ma le varie Deathless Wings, The Hearts Drive, Every End e Shattered, ci accompagnano in questo mondo di giocolieri, acrobati e freaks di ogni tipo, per mano al temibile pagliaccio, che poi tanto cattivo non è, anche se a noi fa paura, così come le scariche adrenaliniche di una band che quando ci si mette sa come far male, alternando melodia a ruvide esplosioni core, con buona padronanza della materia.
Perfetta la produzione, cristallina e da album top, un fiocco al regalo preparato dai Craigh per tutti gli amanti dei suoni più cool di questo inizio di millennio.
Se son rose fioriranno, nel frattempo godetevi Of Dreams And Wishes, ed attenti al clown, non si sa mai.

TRACKLIST
1. Origin
2. Deathless Wings
3. Ronny B. Johnson
4. Again and Again
5. The Hearts Drive
6. Hate to Love You
7. Every End
8. The Light Inside
9. Going Commando
10. Unity
11. Destroy to Create
12. Shattered
13. Desire Remains

LINE-UP
Sebastian Möbius – Vocals
Michael Rüegg – Guitars
Cyril Neukomm – Guitars
Thomas Münch – Drums
Daniel Gmür – Bass

CRAIGH – Facebook

Fear Theories – The Predator

The Predator convince, la produzione lascia qualche pecca ma sono dettagli, il classico pelo nell’uovo nel contesto di una valutazione più che positiva

Heavy metal old school, ipervitaminizzato da ritmiche che richiamano il thrash made in Bay Area, questo il sound proposto dai norvegesi Fear Theories, metallo fiero, ruvido e grintoso, una mazzata che varia tra cavalcate veloci e mid tempo epici e dalla forza bruta, insomma, un album dedicato alle sonorità che più ci hanno fatto innamorare, parlando di metal classico.

Nord europeo, ma dalla forte impronta statunitense nel sound, il gruppo di Haugesund, molto giovane, promette davvero bene, The Predator sa come far male, nel suo alternare il metal old school britannico (Judas Priest e Maiden), alle più estreme performance delle realtà thrash d’oltreoceano (Metallica), così da formare un compatto e piacevole esempio di musica pesante, dove le ritmiche inchiodano al muro, i solos non mancano di essere melodici il giusto e la voce, maschia e ruvida si impossessa di tutti i cliché epici che le sonorità usate richiedono.
Il quartetto scandinavo è al debutto sulla lunga distanza, l’ep di tre anni fa (So It Begins) è valso alla band la firma per la Crime Records, label che licenzia questo ottimo lavoro e The Predator conquisterà non pochi cuori metallici in giro per il globo.
My Own Worst Enemy apre le danze, la tensione si fa subito altissima, il quartetto norvegese spinge subito sull’acceleratore, badando al sodo, metal che esplode in tutta la sua nobile fierezza, accompagnato dallo scudiero valoroso che di nome fa thrash metal e nel variegato mondo metallico è il più accreditato compagno d’avventure di sir heavy.
Il gruppo con buon saper fare, alterna brani più diretti, a mid tempo ottantiani di sicura presa: Cancelled, The End Of Time, risuonano di fragore metallico, mentre Andreas Tjøsvoll urla tutta la sua devozione all’immortale e leggendario suono, nato nelle strade grigie di fumo e nebbia del Regno Unito e trasferitosi negli States neanche maggiorenne.
Il riff portante della title track è quanto di più vicino al perfetto esempio di metal old school si possa trovare in giro e trasformandosi in un crescendo esaltante, si avvicina pericolosamente al sound della vergine di ferro, mentre il tono vocale del singer mantiene un mood aggressivo e thrash oriented.
Metal Lives Forever è il classico inno da cantare on stage, per ringraziare gli dei dell’immortalità regalata al nostro genere preferito, mentre i saluti sono lasciati alla song che prende il titolo dal monicker del gruppo, un altro metal anthem, dal tiro micidiale e dalle ottime melodie chitarristiche.
The Predator convince, la produzione lascia qualche pecca ma sono dettagli, il classico pelo nell’uovo nel contesto di una valutazione più che positiva, dategli un ascolto anime metalliche, non ve ne pentirete.

TRACKLIST
01. My Own Worst Enemy
02. Atonement
03. Cancelled
04. Heroes of Today
05. The End of Time
06. The Predator
07. Metal Lives Forever
08. Addicted
09. Fear Theories

LINE-UP
Ole Sønstabø – Lead guitars
Andreas Tjøsvoll – VocaLS, guitars
Brage Nygaard – Drums
Joakim Antonsen – Bass

FEAR THEORIES – Facebook

Fall Has Come – Time To Reborn

Il sound che riempe di melodie rock Time To Reborn è quanto di più american style troverete in giro, specialmente se guardate al sound alternativo

Dovete sapere che il sottoscritto ha un amico ai piedi del Vesuvio che non manca di farlo partecipe delle nuove realtà del panorama rock alternativo nazionale, tutte dall’alta qualità e pronte per il salto verso un mondo dove finalmente la loro musica possa avere i meritati consensi.

Attenzione, non parlo di successo ma di consensi, perché il nostro paese purtroppo è avaro, specialmente quando si parla di rock, della minima attenzione verso band e album come questo notevole Time To Reborn, debutto dei casertani Fall Has Come, appena tornati, in questa prima metà dell’anno da un’esaltante turnè in compagnia dei rockers Hangarvain, freschi di stampa di quel monumento all’hard rock che risulta il loro secondo lavoro Freaks, in territorio spagnolo.
Il trio campano è formato dal bravissimo singer Enrico Bellotta e qui mi fermo un’attimo: il bassista casertano è dotato di una voce dall’appeal stratosferico, la sua performance è quanto di meglio mi sia capitato di sentire nel genere, colma di feeling, radiofonica, e dotata di una personalità che si fatica a trovare anche nelle migliori band statunitensi.
Sì,  perché il sound che riempe di melodie rock Time To Reborn è quanto di più american style troverete in giro, specialmente se guardate al sound alternativo, ed alle riminiscenze del primo decennio del nuovo millennio, quello passato alla storia come alternative rock e post grunge.
Accompagnato dai due chitarristi Raffaele Giacobbone e Enrico Pascarella che compongono la line up dei Fall has Come, il singer con la sua performance regala emozioni a non finire, ciliegina sulla torta di un lavoro intenso e maturo, melodico ma dall’animo rock, alternativo forse, sicuramente conturbante e colmo di hit pregevoli.
Non credo di essere smentito se dichiaro che l’opener Cover The Sun, la semiballad I Will, l’hard rock oriented Burn Up To River, l’intimista Remember, la graffiante Urban Chaos ( con quegli accordi southern ad inizio brano che ci spingono a forza nell’America sudista dei fratellini Hangarvain) e la favolosa title track, sono bombe rock dall’alto tasso esplosivo e, in un mondo migliore, non solo musicalmente, vere mine vaganti di classifiche radiofoniche lasciate a bombardare le orecchie di migliaia di ragazzi sulle spiaggie assolate, dall’Italia alla California.
Qualcuno vi parlerà di gruppi famosi ed ora persi nel dimenticatoio del music biz, per cercare in qualche maniera di spiegarvi di che pasta è fatto questo bellissimo lavoro, io mi astengo da inutili paragoni e vi lascio alle note di Time To Reborn, debutto di questa fenomenale band tutta italiana.
P.S : fate molta attenzione perché Time To Reborn è come una droga, non potrete più farne a meno.

TRACKLIST
1. Cover the Sun
2. I Will
3. Swallow my Tears
4. Hidden Life of Dreams
5. Burn Up to River
6. Forsaken World
7. Remember
8. Start To Be Free
9. Urban Chaos
10. Time To Reborn
11. Wherever (Bonus Track)

LINE-UP
Enrico Bellotta – ocals, bass
Raffaele Giacobbone – guitars
Enrico Pascarella – guitars

FALL HAS COME – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=O8R1FNgr3WY

Pristine – Reboot

Il rock è vivo e vegeto, si rigenera per mezzo dei suoi figli e voi non avete scuse

Non credo che nelle fredde lande scandinave vi siano crocicchi ove si possa vendere l’anima al diavolo, così da suonare la sua musica con magico talento, eppure all’ascolto di questo lavoro, rimane il dubbio che i Pristine qualcuno abbiano incontrato, tra le strade ricoperte di ghiaccio del loro paese, la Norvegia.

Terzo lavoro per il gruppo di Oslo, dopo l’esordio del 2011 Detoxing, ed il seguente No Regret di tre anni fa, mentre la band è pronta per la calata nella nostra penisola in questo periodo, a supporto degli svedesi Blues Pills.
Capitanati dalla notevole singer Heidi Solheim, una via di mezzo tra Patty Smith, PJ Harvey e Bjork, i Pristine fanno il botto, con questo straordinario Reboot, un concentrato di rock blues ad alta gradazione emozionale, colmo di psichedelia e rock’n’roll, uno sguardo attento sul sound americano, un viaggio nei meandri più sanguigni della musica del diavolo.
Reboot è composto da un lotto di brani uno diverso dall’altro, uno più emozionante dell’altro, con il blues che spadroneggia, lasciando però spazio a momenti di psichedelia lisergica in un trionfale tributo agli anni settanta e agli dei dell’hard rock.
Il nostro viaggio tra le fiamme, nella casa di satanasso, inizia con il blues energico dell’opener Derek, i Bad Company sono lì, a farci l’occhiolino, mentre senza voltarci saliamo sul dirigibile zeppeliniano con All My Love.
All I Want Is You è il primo tuffo nella psichedelia, un blues drammatico ricamato da una chitarra pinkfloydiana e da un hammond dai colori porpora, che ritroveremo nel capolavoro The Middlemen, ma prima c’è da muovere le natiche con il rock’n’roll di Bootie Call seguito dal blues messianico della title track.
The Middlemen, il capolavoro di questo album, canzone lisergica ed emozionale, valorizzata da una prova sontuosa della vocalist e dell’axeman Espen Elverum Jakobsen, porta il gruppo norvegese molto vicino all’olimpo dove riseidono i grandi; con l’inno California, la song più moderna e hard rock dell’intero lavoro, il sole brucia l’asfalto e siamo lontani dal freddo norvegese, con la temperatura che sale con il blues tragico (cantato dalla Solheim con un trasporto tale da sconvolgere) di Don’t Save My Soul.
The Lemon Waltz chiude il lavoro, una ballad rock blues che ricorda nei suoi accordi e armonie i Beatles di Sgt.Peppers, chiudendo un cerchio iniziato con i Bad Company, i Led Zeppelin, i Pink Floyd e l’america sudista raccontata dai The Allman Brothers Band e Grand Funk Railroad.
Reboot è un album superbo, un esempio di come nel 2016 si può suonare rock ad altissimi livelli, prendendo ispirazione dalle proprie influenze ma senza risultare patetici come molti dinosauri inchiodati al proprio portafoglio.
Il rock è vivo e vegeto, si rigenera per mezzo dei suoi figli e voi non avete scuse, fatelo vostro.

TRACKLIST
1.DEREK
2.ALL OF MY LOVE
3.ALL I WANT IS YOU
4.BOOTIE CALL
5.REBOOT
6.THE MIDDLEMEN
7.CALIFORNIA
8.LOUIS LANE
9.DON’T SAVE MY SOUL
10.THE LEMON WALTZ

PRISTINE . Facebook

Morgue Supplier – Morgue Supplier

Disturbante ma molto affascinate, Morgue Supplier viaggia una spanna sopra i lavori della maggioranza dei gruppi dediti al genere, perderlo sarebbe un peccato mortale per gli amanti del grindcore e del death metal estremo

Il corridoio di un cimitero abbandonato, le lapidi alle pareti che ricordano i cari defunti, sono per qualcuno solo corpi decomposti, involucri vuoti che un tempo erano solo oggetti da torturare senza pietà.

Lo sporco e l’incuria aleggiano in questo sacrario dimenticato, mentre l’ombra putrida dell’insana bestia assetata di sangue, si aggira tra ratti e vermi, ormai unici abitanti di questo luogo maledetto.
Benvenuti nel mondo dei Morgue Supplier e del loro sound,malato e schizoide, un death metal violentissimo, stravolto da iniezioni di grindcore feroce e senza compromessi che, nella sua assoluta brutalità, si abbellisce di pazzie sonore alla Voivod e rallentamenti doom destabilizzanti.
Il gruppo proviene da Chicago, ha molta esperienza alla spalle ed arriva, tramite la Obscure Musick, a questo malatissimo lavoro, una mazzata psicologicamente instabile di metal estremo, una caduta libera nella violenza primordiale, valorizzata dalle virtù tecniche e dalle ottime idee in fase di stesura dei brani da parte della band, che non dimentica nei suoi testi di denunciare le orribili stragi e le violenze perpetuate dall’uomo sui suoi stessi simili.
Veloce, devastante e a tratti cerebrale, l’album in questione non lascia dubbi sul valore dei tre musicisti coinvolti: le songs coinvolgono l’ascoltatore, travolto dal sound sempre al limite dell’umano delle varie Cultic Rape, Bringer of the End (Executioner) ed End Of Self, lasciando alle insane riminiscenze doom di Rotting In An Alley lo scettro di brano più bello e coinvolgente dell’intero lavoro.
Lavoro disturbante ma molto affascinate, Morgue Supplier viaggia una spanna sopra i lavori della maggioranza dei gruppi dediti al genere, perderlo sarebbe un peccato mortale per gli amanti del grindcore e del death metal estremo.

TRACKLIST
1. Heathen (The Throes of Poison)
2. Cultic Rape
3. Moral Vacuity
4. Bringer of the End (Executioner)
5. Mental Slum
6. End of Self
7. Graveyard Filler
8. Rotting in an Alley
9. Massive Murder
10. Dead Room
11. Equipped to Obliterate
12. Destroying a Human
13. Restraints
14. Broken Gods

LINE-UP
Paul Gillis – Vocals
Eric Bauer – Drums, Guitars
Steve Reichelt – Bass

MORGUE SUPPLIER – Facebook

Wonderworld – II

Un ascolto piacevole che ci prende per mano accompagnandoci in territori cari a Uriah Heep, Led Zeppelin, Deep Purple era Hughes e Coverdale, con una sound grintoso e raffinato, irruente ed estremamente elegante, come ci hanno abituato da tempo tutti il lavori che vedono coinvolto Tiranti.

Secondo lavoro per la band italo/norvegese Wonderworld, che vede il nostro Roberto Tiranti insieme alla coppia di musicisti scandinavi Ken Ingwersen e Tom Fossheim, rispettivamente alla chitarra e alla batteria.

Anche questo secondo lavoro si distingue per un elegante classic rock di scuola settantiana, pennellato di blues e soul, suonato divinamente e dal songwriting sontuoso.
Scritto a quattro mani da Tiranti e Ingwersen, II conferma ancora una volta l’eclettico talento del musicista genovese, instancabile artista e vocalist sopraffino, alle prese con questa raccolta di brani che svaria tra ruvidità ed eleganza, grinta e melodia, vorticosi sali e scendi nel rock e nell’hard & heavy di stampo classico.
Gruppo di tre elementi, quindi pochi fronzoli e sound che va dritto al punto, con un Ingwersen che si dimostra chitarrista fenomenale, raffinato quando i brani lo richiedono, tostissimo quando le atmosfere si irrobustiscono ed il gruppo se ne esce potenti bordate hard rock.
Sempre magistrale il lavoro di Tiranti al microfono e chirurgico il drumming di Fossheim, così che II si rivela un altro bellissimo album caratterizzato da sonorità classiche, magari poco considerate nel superficiale mondo del music biz odierno, ma assolutamente imprescindibili per gli amanti della buona musica.
Le ritmiche raffinate di brani come Elements, It’s Not Over Yet e Echo Of My Thoughts si scontrano con le atmosfere adrenaliniche di Evil In Disguise, Forever Is The Line e della sabbathiana In The End; in mezzo una serie di songs che fanno dell’hard rock raffinato il loro credo, magistralmente interpretate da questo power trio, che non lascia da parte emozionalità e feeling.
Un ascolto piacevole che ci prende per mano accompagnandoci in territori cari a Uriah Heep, Led Zeppelin, Deep Purple era Hughes e Coverdale, con una sound grintoso e raffinato, irruente ed estremamente elegante, come ci hanno abituato da tempo tutti il lavori che vedono coinvolto Tiranti.
Non perdete altro tempo e fate vostro questo bellissimo album, ulteriore dimostrazione dell’immortalità della nostra musica preferita, specialmente se suonata a questi livelli.

TRACKLIST
1. Forever Is A Lie
2. Remember My Words
3. Elements
4. It’s Not Over Yet
5. Echo Of My Thoughts
6. The Evil In Disguise
7. Return To Life
8. Memories
9. In The End
10. Down The Line

LINE-UP
Roberto Tiranti – vocals, bass
Ken Ingwersen- Guitars
Tom Fossheim- Drums

WORDERWORLD – Facebook

Mind Affliction – Into The Void

Il gruppo polacco ci investe con tutta la sua potenza estrema, unita ad un approccio tecnico che si avvicina al brutal, pur rimando confinato nel sound tradizionalmente suonato in quei luoghi.

La Metal Scrap sta facendo davvero un ottimo lavoro: nell’est europeo, oltre alle band più famose, esiste una scena in continuo fermento nell’underground metallico, che abbraccia più di un genere musicale, dal metal classico ai suoni estremi.

La label si sta imponendo come uno dei maggiori punti di riferimento per fans e addetti ai lavori, presentando nel suo catalogo una vasta gamma di gruppi e generi diversi, dalla Polonia fino agli stati dell’ex Unione Sovietica.
E dalle terre polacche arrivano i Mind Affliction, extreme metal band di Cracovia nata nel 2009 e con alle spalle un demo e il full length d’esordio, Pathetic Humanity, datato 2013.
Il gruppo polacco ci investe con tutta la sua potenza estrema, unita ad un approccio tecnico che si avvicina al brutal, pur rimando confinato nel sound tradizionalmente suonato in quei luoghi.
Death metal dai richiami black, un buon cocktail di suoni old school e moderne intuizioni, per un sound che rimane esattamente a metà strada tra i generi descritti, ma che convince, anche per l’attenta predisposizione al songwriting del combo.
Ad un primo ascolto, la lezione dei maestri Behemoth è il primo elemento che salta alle orecchie, specialmente quando il growl lascia spazio ad uno scream di stampo black metal, ma ad un ascolto più attento si intuisce che nel sound dei Mind Affliction c’è molto di più.
I tre musicisti non risparmiano le loro qualità tecniche, mettendole in campo e facendo sì che le songs siano valorizzate da brutali scariche di death metal tecnico, senza perdere la bussola e tenendo tra le briglie la forma canzone.
Brani mediamente lunghi, tra cui spiccano le devastanti Enjoy The Violence, Sundraft e Abandoned, blast beat, velocità e potenza che si trasformano in bordate di atmosferico doom metal che segue le orme degli storici Asphyx, mentre le cavalcate estreme di oscuro black/death abbondano come da tradizione nella scena estrema dei paesi dell’est.
Dariusz Zabrzeсski ( Voce e chitarra), Krzysztof Chomicki (voce e basso) e Dawid Adamus alle pelli, ci consegnano un ottimo lavoro, tra l’altro prodotto con tutti i crismi per sfondare i timpani agli amanti di queste sonorità, sta a voi andare oltre i soliti nomi e cercare ottime alternative come i Mind Affliction.

TRACKLIST
1. Lucid Void
2. Enjoy the Violence
3. Sundraft
4. Chaos Readings
5. Madness Utopia
6. Abandoned
7. Armin’s Hunger

LINE-UP
Dawid Adamus – Drums
Kamil Poręba – Guitars
Krzysztof Chomicki – Vocals (scream), Bass
D. – Vocals, Guitars

MIND AFFLICTION – Facebook

А.П. – Быть выше

Confermando l’attitudine senza compromessi della band, l’album esplode in una tempesta di suoni velocissimi ed arrembanti

Peccato non avere più informazioni su questo trio russo, perché il loro full length è un devastante e quanto mai aggressivo album di thrash metal, violentato da un’attitudine hardcore sopra le righe.

Il gruppo è al secondo lavoro, che segue di due anni il debutto del 2013, le songs sono state scritte nell’arco di tre anni (dal 2012 al 2015) per una durata che supera di poco i venti minuti, ma la carica violenta ed il songwriting ispirato ne fanno un piccolo gioiello di genere.
Tutto scritto in lingua madre, a confermare l’attitudine senza compromessi della band, l’album esplode in una tempesta di suoni velocissimi ed arrembanti; i musicisti del gruppo possiedono tecnica da vendere e i brani risultano uno più bello e massacrante dell’altro.
Gli А.П. sono formati da Eugene (chitarra e voce), Yura (basso e voce) e Diman (batteria), il loro sound svaria tra l’hardcore e il punk, con ottime intuizioni thrash metal, così che Быть выше, può tranquillamente sollazzare tanto gli amanti dell’hardcore/punk, quanto i metallari dai gusti estremi.
La voce travalica i generi, passando da uno scream cavernoso, al classico tono hardcore, la chitarra incendiano lo spartito con ritmiche fulminanti e la sezione ritmica è un mostro di velocità e precisione.
Spirito underground ed antisociale, il gruppo tramite il fondatore Eugene va avanti dal 2004, anche se è dal 2011 che la line up odierna gira a far danni per i locali della terra madre: А.П. è un combo che non lascia trasparire nessun compromesso ed è dotato di enorme talento, per i fans del genere un ascolto consigliato.

TRACKLIST
01. Быть выше
02. После нас
03. Выйди из игры
04. Враги солнца
05. Не откладывай на завтра
06. Стадо
07. Грёзы о будущем лучшего мира
08. Взрослеть – это больно
09. Быть овцой – тоже выбор
10. Постапокалипсис

LINE-UP
Eugene – guitar/vocals
Yura – bass/vocals
Diman – drums

А.П. – Facebook

Gabriels – Fist Of The Seven Stars, Act 1 Fist Of Steel

Opera che rasenta il capolavoro, il secondo album di Gabriels è l’ennesima conferma del talento in possesso, non solo del musicista siciliano, ma di molti protagonisti della scena underground metallica del nostro paese

La label genovese Diamonds Prod., dopo aver licenziato il bellissimo album del progetto Odyssea di Pier Gonella e Roberto Tiranti, pesca un altro gioiello metallico, il secondo lavoro solista del musicista e compositore siciliano Gabriels, che torna sul mercato tra anni dopo il notevole Prophecy, un concept ispirato ai fatti dell’undici settembre 2001.

Gabriels si contorna, come nel primo album, di un manipolo agguerrito di talenti della scena metallica nazionale e non solo, portando in musica le gesta dei protagonisti del manga e anime Hokuto No Ken di cui il musicista è cultore.
Fist Of Steel è il primo capitolo di una trilogia intitolata Fist Of The Seven Stars, dunque un concept oltremodo ambizioso e, almeno in questa prima parte, il risultato è quantomai eccellente.
I musicisti che hanno aiutato Gabriels in questa avventura sono tanti, chi come membro fisso della line up, chi come special guest, contribuendo a rendere l’album un manifesto sontuoso di musica fieramente metallica, melodica e orchestrale.
Da Wild Steel, Marius Danielsen, Dario Grillo, Dave Dell’Orto e Ida Elena splendidi interpreti al microfono, all’apporto strumentale dei vari Glauber Oliveira (Dark Avengers), Stefano Calvagno (Metatrone), Francesco Ivan Sante’ Dall’O tra gli altri alla sei corde, Andrea “Tower” Torricini dei Vision Divine al basso e chitarra, tanto per citare alcuni dei musicisti impegnati, rendono quest’opera un’escalation di emozioni, capitanati ovviamente dai tasti d’avorio di Gabriels, alle prese con hammond, synth e pianoforte accompagnandoci nel mondo eroico della leggenda di Hokuto No Ken, famosissima in tutto il mondo.
Il sound si discosta leggermente dal mood del primo lavoro, che a più riprese ricordava l’hard rock orchestrale dei danesi Royal Hunt: Fist Of Steel risulta più power oriented, specialmente nella prima parte con la title track e She’s Mine che fanno decollare l’album fino ad elevate vette qualitative con la melodica Seven Stars e la power A New Beginning, song che avvicina il sound ai primi lavori dei tedeschi Edguy.
Il cuore dell’album è lasciato a tre brani superbi per intensità e prestazioni vocali: Break Me, My Advance e To Love, Ever Invain, mentre Black Gate ci riporta su ritmiche power metal.
Revenge Invain e Decide Your Destiny chiudono questo primo capitolo al meglio, con un’apoteosi di suoni orchestrali, nobile metallo sinfonico, cori epici ed emozioni che crescono a dismisura, mentre le note che le dita di Gabriels fanno scaturire dalle tastiere, formano arcobaleni di scale melodiche sopraffine.
Opera che rasenta il capolavoro, la prima parte di quello che diventerà un lavoro monumentale è l’ennesima conferma del talento in possesso, non solo del musicista siciliano, ma di molti protagonisti della scena underground metallica del nostro paese; è davvero l’ora di tagliare il cordone ombelicale che vi lega ai sempre più imbolsiti dinosauri di ere passate tuffandovi nella musica del nuovo millennio che, con rispetto, guarda al passato ma vive nel presente ed è pronta per un roseo futuro: scegliere questo lavoro per farlo sarebbe il migliore inizio.

TRACKLIST
1) Fist of Steel
2) She’s mine
3) Mistake
4) Seven Stars
5) A new beginning
6) Break me
7) My Advance
8) To love, ever invain
9) Sacrifice
10) Black Gate
11) Revenge invain
12) Decide your destiny

LINE-UP
Gabriels: All the Keyboards, Piano, Synth, Hammond and background vocals
Wild Steel : Vocals
Dario Grillo : Vocals
Marius Danielsen: Vocals
Ida Elena : Vocals
Dave Dell’Orto : Vocals
Iliour Griften : Background Vocals
Glauber Oliveira : Guitars
Stefano Calvagno : Guitars
Giovanni Tommasucci : Guitars
Francesco Ivan Sante’Dall’O : Guitars
Angelo Mazzeo : Guitars
Tommy Vitaly : Guitars
Dino Fiorenza : Bass
Christian Cosentino : Bass
Simone Alberti : Drums

Guests:
Andrea “Tower” Torricini : Bass and Guitars
Davide Perruzza : Guitars

GABRIELS – Facebook

Mourning Soul – Ego Death – Ritual

Il sound dei Mourning Soul, nonostante provenga dalla calda Trinacria, è gelido quanto quello dei Behemoth o dei “confratelli” scadinavi, ma racchiude in sé una drammaticità di fondo tutta mediterranea, un’inquietudine che si esplicita tramite passaggi acustici, voci recitate, sampler, che di volta in volta vengono investiti da una colata lavica di note possenti.

Dopo una decina d’anni di attività, i siciliani Mourning Soul giungono al full length d’esordio sotto l’egida della Dolorem Records.

La prima cosa che emerge fin dall’ascolto delle prime note dell’album è che, sicuramente, tutto il tempo che il trio di Enna si è preso prima di arrivare questo appuntamento è stato ben speso: il black death che viene riversato in questo lavoro è, infatti, di un livello tecnico e compositivo inattaccabile, esaltato poi dalla scelta di affidare il lavoro di registrazione a Magnus Andersson (già all’opera sugli ultimi album di Marduk e Ragnarok, tra gli altri) presso gli Endarker Studio in quel di Norrköping.
Furia controllata, rallentamenti, inserti acustici, un growl di matrice tipicamente death, sono gli elementi che, perfettamente coesi, rendono l’album un prodotto di respiro internazionale, meritevole quindi di uscire dai nostri angusti confini “metallici”.
Il sound dei Mourning Soul, nonostante provenga dalla calda Trinacria, è gelido quanto quello dei Behemoth o dei “confratelli” scadinavi, ma racchiude in sé una drammaticità di fondo tutta mediterranea, un’inquietudine che si esplicita tramite passaggi acustici, voci recitate, sampler, che di volta in volta vengono investiti da una colata lavica di note possenti.
Ego Death – Ritual non mostra cedimenti, quindi, piuttosto che di punti deboli, bisogna necessariamente parlare di picchi compositivi, rinvenibili per esempio in una traccia formidabile come Weltschmerz, con la quale si viene sballottati tra il black più oscuro ed atmosferico, il depressive ed il doom, o nella conclusiva e drammatica The Judgement Of Gehenna, che si chiude rievocando momenti del massacro di Jonestown (o almeno è quanto mi pare di cogliere, in assenza di note più esplicite in tal senso).
Un sentimento fortemente antireligioso è, del resto, ciò che gronda in maniera copiosa da queste note, ma ciò non avviene mai in maniera becera bensì in una forma matura, compiuta e convincente; in sintesi, Ego Death – Ritual è uno dei migliori esempi di black/death metal sfornati in questo primo scorcio di 2016 (con buone chance di restare tale anche a fine anno), per cui chi ama il genere ha il dovere di farlo proprio.

Tracklist:
1. Salvation (To The Temple Of Knowledge)
2. Resurrection Through The Serpent’s Light
3. The Cold Embrace Calls Me
4. Weltschmerz (The Heavyness Of Sin)
5. Chamber Of Bones
6. Bleeding By Thorns
7. Moribunds
8. Ultima Solitudo
9. The Judgement Of Gehenna

Line-up:
Sacrifice – Vocals, Bass, Synths
Decrepit – Guitar, Synths
Nocturnal Fog – Drums, Synths

MOURNING SOUL – Facebook

Hollow Illusion – Hollow Illusion

Hollow Illusion è un album adatto a qualsiasi palato abituato a nutrirsi dei suoni classici hard’n’heavy

Il lavoro omonimo del duo formato da Magnus Mikkelsen Hoel e Ove Mikkelsen Hoel, chiamati Hollow Illusion, conferma il talento per i suoni classici dei musicisti nati tra i fiordi e le immense pianure innevate, mostrando diverse influenze ed atmosfere, che pescano tanto dall’heavy metal quanto dall’hard rock, alternando sfumature old school e più moderni salti nel groove rock.

L’album, oltretutto, ha potuto fregiarsi di varie collaborazioni importanti in fase di registrazione, prodotto da Trond Hotler (Wig Wam e Jorn), per il mix la band è volata negli States ed ha lasciato il materiale nelle sapienti mani di Roy Z (Judas Priest, Halford, Bruce Dickinson), mentre Andy Horn ha curato il master in Germania.
Hollow Illusion è un ottimo tuffo nelle sonorità classiche, tra le varie songs si avvicendano influenze e stili diversi: si passa quindi dall’hard rock dei Thin Lizzy all’heavy metal old school, da melodie care ai rockers conterranei del duo come i TNT al groove ruvido che guarda alle sonorità statunitensi (come Zakk Wilde insegna).
Voce maschia, melodica e sanguigna, ottimi solos ed un buon songwriting fanno di Hollow Illusion un buon biglietto da visita per il duo norvegese, che quando picchia sa far male con God Of Rock e Lights Go Down, apertura tutta grinta dell’album.
Belli i chorus, che imperversano su un po tutti i brani, dalla solida Now Or Never, alla ballatona Mountain On Solid Gorund, mentre Rain si aggiudica la palma di migliore composizione pregna di hard rock solare e refrain da urlo.
Hollow Illusion è un album adatto a qualsiasi palato abituato a nutrirsi dei suoni classici hard & heavy, non manca la grinta ma neppure la melodia, quindi cari rockers, ascoltatelo ed innamoratevene.

TRACKLIST
1.Mercury Rising
2.God Of Rock
3.Lights Go Down
4.I Don’t Care
5.Now Or Never
6.Mountain On Solid Ground
7.Can’t Stand Still
8.Rain
9.Fighter
10.Voodoo Medicine Man
11.Come Back

LINE-UP
Magnus Mikkelsen Hoel – Vocals
Ove Mikkelsen Hoel – Bass

HOLLOW ILLUSION – Facebook

Distant Past – Rise of the Fallen

Prodotto benino, Rise Of The Fallen va valutato per quello che è, un buon album di metal classico in cui i musicisti immettono varie sfumature, rendendo l’ascolto impegnativo ma soddisfacente.

La Pure Steel, label tedesca dedita ai suoni metal classici e hard rock, è un vulcano musicale attivo che erutta album su album, molti che richiamano il metal tradizionale, mantenendo una qualità medio alta e questo non può che far piacere ai tanti amanti del genere.

I gruppi sono davvero tanti, pescati in ogni parte del mondo, dalla terra natia, agli stati vicini come l’Italia, l’Austria e la Svizzera, senza dimenticare la musica aldilà dell’oceano e l’U.S metal.
I Distant Past sono svizzeri, tra le loro fila non manca un musicista nostrano (il bassista Adriano Troiano, ex Emerald) e suonano heavy metal classico, ispirato ai suoni ottantiani, ma reso elegante da divagazioni prog ed aggressivo da accenni di ruvido thrash metal.
Fondati in quel di Berna nel 2002 arrivano con Rise of the Fallen al quinto album sulla lunga distanza, dal debutto del 2003 Science Reality, passando per Extraordinairy Indication of Unnatural Perception e Alpha Draconis, rispettivamente usciti nel 2005 e nel 2010, fino al precedente Utopian Void, licenziato due anni fa.
Tanta melodia, aggressività ragionata, accelerazioni e grande tecnica al servizio di sfumature progressive, sono le qualità maggiori del sound dei Distant Past che, se strizza l’occhiolino ai gruppi ottantiani, non manca certo in personalità.
Un album che, nel suo insieme, risulta un ottimo lavoro, colmo di quelle peculiarità che fanno grande la nostra musica preferita, anche se forse mancano uno o due brani trainanti, i classici singoli (tanto per intenderci).
E infatti Rise Of The fallen si avvicina ad un’opera progressiva, concettualmente parlando: le songs si assaporano dopo qualche ascolto, così da entrare appieno nel sound maturo ed elegante che il gruppo confeziona, senza perdere un’oncia in quanto a durezza metallica.
Sunto del lavoro è la bellissima Road To Golgotha, heavy metal progressivo, drammatico ed oscuro, con un inizio classico, acellerazione devastante in thrash style e armonie acustiche sul finale, cinque minuti in cui viene riassunto il credo musicale dei Distant Past.
Prodotto benino, Rise Of The Fallen va valutato per quello che è, un buon album di metal classico in cui i musicisti, senza perdere la bussola, immettono varie atmosfere e sfumature, rendendo l’ascolto impegnativo ma soddisfacente, almeno per chi continua ad amare i suoni tradizionali.

TRACKLIST
1. Masters of Duality
2. Die as One
3. End of the World
4. Ark of the Saviour
5. Scriptural Truth
6. Redemption
7. The Road to Golgotha
8. Heroes Die
9. The Ascension
10. By the Light of the Morning Star

LINE-UP
Jvo Julmy – vocals
Christof Schafer – guitars
Al Spicher – drums
Alain Curty – guitars
Adriano Troiano – bass

special guests:
Thomas Winkler – vocals
David Luterbacher – solo guitars
Geri Baeriswyl – drums

DISTANT PAST – Facebook

D.A.M – Premonitions

Continua senza freni il percorso musicale di Guilherme De Alvarenga e i suoi D.A.M, dopo i fasti seguiti all’uscita di due ottime opere come l’ep Phantasmagoria ed il full length The Awakening.

Continua senza freni il percorso musicale di Guilherme De Alvarenga e i suoi D.A.M, dopo i fasti seguiti all’uscita di due ottime opere come l’ep Phantasmagoria ed il full length The Awakening.

La band brasiliana ha vissuto un crescendo qualitativo entusiasmante, iniziato nel 2013 con l’ep Possessed ed il primo full lenght Tales Of The Mad King, ed in poco tempo è arrivata ad uno status molto alto per un gruppo underground, confermandosi a suon di esplosivo power/melodic death metal come una delle realtà più interessanti del genere.
Rigorosamente autoprodotto, anche questo nuovo ep conferma il talento del gruppo verde oro e del suo leader, aiutato come sempre dal buon Edu Megale, alla sei corde e dal bassista Caio campos, più un paio di graditi ospiti come Jéssica Delazare, singer sulla bellissima Untouchable, così come Marina Guimarães alle prese con i cori.
Premonitions, prodotto dallo stesso De Alvarenga con l’aiuto di David Fau, potrebbe tranquillamente essere considerato un full length, visto la durata che sfiora i quaranta minuti e la qualità delle songs di cui è composto.
Ancora una volta il gruppo ci delizia con una scarica di death metal melodico, dove il synth di De Alvarenga fa il bello ed il cattivo tempo, le ritmiche veloci, le atmosfere oscure, il growl straripante e quelle cavalcate dal sapore neoclassico, tanto care alla band, ci trasportano nel mondo fatato, ma pericolosissimo dei D.A.M.
Grande partenza con la titletrack, dieci minuti di scale vorticose alla velocità della luce, dove il gruppo si ripresenta all’ascoltatore mettendo sul piatto tutto il suo credo musicale, composto da metal classico ed estremo, perfettamente bilanciati e uniti insieme da melodie dall’appeal straordinario.
L’alternanza tra furia death, potenza power, ed atmosfere mistiche ed oscure, danno modo di entrare in un altro mondo, come un’Alice nel paese delle meraviglie in versione horror.
Si passeggia in questo mondo parallelo, guardandoci intorno, mentre prima The Cage e poi la stupenda Untouchable ci travolgono con una tempesta di suoni metallici, mentre una musa ci avverte dei pericoli che incontreremo nel proseguimento del nostro peregrinare.
De Alavarenga da letteralmente spettacolo, le sue dita scivolano tra i tasti d’avorio a velocità proibitive, la tensione rimane altissima, i vari passaggi sono curatissimi e i cori in cleans donano quel gustoso tocco power, al quale la band non rinuncia neanche in queste nuove songs.
Chi segue iyezine, dovrebbe ormai conoscere i D.A.M, visto che li si segue dall’esordio, ma per chi non ha ancora avuto la fortuna di ascoltare la musica di Guilherme de Alvarenga ricordo che nel loro sound confluiscono i migliori, Children Of Bodom, Stratovarius e primi In Flames, il tutto elevato alla massima potenza melodica.
Changing the Directions e Frustration, chiudono alla grande questa ennesima prova di forza da parte di una band unica, una delle migliori nel genere, regalando nella song che chiude il lavoro atmosfere che ci portano al periodo settantiano, tra prog e accenni blues, il tutto in un contesto metallico che rimane aggressivo ed oscuro, un capolavoro.
Inutile dire che Premonitions è un album bellissimo che non può mancare tra gli ascolti dei fan del genere, un grande ritorno dopo il clamoroso full lenght di due anni fa.

TRACKLIST
1. Premonitions… (Under the Tree of Regrets)
2. The Cage (Breaking the Paradigms)
3. Untouchable (My Past Mistakes…)
4. Anorexic Dysphoria (AElegy for the Brainless)
5. Changing the Directions (Unresolved)
6. Frustration (Imprisoned Dreams)

LINE-UP
Edu Megale – Guitars
Guilherme de Alvarenga – Vocals, Keyboards
Caio Campos – Bass

D.A.M – Facebook

Redwest – Crimson Renegade

Tirate fuori dall’armadio i vostri vecchi pantaloni di pelle, fornitevi di cinturone e cappello e partite all’avventura nel far west con i nostrani Redwest ed il loro primo lavoro, Crimson Renegade.

Tirate fuori dall’armadio i vostri vecchi pantaloni di pelle, fornitevi di cinturone e cappello e partite all’avventura nel far west con i nostrani Redwest ed il loro primo lavoro, Crimson Renegade.

Nato intorno all’area milanese nel 2009, il quartetto di cow boy dal grilletto facile, propone un interessante hard rock dalle atmosfere western, una commistione di metal, southern e suoni che si rifanno alle colonne sonore del maestro Morricone, molto affascinante e ben fatto.
Arrivano a questo debutto dopo due mini cd, Spaghetti Western Metal del 2009, seguito da Play Your Hand del 2012, ed ora Il Lurido, La Straniera, Il Randagio, ed Il Losco sono pronti per investirci con il loro sound proveniente dalla frontiera, dove la vita non vale un dollaro bucato e non vengono risparmiati né buoni, né brutti, né cattivi, mentre Ringo è sempre in cerca della sua vendetta.
Riuscito ed originale, il sound prodotto rivela un buon talento per le atmosfere da cinema di genere, quel spaghetti western tutto italiano, che tante soddisfazioni ha dato, non solo nel mondo del cinema, ma con le colonne sonore del grande Morricone anche nella musica.
Sembra davvero di camminare lungo la via di un paese sperduto nella frontiera americana, dove entrare in un saloon per bere un goccio può rivelarsi una pessima idea e incocciare lo sguardo sbagliato, si può solo risolvere con un duello allo scoccare del mezzogiorno, mentre il caldo ed il sudore fanno scivolare le mani sulla colt, unica compagna fidata di una vita appesa al filo delle pallottole.
Crimson Renegade scorre che è un piacere, le ritmiche metal rock, ben si amalgamano alle atmosfere western create dal gruppo e le songs risultano varie e dal buon appeal.
Si passa infatti da brani più ruvidi, a altri dove ci si addentra nelle armonie acustiche molto southern, che i Redwest sono maestri nel arricchire di gradevoli trame folk e cinematografiche, con citazioni eccellenti (A Fistful Of Dollars, al maestro Morricone), riusciti duetti vocali tra Il Lurido e La Straniera (la titletrack), riffoni metallici dal buon impatto (C.H.F.), ed allegre ballate solari come la conclusiva Poker, song da serate festaiole nei saloon, dove birra e whiskey scorrono a fiumi ed i pistoleri si possono sollazzare sotto le gonne di prorompenti signorine strette nei corpetti che fanno esplodere i seni prosperosi.
Appunto Poker chiude questo ottimo lavoro, molto originale (non sono molte le band che uniscono metal/rock a suoni western, mi vengono in mente i soli power metallers Spellblast, ed i rockers tedeschi Skip Rock) e davvero ben eseguito, lanciando il gruppo milanese come convincenti portabandiera del western metal.
Ed ora, dopo l’ennesimo duello si sale in sella al vecchio ronzino, l’appuntamento è qualche miglio più in la, un altro paese, con nuove avventure ed altre bottiglie di whiskey da svuotare.

TRACKLIST
1. Crimson Renegade
2. C.F.H.
3. The Ballad Of Eddie W
4. Morning Ghost
5. Fire
6. Bullet Rain
7. Eternity
8. The Dreamcatcher
9. A Fistful Of Dollars
10.Golden Sands
11.Poker (bonus track)

LINE-UP
Il Lurido – Vocals & Harmonica
La Straniera – Backing Vocals
Il Randagio – Guitars
Il Losco – Bass

REDWEST – Facxebook

Corners of Sanctuary – Metal Machine

Metal Machine potrebbe trovare qualche estimatore solo nei fans più accaniti dei suoni old school provenienti dal nuovo continente

I Corners Of Sanctuary ci invitano all’ascolto di un lavoro impregnato sul sound storico della scena metallica statunitense, genere che ha regalato molte soddisfazioni ai true metallers, specialmente negli anni a cavallo tra il decennio ottantiano e quello successivo.

Metal Machine non si discosta di una virgola dalle opere passate (Breakout nel 2012, Harlequin del 2013 ed Axe to Grind uscito tre anni fa), il loro metal che richiama i Metal Church tira dritto per la sua strada, non concedendo nulla sul piano del songwriting, che risulta una buona proposta di genere senza grossi picchi a livello di qualità.
Il quartetto si dichiara una New Wave of Traditional American Heavy Metal band, ed in effetti non si può dargli torto, Metal Machine è una onesta rivisitazione del sound americano, improntato su chitarre incendiarie, ritmiche col pilota automatico ed un cantante sufficientemente capace, ma al quale la produzione molto old school non rende giustizia, lasciando la voce lontana dagli strumenti.
La virtù principale dell’U.S. metal sono le atmosfere oscure delle quale per primi i Metal Church furono maestri, insieme ai Savatage dei primi album e che su Metal Machine vengono a mancare, favorendo un approccio più ruvido ed in your face.
Peccato, perché così le songs tendono ad assomigliarsi un po troppo, mantenendo la stessa linea per tutta la durata del disco, che fa fatica a decollare proprio per la mancanza di un briciolo di varietà ed idee in più.
L’album comunque si accaparra una larga sufficienza per l’attitudine senza compromessi e la grinta che non viene mai a mancare, grazie anche ad una manciata di brani oltremodo onesti e fieramente metallici come la title track, Left Scarred, Tomorrow Never Comes e Wrecking Ball.
Metal Machine potrebbe trovare qualche estimatore nei fans più accaniti dei suoni old school provenienti dal nuovo continente.

TRACKLIST
1. Turn It On
2. Metal Machine
3. Like It Matters
4. Left Scarred
5. In Blood We Shall Fight
6. The Return
7. Souls Without Shout
8. Monster
9. Tomorrow Never Comes
10. Wrecking Ball
11. Killswitch

LINE-UP
Frankie Cross – vocals
Sean Nelligan – drums
James Pera – bass
Mick Michaels – guitars

CORNERS OF SANCTUARY – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=HwEJlMCSUiU

Paragon – Hell Beyond Hell

Album che nulla toglie e nulla aggiunge alla scena metal, ma che non può mancare sullo scaffale di ogni defender, proprio per la sua intoccabile purezza e coerenza.

Con i Paragon si torna a parlare di true power metal made in Germany, infatti la band di Amburgo oltre ad essere considerata ormai un gruppo storico del genere, è una di quelle che più ha mantenuto fede alla tradizione metallica del suo paese d’origine, dove la scena metal classica è diventata nel corso degli anni un punto di riferimento influenzando non poco le nuove generazioni di gruppi alle prese con i suoni heavy.

Nati nel 1990, i Paragon non hanno mai raggiunto il successo dei gruppi considerati i padri del genere, come Accept ed Helloween negli anni ottanta e poi i vari Gamma Ray, Grave Digger e Rage, nel decennio successivo, ma la loro discografia si è comunque sempre mantenuta su una buona qualità, tanto da non passare inosservati ai fans dei suoni heavy/power, anche grazie ad album di assoluto valore come la triade Steelbound , Law Of The Blade e The Dark Legacy, usciti tra il 2001 ed il 2003, anni ancora grassi per il genere, almeno in Europa.
Il tempo scorre inesorabile anche per il gruppo del chitarrista Martin Christian, siamo giunti al traguardo dell’undicesimo album, non male per una band che ha continuato per tutti questi anni a portare avanti la sua missione: suonare power/speed/heavy metal, veloce, devastante, epico e senza compromessi.
Prodotto da un monumento del power europeo come Piet Sielck , mastermind degli Iron Savior, il nuovo lavoro non deluderà i defender rimasti fedeli alle linee classiche del metal: Hell Beyond Hell è pregno di quel sound a metà strada tra l’heavy forgiato nell’acciaio dei Primal Fear ed il power ruvido e senza compromessi dei Grave Digger.
Senza riempitivi, l’album scorre nei cliché del genere, ma una produzione cristallina, energia a volontà e un lotto di buoni brani splendidamente metallici, non tradiscono le aspettative, confermando i Paragon come ottimi rappresentati dell’heavy metal di matrice teutonica.
Si passa da brani dall’andatura sostenuta ad altri dove le ritmiche rallentano e le atmosfere si colmano di epicità metallica, le asce tagliano l’aria con solos dirompenti e i chorus sono potenti inni al dio metallico: una tempesta di suoni, valorizzata dalla prova tutta grinta di Andreas Babuschkin al microfono e dai solos taglienti della coppia Christian/Bertram, mentre Jan Bünning al basso e Sören Teckenburg alle pelli, formano un muro di cemento armato metallico invalicabile.
Tanta epicità ed uno straordinario lavoro di Sielck alla consolle, che valorizza potenza e melodia, specie in brani come Rising Forces, Heart Of The Black, Stand Your Ground e Buried In Blood, mantengono Hell Beyond Hell su un’ottima qualità generale, consentendo ai Paragon di uscire vincitori anche dall’undicesima fatica.
Album che nulla toglie e nulla aggiunge alla scena metal, ma che non può mancare sullo scaffale di ogni defender, proprio per la sua intoccabile purezza e coerenza.

TRACKLIST
1. Rising Forces
2. Hypnotized
3. Hell Beyond Hell
4. Heart Of The Black
5. Stand Your Ground
6. Meat Train
7. Buried In Blood
8. Devil’s Waitingroom
9. Thunder In The Dark (Bonustrack)
10. Heart Of The Black (Edit Version / Bonustrack)

LINE-UP
Andreas Babuschkin – Lead Vocals
Martin Christian – Guitars, Backing Vocals
Jan Bertram – Guitars, Backing Vocals
Jan Bünning – Bass, Backing Vocals
Sören Teckenburg – Drums

PARAGON – Facebook

Megascavenger – As Dystopia Beckons

Il death metal dei nostri soldati estremi risulta più americano che scandinavo, in realtà, oscuro e devastante e violentato da suoni sintetici di matrice industriale che sottolineano ancora di più il contenuto lirico dei brani.

Eccoci qua, ancora una volta a parlare di Rogga Johansson, polistrumentista e compositore svedese che non ne vuol sapere di prendersi una pausa e continua ad invadere il mercato dell’ underground estremo con le sue proposte, sempre di ottima qualità e che hanno nel loro DNA il death metal old school.

Meno male aggiungerei, visto che anche questo progetto chiamato Megascavenger, porta con sé musica di alto livello.
Fondati da Rogga intorno al 2012, anno in cui usciva il primo ep, i Megascavenger arrivano quest’anno al terzo full length, dopo Descent of Yuggoth del 2012 ed il precedente At the Plateaus of Leng, uscito un paio di anni fa.
A far coppia con prezzemolino Johansson troviamo alla batteria Brynjar Helgetun, anche lui alle prese con svariati progetti come Axeslasher, Crypticus, Johansson & Speckmann, Just Before Dawn, Liklukt e The Grotesquery, insomma un altro instancabile protagonista dell’underground estremo proprio come il buon Rogga.
Il concept che gira intorno ai brani dell’album parla di tematiche fantascientifiche ed horror, ben evidenziate nella copertina raffigurante un Terminator stile Schwarzenegger ormai distrutto da una terribile guerra futurista.
Il death metal dei nostri soldati estremi risulta più americano che scandinavo, in realtà, oscuro e devastante e violentato da suoni sintetici di matrice industriale che sottolineano ancora di più il contenuto lirico dei brani.
Rogga questa volta non molla neppure il microfono, il suo growl è di quelli cavernosi ed animaleschi, chitarra e basso suonano oscuri, le linee industriali sono soffocanti, mentre il lavoro alle pelli è altamente distruttivo.
I soldati in lega d’acciaio, con gli occhi infuocati di un rosso freddo come l’espressione di una macchina per uccidere, si aggirano in paesaggi di distruzione, i martellanti e marziali rintocchi industriali creano un’atmosfera di terra disumanizzata, mentre i nostri confezionano una colonna sonora davvero efficace.
Mezz’ora, non di più, e As Dystopia Beckons crea un’aura terrificante che non abbandona l’ascoltatore neanche dopo la fine dell’album, straziato da ottime songs di death old school amalgamato all’industrial.
Non manca la ciliegina sulla fantascientifica torta: The Harrowing of Hell è una dark song che vede come ospite Kam Lee, vocalist con Johansson nei magnifici The Grotesquery, nonchè ex di una band storica come i Massacre.
Un altro ottimo lavoro firmato dal musicista svedese, sempre alle prese con il suo amato death metal, ma con proposte che variano sia per il concept che nel sound, a dimostrazione del suo inossidabile talento.

TRACKLIST
1. Rotting Domain
2. The Machine That Turns Humans into Slop
3. Dead City
4. As the Last Day Has Passed
5. The Hell That Is in This World
6. Dead Rotting and Exposed
7. Steel Through Flesh Extravaganza
8. The Harrowing of Hell
9. As Dystopia Beckons

LINE-UP
Rogga Johansson – Guitars, Bass, Vocals
Brynjar Helgetun – Drums

MEGASCAVENGER – Facebook

Veuve – Yard

Album che cresce con gli ascolti, Yard è un nuovo ed ottimo gioiellino di genere, che va ad affiancare le uscite sopra la media di questa prima parte del 2016

L’invasione di gruppi dediti ai suoni stonati nel nostro paese non conosce ostacoli, ormai da nord a sud, isole comprese, le danze sabbatiche si sprecano e con queste anche le ottime band intente a proporre, ciascuna a modo loro, sound monolitici e magmatici.

Elevators To The Grateful Sky, Desert Hype, Mutonia, sono solo alcuni dei gruppi che, negli ultimi tempi, hanno realizzato ottimi lavori, chi amalgamando il genere con suoni psichedelici, chi con l’alternative e chi, come i Veuve, con il sound settantiano di sabbatiana memoria.
Yard è il primo lavoro sulla lunga distanza per il trio di Spilimbergo, che arriva pesante come un meteorite in caduta libera sulla Terra, dopo un ep e la firma con The Smoking Goat Records.
Lunghe litanie in cui armonie acustiche lasciano spazio a violente e potenti esplosioni di lento incedere doom metal, una voce delicata che, come l’immagine angelica risvegliata da un fantastico e celestiale trip, ci accompagna tra i deserti bruciati dal sole, dove i miraggi ed i flash visivi sono gli unici compagni del nostro girovagare per ritrovare la strada perduta: questo è ciò che evoca il sound dei Veuve, caratterizzato da un basso che, come il battito di un cuore allo stremo, si accoppia con il drumming, un tappeto di ritmiche dal lento incedere, che a tratti varia di poco la velocità per accompagnare la sei corde, ora urlante riff stonati, ora più noise oriented, ma soprattutto protagonista di bellissime armonie acustiche.
L’album si sviluppa come una danza sabbatica, interrotta da tempeste e sfuriate di metallo stonato, il gruppo compatto ci invita alla sua jam lunga più di una quarantina di minuti dove i brani si susseguono, prima lungo un sentiero tranquillo, mentre susseguentemente, col passare dei minuti l’aggressività si fa arrembante, il dolce trip si trasforma in un incubo in cui fantasmi settantiani trasformano le dolci armonie vocali in grida di disperata ricerca di quella pace ora lontana; la sensazione di drammaticità diventa soffocante nelle ottime trame delle varie, Yeti, Witchburner e Pryp’jat’, un’escalation di heavy, doom, stoner emozionante che ha preso il posto dell’aura sognante dell’opener We Are Nowhere, ormai lontana anni luce dal mood intenso e cluastrofobico di questo esaltante trittico finale.
Album che cresce con gli ascolti, Yard è un nuovo ed ottimo gioiellino di genere, che va ad affiancare le uscite sopra la media di questa prima parte del 2016.

TRACKLIST
1. We Are Nowhere
2. Days Of Nothing
3. Mount Slumber
4. 40.000 Feet
5. Flash Forward
6. Yeti
7. Witchburner
8. Pryp’jat’

LINE-UP
Andrea Carlin – Drums
Felice di Paolo – Guitar
Riccardo Quattrin – Bass & Vocals

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