Vanad Varjud – Dismal Grandeur in Nocturnal Aura

Quattro lunghi brani ci introducono in un mondo in cui la musica ambient, così come la conosciamo, viene di volta in volta spazzata via da accelerazioni comunque sempre abbastanza controllate, passaggi dalle sfumature epiche o progressioni piuttosto evocative.

Secondo album per i Vanad Varjud, band della quale poco si sa, se non che trattasi di un trio estone dedito ad un black ambient dai tratti ben poco rassicuranti.

Quattro lunghi brani ci introducono in un mondo in cui la musica ambient, così come la conosciamo, viene di volta in volta spazzata via da accelerazioni comunque sempre abbastanza controllate, passaggi dalle sfumature epiche o progressioni piuttosto evocative.
In effetti il lavoro può soffrire in parte di questa sua discontinuità, ma non si può negare che l’operato dei Vanad Varjud sia comunque meritevole di una certa attenzione. Forse lo screaming e un po’ troppo sgraziato, se rapportato al tipo di sound offerto, e Ott Kadak fatica specie quando deve spiegare la voce in senso melodico.
Il picco dell’album è senz’altro l’ottima Gloomy Sunday , mid tempo dalle azzeccate armonie chitarristiche in cui tutto funziona al meglio, avvicinando per attitudine un act estroso come gli A Forest of Stars.
Dismal Grandeur in Nocturnal Aura è quindi un lavoro di buona fattura, ancor più apprezzabile per la volontà dei nostri di non limitarsi ad un compitino privo di rischi, ma dando sfoggio, invece, di un sound a tratti grezzo ma senz’altro efficace e coinvolgente.

Tracklist:
1. Tume Kamber
2. Winter’s Dawn
3. Dismal Dusk
4. Gloomy Sunday

Line-up:
Thon – Drums, Vocals (backing), Piano
Sorts – Guitars, Bass, Fx
Ott Kadak – Vocals (lead)

VANAD VARJUD – Facebook

Aspercrucio – Dead Water

Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà

La Russia è l’ultima frontiera del metal gotico e romantico, lo è per quantità ma anche per qualità.

Non sono poche, infatti, le band provenienti da quelle lande che si sono rese autrici negli ultimi anni di ottime prove, più o meno estreme o comunque intrise di una componente doom. I siberiani Aspercrucio appartengono a questo novero e, come avvenuto per altre band dell’area ex-sovietica, la Nihil Art ha contribuito a promuovere fuori dai confini il lavoro già edito dalla Dark East, rendendolo più appetibile con la diffusione di note biografiche particolareggiate e rendendo comprensibili ai più i titoli dell’album e dei brani, grazie alla loro traduzione in inglese.
Infatti, il gothic doom degli Aspercrucio è cantato interamente in lingua madre, il che tutto sommato non incide più di tanto sulla sua fruibilità, visto che poi alla fine è sempre la musica a parlare e che, comunque, al giorno d’oggi ottenere una traduzione dei testi è piuttosto agevole.
L’aspetto principale di Dead Water è però il suo essere una sorta di emanazione del gothic doom novantiano: romantico, orecchiabile, con un bel lavoro solista delle chitarre, una tastiera che conduce le danze senza essere invadente ed il growl molto efficace del leader Stanislav Filinov, riporta piacevolmente alla memoria gli Evereve quand’erano ancora guidati dal povero Tom Sedotschenko, oppure quella scuola olandese che aveva per protagonisti, oltre ai più noti The Gathering, nomi “minori” come Moon Of Sorrow, Celestial Season ed Orphanage .
Un recupero di sfumature del passato che non odora di stantio, anzi: i ragazzi russi riescono ad imprimere al loro sound una notevole freschezza, grazie a brani efficaci, dotati di passaggi ben memorizzabili, ottimamente eseguiti e soprattutto ammantati di una gradita sobrietà (vedasi anche l’uso appropriato degli inserti vocali femminili), nel senso che non si ricorre mai a soluzioni debordanti per cercare di stupire ad ogni costo.
Pertanto, gli amanti del genere avranno di che godere ala cospetto di brani di ottima fattura come Broken Heart, Dreams e soprattutto Silence … Despair, canzone di oltre diciassette minuti che chiude l’album e che mette in mostra la capacità di offrire sonorità di volta in volta drammatiche, evocative ed intrise di splendide.
Tutto ciò è quanto gli Aspercrucio sono in gradi di offrire: oggettivamente, non poco.

Tracklist:
1.The Darkness Inside
2.Endless Leaf Fall
3.Broken Heart
4.Abyss
5.Alien Reflection
6.Dreams
7.Silence… Despair

Line-up:
Stanislav Filinov – guitars, vocals
Ahndor Yukhnevich – guitars, vocals
Mikhail Sartakov – bass guitar
Natalia Stupina – keyboards
Alexander Schukin – drums

Thenighttimeproject – Thenighttimeproject

Il lavoro omonimo dei Thenighttimeproject è senz’altro apprezzabile ed è vivamente consigliato a chi si nutre di quelle sonorità delicate e soffuse alle quali ci hanno abituato, appunto, i Katatonia.

Probabilmente, qualche anno dopo essere uscito dai Katatonia per dedicarsi quasi a tempo pieno agli October Tide, a Fredrik Norrman cominciano a mancare quelle sonorità più pacate e rarefatte.

Potrebbe essere nata da qui l’esigenza di dar vita ad un progetto come Thenighttimeproject, con il quale il musicista svedese si ritrova a competere sullo stesso terreno della premiata ditta Nyström/Renkse.
Ovviamente, di suo Norrman ci mette un gusto più dark, con qualche spruzzatina di elettronica che avvicina la proposta, in certi frangenti, alla new wave più intimista.
L’operazione riesce abbastanza bene, anche se, così come per tutta la produzione dei Katatonia nel nuovo millennio, non riesce a conquistarmi totalmente; il disco scorre via fluido, con le sue sonorità crepuscolari che disegnano sullo sfondo uno scenario grigio e brumoso, in cui l’apparizione di qualche raggio di sole pare essere un’opzione non prevista, ma la tragedia umana che covava sotto sotto le magnifiche melodie di capolavori come Discouraged Ones e Tonight’s Decision è ben lungi dall’essere rievocata sia dalla band che ne è stata autrice, sia dalle sue varie derivazioni.
Qui, in un contesto dal buon livello medio, alcuni brani colpiscono per la loro dolente eleganza, in particolare l’accoppiata Caustic Reflection, efficace e malinconica pennellata di classe cristallina, e la successiva e più ammiccante Dissolve, che spicca per il suo andamento più sincopato rispetto agli altri episodi.
La voce di Tobias Netzell (In Mourning) si confà al genere anche se il suo registro mostra ben poche variazioni sul tema, mentre Norrman (che per una volta si occupa in prima persona anche del basso rinunciando al contributo del fratello Mattias) si destreggia mostrando la consueta maestria con tutti gli strumenti , ad eccezione della batteria affidata a Nicklas Hjertton.
Il lavoro omonimo dei Thenighttimeproject è senz’altro apprezzabile, pur non facendo gridare al miracolo, ed è vivamente consigliato a chi si nutre di quelle sonorità delicate e soffuse alle quali ci hanno abituato, appunto, i Katatonia o gli stessi Antimatter.

Tracklist:
1. The Annual Loss
2. Oneiros
3. Caustic Reflection
4. Dissolve
5. Among Reptiles
6. Empty Signs
7. Amends
8. Desert Prayers

Line-up:
Tobias Netzell – Vocals
Fredrik Norrman – Guitars, Bass, Keyboards
Nicklas Hjertton – Drums

THENIGHTTIMEPROJECT – Facebook

Escarre – Une voûte sans clef

Non si può certo considerare questo degli Escarre un esperimento fallito, anche se alla fine il bacino d’utenza a cui i contenuti di Une voûte sans clef vengono rivolti è necessariamente molto ristretto: chi si riconosce in questa cerchia, però, potrebbe apprezzare il tutto non poco.

Il trio canadese Escarre arriva da molto più lontano rispetto a quanto faccia pensare il fatto che Une voûte sans clef ne risulti l’album d’esordio.

Infatti, i primi passi del progetto sono rinvenibili già ad iniziò secolo quando, con il monicker Esker, vennero dati alle stampe tre demo.
Di fatto, la band riunisce tre musicisti provenienti da due band funeral doom piuttosto quotate, Longing For Dawn e Towards Darkness, ma il sound proposto è ben lontano da quei lidi anche se, specie nella prima, una certa vena sperimentale è sempre stata presente.
L’avantgarde metal degli Escarre racchiude, così, in sé pregi e difetti insiti in questa definizione: molti spunti interessanti finiscono sepolti all’interno di un sound dissonante, di assimilazione dannatamente complessa e con l’aggravante della scelta di optare per vocals pulite invero poco incisive piuttosto che per soluzioni più grintose e, a mio avviso, più consone alla robustezza di fondo del sound.
Scelte che, come detto, non favoriscono la fruizione di un lavoro impeccabile dal punto di vista esecutivo, dato che i nostri dimostrano d’essere degli ottimi musicisti, ma Une voûte sans clef sembrerebbe essere più una lecita valvola di sfogo per chi è abituato a sonorità maggiormente controllate e, ovviamente, rallentate.
Gli Escarre esibiscono più di una volta passaggi brillanti che la natura avanguardistica dell’album finisce per disperdere benché il trio, gli va dato atto, non indulga nemmeno più di tanto in onanismi strumentali che sovente sono connessi ad uscite di questo tipo.
Difficile memorizzare un brano in particolare (ma non credo neppure che questo fosse tra gli obiettivi dei nostri), anche se si ricordano piacevolmente la seconda parte della lunga Heurt violin, il successivo strumentale Méandres triangulaires ed il più arioso finale di Une ciguë pour cure.
In definitiva, non si può certo considerare questo degli Escarre un esperimento fallito, anche se alla fine il bacino d’utenza a cui i contenuti di Une voûte sans clef vengono rivolti è necessariamente molto ristretto: chi si riconosce in questa cerchia, però, potrebbe apprezzare il tutto non poco.

Tracklist:
1. Mon ordalie
2. Heurt violine
3. Méandres triangulaires
4. Une fenêtre oubliée
5. Une ombre anémiée
6. Scène immobile
7. Mysticisme psychotrope
8. Une ciguë pour cure

Line-up:
Kevin Jones – Bass
François C. Fortin – Drums
Simon C. Bouchard – Vocals, Guitars, Keyboards

ESCARRE – Facebook

Phobous – Realm Of Disorder

Phobous è il progetto solista dello statunitense Donald Schieck, che propone un black melodico ed atmosferico dai risultati contraddittori.

Il sound proposto dal musicista californiano si rivela tutto sommato accettabile finché sono le tastiere a condurre le danze, senza far gridare al miracolo ma facendo risultare almeno gradevoli i brani; i problemi emergono allorché entra in scena una chitarra dai suoni approssimativi che, se non fa neppure troppi danni nella fase iniziale del lavoro, si rivela addirittura grottesca in una traccia come Slaughter Through Seduction, un vero e proprio pasticcio che sconfina in ritmiche vicine al power metal: qui, davvero, non ci si capacita di come un musicista, fino a quel momento autore di una prova non memorabile ma quanto meno dignitosa, non si renda conto di quanto sia inaccettabile proporre nel 2016 soluzioni così raffazzonate.
Francamente, un episodio di tale fattura comprometterebbe anche lavori di livello ben superiore e, nel contesto, appare quasi come una pernacchia al termine di una solenne orazione funebre.
Realm Of Disorder avrebbe faticato comunque a raggiungere la sufficienza, a causa di diverse imperfezioni che qualche discreto spunto (Purest Light, Blackest Shadow) non riesce a far passare in secondo piano; il diy portato alle estreme conseguenze, in questo caso non fornisce i frutti sperati e Phobous non può essere oggi un progetto competitivo in un mercato iper saturo.

Tracklist:
01. Realm of Disorder
02. Blood Ties to Bloodshed
03. Purest Light, Blackest Shadow
04. Chains Upon My Aura
05. Vain Sacrifice and Desperate Hope
06. Patriot Storm
07. Slaughter Through Seduction
08. Chosen Bereavement

Line-up:
Donald Schieck: vocals, guitar, bass, keyboard, drum programming

PHOBOUS – Facebook

Grey Heaven Fall – Black Wisdom

In quest’album non si inseguono vanamente i nomi di punta del black/death, bensì vengono ampliati non poco gli orizzonti sonori grazie ad un impeto avanguardistico sempre equilibrato e ben sorretto dalla tecnica individuale.

I russi Grey Heaven Fall sono una realtà ben più che interessante, in quanto portatori di una proposta musicale a suo modo originale o, perlomeno, capace di differenziarsi il giusto dalla massa riuscendo così a spiccare in maniera netta.

Infatti, nel black/death che ne costituisce l’asse portante, il trio di Podolk immette un tecnicismo asservito al mantenimento di una tensione costante del sound, ed è proprio grazie a ciò che la bravura di questi musicisti non resta un esercizio fine a sé stesso e trova sbocco, invece, in un’ora di musica certamente impegnativa, ma talmente ricca di spunti da riuscire nell’intento di tenere alla larga ogni parvenza di noia.
Quelli che, in molti dischi prodotti da band con la stessa attitudine, si rivelano passaggi solo cervellotici, in Black Wisdom si ammantano di oscurità, giungendo persino ad evocare un mood malinconico che parrebbe antitetico alle robuste partiture della band russa: in quest’album non si inseguono vanamente i nomi di riferimento del genere suonato, bensì vengono ampliati non poco gli orizzonti sonori grazie ad un impeto avanguardistico sempre equilibrato e ben sorretto dalla tecnica individuale.
Black Wisdom trova la sua sublimazione in un ascolto attento e non frammentato, essendo un album che va consumato nella sua interezza perché possa appagare in maniera totale tutti i sensi: già, perché qui la tensione prodotta da un sound di rara profondità si assapora, si tocca, si annusa e si osserva; velenosa ed amara, come i suoi testi critici nei confronti della religione (cantati in lingua madre ma lodevolmente restituiti in inglese nella confezione curata dalla Aesthetics Of Devastation), la musica dei Grey Heaven Fall si esalta nella sua reiterazione, annichilendo una potenziale concorrenza magari di pari livello per maestria tecnica ma inferiore per efficacia e sintesi del songwriting.
Cito ad esempio solo To The Doomed Sons Of Erath, un brano che lacera l’anima con le sue dissonanze che non riescono ad imprigionare un afflato melodico e drammatico come di rado è dato ascoltare, ma mi spingo a anche a rimarcare assoli chitarristici di grande classe che spiccano come oasi improvvise nel cuore di maelstrom sonori quali Spirit of Oppression e That Nail in a Heart ; black, death, doom, progressive, ambient, in Black Wisdom entra tutto questo ma viene risputato fuori in una forma che non appartiene di diritto ad alcun illustre progenitore.
Vi diranno che ci possono essere somiglianze con il black avanguardistico di band come Deathspell Omega o Blut Aus Nord: sarà anche vero, ma secondo me i Grey Heaven Fall superano a tratti anche questi inattaccabili esempi, in virtù di un’espressione sonora che nasce da un sentire profondo, da un’inquetuidine che trova sfogo in una furia metronomica ma nel contempo inarrestabilmente creativa.
Black Wisdom è un disco che quando entrerà in circolo lascerà strascichi irreparabili, sappiatelo.

Before trying to find God in beauty, look for him in the deepest abomination

Tracklist:
1.The Lord is Blissful in Grief
2.Spirit of Oppression
3.To the Doomed Sons of Earth
4.Sanctuary of Cut Tongues
5.Tranquillity of the Possessed
6.That Nail in a Heart

Line-up:
Arsagor – Guitars, Vocals
SS – Bass
Pavel – Drums

GREY HEAVEN FALL – Facebook

Doom Architect – Sententia Prima

A fronte di una relativa personalità esibita nell’interpetazione del genere, va detto che i quaranta minuti regalati dai Doom Architect scorrono via in maniera molto piacevole.

Secondo album per i russi Doom Architect, duo composto da Alexandr Mikhaylov e Marina Kuznetsova, attivi anche nella band heavy metal Волновой Фронт.

Come da ragione sociale, è il doom a predominare nel sound di questo Sententia Prima, offerto nella sua veste connessa al death ma con un’impronta molto melodica: a fronte di una relativa personalità esibita nell’interpretazione del genere, va detto che i quaranta minuti regalati dalla coppia scorrono via in maniera molto piacevole, grazie ad una buona capacità di scrittura e alla rinuncia a soluzioni cervellotiche, favorendo una fluidità ed ascoltabilità non sempre scontata.
Il growl di Alexandr è apprezzabile, così come il suo lavoro chitarristico, vario ed incisivo, mentre Marina tesse atmosfere efficacemente lineari con le sue tastiere.
Tra i sei brani presentati segnalerei Embracing the Void e, soprattutto, la conclusiva Light of Inner Flame, caratterizzata da pregevoli linee chitarristiche dai tratti melodici e dolenti.
Sententia Prima è decisamente un buon lavoro, magari non di primissima fila, ma ugualmente degno di qualcosa in più rispetto ad un ascolto distratto.

Tracklist:
1. At the Bound of Death
2. Leaving the Shadows
3. Detachment
4. Embracing the Void
5. Astral Wind
6. Light of Inner Flame

Line-up:
Alexandr Mikhaylov – Guitars, Vocals
Marina Kuznetsova – Keyboards

Enisum – Arpitanian Lands

La bontà di Arpitanian Lands risiede particolarmente nella capacità degli Enisum di esprimere una cifra stilistica piuttosto personale che, sovente, esula dal black vero e proprio per spingersi su terreni molto più melodici ed evocativi.

Sono sempre di più le band italiane dedite ad un black metal che, pur non rinnegando le radici del genere, ben affondate nelle gelide foreste scandinave, traggono ispirazione dalle proprie terre di provenienza conferendo al sound un’aura differente, arricchendolo a seconda dei casi di elementi folk, pagan o ambient.

Gli Enisum arrivano dalla Val di Susa (una zona del nostro paese che, come altre, sta per essere stuprata in nome di logiche mercantili contro il volere delle popolazioni, ma questa è purtroppo un’altra storia), ed il monicker altro non è che la trascrizione al contrario di Musinè, montagna simbolo della vallata nonché, a vario titolo, teatro di leggende e misteri.
Il progetto fondato nello scorso decennio da Lys (all’epoca con il nome d’arte di Silentium) dopo cinque lavori realizzati in autonomia tra il 2006 ed il 2013, negli ultimi anni ha assunto la forma di band vera e propria con l’ingresso in formazione di Leynir (basso), Dead Soul (batteria) ed Epheliin (voce femminile).
Come spesso accade, questo consente al musicista che ha in mano le redini del gruppo di progredire ulteriormente dal punto di vista compositivo, avvalendosi di un confronto costante con altri membri, e questo pare essere accaduto anche a Lys: se già Samoht Nara era un buon album, Arpitanian Lands costituisce un ulteriore salto di qualità, spingendo il sound su e già per gli impervi pendii delle vallate, ora con le accelerazioni tipiche del genere, ora con ariose aperture di matrice post black.
Se uno dei gruppi ispiratori degli Enisum, anche per ammissione dello stesso Lys, sono i Wolves In The Throne Room (oltre ai magnifici quanto sottovalutati Lunar Aurora) , non bisogna aspettarsi di trovare in questo lavoro esclusivamente le tipiche sonorità cascadiane, se non sotto forma di inevitabili riferimenti piazzati qua e là (soprattutto nel brano utlilizzato per realizzare il video ufficiale, Desperate Souls): la bontà di Arpitanian Lands risiede particolarmente nella capacità degli Enisum di esprimere una cifra stilistica piuttosto personale che, sovente, esula dal black vero e proprio per spingersi su terreni molto più melodici ed evocativi.
In tal senso i tre brani maggiormente caratterizzanti sono Chiusella’s Waters, in cui una sognante coralità si alterna all’ottimo lavoro chitarristico, Fauna’s Souls, dall’anima folk pur se non del tutto esplicita, e la meravigliosa The Place Where You Died (anche qui i WITTR fanno capolino, specie nella sua prima metà): ovviamente pure queste tracce sono screziate dal robusto incedere ritmico e dallo screaming di Lys, ma le armonie sullo sfondo creano un substrato emotivo che ben si addice alla dichiarazione d’amore per una natura che continuerà a sovrastare, fino agli ultimi attimi di vita di questo pianeta, la razza umana e la sua protervia .
Arpitanian Lands è un ottimo album e non ci sono scuse plausibili per ignorarlo.

Tracklist:
1. Arpitanian Lands
2. Alpine Peaks
3. Chiusella’s Waters
4. Mountain’s Spirit
5. Rociamlon
6. Fauna’s Souls
7. The Place Where You Died
8. Desperate Souls
9. Sunsets on My Path

Line-up:
Lys – guitar, vocals
Leynir – bass
Dead Soul – drums
Epheliin – vocals

ENISUM – Facebook

Ancient Spheres – In Conspiracy with the Night

Progredire è d’obbligo ed appare comunque un’impresa possibile: un minimo di personalità in più e un aggiustamento dei suoni potrebbero rendere competitivi in futuro gli Ancient Spheres

Gli Ancient Spheres sono esponenti di una scena estrema costaricense in crescita, nella quale ci siamo peraltro già imbattuti di recente con l’ottimo album dei Black Whispers.

Qui la materia trattata è il black metal nella sue vesti più tradizionali: In Conspiracy with the Night è il secondo full length da parte di una band che si dimostra in grado di interpretare più che dignitosamente il genere, ma che appare ancora lontana dal raggiungimento di quegli standard necessari per consentire al trio di emergere.
A fronte di buone intuizioni è talvolta è l’esecuzione strumentale a fare difetto, con sbavature che in un regime di concorrenza così spinta non ci si possono consentire. Peccato, perché alcuni brani (la più rallentata Ethereal ed Emperors of the Night) possiedono un incedere convincente ed appaiono ben inseriti nei canoni del genere ma, proprio alla luce di questo, se non funziona tutto alla perfezione o quasi, vengono inevitabilmente meno i possibili motivi di interesse per l’ascoltatore.
Progredire è d’obbligo ed appare comunque un’impresa possibile: un minimo di personalità in più e un aggiustamento dei suoni potrebbero rendere competitivi in futuro gli Ancient Spheres all’interno di una scena più affollata di una metropolitana nelle ore di punta.

Tracklist:
1. Enchantment of the Night
2. Invoking Darkness
3. A Tale Told Two Thousand Times
4. Ethereal
5. Emperors of the Night
6. The Sign
7. My Ancient Spirits
8. Slaughters
9. The Old Forest
10. Cold and Dead Stone
11. In Solitude I Die
12. Lord of the Morbid Ritual
13. Chaos Compass
14. Serkes
15. Sands of Oblivion

Line-up:
Adolfo Bejarano – Guitars
Yeudiel Chacón – Bass, Vocals
Raymondsz – Drums

ANCIENT SPHERES – Facebook

Wisdom Of Shadows – Sciah Vosieni

Sciah Vosieni è un lavoro tutto sommato affascinante, con diversi picchi di intensità, che forse potrebbero aumentare numericamente se la proposta venisse leggermente differenziata

Il duo bielorusso Wisdom Of Shadows si è affacciato sulla scena con una certa decisione all’inizio del 2015, praticamente con un’uscita al mese fino a maggio: Sciah Vosieni è, tra queste, la seconda su lunga distanza, almeno nominalmente vista la durata di entrambe di poco superiore alla mezz’ora.

Detto questo, l’atmospheric black proposto da questa coppia di musicisti è tutt’altro che trascurabile: belle orchestrazioni, un sound a tratti epico, a volte maestoso, ma sempre con una punta di algida malinconia; Sciah Vosieni non rappresenta qualcosa di nuovo ma neppure di così troppo scontato, e per di più viene eseguito con una buona proprietà e sufficiente personalità.
L’album, anche se tecnicamente non lo sarebbe, di fatto possiede un impronta prevalentemente strumentale, visto che le vocals di Deni Dark restano troppo in sottofondo, rivelandosi un minaccioso rantolo in lontananza che integra senza disturbare l’incedere delle belle melodie prodotte da Erebor.
D’altra parte, la lunghezza più appropriata a quella di un ep si traduce in un vantaggio, stante un pizzico di ripetitività dei temi portanti, che si traduce in un peccato solo veniale grazie alla loro efficacia ed evocatività.
Personalmente questa è una soluzione che apprezzo molto, catalogabile come una forma meno introspettiva della musica ambient, con la quale ha in comune una sua collocazione ideale in sottofondo, alla luce di sonorità suadenti ma non banali, pur se memorizzabili.
Sciah Vosieni è un lavoro tutto sommato affascinante, con diversi picchi di intensità che, forse, potrebbero incrementarsi se la proposta venisse leggermente differenziata e gli Wisdom Of Shaodws la rendessero meno dispersiva, raggruppando il materiale composto in poche e mirate uscite.

Tracklist:
1. U Abdymkach Sonca (Intro) (In Embrace of Sun)
2. Sciah Vosieni (Flag Of Fall)
3. Razvitannie z Zimoj (Farewell to Winter)
4. Piesnia Viatrou (Song Of Winds)
5. Pa-Za…(Outro) (Outside)

Line-up:
Erebor
Deni Dark

WISDOM OF SHADOWS – recensione

Camel Of Doom – Terrestrial

Gli inglesi Camel of Doom sono una band attiva ormai dagli inizi del nuovo millennio e Terrestrial è la loro quarta prova su lunga distanza.

Come da ragione sociale, il genere trattato è ovviamente il doom, ma questo viene maneggiato con sperimentale padronanza ed un’aura cosmica che in certi momenti avvicina il suono a quello dei Monolithe.
La proposta dei britannici è, però, molto più inquieta, sfuggendo più di una volta all’orbita del genere per poi rientrarvi repentinamente con rallentamenti mortiferi.
Terrestrial , con queste premesse, non può essere quindi un album di agevole fruizione ma è decisamente un’opera di grande spessore; qui il sentimento prevalente che scaturisce è l’inquietudine piuttosto che il dolore o la commozione e, a differenza di questi ultimi due stati d’animo, tende a stabilizzarsi senza trovare alcuno sfogo.
Una sorta di implosione che si protrae per oltre un’ora senza provocare stanchezza, grazie a un livello di tensione costantemente alta e ad un sempre eccellente lavoro del leader Kris Clayton (con un passato negli Imindain e, come chitarrista dal vivo, negli Esoteric), il quale si occupa di tutti gli aspetti ad esclusione della base ritmica. A livello vocale, Clayton opta per uno screaming/growl di matrice sludge, mentre gli altri strumenti vengono utilizzati per un risultato d’insieme che è antitetico a protagonismi di matrice solista.
Anche se soggiace ad una suddivisione per brani, di fatto Terrestrial va inteso come un flusso sonoro continuo, in cui la malinconia lascia spazio ad uno sgomento ora rabbioso, ora rassegnato: i Camel Of Doom non mollano mai la presa, un malessere cosmico aleggia in ogni passaggio rendendo persino difficile una catalogazione certa del sound proposto; dovendo scegliere un momento dell’album, direi che Pyroclastic Flow svetta grazie anche al terrificante contributo del basso di Simon Whittle e al misurato gusto elettronico conferito alla traccia dalle tastiere di Clayton.
Un grande disco che mi lascia in eredità un senso di straniamento che, solo di rado, la musica mi provoca (per esempio con gli album più sperimentali dei Blut Aus Nord, anche se potrebbe sembrare una accostamento ardito vista la diversità dei generi trattati): dannatamente pericoloso ed altrettanto efficace.

Tracklist:
1. Cycles (The Anguish of Anger)
2. A Circle Has No End
3. Pyroclastic Flow
4. Singularity
5. Nine Eternities
6. Euphoric Slumber
7. Sleeper Must Awaken
8. Extending Life, Expanding Consciousness

Line-up:
Simon Whittle – Bass
Ben Nield – Drums
Kris Clayton – Guitars, Vocals, Keyboards

CAMEL OF DOOM – Facebook

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Riccardo Storti / Fabio Zuffanti – Prog Rock: 101 dischi dal 1967 al 1980

Prog Rock è un libro che nasce dalla voglia di trasmettere senza alcuna reticenza un sapere che è frutto, anzitutto, di una grande passione per la musica.

Entrando in qualsiasi libreria, ci si trova spesso di fronte a volumi, talvolta ponderosi, intitolati i “100 migliori dischi del ….” dove, al posto dei puntini, si può inserire un genere musicale a piacere.

Parliamo, quindi, di un tipo di operazione che sovente si rivela piuttosto arida, trasformandosi in una sequela di recensioni postume raggruppate in un volume, per di più con la pretesa nemmeno troppo velata, da parte dell’autore, di attribuire un valore assoluto alle proprie scelte.
Ci si potrebbe legittimamente chiedere, allora, perché possa valere la pena di acquistare questo Prog Rock – 101 dischi dal 1967 al 1980: ebbene, a parte la scelta bizzarra di non voler fare cifra tonda, la differenza sostanzialmente sta soprattutto in chi lo ha scritto e nelle modalità di selezione dei dischi prescelti.
Gli autori di quest’opera sono infatti i genovesi Fabio Zuffanti, uno dei musicisti contemporanei dediti al progressive tra i più noti ed attivi nella scena italiana, e Riccardo Storti, grande esperto della materia e suo compagno d’avventura nella trasmissione televisiva Astrolabio, in onda su Teleliguria, in collaborazione con il Centro Studi per il Progressive Italiano.
In questo caso i due autori riescono a completarsi alla perfezione, per cui alla competenza tecnica del musicista si aggiunge la conoscenza enciclopedica del saggista/appassionato, dando vita ad un lavoro che, pur non avendo l’ambizione d’essere esaustivo, rappresenta uno spaccato fondamentale di un movimento musicale che, volenti o nolenti, in quegli anni non ha solo cambiato il corso della musica, ma ha costituito una vera e propria espressione culturale a sé stante, trovando un terreno particolarmente fertile nel nostro paese.
Il libro è stato inizialmente ideato dal solo Zuffanti (che, per chi lo ignorasse, è il fondatore di band come Finisterre, Höstsonaten, La Maschera di Cera e, oggi, è attivo con il progetto che porta il suo nome), il quale, scelti i 101 dischi, è ricorso al fondamentale aiuto dell’amico per completare un lavoro mastodontico che ha richiesto diversi anni di lavoro, non essendo stato lasciato nulla al caso nella descrizione di ogni album, fin nei suoi più reconditi dettagli.
Come sottolineato argutamente da qualcuno, in occasione della presentazione del libro avvenuta presso la Libreria Feltrinelli nel capoluogo ligure, di fatto le scelte effettuate da Zuffanti sono inattaccabili in quanto dichiaratamente soggettive, prive quindi dell’ambizione di trasformare un elenco di preferenze in una vera e propria classifica da imporre al lettore.
Nonostante tutto, nel fare questo, i nostri sono ricorsi ad un stratagemma, ovvero quello di non citare più di un album accreditato ad ogni singola band (o musicista): in tal modo si è evitato di saturare il libro con le intere discografie dei gruppi maggiori (King Crimson su tutti, come affermato esplicitamente parlando di In The Wake Of Poseidon), optando piuttosto per una disamina della singola opera, integrata da una panoramica su tutti i restanti lavori.
Un altro criterio utilizzato, che potrebbe far storcere il naso a qualcuno tra gli appassionati più integralisti, è stato quello ampliare lo spettro delle scelte a tutta la musica definibile progressiva in senso lato, intendendo come tale quella che all’epoca sfuggiva alle regole del pop ed alla codificata alternanza strofa-ritornello: questo ha fatto sì che il primo disco ad essere preso in esame sia stato niente meno che Sgt.Pepper dei Beatles, mentre in chiusura è stato collocato Symphonye Celtique del bardo Alan Stivell.
E’ evidente quanto questi due nomi siano d’istinto difficilmente collocabili all’interno del genere così come lo abbiamo sempre inteso, con la logica del negozio di dischi che ha la necessità di incasellare cd o vinili in un settore piuttosto che in un altro, ma è anche grazie a questo che molti, magari, scopriranno che quell’Alan Sorrenti dai più ricordato come la pop star bianco vestita che cantava Figli delle Stelle, è lo stesso autore di Aria, uno dei dischi fondamentali per l’intero movimento.
E ancora, se tra gli artisti italiani troveremo figure “insospettabili” come Battisti, Branduardi, Fortis, Lolli o, un po’ meno a sorpresa, Battiato, non mancano tutti i nomi storici più ordinariamente associabili al genere (inutile citarli), italiani e non, oltre che aperture verso il cosiddetto kraut rock, rappresentato dai dischi di Tangerine Dream, Popol Vuh e Klaus Schulze.
Il libro si occupa, quindi, per lo più di nomi noti ma senza ignorare realtà misconosciute, come diversi gruppi operanti al di là di quella che, a quel tempo, veniva definita “cortina di ferro”; anche per questo il lavoro di ricerca effettuato da Storti e Zuffanti acquisisce ulteriore valore, alla luce delle innumerevoli notizie che accompagnano anche la descrizione di album che non riscossero successo neppure all’epoca.
Per assurdo, proprio la dovizia di particolari talvolta appesantisce la lettura, specie quando si vivisezionano singoli brani spaccando il minuto ed i secondi, oppure quando l’analisi della tecnica musicale si trasforma in terreno per iniziati, risultando non sempre di facile comprensione per chi non sa tenere in mano uno strumento.
Un eccesso di zelo del tutto perdonabile, derivante da una voglia di trasmettere senza alcuna reticenza un sapere che è frutto, anzitutto, di una grande passione per la musica: Prog Rock è un libro che andrebbe letto e riletto dai più giovani, i quali avrebbero così la possibilità di scoprire che le sonorità amate dai loro genitori sono ancora più che mai attuali, nonostante i parametri odierni di misurazione del tempo sembrino farli risalire ad epoche ancor più remote.
Nel contempo, dai più attempati miei coetanei auspicherei una maggiore apertura verso quanto viene prodotto ai giorni nostri, perché il “pericolo” derivante dalla lettura un libro come questo, per gli appassionati di prog che hanno superato gli ‘anta, è proprio quello di farli ripiegare ancor più su un momento della storia musicale a suo modo irripetibile, spingendoli a trascurare per partito preso chi cerca di promulgarne la tradizione rielaborandola con un sentire più moderno.
In sintesi, la mia esortazione è: andiamo pure a goderci i concerti delle band storiche ancora attive o delle stesse tribute band, che ripropongono con rigore quasi filologico le gesta dei grandi del passato, ma non dimentichiamo mai di supportare anche chi propone musica originale, per favore …

P.S.: Non riuscendo a resistere alla tentazione di individuare un album mancante in Prog Rock (sempre in ossequio a quella soggettività nelle scelte che sta alla base dell’opera, sia chiaro), un giochino che coinvolgerà fatalmente chiunque lo avrà tra le mani, indico Before And After Science di Brian Eno, datato 1977: neppure questo si può definire un lavoro ortodossamente progressive ma, con i criteri di inserimento adottati, non avrebbe affatto sfigurato.

pagine 409
€25.00

FABIO ZUFFANTI – Bandcamp

RICCARDO STORTI – Facebook

FABIO ZUFFANTI – Facebook

Abyssus – Once Entombed …

Once Entombed è un buon modo per avere in mano praticamente il meglio inciso in questi anni dalla band.

Tornano, a distanza di pochi mesi gli Abyssus di Kostas Analytis, trio ellenico di cui vi avevamo parlato a suo tempo per l’uscita del primo full length, Into The Abyss.

Once Entombed è una compilation che pesca da tutti il lavori fin qui usciti sotto il moncker Abyssus, pescando dai primi ep e split della band, con l’aggiunta di una manciata di cover.
Per chi non conoscesse il gruppo, la sua proposta segue le coordinate del death metal old school, con chiari riferimenti alla scena statunitense (primi Obituary), con qualche sconfinamento nel thrash dei maestri Slayer.
Come vi avevamo riferito nel precedente articolo, il trio che vede Analytis sbraitare nel microfono nefandezze, su morte, guerra e horror di serie B, Panos Gkourmpaliotis accompagnare il leader con riffoni di putrido death/thrash e Costas Ragiadakos seguire il passo dei due compari con le quattro corde, risulta il classico gruppo, palla lunga e pedalare, tra velocità, classici rallentamenti e fulminee ripartenze in quarta marcia.
Un sound che si avvale di un impatto ed un’attitudine old school, confinando i nostri tra le band esclusiva dei soli fans più incalliti.
Questo nuovo lavoro è interessante soprattutto per le cover, che sguazzano tra il thrash crucco dei Sodom (Outbreak of Evil), il punk degli Exploited (Chaos Is My Life), il death/doom degli immensi Asphyx (Deathhammer) e i tributi a gruppi intoccabili del metal estremo come Death (Sacred Serenity) e Slayer (Postmortem).
Il resto non si discosta da quanto offerto nel primo full length, la produzione rimane old school seguendo pari passo il sound, così come il disegno di copertina con un cimitero in bella mostra, molto fumettistico e senza pretese.
Per gli amanti del genere, gli Abyssus possono riservare poche sorprese, ma tanta attitudine, virtù che nell’underground è ben gradita: a chi è piaciuto Into The Abyss, Once Entombed si rivelerà un buon modo per avere in mano il meglio inciso in questi anni dalla band.

TRACKLIST
1. Phobos
2. Chaos Is My Life (The Exploited cover)
3. Morbid Inheritance
4. Summon the Dead
5. Sacrifice
6. Remnants of War
7. Outbreak of Evil (Sodom cover)
8. Days of Wrath
9. Remnants of War
10. Left to Suffer
11. Unleash the Storm
12. Deathhammer (Asphyx cover)
13. Servants to Hypocrisy
14. Reprisal
15. Left to Suffer
16. Compromised
17. No Tolerance
18. Sacred Serenity (Death cover)
19. Postmortem (Slayer cover)

LINE-UP
Kostas Analytis – Vocals
Panos Gkourmpaliotis – Guitars
Costas Ragiadakos – Bass

ABYSSUS – Facebook

Mourning Sun – Último Exhalario

Último Exhalario è un disco che travalica i generi e lascia inermi al cospetto delle sua bellezza, facendo apparire inadeguato od enfatico ogni aggettivo usato per descriverlo.

Sfolgorante esordio su lunga distanza dei cileni Mourning Sun, i quali hanno il merito di riportarci con la mente alla metà degli anni ’90, quando il  doom melodico con voce femminile era in realtà una mera trasposizione della poesia in musica, resa unica da interpreti divine quali Kari Rueslåtten e Anneke Van Giersbergen.

Ana Carolina, la talentuosa ragazza che presta la propria voce alla riuscita dell’album della band di Santiago, ne è degna e legittima erede, con la sua voce eterea, cristallina, tanto da apparire talvolta acerba, tale è la purezza che riesce ad emanare in ogni passaggio.
Último Exhalario è un lavoro di una bellezza straniante: qui l’enfasi metallica si manifesta in quantità omeopatica ed il doom costituisce solo un approdo spirituale, nel quale i Mourning Sun vengono collocati più per affinità elettive che non per stile musicale vero e proprio.
Allo spegnersi dell’ultima nota di Anguish vi ritroverete a volerne ancora, di questa musica che nutre l’anima prima che il corpo, e trentacinque minuti rischiano di non essere del tutto sufficienti a saziarvi, specie dopo averne assaporato i sublimi aromi.
Vena Cava è una canzone dal fascino quasi insostenibile, con la chitarra a mantenere un tono costantemente minaccioso quanto soffuso, prima di aprirsi in un finale che avrebbe avuto ampio diritto di cittadinanza in quel capolavoro intitolato Mandylion.
Spirals Unseen regala i principali passaggi contraddistinti da quella robustezza assimilabile ad un gothic doom più canonico, ma il sax che entra in scena attorno al quarto minuto spariglia definitivamente le carte, e non vanno certo ignorati altri due gioielli come la title track, rarefatta inizialmente per poi farsi drammatica nella sua parte conclusiva, e Cabo De Hornos, dove la sirena Ana attira a sé, senza alcuna possibilità di resistere al suo canto, i marinai alle prese con una dei tratti di mare più perigliosi del pianeta.
Sebastián Castillo ed Eduardo Poblete si rivelano musicisti eccellenti: il primo con la sua chitarra accompagna senza mai prevaricare la carezzevole voce di Ana, mentre il secondo lega il suono con rara raffinatezza ed altrettanta sobrietà tastieristica.
Último Exhalario è un disco che, semplicemente, travalica i generi e lascia inermi al cospetto delle sua bellezza, facendo apparire inadeguato od enfatico ogni aggettivo usato per descriverlo.
Resta solo da aggiungere una cosa, molto banale: ascoltatelo, più e più volte, senza farvi distrarre da qualche passaggio apparentemente interlocutorio, che è in realtà propedeutico agli abbacinanti lampi emotivi regalati da questa stupenda band.

Tracklist:
1. Último exhalario
2. Vena Cava
3. Hoowin (Mythic Ancestors)
4. Spirals Unseen
5. Cabo de hornos (Cape Horn)
6. Anguish (Prelusion)

Line-up:
Claudio Hernández – Drums
Sebastián Castillo – Guitars
Eduardo Poblete – Keyboards
Ana Carolina – Vocals, Lyrics

MOURNING SUN – Facebook

The Temple – Forevermourn

Forevermourn è un album affascinante, con le sue sonorità senza tempo volte e perpetuare la tradizione di un genere che continua a sfornare band e dischi di ottimo livello, in barba al suo poco o nullo appeal commerciale.

I greci The Temple, dopo una lunghissima pausa successiva alla loro nascita risalente al 2005, arrivano al full length d’esordio con il loro doom dai tratti epici, come si conviene a chi proviene dalla terra ellenica, intrisa di storia come forse nessun’altra.

La matrice mediterranea dei musicisti si rifà quindi alla tradizione del genere così come viene suonato sulle sponde del Mare Nostrum (vedi gli italiani Doomsword e i maltesi Forsaken, anche se con sfumature differenti) pur mantenendo ben salde le proprie radici che affondano in band seminali come Solstice e Candlemass.
L’album così si snoda in maniera molto essenziale ma non di meno efficace: da ogni sua nota trasuda sincerità ed autentica passione per un genere che, del resto, solo un visionario potrebbe pensare di suonare oggi per un mero interesse economico (tanto più se lo si fa a Salonicco, ma non è che a New York o a Londra le cose cambino poi molto).
Dopo un inizio piuttosto convenzionale, con la discreta The Blessing, Forevermourn cresce gradualmente e già la successiva Qualms In Regret si segnala come uno dei picchi del lavoro, grazie a melodie lineari, forse già sentite, ma ugualmente coinvolgenti. Attenzione, però, semplicità non è sinonimo di banalità: i The Temple sono buoni musicisti e non disdegnano passaggi più elaborati e fraseggi riflessivi, come avviene nell’ottima Death The Only Mourner, ma è evidente che il meglio arriva quando il pathos si compenetra in maniera naturale con la struttura metallica.
In tal senso si rivela esemplare la monumentale Until Grief Reaps Us Apart, brano di oltre dieci minuti posto in chiusura, che fonde in maniera mirabile il mood epico e malinconico con la pesantezza di un sound che regala riff pachidermici più ancora che nel resto del lavoro.
Forevermourn è un album affascinante, con le sue sonorità senza tempo (che forse qualcuno definirà anacronistiche, ma non è un problema nostro) volte e perpetuare la tradizione di un sottogenere che continua a sfornare band e dischi di ottimo livello, in barba al suo pressochè inesistente appeal commerciale.

Tracklist:
1. The Blessing
2. Qualms in Regret
3. Remnants
4. Death the Only Mourner
5. Mirror of Souls
6. Beyond the Stars
7. Until Grief Reaps Us Apart

Line-up:
Father Alex – Bass, Lyrics, Songwriting, Vocals
Paul – Drums
Stefanos – Guitars
Phelipe – Guitars

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Brünndl – Brünndl

L’album nel suo complesso non è affatto male e i Brünndl interpretano la loro parte con convinzione e buoni spunti, specie quando sono proprio gli elementi folk ed epici a prendere il sopravvento

I Brünndl si fanno portavoce, musicalmente parlando, della minoranza linguistica cimbra, la cui presenza sul territorio nazionale è costituita da alcuni nuclei disseminati in diverse vallate del Veneto: l’idioma parlato è di ceppo germanico e la band lo utilizza in più passaggi del suo primo full length.

Al di là di queste curiosità storico-geografiche, il terzetto propone a tratti un black dai forti influssi pagan-folk, esibiti in particolare nella traccia d’apertura La Via della Valsugana, mentre in altri momenti prevale l’impronta più canonica del genere, con un occhio rivolto alla feconda scena teutonica.
L’album nel suo complesso non è affatto male e i Brünndl (ovvero il fiume Brenta in tedesco antico) interpretano la loro parte con convinzione e buoni spunti, specie quando sono proprio gli elementi folk ed epici a prendere il sopravvento, vanificati però parzialmente da una voce pulita che viene utilizzata in alternativa allo screaming in maniera un po’ approssimativa, mentre le cose funzionano decisamente meglio allorché l’approccio si fa più corale.
Come detto, Brünndl è un disco che si fa apprezzare ma, forse, per far quadrare definitivamente  il cerchio, ai Brünndl manca ancora qualcosa per riuscire ad omogeneizzare al meglio le diverse componenti del loro sound: un obiettivo che, con il contributo di alcune limature a livello di scelte vocali e di produzione, appare ampiamente alla portata dell’interessante band bassanese.

Tracklist
1- La via della Valsugana
2- Marckwisenkhalt
3- Freyjoch
4- Magaan
5- Sonno e Verena
6- Il portale del Tramonto

Line-up:
Stephan – Bass
Myrk – Drums
Markus – Guitars, Vocals