Poem – Skein Syndrome

Il quartetto di Atene manipola la materia in modo sagace, mantenendo un approccio metallico e drammatico ben definito e la sua musica, meno cerebrale dei maestri Tool, ma sempre dall’approccio intimista, non manca di scaricare botte di adrenalina elettrica sull’ascoltatore.

Sono svariate e tutte affascinati le strade da percorrere nel mondo del metal/rock: per esempio il sound alternative degli anni novanta, da molti considerato colpevole di aver messo nell’ombra i suoni metallici classici, ha invece aperto nuove porte ed orizzonti, specialmente nell’ambito progressivo, ancora ancorato alla tradizione settantiana.

Molte band in questi anni hanno seguito il sentiero impervio tracciato da gruppi geniali come i Tool o i Pain Of Salvation, rompendo le catene che imprigionavano il genere, fermo (più per colpa degli appassionati che degli stessi musicisti) agli storici nomi i cui primi passi sono prossimi a compiere il mezzo secolo, per esplorare nuovi modi di proporre musica fuori dagli schemi.
I greci Poem sono una di queste ottime realtà: nati nella capitale intorno al 2006, licenziano il secondo lavoro, Skein Syndrome, che segue il debutto The Great Secret Show, lavoro che ha portato loro molte meritate soddisfazioni e la possibilità di confrontarsi on stage con nomi altisonanti del mondo metallico come il madman Ozzy Osbourne, i Paradise Lost ed i Pain Of Salvation.
Il quartetto di Atene manipola la materia in modo sagace, mantenendo un approccio metallico e drammatico ben definito e la sua musica, meno cerebrale dei maestri Tool, ma sempre dall’approccio intimista, non manca di scaricare botte di adrenalina elettrica sull’ascoltatore.
Ottimo l’uso della voce, che richiama il post grunge statunitense alla Creed, per intenderci, mentre il sound rimane in tensione per tutta la durata dell’album, non mancando di toccare vette emozionali altissime (Fragments, Weakness), portando nelle cascata di note progressive molto della lezione impartita dal gruppo di Daniel Gildenlöw e dell’intimista drammaticità di Anathema e Katatonia.
Stati Uniti ed Europa, due modi diversi di intendere il rock che si è affacciato sul nuovo millennio, vengono fatti vivere in simbiosi nello spartito di questo bellissimo gioiellino che risulta Skein Syndrome, dove il nuovo progressive viene fagocitato ed aggredito dalle fiere alternative e metal per un banchetto a base di oscura e drammatica musica matura e terribilmente ipnotizzante.
Remission Of Breath, brano conclusivo del cd, funge da perfetto sunto del credo musicale del gruppo greco, con un’interpretazione al microfono del chitarrista George Prokopiou che da buona diventa colma di sontuosa e dolorosa teatralità.
Gran bel lavoro dunque, le attese dopo il debutto di ormai otto anni fa sono state giustificate dalla qualità di questa cinquantina di minuti, tutti da vivere sotto l’effetto emozionale che il gruppo non manca di riservare a più riprese lungo il corso di un album assolutamente da avere.

TRACKLIST
01. Passive Observer
02. Fragments
03. The End Justifies the Means
04. Bound Insanity
05. Weakness
06. Desire
07. Remission of Breath

LINE-UP
Giorgos Prokopiou – Vocals/Guitars
Laurence Bergström – Lead Guitars
Stratos Chaidos – Bass
Stavros Rigos – Drums

POEM – Facebook

Split Heaven – Death Rider

Torna dall’oltretomba il pistolero messicano, grilletto facile, nessuna pietà e tanto heavy metal.

Torna dall’oltretomba il pistolero messicano, grilletto facile, nessuna pietà e tanto heavy metal.

Gli Split Heaven sono una metal band molto conosciuta in patria, con tanto di mascotte maideniana (il pistolero in copertina) ed una già nutrita discografia.
Attivo dai primi anni del nuovo millennio, il gruppo messicano arriva con questo ottimo Death Rider al quarto full length, dopo l’esordio licenziato nel 2008 (Psycho Samurai) ed un paio di lavori molto apprezzati nell’underground metallico, Street Law del 2011 ed il precedente The Devil’s Bandit, uscito tre anni fa.
Il nuovo lavoro porta con sé un’importante novità: l’entrata nel gruppo del vocalist Jason Conde-Houston, sostituto di Giancarlo Farjat, singer sul precedente lavoro.
Death Rider continua la tradizione della band, il cui sound mantiene tutte le qualità di un heavy speed metal, influenzato tanto dalla new wave of british heavy metal, quanto dal U.S. metal, con chitarre che si lanciano in solos sempre ben in evidenza, sezione ritmica potente ed elegante ed un vocalist dalla timbrica old school, che non mancherà di fare proseliti tra i più legati alla tradizione.
Death Rider è composto da un lotto di brani coinvolgenti, che alternano cavalcate maideniane, rasoiate speed che possono ricordare i Primal Fear e l’eleganza tutta americana di band come gli Helstar.
Il nuovo singer si guadagna la pagnotta con una performance di qualità, anche se sono le chitarre che nell’album fanno la differenza (Carlo “Taii” Hernandez e Armand Ramos), due pistole che sparano proiettili metallici senza soluzione di continuità.
L’album ha nelle bellissime trame metalliche della title track, di Battle Axe, di Sacrifice e di Talking With The Devil, ottimi esempi di come si possa ancora suonare heavy metal tradizionale, risultando freschi e convincenti.
Se siete amanti dell’heavy metal classico, non perdetevi questo ottimo lavoro.

TRACKLIST
1. Death Rider
2. Awaken the Tyrant
3. Battle Axe
4. To The Fallen
5. Speed Of The Hawk
6. Ghost Of Desire
7. Sacrifice
8. Talking With The Devil
9. Descarga Letal
10. Destructor

LINE-UP
Jason Conde-Houston – vocals
Carlo “Taii” Hernandez – guitars
Tomas Roitman – drums
Armand Ramos – guitars

SPLIT HEAVEN – Facebook

Martyr – You Are Next

Altra reunion di una band storica dell’heavy power olandese, i Martyr, tornati sul mercato con l’ottimo Circle Of 8 del 2011, album che li vedeva tornare dopo ben 25 anni di silenzio, dal secondo lavoro Darkness at Time’s Edge, datato 1986.

Band nata nel lontano 1982, i Martyr seguivano i canoni dell’allora new wave of british heavy metal, dando alle stampe, nel 1985 il primo album, For The Universe.
Prima la Metal Blade con il precedente Circle Of 8, ed ora la Pure Steel, hanno dato credito a questa reunion, ed il quintetto di Utrecht si ripresenta dopo cinque anni in forma smagliante, confezionando un macigno heavy power thrash davvero potente .
Confermando il trend del precedente lavoro, i Martyr hanno spostato il tiro della loro proposta, verso un sound più ruvido ed arcigno: questo nuovo lavoro, pur garantendo uno stilema old school, è ben prodotto e contiene quelle atmosfere thrash che rendono il tutto pesante, a tratti devastante, lasciando che il mood classico si sposi con la grinta e la pesantezza del thrash dai richiami power.
Mai troppo veloce, ma dall’andamento monolitico, con tra i solchi un gran lavoro delle sei corde, protagoniste con la prova del singer Rop van Haren, un mostro di personalità debordante al microfono, You Are Next si trova esattamente a metà strada tra il power teatrale dei fenomenali Angel Dust di Border Of Reality ed i primi Testament.
Ne esce un album che, a tratti, entusiasma, forte di un ottimo songwriting e dell’abilità dei protagonisti, certo non dei novellini e dotati di un’esperienza trentennale messa al servizio di metallo aggressivo, dall’impatto terremotante, ma, allo stesso tempo, dotato di un’eleganza tutt’altro che nascosta dalle cascate di riff e solos che i due axeman (Rick Bouwman e Marcel Heesakkers) riversano sullo spartito di questa raccolta di brani, alcuni davvero eccellenti.
Questi vecchietti con il viziaccio di suonare metal con la M maiuscola mi hanno letteralmente stupito: il loro suono risulta potente e fresco, le songs marciano spedite, già dall’opener Into The Darkest Of All Realms, introdotta dalla voce di un bimbo, mentre le chitarre esplodono e la sezione ritmica tiene il passo con mestiere (Wilfried Broekman alle pelli e Jeffrey Bryan Rijnsburger al basso).
Enorme Van Haren al microfono: personale, teatrale, potente e dannatamente coinvolgente, mette a ferro e fuoco i padiglioni auricolari con una prova d’applausi, mentre l’album prende il volo con Infinity, altro pezzo da novanta di You Are Next, e non si ferma più, rimanendo ad altezze elevate in fatto di qualità e coinvolgimento.
Monster e Mother’s Tear, la velocissima e violentissima In The End, sono gemme di heavy power, sparate da un cannone metallico, mentre il singer dàletteralmente spettacolo nell’inno ottantiano Don’t Need Your Money, posto a chiusura del disco ed esempio di come si suona l’heavy metal old school nel 2016.
Un ritorno esaltante, fatelo vostro.

TRACKLIST
1. Into The Darkest Of All Realms
2. Infinity
3. Inch By Inch
4. Souls Breathe
5. Unborn Evil
6. Monsters
7. Crawl
8. Mother’s Tear
9. In The End
10. Don’t Need Your Money

LINE-UP
Rick Bouwman – guitars
Rop van Haren – vocals
Wilfried Broekman – drums
Jeffrey Bryan Rijnsburger – bass
Marcel Heesakkers – guitars

MARTYR – Facebook

Sinphobia – Awaken

Un bombardamento sonoro che non lascerà indifferente sia chi predilige il death tout court, sia chi è propenso ad ascolti più in linea con il sound degli ultimi anni e che non nasconde una predisposizione insana per il thrash moderno.

La Bakerteam, oltremodo dotata di un gran fiuto per gruppi dall’alto spessore artistico, ci invita a fare dell’headbanging sfrenato con Awaken, nuovo lavoro dei veneti Sinphobia.

Il primo album autoprodotto, risalente a due anni fa, qui viene riproposto per intero con l’aggiunta di un’intro e due bonus track, dando vita ad un’ottimo lavoro che spazia tra death metal, thrash e soluzioni moderne, molto statunitense nel sound e dall’impatto di un carro armato.
Convincono a più riprese i quattro musicisti nostrani, il loro album risulta un assalto sonoro di notevole intensità, compatti ed affiatati, non lasciano punti deboli in balia di chi ascolta, grazie alla notevole prova del vocalist (Conso), al gran lavoro di una sezione ritmica che non risparmia blast beat a manetta, ritmiche dal groove micidiale, ed a tratti potenti bordate moderniste che incollano al muro (Darkoniglio al basso e Falsi alle pelli).
Una forza della natura il chitarrista Vain, punto di forza di questo quartetto di distruttori sonori: la sua prova, specialmente nelle ritmiche, è da applausi, contribuendo ad alzare un muro sonoro invalicabile di potenza estrema.
Un lavoro con gli attributi, senza fronzoli, un bombardamento sonoro che non lascerà indifferenti sia chi predilige il death tout court, sia chi è propenso ad ascolti più in linea con il sound degli ultimi anni e che non nasconde una predisposizione insana per il thrash moderno (Lamb Of God).
Il groove rimane sempre a livelli altissimi così come la tensione, i riff rompono ossa e triturano carni, il basso esplode sotto i colpi inferti da Darkoniglio sulle quattro corde, mentre le bacchette scintillano sulle pelli abrase dalla forza di Falsi.
Non manca qualche brano che spicca sul resto dell’album, a cominciare da Prayer To Wacry, la death metal Thread Of Salvation, il moderno groove di Respect e l’elaborata March Of The Lambs, tra velocità e rallentamenti , in una tempesta di suoni estremi molto ben congegnati.
Ottimo lavoro e gruppo che si candida come una delle sorprese dell’anno nel genere proposto: siamo in Italia, quindi supportare realtà meritevoli come i Sinphobia diventa un dovere per chiunque si professi un amante del metal estremo.

TRACKLIST
1. Fearless Horde (Intro)
2. Prayer to Warcry
3. Guilty of Downfall
4. The Punishing Hand
5. Thread of Salvation
6. Respect
7. Face Your Mirror
8. March of the Lambs
9. Tetra (Raw version)
10. Labyrinth (Elisa cover)

LINE-UP
Darkoniglio – Bass
Falsi – Drums
Vain – Guitars
Conso- Vocals

SINPHOBIA – Facebook

Demonstealer – This Burden Is Mine

Non smettono di stupire le realtà metalliche provenienti dalla magica India e noi di iyezine non ci priviamo della possibilità di portarle a conoscenza di chi ci segue, una missione che appaga specialmente il nostro udito, visto l’enorme potenziale di quel movimento.

Mumbai, una delle città più popolose al mondo, ha una scena metal/rock davvero entusiasmante nei suoi angoli e anfratti crescono band e gruppi di spessore, toccando un po’ tutti i generi che compongono il variegato ed affascinante mondo della nostra musica preferita.
Demonic Resurrection, Albatross e Reptilian Death, nomi che i più attenti lettori avranno incontrato nei nostri viaggi virtuali alla scoperta dell’underground asiatico, sono band eccellenti che hanno tutte un denominatore comune, The Demonstealer: il polistrumentista indiano milita ed ha militato nei gruppi citati e non solo ma, dal 1998, ha fondato il suo progetto denominato, appunto, Demonstealer.
This Burden Is Mine è il secondo lavoro, che segue di otto anni l’esordio …and Chaos Will Reign…, il sound è un’affascinante immersione nel death metal brutale, progressivo e tecnico, un monolitico viaggio fatto di esperienze musicali che lasciano a bocca aperta per intensità e bravura strumentale, un calderone di musica estrema dove il musicista ingloba tutte le sue influenze.
La parte progressiva del sound di Demonstealer è sicuramente la più avvincente, le orchestrazioni creano un’atmosfera magniloquente ed oscura, abbinandosi ad accelerazioni estreme, sempre molto ragionate ed in perfetto equilibrio con la musica rock di cui This Burden Is Mine è composto.
Sono molte e di diverso lignaggio le influenze di cui si avvale il nostro, dal death classico al doom death, per passare al dark progressivo: durante l’ascolto sono molti gli esempi che passano nella testa del sottoscritto, ma la grande maestria nel songwriting, non fa che valorizzare questa raccolta di brani da ascoltare con la dovuta calma, per fare proprie tutte le sfumature di cui la musica si nutre.
Brani mediamente lunghi, cantati alla grande, soprattutto nelle parti pulite, e tanta tecnica strumentale, danno all’album quel tocco in più per non passare inosservato, lasciando che piccoli capolavori come An Unforgiving Truth, la title track, Frail Fallible e The Last Jester Dance ci rapiscano, persi nei vortici di musica creati dal musicista indiano, che per l’occasione si è avvalso alla batteria di un pezzo da novanta come George Kolias (Nile), oltre ad Ashwin Shriyan al basso e di Nishith Hedge e Daniel Rego per le parti di chitarra solista.
Per gli amanti dei suoni progressivi uniti alla musica estrema, This Burden Is Mine è assolutamente un ascolto obbligato, godetene tutti.

TRACKLIST
1. How the Mighty Have Fallen
2. An Unforgiving Truth
3. When the Hope Withers and Dies
4. This Burden Is Mine
5. Frail Fallible
6. The Failures of Man
7. Where Worlds End
8. The Last Jester Dance
9. From Rubble and Ruin

LINE-UP
The Demonstealer – Guitars, Vocals
Geoge Kolias – Drums
Ashwin Shriyan – Bass

DEMONSTEALER – Facebook

Agathocles / Degenerhate – Wash Your Blues Away! / The Nothing I’ve Become

Prendete un nome storico della scena grindcore internazionale come i belgi Agathocles, aggiungete una delle migliori band nostrane nel genere, i romani Degenerhate, ed avrete uno dei più riusciti split degli ultimi anni.

Prendete un nome storico della scena grindcore internazionale come i belgi Agathocles, dal lontano 1987 a devastare palchi e con una discografia che tra split, full lenght, ep e compilation non basterebbe tutta la ‘zine per elencarla, aggiungete una delle migliori band nostrane nel genere, i romani Degenerhate, autori nel 2013 del bellissimo Chronicles Of The Apocalypse, ed avrete uno dei più riusciti split degli ultimi anni.

Addirittura quattro label hanno contribuito alla realizazzione di questo 7″, Uterus Productions, Here And Now!, GrindScene Records e la Horror Pain Gore Death Productions, a ribadire l’importanza di questa pubblicazione destinata a far parte di un documentario sulla scena, intitolato Slave To The Grind-A Film About Grindcore.
Wash Your Blues Away! è quello che ci propone il gruppo belga, tre brani di cui due, Erase Your Face e Big Foot Marches Again, risultano due blues songs marcissime e a mio parere geniali, sporcate da una voce cartavetrata, la prima basata su di un riff ripetuto che entra direttamente nel cervello, la seconda uno strumentale acustico, dal sentore molto southern rock e dall’andamento dissacrante.
Con Bunka Bunka Blues si torna a far male, il sound minimale del gruppo di Jan Frederickx, esplode in tutta la sua carica mincecore, un minuto e mezzo per salutarci e lasciare spazio al gruppo capitolino, dalla forza estrema impetuosa, confermata anche in questi nuovi quattro brani, condizionati da una verve molto più hardcore rispetto allo scorso full length.
Non manca nel sound quello che, a mio parere, è il punto di forza del gruppo, ed infatti dopo una serie di sfuriate estreme, il gruppo di Gianluca Lucarini ci investe con rallentamenti di una pesantezza mostruosa, attimi di cadenzata mostruosità in cui le urla animalesche del leader riempiono l’atmosfera di inumano dolore.
Unleash The Fury, I Against I, Submerged Into Void, The Nothing I’ve Become, dimostrano ancora una volta l’enorme talento del gruppo, la produzione rende giustizia al massacro sonoro creato dal combo, gli strumenti escono puliti e diretti e non si fatica a riconoscerli, anche se non si è abituali fruitori del genere.
Grande prova del gruppo nostrano che ben figura accanto alla storica band belga: Wash Your Blues Away! / The Nothing I’ve Become ci mette al cospetto di una coppia d’assi, assolutamente da non perdere se siete amanti del genere.

TRACKLIST
Wash Your Blues Away!
1 –Agathocles – Erase Your Face
2 –Agathocles – Big Foot marches again
3 –Agathocles – Bunka Bunka Blues
The Nothing I’ve Become
1 –Degenerhate – Unleash The Fury
2 –Degenerhate – I Against I
3 –Degenerhate – Submerged Into Void
4 –Degenerhate – The Nothing I’ve Become

LINE-UP
Agathocles:
Nils Laureys – Vocals, Drums
Jan Frederickx – Vocals, Guitar, Bass
Koen – Guitar

Degenerhate:
Gianluca Lucarini – Lead Guitar, Screaming, Backing Vocals
Marco “K” Paparella – Bass
Renato “BIG R” Lucandri: Vocals, Grunts
Stuart Franzoni- drums
Angelo Vernati – Rhythm Guitar

DEGENERHATE – Facebook

AGATHOCLES – Facebook

Highrider – Armageddon Rock

Quattro brani deflagranti, devastanti e potenti, eppure non siamo nei meandri del metal estremo, bensì nel più classico e all’apparenza più innocuo hard rock.

Tempesta, tuoni, fulmini, terremoti e tsunami che si riversano sull’ascoltatore come in una pellicola di genere catastrofico, un’onda altissima di metallo fumante, rock ruvido accompagnato da una voce che gronda rabbia e angoscia.

Un armageddon, appunto, di rock settantiano ipervitaminizzato da scariche metalliche fuse nell’acciao, impreziosito da un hammond signore e padrone del sound, apocalittico e dannatamente vintage, ma fondamentale nell’economia di queste splendide quattro canzoni.
Gli Highrider sono un quartetto svedese, Armageddon Rock è il loro debutto, licenziato dalla The Sign Records, registrato da Leo Moller, mixato da Henke Magnusson e masterizzato da Linus Anderson ai Kust studio di Gotheborg così da straripare letteralmente dalle casse, come l’acqua liberata dal crollo di una diga.
Quattro brani deflagranti, devastanti e potenti, eppure non siamo nei meandri del metal estremo, bensì nel più classico e all’apparenza più innocuo hard rock.
Il fantastico lavoro alle tastiere di Christopher Ekendahl, che riporta indietro agli anni settanta e ai mai troppo osannati Uriah Heep, avvolge il metal, a tratti stonerizzato, rabbioso e devastante suonato dai suoi compari, con la sei corde di Eric Radegard che illumina la scena con solos dal saporeclassico (S= T x I) e la sezione ritmica che ci investe con una forza disumana (Carl-Axel Wittbeck alle pelli e Andreas Fageberg al basso).
Il concept dell’album è chiaramente ispirato alla deriva intrapresa dal genere umano e la musica, che mantiene un mood apocalittico, forma insieme alle urla drammatiche e rabbiose del bassista una clamorosa denuncia degli effetti distruttivi delle politiche nucleari.
Venti minuti esaltanti, da ascoltare a volume altissimo, un enorme suono che si sviluppa e si rigenera tra le trame bombastiche di Agony Of Limbo, The Moment (Plutonium) e Semen Mud And Blood.
Un grandissimo debutto che incorona gli Highrider come una delle sorprese di questa metà dell’anno di grazia 2016, il che induce ad aspettarli per la prima prova sulla lunga distanza che, se si attestasse su questi livelli, sarebbe trionfale.
Non c’è ne tregua ne speranza, solo la colonna sonora della fine del mondo.

TRACKLIST
1.S= T x I
2.Agony Of Limbo
3.The moment (Plutonium)
4.Semen Mud And Blood

LINE-UP
Eric Radegard-Guitar
Carl-Axel Wittbeck-Drums
Andreas Fageberg-Bass
Christopher Ekendahl-Keyboards

HIGHRIDER – Facebook

Antillia – Ancient Forces

Gli Antillia ci regalano un sorprendente e quanto mai efficace esempio di come si possa suonare un genere in cui l’originalità è una chimera, facendo risaltare le atmosfere e l’ottima vena epica, puntando su due vocalist di straordinaria bravura

Bellissimo esordio sulla lunga distanza per gli Antillia, symphonic power metal band russa alla quale, come tradizione di quella nazione, non manca di certo il talento per la musica classica e sinfonica.

Il gruppo di Mosca arriva al debutto dopo sette anni dalla sua nascita e due lavori minori, il primo demo del 2010 e Last Starfall, ep licenziato tre anni fa.
Il sound del gruppo consiste in un drammatico power metal, reso sinfonico, orchestrale e molto cinematografico, che deve tanto ai Rhapsody nell’approccio metallico e alle symphonic metal band scandinave, nel saper inserire nel tappeto sonoro grandiose partiture classiche.
Il tutto cantato in lingua madre dallo stupendo soprano Elena Belova e dal singer Alexandr Kolesov, che si divide tra vocalizzi da tenore ed il più classico cantato power oriented.
Le orchestrazioni sono ad appannaggio del compositore belga Maliki Ramia, sul quale il gruppo inserisce un energico power metal, mentre i testi, come da copione, sono incentrati su storie di magia, epiche battaglie, ed amori tragici per dolci damigelle rinchiuse in bui castelli.
Sessanta minuti di musica che, come una colonna sonora, si sostituisce alle immagini, suggestiva il giusto per fare dell’album un piccolo gioiellino di genere e resa molto epica dal cantato tradizionale della loro terra, duro e marziale come la musica impone.
Atmosfere che lasciano un sentore di epica tragedia, cavalcate metalliche di ottima fattura ed orchestrazioni che non abbandonano il sound neppure quando gli strumenti corrono veloci tra le pianure insanguinate della fredda steppa russa, ed il risultato è un’ottima opera metal classica.
Certo, il genere, ormai inflazionato, non lascia spazio all’originalità ma, come detto, il talento per la musica classica, innata nei musicisti provenienti dalla madre Russia, fa di Ancient Forces un affresco più che buono di come il metal riesca a sposarsi alla perfezione con la musica orchestrale.
Oltra ad essere bellissima, Elena Belova è dotata di una voce straordinaria, un puro talento al servizio della musica dei suoi compagni, che se la cavano al meglio con i propri strumenti.
Le atmosfere sono comunque il punto di forza della band moscovita, l’album non smette di aggredire e si arriva addirittura alla nona traccia, Loneliness, prima che un delicato giro di piano accompagni il duetto tra i due vocalist, in una super ballad con tanto di solo chitarristico dai rimandi heavy metal.
Gli Antillia ci regalano un sorprendente e quanto mai efficace esempio di come si possa suonare un genere in cui l’originalità è una chimera, facendo risaltare le atmosfere e l’ottima vena epica, puntando su due vocalist di straordinaria bravura: consigliato agli amanti dei Rhapsody, così come dei Nightwish, Epica e Therion.

TRACKLIST
1. Last Starfall
2. Mystery
3. Sunrise
4. The Assault
5. Mortal Fight
6. Candles
7. Ancient Forces
8. The Shaman
9. Loneliness
10. At World’s End
11. Captivated by the Immortality
12. Antillia
13. Universe
14. Epilogue

LINE-UP
Daniil Gayvoronsky – Drums
Nikita Zlobin – Bass
Valeriy Ostrikov – Guitars
Elena Belova – Vocals
Alexandr Kolesov – Vocals, Lyrics
Vladislav Semin – Guitars

ANTILLIA – Facebook

Necroskin – Before Chaos Takes You

Molto bravi, i musicisti palermitani, riprendono la vecchia scuola capitanata dai Morbid Angel e la riassumono in questo lavoro con buona personalità

Palermo è una città che vanta una scena underground di livello altissimo, non sono poche le band delle quali ho avuto il piacere di fare conoscenza attraverso lavori di categoria superiore, non solo nel metal estremo (Haemophagus), ma anche in generi magari lontani dall’estremismo del death metal, ma assolutamente geniali (Elevators To The Grateful Sky).

Un piccolo paradiso per chi ama la musica non convenzionale, uno splendido inferno se, come in questo caso, l’album in questione è composto da una ventina di minuti scarsi di death metal, molto vicino al brutal, tecnicamente suonato al meglio, oscuro, blasfemo e maligno il giusto per non passare inosservato.
La band si chiama Necroskin, si è formata solo lo scorso anno e Before Chaos Takes You è il riuscito biglietto da visita, un buon esempio di death metal dai chiari riferimenti old school, statunitense nell’approccio, derivativo dirà qualcuno, ma assolutamente d’impatto.
Molto bravi, i musicisti palermitani, riprendono la vecchia scuola capitanata dai Morbid Angel e la riassumono in questo lavoro con buona personalità, aggiungendo all’oscurità malsana tipica di Vincent e soci una dose letale di brutalità, così da proporre la loro personale versione del genere.
Ottimo il lavoro della sei corde, mai banale e piacevolmente tecnico, sul pezzo la sezione ritmica e di notevole intensità il growl, che esce demoniaco e bestiale come il genere comanda.
Brani brevi ma che vanno subito al sodo e tra i quali spiccano le devastanti Universal Implosion, la potentissima Three Is The Perfect Death e la violentissima Open Yourself For Chaos, per un delirio estremo di sicuro impatto.
Il gruppo è alla ricerca di un’etichetta per produrre un futuro full length: le premesse ci sono tutte, perciò il consiglio è di ascoltare Before Chaos Takes You, mentre sono d’uopo gli auguri ai Necroskin e supportarli è il minimo.

TRACKLIST
1 – Before Chaos Takes You
2 – Universal Implosion
3 – Three is the Perfect Death
4 – The Family Remains
5 – Open Yourself For Chaos (to Jon Nödtveidt)
6 – 237 Redrum
7 – After Chaos Takes you

LINE-UP
Valerio Sandman : Drums
Andrea Conti : Bass
Gabriele Mazzola : Vocals
Diego Gore Zimmardi : Guitar

NECROSKIN – Facebook

Fimbulvinter – Начертаны резы древних заклятий

La fredda steppa Russa non è poi così lontana (climaticamente parlando) dalle lande scandinave.

Così devono aver pensato i Fimbulvinter, band nata nel 2009 a San Pietroburgo, al debutto sul finire dello scorso anno con questo bel dischetto di black metal epico, dalle chiare influenze che riconducono alle terre scandinave.
Dopo una storia travagliata, con molti cambi di line up e che vede stampata finalmente la loro musica dopo sette anni di attività, i Fimbulvinter raccolgono tutti i brani scritti in questi anni e li racchiudono in questo buon lavoro, dal titolo in lingua madre, così come i testi, mentre il sound risulta un’interpretazione di quello suonato in particolare nella terra svedese.
Ritmiche molte volte su velocità dal cadenzato mood epico, gran lavoro chitarristico che non disdegna riff e solos melodici ed imponenti, un ottimo uso delle voci, growl e scream, fanno dell’album un vigoroso tributo al black metal epico pagano.
Si respira aria di scontri tra le nevi e le boscaglie dei paesi nordici, il sangue macchia di rosso il bianco candore della neve, le spade si scontrano in uno stridore di lame, mentre le punte acuminate scagliate dagli arcieri, lasciano al suolo i corpi di giovani guerrieri, immolati alla gloria del regnante di turno e le cui anime, ora, cavalcano nel Valhalla.
Più di mezzora all’attacco con le melodie che la fanno da padrone, su un tappeto di glorioso ed epico metallo estremo, fanno dell’album un prodotto consigliato non solo ai blacksters, ma un po’ a tutti gli amanti del metal guerresco e dalle connotazioni epiche.

TRACKLIST
1. Сияние Севера
2. Разбиты, разорваны…
3. Воронов cтаи
4. Забыты дни, забыто прошлое…
5. Холод. Ненависть. Гибель
6. Зима тысячелетий
7. Битва настанет
8. Северу Отцу
9. Миру наступит конец

LINE-UP
Patrik – Guitars
Bjorn Raudrskeggi – Vocals
Shoma – Guitars
Tar – Drums
Alex – Tombstone Bass

FIMBULVINTER – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
Un buon lavoro, più di mezzora all’attacco, con le melodie che la fanno da padrone, su di un tappeto di glorioso ed epico metallo estremo, fanno dell’album un prodotto consigliato non solo ai blacksters, ma un po a tutti gli amanti del metal guerresco e dalle connotazioni epiche.

Dark Oath – When Fire Engulfs the Earth

Non poteva che esserci la Wormholedeath dietro alla pubblicazione di When Fire Engulfs the Earth, primo full length di questo quartetto proveniente da Coimbra, non un caso, visto la notevole qualità dei prodotti firmati dalla label nostrana che non si è fatta sfuggire neppure i Dark Oath.

Il gruppo ha all’attivo due ep, usciti tra il 2010 e il 2012 (Under a Blackened Sky e Journey Back Home), primi passi verso quello che di fatto risulta la glorificazione del concept dei Dark Oath, un death metal epico, sinfonico e guerresco, che poco ha della tradizione metallica del loro paese, guardando invece ai paesi nordici e non solo, mantenendo una personalità sorprendente per una band al debutto.
Dotati di una guerriera vichinga al microfono, nella persona di Sara Leitão, singer da aggiungere al novero di Angela Gossow e compagnia, e avvalendosi di un songwriting in stato di grazia, i Dark Oath conquistano un posto d’onore per quanto riguarda le migliori uscite del genere in questo primo scorcio dell’anno del signore 2016.
Il loro sound esplode letteralmente in un’epica battaglia senza soluzione di continuità, metal bombastico, estremo ed oscuro, un assalto al fosso di Helm musicale in cui gli scudi si spezzano, le lame tagliano la carne e gli sciacalli si dissetano dopo aver banchettato con i cadaveri degli eroi, dalla vita spezzata da una lancia.
Senza tregua per più di un’ora, la mente viaggia tra il campo di battaglia, con un furore da tregenda, un epico orgoglio e tanta violenza in una musica lanciata alla velocità della luce, intervallata da chorus magniloquenti; le ritmiche forsennate fanno da tappeto sonoro all’unisono con orchestrazioni da brividi alle varie Land Of Ours, Battle Sons, Thousands Beasts, Wrath Unleashed, le asce ricamano riff e solos melodici ed il gruppo disegna atmosfere di scontri all’ultimo sangue.
I Dark Oath mostrano le stesse capacità dei Bal-Sagoth, ma risultando rispetto a questi più death oriented, di proporre atmosfere leggendarie, in un vortice continuo di sonorità estreme da apocalisse, e stupiscono per come riescono a tenere l’ascoltatore incollato alle cuffie, travolgendolo con la stessa carica degli eserciti alla conquista della gloria …

TRACKLIST
1. Land of Ours
2. The Tree of Life
3. Battle Sons
4. Watchman of Gods
5. Thousand Beasts
6. Death of Northern Sons
7. Wrath Unleashed
8. Vengeful Gods
9. When Fire Engulfs the Earth
10. Brother’s Fall

LINE-UP
Sara Leitão – Vocals
Joël Martins – Guitar, Orchestrations
Sérgio Pinheiro – Guitar, Back vocals
Afonso Aguiar – Bass

DARK OATH – facebook

Ragnarok – Psychopathology

Face painting, croci rovesciate, sangue innocente e tanta attitudine old school, benvenuti nell’inferno del true norwegian black metal

Pura arte nera, sangue demoniaco che sgorga dalle ferite inferte dalla frusta, che dilaniò le carni del cristo prima di essere immolato sulla croce, un’assoluta presenza malefica invade le note dell’ultima blasfemia dei Ragnarok, tra gli ultimi difensori del puro spirito black, tra le band nate intorno alla metà degli anni novanta.

Il drummer Jontho ha lasciato definitivamente le pelli, sostituito dalla piovra Malignant, per dedicarsi esclusivamente a glorificare l’oscuro signore dietro al microfono, ed è questa la novità più eclatante di Psychopathology: per il resto l’album è quanto di meglio i superstiti del vero verbo black metal norvegese hanno da offrire nell’anno satanico 2016.
Gruppo fondamentale per la scena, attivo dal 1994, perciò qualche anno dopo l’esplosione della scena nordica, ma da subito importantissimo per lo sviluppo delle sonorità oscure, i Ragnarok non hanno mai perso la bussola dietro a facili successi, continuando ad esaltare la loro proposta estrema, con lavori senza compromessi e fedeli alla sottile linea nera del black metal.
Prodotto dal bassista dei Marduk, Devo, ed accompagnato dalla splendida cover realizzata da Marcelo Vasco, al lavoro pure con Slayer, Machine Head e Dimmu Borgir, il nuovo lavoro riporta il genere al suo grado più alto di disturbo socio religioso; estremo non solo musicalmente ma, soprattutto, concettualmente, Psychopathology riporta il black metal al picco dell’estremismo in musica, disturbante, malefico e diabolico come dovrebbe sempre essere, punto.
Potrei finirla qui di raccontare questo bellissimo e devastante lavoro, ma la regola impone di fare un sunto di queste undici perle nere come la pece, maligne fino al midollo e suonate da dio, o da satana, fate voi, fatto sta che l’album vi coinvolgerà a tal punto che correre davanti ad una chiesa per urlare tutto il vostro odio sarà un attimo, esaltati dalle atmosfere da tregenda di songs come le indiavolate I Hate, Infernal Majesty, Heretic e Blood, in un titolo tutto l’armageddon sonoro dei Ragnarok.
Un album che, nella sua attitudine senza compromessi, vede nella produzione pulita un buon motivo per ascoltarlo e riascoltarlo; professionalmente ineccepibile, sputa sul music biz il suo orrendo e famelico verbo, portando molto in alto la nera fiamma del metal immolato all’anti cristianità.
Face painting, croci rovesciate, sangue innocente e tanta attitudine old school, benvenuti nell’inferno del true norwegian black metal, benvenuti nel mondo dei Ragnarok.

TRACKLIST
1. Dominance and Submission
2. I Hate; 3. Psychopathology
4. My Creator
5. Infernal Majesty
6. Heretic
7. Into The Abyss
8. The Eighth Of The Seven Plagues
9. Lies
10. Blood
11. Where Dreams Come To Die

LINE-UP
Jontho Vocals
Bolverk Guitars
Malignant Drums

RAGNAROK – Facebook

BlackRain – Released

A mio parere un’occasione in parte mancata, anche se sono sicuro che l’album farà sicuramente conquistare nuovi fans al gruppo francese ma, se volete ascoltare fottuto rock’n’roll puro Los Angels style, rivolgetevi altrove.

Ecco arrivato sulla mia scrivania quello che si prospetta come l’album hard rock del 2016: Released, dei transalpini BlackRain, licenziato dalla UDR/Warner.

Il quartetto di rockers formatosi dieci anni fa nelle alpi francesi, dopo una lunga gavetta fatta di importantissimi live al fianco di Europe, Alice Cooper, Scorpions ed i nuovi eroi dell’hard rock mondiale come Steel Panthers, Kissin’ Dynamite e Crash Diet e con quattro full length alle spalle, con It Begins (il precedente lavoro uscito nel 2013) quale il picco qualitativo, è pronto al grande salto e Released conferma l’attesa degli addetti ai lavori, per un album che dovrebbe rivelarsi un’esplosione di suoni street/hard rock, direttamente dalla Los Angeles del periodo ottantiano.
Prodotto da Jack Douglas, nome di spicco del panorama rock americano (Aerosmith, Cheap Trick, Alice Cooper, The New York Dolls e John Lennon) l’album è stato registrato tra Parigi ed ovviamente la città degli angeli, con il mix finale curato da Douglas insieme a Warren Huart, ingegnere del suono della band di Steven Tyler e Joe Perry.
Tanto spiegamento di forze, ha dato i suoi frutti e Released non può che essere destinato al successo: tutto è perfetto, il suono patinato e cristallino, le canzoni formano una raccolta di hits che trent’anni fa avrebbe fatto tremare il music biz, con la leggera attitudine stradaiola della band e quel tocco ruffiano che è la chiave per entrare nei cuori dei vecchi e nuovi rockers sparsi per il mondo.
Tra le note di brani dall’appeal conclamato come l’opener Back In Town, l’esplosiva Mind Control, Puppet On A String, la semi ballad strappa lacrime Home, l’irriverente Rock My Funeral, troverete di che crogiolarvi se continuate ad infilare nella vostra autoradio i greatest hits di Motley Crue, Skid Row, Poison ed in parte, ma solo in parte, Guns’n’Roses.
Tutto fila liscio come l’olio, le songs entrano in testa alla velocità della luce e non meravigliatevi se, dopo un solo ascolto, vi ritroverete a canticchiare uno dei ritornelli di questi tredici brani, costruiti per piacere senza se e senza ma.
E allora, vi chiederete, perché il voto non rispecchia del tutto queste valutazioni ?
Perché, a mio modesto parere, Released è “troppo” perfetto per un album che dovrebbe trasudare sporco rock’n’roll: il tutto risplende di una luce asettica, a causa di un’attenzione ai particolari che è sintomatica dell’intento di costruire a tavolino un lavoro in grado di sfondare, ma che lascia qualche dubbio sull’effettivo impatto e molti di più sulla reale attitudine della band.
Ci si aspetta da un momento all’altro che l’album esploda davvero, che la voce lasci intravedere gli effetti collaterali di serate da sballo, e le sei corde ci facciano godere di un riffing di matrice street, dai richiami punk/blues cari a band storiche come L.A Guns o primi Gunners, ed invece si scivola nel compitino, nello schema strofa-ritornello-strofa, carino, perfetto per le radio, ma alla lunga abbastanza prevedibile.
A mio parere un’occasione in parte mancata, anche se sono sicuro, l’album farà sicuramente conquistare nuovi fans ai BlackRain, ma se volete ascoltare fottuto rock’n’roll puro Los Angels style, rivolgetevi altrove.

TRACKLIST
01. Back In Town
02. Mind Control
03. Killing Me
04. Run Tiger Run
05. Puppet On A String
06. Words Ain’t Enough
07. Eat You Alive
08. Home
09. For Your Love
10. Fade To Black
11. Electric Blues
12. Rock My Funeral
13. One Last Prayer
14. True Survivor (Bonus)
15. Jenny Jen (Bonus)

LINE-UP
Swan Hellio – Lead vocals, Guitars
Axel “Max 2” Charpentier – Lead guitars
Matthieu De La Roche – Bass
Frank Frusetta – Drums

BLACKRAIN – Facebook

Distruzione – Endogena

Dopo il come back dello scorso anno si torna a parlare degli storici Distruzione, questa volta con la riedizione da parte della nostrana Jolly Roger del primo devastante lavoro sulla lunga distanza, Endogena.

Uscito originariamente nel 1996 e distribuito dalla major Polygram, Endogena fu l’album che trasformò la band in leggenda, conquistando i favori dei fans del metal estremo underground per la proposta feroce, i testi in lingua madre, ed un impatto terremotante.
Gli allora giovani protagonisti di questo olocausto sonoro si fecero notare per la qualità altissima del proprio sound, accompagnata da una tecnica non indifferente, ed un approccio alla materia estrema che, se pescava dalle band cardine del thrash death, non peccava certo in personalità e voglia di colpire pesantemente.
L’inserto sinfonico che funge da intro all’opener Senza Futuro, risulta un conto alla rovescia prima del decollo di questo, fino ad ora, introvabile lavoro, poi uno tsunami di metal estremo, si abbatte sull’ascoltatore, senza soluzione di continuità.
Ritmiche serrate e devastanti, chitarre aggressive, ed un growl animalesco ma perfettamente chiaro nel vomitare testi di morte, oscurità e distruzione, elevano l’album ad una sorta di must per tutti gli amanti del genere.
Siamo nel 1996, i mezzi a disposizione del gruppo non erano certo quelli in possesso alle giovani band di oggi, ma Endogena aveva in sé una carica così forte e devastante, da stare tranquillamente al passo con le releases dei gruppi europei.
Prodotto da Omar Pedrini dei Timoria, Endogena scarica una sequenza di mitragliate thrash violente e senza compromessi, rese ancora più pesanti da un uso parsimonioso ma geniale di sfumature prese dal famigerato death metal statunitense.
Slayer in primis e, poi, tanto thrash metal di matrice europea sono gli ispiratori del sound di questo monumentale lavoro, che ha nella compattezza il suo massimo punto di forza, anche se è indubbio che Delirio Interiore, Ossessioni Funebri e la conclusiva Agonia fungano da traino a tutto l’album.
Nel frattempo, come ben saprete se seguite la scena undergorund e, di fatto, la nostra ‘zine, i Distruzione sono tornati più forti che mai, ma il fascino di questo lavoro, rimane intatto come vent’anni fa, confermando che nel metal, non solo estremo, il passare degli anni conta poco quando ci si trova davanti a lavori come Endogena.
Complimenti alla Jolly Roger per l’iniziativa assolutamente consona all’importanza del gruppo parmense.

TRACKLIST
1. Senza futuro
2. Delirio interiore
3. Ossessioni funebri
4. Divina salvezza
5. Ombre dell’anima
6. Omicidio rituale
7. Diabolus in Musica
8. Agonia

LINE-UP
David Roncai – Vocals
Dimitri Corradini – Bass
Alberto Santini – Guitars
Massimiliano Falleri – Guitars
Ettore Le Moli – Drums

DISTRUZIONE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=jyyLWkfoSeM

Manzer – Beyond the Iron Portal

Visti i precedenti ci si aspettava qualcosa di più, mentre in Beyond the Iron Portal manca quel mood disturbante da battaglia estrema con cui erano forgiati i brani più datati.

Torna il trio transalpino di cui ci eravamo occupati dopo l’uscita della compilation Pictavian Chronicles Volume 1 dello scorso anno, attivo dal 2008 e con una nutrita discografia composta da una marea di mini cd ed un full length, uscito nel 2013 dal titolo Light of the Wreckers.

I Manzer suonano un black/thrash old school sulla scia dei maestri Venom, con qualche sfuriata riconducibile ai Motorhead, e la loro proposta è quanto di più alcoolico e putrido si può trovare in giro per l’underground metallico; i dieci brani qui prodotti continuano la tradizione del loro sound, un metal estremo sparato a mille, ignorante e senza compromessi, da headbanging sfrenato sotto il palco e, purtroppo, nulla più.
La produzione deficitaria e lo stile nostalgico fanno sembrare questo lavoro una ristampa degli anni ottanta più che un album targato 2016.
Chitarre al limite, un’attitudine spregiudicata e piede a tavoletta sull’acceleratore bastano appena a raggiungere la sufficienza, mentre alcuni buoni spunti vicino al metal classico sono le uniche virtù di Beyond The Iron Portal, troppo poco per destare l’interesse degli amanti del metal estremo old school.
Sinceramente non ho trovato una song che si distingua fra le altre; i brani adottano tutti la stessa metodica: ritmiche black’n’roll, voce sguaiata, testi guerreschi e blasfemi e qualche solo di stampo classico mentre, come detto, la produzione appiattisce in modo imbarazzante il sound del trio.
Dall’ascolto della compilation mi aspettavo qualcosa di più, mentre nel lavoro su lunga distanza manca quel mood disturbante da battaglia estrema con cui erano forgiati i brani più datati.
Beyond The Iron Portal risulta così un lavoro rivolto solo a chi ama il metal più grezzo: qualche spunto di interesse gli amanti di queste sonorità lo potrebbero anche trovare, mentre per tutti gli altri l’udito deve necessariamente rivolgersi altrove, peccato.

TRACKLIST
1. Open the Portal
2. Torment of the Strix
3. Veisalgia Damnation
4. Prepare Your Soul to Die
5. 890 03:59 instrumental
6. Màetre é Cunpagnun
7. Nuclear Necropolis
8. Semen Goddess
9. Beyond the Iron Portal
10. Hard Metal Jackhammer

LINE-UP
Fëarann – Bass, Vocals (backing)
Shaxul – Drums, Vocals
Hylde – Guitars

MANZER – Facebook

Bridgeville – Aftershock

Aftershock non scende mai di livello mantenendo una qualità notevole, i brani sono tutti molto belli e fanno l’occhiolino ai Bon Jovi così come agli Whitesnake nella versione USA ottantiana

I paesi nordici sono da sempre patria dei generi melodici di stampo hard rock, anche se spesso si pensa solo alle espressioni musicali più esteme.

Ed è proprio dalla fredda Norvegia che arrivano i Bridgeville con il loro sound fatto di caldo hard rock classico, molto melodico e dall’ottimo appeal.
Una raccolta di brani che parla al cuore di ogni rocker innamorato di chitarre ruvide, refrain irresistibili e da cantare in qualche locale riscaldato dai watt che esplodono nella sala, avvolgendo gli astanti di melodie provenienti direttamente dagli anni ottanta, anni in cui il rock, quello vero, spadroneggiava nelle radio di tutto il pianeta.
Il gruppo nasce nel 2013 per volere del vocalist Martin Steene, già in line up con i metallers danesi Iron Fire e l’hard rock band norvegese Absinth, e recluta tra le fila della nuova band, i chitarristi Erik Norheim e Kenneth Jacobsen, Roger Svenkesen al basso e Thomas Furuvald alle pelli.
Il gruppo così composto si prepara al debutto licenziando il singolo Absinthia, arriva poi la firma per la Crime Records e la band, nello scorso anno, entra in studio con Jacob Hansen e Tommy Hansen per registare Aftershock, debutto sulla lunga distanza che spezzerà cuori, muoverà fondoschiena e piacerà non poco ai rockers orfani dell’hard rock classico, svolazzando tra le varie influenze come un’ape tra i fiori.
Ottime trame chitarristiche, atmosfere che si alternano tra arena rock e ed elettrizzante e grintoso hard’n’roll, semiballad che ricordano nostalgici road movie, il tutto raccontato tramite una voce che risulta il primo comandamento di come si suona il genere (ovvero, avere un cantante con le palle).
Aftershock non scende mai di livello mantenendo una qualità notevole, i brani sono tutti molto belli e fanno l’occhiolino ai Bon Jovi così come agli Whitesnake nella versione USA ottantiana, mentre l’ascoltatore non mancherà certo di divertirsi con l’adrenalina che scorre tra i solchi di Save Me, Black Rain e Absinthia, mentre con Bridge To A Broken Heart e Homeland, la lacrimuccia non mancherà di scendere sul viso di tipacci dal cuore tenero.
Aftershock ci regala una quarantina di minuti di ottime melodie, che vanno a comporre un debutto di tutto rispetto, fatelo vostro.

TRACKLIST
01. Get On Top
02. Mystic River
03. Save Me
04. Aftershock
05. Black Rain
06. Keep Holding On
07. Bridge To A Broken Heart
08. Freakshow
09. Homeland
10. Anthem Of The World
11. Absinthia

LINE-UP
Martin Steene – Vocals
Erik Norheim – Guitars, B. Vocals
Thomas Furuvald – Drums
Roger Svenkesen – Bass
Kenneth Jacobsen – Guitars

BRIDGEVILLE – Facebook

Abscendent – Decaying Human Condition

La proposta del gruppo è un death/thrash composto in egual misura da elementi moderni ed altri riconducibili alla tradizione estrema, suonato in modo impeccabile e prodotto al meglio

La Revalve, confermando di essere una delle migliori label nostrane, licenzia questo bellissimo ed esaltante Decaying Human Condition, primo lavoro degli Abscendent, band laziale che annovera tra le proprie fila due mebri degli Overactive, il chitarrista e cantante Gabriele “Arch” Vellucci, ed il drummer Marcello Del Monte, raggiunti in questa nuova avventura dal bassista Luca Riccardelli (Helslave).

La proposta del gruppo è un death/thrash composto in egual misura da elementi moderni ed altri riconducibili alla tradizione estrema, suonato in modo impeccabile e prodotto al meglio nei 16th Cellar Studio da Stefano Morabito.
Cinque brani bastano per convincersi di essere al cospetto di un trio fenomenale, cinque mazzate devastanti che portano con loro la velocità e le sfuriate care al thrash classico, la potenza inesauribile del death metal e la pesantezza del moderno metal estremo statunitense, che fanno di questo esordio un’esplosione di tritolo metallico come pochi.
Come detto la tecnica dei musicisti è di altissimo livello, valorizzata dall’ottimo lavoro in fase di produzione, un songwriting notevole ed ottime idee al servizio di queste cinque detonazioni, una più devastante dell’altra.
Il gran lavoro della sezione ritmica, sommato alle trame chitarristiche di un Vellucci sontuoso, rendono l’ascolto del disco un esaltante tuffo nel metal estremo, un perfetto esempio di cosa può dare il genere in termini di qualità se suonato a questi livelli.
Dall’opener Penance, scelta come singolo e video, l’album è un susseguirsi di vorticosi sali e scendi sulla montagna del metal estremo, la pesantezza di brani come Solipsia, Compelled ed il piccolo capolavoro Nausea è bilanciata da un’enorme fruibilità e freschezza compositiva, abbinata al gran talento per le melodie, scaturite dalla sei corde dell’axeman, perfettamente incastonate nella tregenda ritmica ad opera della coppia Del Monte/Riccardelli.
Tra i solchi di Decaying Human Condition rivivono le gesta dei Death di Chuck Schuldiner, le cavalcate del thrash della Bay Area (Exodus e Testament) e il moderno incedere del nuovo metallo estremo made in U.S.A.: da avere e custodire gelosamente.

TRACKLIST
1. Penance
2. Solipsia
3. Compelled
4. Doppelgänger
5. Nausea

LINE-UP
Gabriele “Arch” Vellucci: Guitar – Vocals
Luca Riccardelli: Bass
Marcello Del Monte: Drums

ABSCENDENT – Facebook

WitcheR – Csendes Domb

Csendes Domb non mancherà di affascinare le anime più oscure e sensibili che si aggirano nel variegato mondo del metal estremo.

Vi presentiamo questo buon esempio di black metal melodico ed atmosferico uscito nella scorsa estate, che non risparmia qualche accenno al doom, mantenendo un impatto sinfonico sufficientemente emozionale.

Gli ungheresi WitcheR sono un duo composto dal polistrumentista Roland Neubauer (chitarra, voce e drum programming) e dalla tastierista Karola Gere e il loro nuovo lavoro, Csendes Domb, non mancherà di affascinare le anime nere che del genere si nutrono.
Accompagnato da una bellissima copertina, l’album scivola per una cinquantina di minuti nel black metal atmosferico e depressivo, le songs mantengono un alone oscuro e magico anche se, purtroppo, una produzione deficitaria è la colpevole di qualche punto perso nella valutazione globale.
Un peccato, perché l’atmosfera del disco ci porta tra le vie di città gotiche, tra monumenti avvolti da una spessa coltre di nebbia, cimiteri dove le tombe sono opere d’arte e la solitudine dell’anima regna sovrana tra le note delle piccole suite scritte dal duo come Coffin Of Birth, I Buried You e Cursing Wind.
Cantato in lingua madre, Csendes Domb risulta un viaggio nel mondo della musica oscura, anche se la melodia è sempre in primo piano ed il metal estremo è sovrastato dalla decadenza dark, pregna di sinfonie eleganti che accompagnano il nostro peregrinare tra le sofferenze dell’animo e i vicoli umidi di città dimenticate dal tempo.
Buon lavoro, molto underground nello spirito e, per questo, ad uso e consumo dei soli fans di un certo modo d’intendere i suoni estremi, Csendes Domb non mancherà di affascinare le anime più oscure e sensibili che si aggirano nel variegato mondo del metal estremo.

TRACKLIST
1. Elvágyódás
2. A születés koporsója/Coffin Of Birth
3. Eltemettelek/I Buried You
4. Az emlékek örökké élnek/The Memories Lives Forever
5. Átkot szór a szél/Cursing Wind
6. Csendes domb
7. The Cloud-Capp’d Towers (Ralph Vaughan Williams cover)

LINE-UP
Roland Neubauer – Drum programming, Guitars, Vocals
Karola Gere – Keyboards

WITCHER – Facebook

Goholor – In Saeculis Obscuris

Sedici minuti sono pochi per dare un giudizio definitivo, ma è vero che , dalla prima all’ultima nota, il sound non si libera delle catene con cui il gruppo ha imprigionato la musica prodotta senza impedire che i quatto brani risultino troppo simili tra loro.

La Symbol Of Domination Prod. licenzia questo esordio di quattro brani dei Goholor, gruppo di malvagi metallari provenienti dalla Slovacchia.

Growl rigorosamente death metal, cavernoso e demoniaco , una violenza oscura e blasfema, proveniente da secoli di marcia putrescenza, formano un sound molto evil, colmo di blast beat, ventate di zolfo e malvagità, buone ritmiche e sei corde in perenne ribasso, così da accentuare l’atmosfera infernale di In Seaculis Obscuris.
Il trio è composto da Anton al microfono, Demo alla sei corde e Pio a spaccare bacchette sul drumkit, un combo arcigno e dal sound che risveglia anime dannate e ci scaraventa nella dannazione eterna.
Behemoth e Dissection, ma anche tanto death metal old school, sono le influenze maggiori che si respirano in queste prime avvisaglie di guerra da parte dei Goholor, che danno tanto in approccio ed impatto, lasciando qualcosa indietro nel songwriting che risulta un po’ troppo monocorde.
Sedici minuti sono pochi per dare un giudizio definitivo, ma è vero che , dalla prima all’ultima nota, il sound non si libera delle catene con cui il gruppo ha imprigionato la musica prodotta senza impedire che i quatto brani risultino troppo simili tra loro.
Un ascolto ai fans del genere più oltranzisti può essere consigliato, aspettando un futuro full length con il quale poter valutare meglio le potenzialità del trio slovacco; per ora i Goholor strappano una sufficienza per via delle buone atmosfere malate e demoniache che comunque l’ep contiene.

TRACKLIST
1.Art Of Infernal Power
2.Naberius Daemon
3.Obscurus Sacramentum
4.Symbols Of Blasphemy

LINE-UP
Anton – vocals
Demo – guitars,vocals
Pio – drums

GOHOLOR – Facebook

Ninja – Into The Fire

L’album è un buon esempio di heavy metal classico supportato da ritmiche hard rock, cadenzato, potente e sfregiato dalle sei corde, che, come affilate katane, tagliano il sound con rasoiate micidiali.

Il micidiale guerriero giapponese, un’ombra che attacca senza paura alcuna e senza pietà, dà il nome a questa band tedesca, attiva già dagli anni ottanta e riportata all’attenzione dei fans del metal classico dalla conterranea Pure Steel, ultimamente alle prese con molti dei gruppi usciti negli anni di massimo splendore per il genere e poi tornati a sprofondare nel silenzio.

Come molti loro colleghi, anche i Ninja uscirono nella seconda metà degli anni ottanta e diedero alle stampe il primo lavoro, precisamente nel 1988 (Invincible); quattro anni più tardi dopo uscì il secondo, Liberty, mentre l’ultimo parto prima del letargo discografico fu Valley of Wolves nel 1997, poi diciassette lunghi anni nell’oblio, prima che Into The Fire torni a far parlare del gruppo.
L’album è un buon esempio di heavy metal classico supportato da ritmiche hard rock, cadenzato, potente e sfregiato dalle sei corde, che, come affilate katane, tagliano il sound con rasoiate micidiali.
Classico german metal, suonato con classe, ottimamente prodotto, molto old school e non può essere altrimenti, ma con una manciata di songs dall’alto potenziale melodico, come da tradizione del true metal di estrazione classica.
Un disco per chi di primavere ne ha viste passare tante, così come i musicisti che formano la band, con Holger vom Scheidt al microfono, cantante che nelle parti heavy si avvicina al mitico Udo Dirkschneider, Ulrich Siefen e Carsten Sperl alle sei corde, Michael Posthaus al basso e Hans Heringer alle pelli.
Si parlava di hard rock, ed infatti i Ninja non disdegnano brani ritmati che portano nella terra dei canguri e al gruppo dei fratelli Young, con gli Accept a far loro compagnia tra le maggiori influenze dei cinque musicisti tedeschi, così che brani come Blood Of My Blood, Coward e Sledgehammer risultano anche i migliori del lotto.
Non manca la melodia in tracce heavy, dal retrogusto epico e battagliero (Masterpiece) ed altre che si avvicinano alle semiballad, marziali e fieri pezzi di metallo melodico per defenders con già molte battaglie sul groppone (Always Been Hell).
Into The Fire è sicuramente consigliato agli amanti dei suoni classici; la produzione, ottima, fa in modo che l’album risulti al passo con i tempi, valorizzando l’ottimo lavoro dei Ninja.

TRACKLIST
1. Frozen Time
2. Thunder
3. Vagabond Heart
4. Masterpiece
5. Hot Blond Shot
6. Always Been Hell
7. Blood Of My Blood
8. Coward
9. Last Chance
10. Sledgehammer
11. Supernatural
12. Into The Fire

LINE-UP
Hans Heringer – drums
Holger vom Scheidt – vocals
Ulrich Siefen – guitars
Michael Posthaus – bass
Carsten Sperl – guitars

NINJA – Facebook

https://soundcloud.com/puresteelrecords/ninja-thunder