The Magik Way – Materia Occulta (1997-1999)

Materia Occulta si rivela una riscoperta non solo utile ma fondamentale per completare il quadro del versante più occulto e spirituale della musica, sviluppato in maniera particolare all’interno dei nostri confini.

Alla fine degli anni ’90 alcuni componenti dei Mortuary Drape decisero di dare vita a un progetto denominato The Magik Way, tramite il quale poter esplorare ancora più a fondo, se possibile, il lato rituale ed esoterico della musica.

A tredici anni dall’interruzione dell’attività, la Sad Sun Music pubblica questo disco che raccoglie due promo, l’omonimo del 1997 e Cosmocaos di due anni dopo, operazione, questa, che merita un sentito plauso per aver sottratto a un probabile oblio il materiale contenuto in questa raccolta. I primi quattro brani , tratti da The Magik Way, mostrano un sound ancora debitore degli stilemi black della band di provenienza facendo però intravedere, attraverso l’inserimento di samples e passaggi di stampo ambient, la voglia di sperimentare nuove vie stilistiche che troverà il suo compimento in Cosmocaos, le cui tredici tracce sono intrise di atmosfere di difficile assimilazione ma non per questo meno affascinanti. I Signori del Caos introduce questa sorta di lungo rituale nel quale vengono convogliati in maniera competente e personale gli influssi di tutti quegli artisti che hanno dato sfogo alla propria creatività nel segno della sperimentazione musicale e concettuale; se questa traccia, infatti, con le sue atmosfere malinconiche accompagnate da vocalizzi femminili richiama alla mente l’opera di Malleus, nella successiva Le Maschere di Pietra aleggia inquietante il fantasma di Mr.Doctor e dei suoi Devil Doll, avvicinabili per l’uso del pianoforte e per la teatralità della voce maschile utilizzata. In effetti l’intero lavoro assorbe e rielabora influenze nobili seppure non sempre così vicine tra loro, ne è esempio la schizofrenica Lupenare, con una chitarra di stampo progressive che ne marchia la prima parte nel segno di realtà seminali quali Antonius Rex/Jacula per poi esplodere in un finale di stampo sinfonico/apocalittico degno dei primi Elend. Il valore intrinseco di questa raccolta risiede indubbiamente nella freschezza della proposta che, forse anche in virtù della sua carica evocativa, non fa apparire affatto datati i brani in essa contenuti. Chiaramente qualche imperfezione affiora ugualmente nel corso dell’ascolto, per esempio la voce femminile mostra qualche pecca in tracce come La Quiete o Mantramime dove, in un contesto riconducibile a un nome pesante come i Dead Can Dance, l’ipotetico confronto con una Lisa Gerrard potrebbe apparire impietoso. Ma al di là di sporadici peccati veniali, Materia Occulta si rivela una riscoperta non solo utile ma fondamentale per completare il quadro del versante più occulto e spirituale della musica, sviluppato in maniera particolare all’interno dei nostri confini.

Track-list :
The Magik Way 1997
1. The Doubt (Il Dubbio)
2. The Dizziness (La Folgorazione)
3. The Sacrifice (Il Sacrificio)
4. The Knowledge (La Conoscenza)
Cosmocaos 1999
5. I Signori del Caos
6. Le Maschere di Pietra
7. L’Icona
8. Gloria
9. Lupenare ( La Luna Crescente – Il Caotico Divenire – L’Uomo con la Falce)
10. Le Prigioni di Corda
11. La Quiete
12. Trasposizione
13. Mantramime
14. La Caduta
15. Danza degli Elementi
16. Pianto ed Estasi
17. Il Tempo si è Fermato

Line-up :
Nequam – vocals, keyboards, guitars, percussions
Diabolical Obsession – bass, textures, backing vocals
Old Necromancer – guitars, noises, backing vocals
Azach – drums and percussions, backing vocals
Berkana – female vocals

Lord Agheros – Demiurgo

Lord Agheros si muove su terreni contigui al black metal nella sua versione più atmosferica, ma va detto che l’etichetta BM applicata a questo progetto può essere fuorviante considerato che i momenti dall’andamento più impetuoso sono in netta minoranza rispetto alla componente ambient

Quello di Lord Agheros è un nome in circolazione ormai da un lustro, nel corso del quale il musicista catanese Gerassimos Evangelou, unico titolare del progetto, ha prodotto quattro album, ultimo dei quali l’appena pubblicato Demiurgo, oggetto di questa recensione.

Il nostro si muove su terreni contigui al black metal nella sua versione più atmosferica, ma va detto che l’etichetta BM applicata a questo progetto può essere fuorviante considerato che i momenti dall’andamento più impetuoso sono in netta minoranza rispetto alla componente ambient, che si rivela predominante, in particolare, nella seconda metà del disco. A livello lirico, Demiurgo è un concept dedicato alla nota figura platonica descritta come “artefice e padre dell’universo”; nell’intento di seguire in maniera coerente il filo conduttore del racconto, Lord Agheros rappresenta la contrapposizione tra bene e male, tra notte infernale e notte terrena, suddividendo l’opera in due parti ben distinte dal punto di vista stilistico. Se nella prima, che va da Prologue a Erebo sono maggiormente presenti elementi di matrice black quali blast beats e uno screaming velenoso, nella seconda parte, che prende vita con Nyx, il suono pare acquietarsi assumendo le vere e proprie sembianze di una colonna sonora in stile dark ambient. Per gusto personale ho molto apprezzato il disco proprio nella sua prima parte, almeno fino a Lyssa, grazie alla riuscita amalgama tra le sonorità estreme e le melodie oniriche create da Gerassimos; dalla successiva Letum, traccia che resterà comunque l’ultimo episodio dai tratti parzialmente aggressivi, il lavoro purtroppo perde un po’ della brillantezza mostrata nella sua prima mezz’ora. Detto questo, è innegabile che Demiurgo sia comunque un buon disco, nel quale il musicista siciliano dimostra di saper comporre con padronanza atmosfere sognanti e malinconiche, e costituisce senz’altro un ulteriore passo avanti rispetto al predecessore Of Beauty And Sadness. Ciò che non convince del tutto è proprio, nel caso specifico, il lento ma progressivo affievolirsi dell’impatto sonoro, sia pure in ossequio al tema del concept. Continuo a pensare che la formula adottata nei primi brani dove, come detto, vengono amalgamate con successo le componenti black, sia pure in proporzione ridotta, e ambient, dovrebbe essere quella da perseguire con maggior convinzione; migliorando anche la resa sonora della parte vocale, con uno screaming spesso in secondo piano rispetto agli altri strumenti, un progetto come Lord Agheros potrebbe ambire a raggiungere quell’eccellenza che, in Demiurgo, viene raggiunta solo a tratti.

Track-list :
1.Prologue
2.Eris
3.Styx
4.Thanatos
5.Moros
6.Nemesi
7.Lyssa
8.Letum
9.Erebo
10.Nyx
11.Oizys
12.Emera
13.Geras
14.Lysimele
15.Ker
16.Apate
17.Etere

Line-up :
Gerassimos Evangelou – All Instruments, Vocals

Endezzma – Erotik Nekrosis

Un lavoro meritevole d’attenzione pur senza rappresentare qualcosa di imprescindibile.

E’ difficile mantenere il giusto distacco nel commentare un lavoro che contiene le ultime note registrate da qualcuno che non si trova più tra noi: in Erotik Nekrosis, la chitarra è stata suonata da Trondr Nefas (Trond Brathen), leader degli Urgehal, morto a soli 34 anni nello scorso maggio.

Quest’album l’ha visto all’opera in quello che è stato solo l’ultimo dei molteplici progetti paralleli ai quali Trondr ha partecipato nella sua breve, ma intensa, vita di musicista, anche se in realtà gli Endezzma altro non sono che la naturale derivazione dei Dim Nagel, band fondata in età post-adolescenziale assieme a Sorgar e, per volere di quest’ultimo, riportata alla luce con un diverso monicker ai giorni nostri . Cosa resta dunque, al netto dell’aspetto emotivo e del doveroso omaggio a un musicista prematuramente scomparso? Sicuramente un buon disco di black metal diretto, privo di sbrodolamenti tastieristici e ricco invece di azzeccati assoli di chitarra; la band si esprime decisamente meglio nei brani più cadenzati, esibendo sonorità assimilabili ai Satyricon più recenti (Against Them All, Krossing Rubicon), dove Sorgar accompagna con il suo screaming sgraziato, ma funzionale alla causa, un sound piacevolmente dotato di un bel tiro. Un po’ meno bene vanno le cose quando i nostri provano a uscire dagli schemi consueti, dando la sensazione di voler forse strafare (Hollow) ricercando a tutti i costi l’originalità ma ottenendo, al contrario, solo l‘effetto di interrompere la continuità stilistica dell’album; più equilibrate, pur nella ricerca di qualche variazione sul tema, Enigma of the Sullen, Swansong Of a Giant e la conclusiva Soulcleaning. Un lavoro meritevole d’attenzione pur senza rappresentare qualcosa di imprescindibile.

Tracklist :
1. Junkyard Oblivion
2. Enigma of the Sullen
3. Against Them All
4. Swansong of a Giant
5. Hollow
6. Krossing Rubikon
7. Soulcleansing

Line-up :
Carl Balam – Drums
M. Sorgar – Vocals
Trondr Nefas – Guitars
Sregroth – Bass

ENDEZZMA – Facebook

Raventale – Transcendence

Una splendida prova per un musicista in crescita esponenziale e un disco da avere e ascoltare senza alcuna esitazione.

Mi sono imbattuto per la prima volta nella prolifica one-man band ucraina Raventale nel non troppo lontano 2009, quando Astaroth decise di pubblicare il primo disco in lingua inglese “Mortal Aspirations” e l’impressione che ne trassi fu quella di un progetto dalle grandi potenzialità non del tutto espresse in tale frangente.

Dopo tre anni e altrettanti full-length, Transcendence giunge a suffragare tale previsione collocando il bravo musicista di Kiev ai livelli che gli competono. I quattro lunghi brani che compongono questo lavoro sono altrettanti gioielli di un black dalle sfumature ora doom ora post-metal, nel solco dei Wolves In The Throne Room nonché dei connazionali Drudkh, ma questi paragoni risultano utili solo per spiegare, a grandi linee, quale tipo di sonorità deve attendersi chi si trova ad ascoltare i Raventale per la prima volta. In realtà tutta la musica contenuta in Transcendence vive di una luce propria, offrendo quarantacinque minuti che faranno la gioia di chi predilige il lato più emozionale del metal estremo. Le melodie poggiate su martellanti blast beats e la voce, ora in growl, come nell’opener Shine, ora in screaming ma sempre convincente e appropriata, contribuiscono a disegnare un quadro molto vicino alla perfezione. Il lavoro è apprezzabile soprattutto per la sua qualità d’insieme, la tensione emotiva non cala mai e Astaroth non commette in alcun frangente l’errore di adagiarsi sugli allori inserendo passaggi di maniera con la sola funzione di riempitivo.
Una splendida prova per un musicista in crescita esponenziale e un disco da avere e ascoltare senza alcuna esitazione.

Tracklist :
1. Shine
2. Room Winter
3. Without Movement
4. Transcendence

Line-up :
Astaroth – All Instruments

Acrimonious – Sunyata

Bella sorpresa questo secondo full-length della band greca Acrimonious, dedita a un black metal di buona fattura e dalla chiara matrice scandinava nonostante la provenienza mediterranea, della quale viene conservato intatto l’innato gusto melodico.

Bella sorpresa questo secondo full-length della band greca Acrimonious, dedita a un black metal di buona fattura e dalla chiara matrice scandinava nonostante la provenienza mediterranea, della quale viene conservato intatto l’innato gusto melodico.

Le coordinate del gruppo ateniese prendono come punto di riferimento i Dissection, ma sarebbe errato pensare a una copia sbiadita della creatura che fu di Jon Nodtveidt: i brani degli Acrimonious spiccano in maniera indipendente per intensità e non appaiono mai come semplici e manieristici esercizi di stile. I nostri, rispetto al precedente “Purulence”, uscito nel 2009, paiono aver maggiormente focalizzato la loro proposta, forti anche della recente esperienza di tre quinti della line-up in una delle band più note del panorama ellenico quali gli Acherontas. Dopo esserne fuoriusciti definitivamente in maniera del tutto amichevole, Cain Letifer, Akhkhar e C.Docre si sono dedicati anima e corpo a quella che è divenuta la loro band principale e gli esiti positivi sono facilmente rinvenibili in Sunyata; il black degli Acrimonious si muove essenzialmente su un mid-tempo carico di melodie oscure e avvolgenti che sostengono il growl profondo e piuttosto espressivo di Cain: stranamente, in più di un passaggio ho colto diversi punti di contatto, molto probabilmente del tutto casuali, con una band apparentemente lontana non solo geograficamente, come i brasiliani Mythological Cold Tower, sia per un uso della voce molto simile, sia per l’intonazione solenne ed epica di molti passaggi. Sette lunghi brani più una corposa intro, ci regalano quasi un’ora di musica piacevole che non si fatica a riascoltare anche a distanza ravvicinata: notevole la tripletta Lykaria Hecate, Adharma e Glory Crowned Son of the Thousand Petalled Lotus, ma il resto di Sunyata non si rivela da meno nel suo compito di vestire di note le interessanti tematiche filosofico-occulte che ne caratterizzano i testi. Davvero un ottimo lavoro, vivamente consigliato a chi predilige il black di matrice occulta, dal passo più cadenzato e dai tratti maggiormente evocativi rispetto alla sua versione più canonica.

Tracklist :
1. Nexus Aosoth
2. Lykaria Hecate
3. Adharma
4. Glory crowned Son of the Thousand Petalled Lotus
5. The Hollow Wedjat
6. The Sloughted Scales of Seperation
7. Vitalising the Red-Purple in Asher-Zemurium
8. Black Kundalini

Line-up :
Akhkhar – Bass
Docre – Drums
Semjaza 218 – Guitars
Cain Letifer – Guitars, Vocals
ar-Ra’d al-Iblis – Lyrics, vocals (live)

Gloria Morti – Lateral Constraint

Una prova di grande maturità per una band in costante crescita e un disco che non deluderà chi vorrà provare a dargli un ascolto.

Lateral Constraint è il quarto album per i Gloria Morti, band finlandese attiva da oltre un decennio ma che solo in questi ultimi anni sembra aver intensificato le proprie uscite discografiche; con questo lavoro approda a un solido black death che, pur non apportando novità sostanziali ai consueti schemi compositivi, si dimostra di pregevole fattura in ogni suo frangente.

Le coordinate stilistiche vanno ricercate in primis nei Behemoth, stemperandone però gli aspetti maggiormente brutali attraverso ben dosati momenti dal flavour epicheggiante, sulla falsariga delle migliori uscite dei connazionali Catamenia. Il risultato è una serie di brani potenti e grintosi ma ben memorizzabili proprio grazie alla capacità della band di amalgamare l’impatto della componente death con le linee melodiche tipiche del black, senza dover ricorrere, come invece accade sovente, a un massiccio uso delle tastiere. Così brani come The First Act, HalluciNations e Non-Believer si rivelano gli episodi migliori di un album che si dimostra comunque efficace nel suo insieme, riuscendo a gratificare sia chi predilige sonorità corpose, arricchite dal growl spietato di Psycho, sia chi ricerca le tipiche melodie adagiate su un tappeto fatto di furiosi blast beat . Decisamente una prova di grande maturità per una band in costante crescita e un disco che non deluderà chi vorrà provare a dargli un ascolto.

Tracklist :
1. Lex Parsimoniae
2. The First Act
3. Our God Is War
4. Aesthetics of Self-Hyperbole
5. Sleep, Kill, Regress, Follow
6. HalluciNations
7. Slaves
8. Non-Believer
9. The Divine Is a Fraud
10. Conclusion

Line-up :
Aki Salonen – Bass
Juho Räihä – Guitars
Psycho – Vocals
Kauko Kuusisalo – Drums
Eero Silvonen – Guitars

Anamnesi – Descending the Ruins of Aura

Anamnesi è il progetto solista dell’omonimo musicista di Oristano, già attivo come batterista in diverse band isolane; “Descending The Ruins Of Aura” ne costituisce la seconda prova su lunga distanza dopo l’esordio autointitolato risalente a due anni fa.

Sgombrando subito il campo dai pregiudizi che spesso accompagnano l’operato delle one-man band, il lavoro del quale mi accingo a parlare si è rivelato sin dalle prime note una graditissima sorpresa: Emanuele (questo è il suo vero nome) riesce dove molti altri nomi, ben più considerati dalla stampa specializzata, hanno fallito.
“Descending …” è un disco che riesce mirabilmente a coniugare l’asprezza delle partiture black con il mood malinconico del miglior depressive, esibendo una serie di brani nei quali non viene mai meno il coinvolgimento emotivo: ecco, la dote principale di questo lavoro è la sua intensità, la capacità di penetrare nel cuore dell’ascoltatore, anche nei momenti in cui le sonorità di stampo ambient divengono predominanti.
Una gamma di sentimenti contrastanti, sebbene complementari, viene esibita nel corso di questi tre quarti d’ora di ottima musica, spaziando dalla rabbia alla desolazione, dall’angoscia alla malinconia, tramite una resa sonora piuttosto buona per gli standard del genere.
Condivisibile, come sempre, la scelta di utilizzare prevalentemente la nostra lingua per veicolare con maggiore efficacia il contenuto dei testi; purtroppo anche in questo caso, come in molti altri già affrontati, la produzione tende un po’ a sotterrare la voce rendendone difficile la comprensione in determinati passaggi.
“Litany of Suffering and Reaction” e “Julia Carta” sono I brani che personalmente prediligo ma, davvero, l’intero album è meritevole di attenzione da parte di chi ama queste sonorità che, proprio in occasioni come questa, sono realmente in grado di trasmettere quelle sensazioni che spesso si cercano invano in prodotti ben più reclamizzati.
Una menzione d’obbligo va anche alla Naturmacht Productions, piccola label tedesca che si occupa meritoriamente di promuovere musica lontana anni luce dal mainstream e che, tanto per mettere subito in chiaro le cose, nella propria homepage dichiara di non ammettere nel proprio roster band coinvolte in forme di estremismo politico o di esaltazione della razza, privilegiando invece chi tratta, in particolare, tematiche che vedono come protagonista incontrastata “madre natura”.

Track-list :
1. Intro (First descent)
2. Litany of Suffering and Reaction
3. La Quiete Del Silenzio
4. Nocturnal Path
5. Toward Rebirth
6. Annega La Coscienza
7. Julia Carta
8. Ciò Che Una Volta Era (Burzum Tribute)

Line-up :
Anamnesi All Instruments

anamnesi-descending the ruins of aura

Forgotten Tomb – And Don’t Deliver Us From Evil

“… And Don’t Deliver Us From Evil” è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore

I Forgotten Tomb del 2012 non sono più quelli di “Springtime Depression” e “Love’s Burial Ground” e, messa giù così, quest’affermazione appare terribilmente scontata, se non corrispondesse al pensiero ricorrente di chi ritiene che lo spirito originario della creatura di Herr Morbid sia andato irrimediabilmente perduto.

La realtà è che quest’ultimo lavoro rappresenta la naturale evoluzione di “Negative Megalomania” e trae il meglio anche da un disco controverso come “Under Saturn Retrograde”, offrendo come risultato un’opera matura e coinvolgente. Se vogliamo trovare un parallelismo, la parabola artistica dei Forgotten Tomb può essere tranquillamente accostata a quella degli Shining: partendo da un depressive black intriso di doloroso rancore verso l’umanità, Marchisio e Kvarforth sono approdati a una forma musicale dall’approccio meno estremo che i fan più intransigenti hanno interpretato come una sorta di tradimento, ma che in realtà è frutto della naturale evoluzione artistica dei due musicisti. Non necessariamente l’approdo a sonorità in apparenza più fruibili equivale a un decadimento qualitativo della proposta, chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo ottimo disco degli Swallow The Sun, tanto per citare un esempio, capirà bene ciò che intendo. … And Don’t Deliver Us From Evil, si apre con Deprived, brano tipico degli ultimi Forgotten Tomb, decisamente piacevole pur senza entusiasmare; ben diversa è la title-track, un prototipo di black metal ammantato di atmosfere oscure e del tutto privo di qualsiasi apertura a sonorità più orecchiabili. Cold Summer è un altro brano nel quale le tenebre prevalgono sulla luce, assecondate da pesanti riff di stampo doom; Let’s Torture Each Other è un altro brano “normale”, sulla falsariga dell’opener, ma con Love Me Like You’d Love The Death e le sue atmosfere cariche di tensione emotiva, con un finale affidato a una chitarra in grado di tessere passaggi ricchi di pathos, la qualità dell’album si impenna nuovamente restando di elevato livello fino alla sua conclusione. Parlando di Adrift è facile pronosticare che si tratterà del brano destinato a destare le maggiori perplessità nei puristi: la voce pulita conduce un ritornello decisamente “catchy”, contrapponendosi alle consuete, ruvide, vocals di Herr Morbid e a un tessuto musicale tutt’altro che rassicurante. Nullifying Tomorrow chiude il lavoro nel suo formato classico (la versione digipack include la cover di Transmission, superfluo dire di quale band, mentre Sore dei Buzzov’en è la bonus track nel vinile) incarnando, di fatto, il trademark del suono attuale dei Forgotten Tomb. … And Don’t Deliver Us From Evil è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore: se ciò consentirà ai Forgotten Tomb di accedere a nuovi fans, pur perdendone per strada qualcuno tra i vecchi, lo vedremo nei prossimi mesi, di sicuro questo è un disco che tende a crescere ad ogni ascolto nonostante un’apparente maggiore fruibilità rispetto alle produzioni più datate.

Tracklist :
1. Deprived
2. …And Don’t Deliver Us from Evil…
3. Cold Summer
4. Let’s Torture Each Other
5. Love Me Like You’d Love the Death
6. Adrift
7. Nullifying Tomorrow

Line-up :
Herr Morbid -Guitars, Vocals
Algol – Bass
A. – Guitars
Asher – Drums

Antiquus Infestus – Order Of The Star Of Bethlehem

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

In ventiquattro minuti Order Of The Star Of Bethlehem racchiude non solo un concept incentrato sulle ultime, drammatiche, fasi della vita di Friedrich Nietzsche ma, anche e soprattutto, un potente concentrato di aggressione sonora, prodotto e suonato in maniera più che soddisfacente, considerando l’assenza di una label alle spalle, e privo di alcun compromesso o di ammiccamenti di stampo commerciale. Il trio si era già fatto notare, nell’ultimo periodo, con due interessanti demo ma questo Ep schiude prospettive diverse, alla luce di una chiarezza d’intenti invidiabile; il sound che ne scaturisce è un’intrigante mix tra il black di scuola svedese e il death dalle tonalità più oscure sulla falsariga dei Nile, soprattutto per quanto riguarda l’attitudine e la comune passione per l’egittologia. Tutto abbastanza bene dunque, se non fosse per un particolare, a suo modo inquietante, che esula dalla musica contenuta nell’Ep: Sverkel e Malphas, per trovare le condizioni utili alla progressione della loro carriera, si sono da poco trasferiti in Danimarca. Nell’augurare le migliori fortune agli Antiquus Infestus, non si può che constatare con amarezza la persistenza, se non addirittura un incremento, delle difficoltà logistico-organizzative che tarpano le ali a chiunque voglia cimentarsi, nel nostro paese, con forme artistiche non omologate al mainstream.

Tracklist :
1. Intro
2. St. Mary of Bethlehem
3. Bishopsgate
4. 55
5. Moorfields
6. Order of the Star of Bethlehem
7. The Signs of Future Threat (Outro)

Line-up :
Sverkel – Vocals
Malphas – Guitars, Drum progamming
Asmodeus – Bass

Obscura Amentia – Ritual

Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Gli Obscura Amentia sono un duo composto da Black Charm (che si occupa di tutti gli strumenti ad eccezione delle percussioni, affidate a una drum-machine) e da Hel (female scream): attivi dal 2010, con “Ritual” giungono al secondo full-length.

La loro musica, tanto per fornire un’idea di massima, ci riporta alle sonorità dei Dark Funeral, quindi si parla di black metal devoto alla tradizione ma senza che, per questo, venga trascurato il senso della melodia, sempre ben presente grazie ad efficaci linee di chitarra.
La band novarese propone un lavoro di buon livello, anche se qualche lieve pecca, per lo più addebitabile alla produzione, finisce per inficiarne parzialmente la resa finale: per esempio la voce di Hel, sia per una registrazione che la relega quasi in secondo piano, sia per una minore incisività che spesso accomuna le cantanti alle prese con scream e growl, non sempre si rivela in tutta la sua possibile efficacia.
Tutto sommato, invece, non ritengo così deprecabile l’uso della drum machine, pur essendo evidente che una batteria “umana” sia pur sempre preferibile, mentre il super lavoro strumentale al quale si sottopone Black Charm si rivela assolutamente appropriato.
Ritual è un disco che non delude, per la sua integrità stilistica e per il suo proporsi monolitico, cosa che a mio avviso più che un difetto ne costituisce la forza: se si eccettua la bellissima title track, che si staglia sul resto dell’album, marchiata a fuoco com’è da un riff ossessivo quanto coinvolgente, gli altri brani si sviluppano su coordinate piuttosto simili, creando però un impatto d’insieme nient’affatto trascurabile.
Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Tracklist :
1. The Citadel Of Beleth
2. Mirror Of Sorrow
3. Ritual
4. Lost In The Reflection Of Moon
5. Mater Hiemalium
6. Descend The Chaos
7. Ominous Herald
8. Silence (A Reminder Of Death)
9. Last Rite

Line-up :
Black Charm – Guitars, Keyboards, Bass
Hel – Vocals

Blut Aus Nord – 777:Cosmosophy

Per alcuni “777 Cosmosophy” costituirà un passo indietro se riferito alla discografia recente, per chi scrive, al contrario, è la conferma dello status di eccellenza raggiunto da una band che, in questo momento, è in grado di intraprendere qualsiasi direzione stilistica risultando ugualmente efficace e, soprattutto, credibile.

In poco meno di due anni i Blut Aus Nord portano a compimento la trilogia 777 iniziata con “Sect(s)” e proseguita con “The Desanctification”.

Questo terzo episodio sta già facendo discutere in quanto, dal punto di vita stilistico, si discosta di molto da quanto fatto in passato dalla band francese: crediamo che, al riguardo, per analizzare in maniera obiettiva questo lavoro sia fondamentale l’approccio con il quale ci si accosta. Infatti, se considerassimo Cosmosophy come un album a sé stante ciò potrebbe provocare un certo disorientamento, specialmente se paragonato ai due precedenti tasselli della trilogia ma, pur rispettando i diversi pareri già espressi, improntati ad un certo scetticismo, ritengo che l’ascolto e la comprensione del disco non possano prescindere dal considerare 777 nel suo insieme. Del resto, l’approdo alle sonorità di Cosmosophy era stato preannunciato da Vindsval successivamente all’uscita del secondo atto “The Desanctification”, quando aveva dichiarato che l’epilogo della trilogia sarebbe stato improntato a sonorità più eteree e inevitabilmente più melodiche, intendendo rappresentare la chiusura di un percorso tramite il manifestarsi di un’apparente quiete successiva alla tempesta. Così, quello che colpisce in prima battuta di questo lavoro non è tanto ciò che vi è racchiuso quanto, invece, ciò che non ne fa parte, come la componente aggressiva da parte di una band che, di fatto, il black nella sua concezione più canonica non lo suona più da anni, o l’ossessività di stampo industriale del precedente capitolo. Qui le atmosfere si potrebbero definire sognanti, se non fosse per quel sottile senso di inquietudine che le pervadono e che impedisce alle melodie create dai Blut Aus Nord di apparire persino rasserenanti. Se escludiamo il sottofondo sonoro al recitato in francese nella prima parte di Epitome XV, dove rifanno capolino turbolenze di stampo industrial, il resto di Cosmosophy si dipana all’insegna di chitarre liquide e voci pulite, offrendo l’ingannevole sensazione di un facile ascolto; in realtà solo dopo numerosi tentativi si riesce a raggiungere la vera essenza di brani splendidi, paradossalmente penalizzati solo dal nome della band stampato sulla copertina. Perché, pur essendo comunque e inevitabilmente quest’album inferiore a quel formidabile monolite sonoro che è stato “The Desanctification”, non si può evitare di farsi coinvolgere dalle atmosfere dark ambient con sconfinamenti nel post metal delle cinque lunghe epitomi, tra le quali spicca la XVII, autentica perla di melodica magnificenza. Che non si pensi che Vindsval sia finalmente giunto a patti con i demoni che lo ossessionano: le dissonanze elettroniche che, dopo un tema ripetuto a oltranza, chiudono il sipario sull’Epitome XVIII e sulla trilogia appaiono tutt’altro che rassicuranti. Per alcuni 777 Cosmosophy costituirà un passo indietro se riferito alla discografia recente, per chi scrive, al contrario, è la conferma dello status di eccellenza raggiunto da una band che, in questo momento, è in grado di intraprendere qualsiasi direzione stilistica risultando ugualmente efficace e, soprattutto, credibile.

Tracklist :
1. Epitome XIV
2. Epitome XV
3. Epitome XVI
4. Epitome XVII
5. Epitome XVIII

Line-up :
W.D. Feld – Drums, Keyboards, Electronics
Vindsval – Vocals, Guitars
GhÖst – Bass

Secrets Of The Moon – Seven Bells

Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal

Tre anni dopo l’ottimo “Privilegivm” tornano i Secrets Of The Moon, con un altro album destinato ad arricchire ulteriormente una discografia che li ha visti protagonisti negli ultimi dieci anni di una progressione costante e inarrestabile.

La band tedesca già nel 2006 con “Anthitesis” aveva iniziato a distaccarsi dal black metal inteso in senso classico spostando i propri orizzonti verso una vena più avanguardistica da un lato e verso parti più melodiche e darkeggianti dall’altro, aspetti sviscerati in maniera ancor più approfondita con il già citato album del 2009. In Seven Bells il sound scaturisce da un equilibrato mix tra gli spunti migliori dei Samael di “Passage”, il gothic metal dei Moonspell, l’ombrosità del black metal di scuola teutonica e le fosche melodie del doom. Con tutto ciò, i riferimenti più evidenti nella proposta della band di Osnabruck sono i Celtic Frost di “Monotheist” e i più recenti Tryptikon ma, dove le creature di Tom Gabriel Fischer (mi scuso per il possibile reato di lesa maestà) finivano spesso per avvitarsi in una proposta dai toni invariabilmente claustrofobici, i nostri riescono a puntellare i loro brani con partiture più ariose e maggiormente fruibili; anche quando le tracce si allungano non si avverte mai stanchezza nell’ascolto, persino nei momenti nei quali i suoni vanno a lambire territori ambient (come nel finale di Nyx). Quattro colpi di campana introducono la title-track che, dopo un incipit di stampo doom, si dipana in un tipico mid-tempo accompagnato dalle vocals abrasive di sG; Goathead, al contrario, si avvia con ritmi più accelerati per poi arrivare a una rarefazione del suono che qui assume timbri di un’oscurità assoluta ai confini del funeral. Serpent Messiah invece è una cavalcata gothic-dark dotata di un eccellente gusto melodico, mentre Blood Into Wine possiede un ammaliante flavour epico che viene sferzato da una sfuriata di stampo black nella sua parte centrale. Questi quattro brani, già da soli farebbero la fortuna di qualsiasi disco ma il meglio deve ancora venire: infatti, il trittico finale Worship, Nyx, The Three Beggars, dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora, si rivela un autentico caleidoscopio di emozioni, nel quale sG e soci riversano tutto il loro background musicale. La track conclusiva, in particolare, è incredibilmente coinvolgente sia dal punto di vista sonoro sia da quello lirico, proponendosi come una sorta di manifesto del pensiero religioso della band. I Secrets Of The Moon del 2012 sono una band alla quale l’etichetta black sta decisamente stretta; il loro sound si è evoluto in una forma pressoché perfetta di quello che, in senso lato, andrebbe definito più correttamente come dark metal: una configurazione musicale dove riescono a convivere in piena armonia le svariate influenze inglobate nel corso di una carriera dalla durata già significativa; ogni brano è caratterizzato da diversi cambi di ritmo e i break melodici si amalgamano in maniera sempre adeguata alle ruvidezze di stampo più estremo. Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal e se non sarà questo disco a consacrare definitivamente i Secrets Of The Moon, viene da chiedersi quando ciò potrà mai verificarsi. Metal estremo senza barriere.

Tracklist:
1. Seven Bells
2. Goathead
3. Serpent Messiah
4. Blood Into Wine
5. Worship
6. Nyx
7. The Three Beggars

Line-up:
sG – Lead Vocals, Guitar, Bass
Ar – Vocals, Guitar
Thelemnar – Drums

Lunar Aurora – Hoagascht

Raggiungere i livelli stellari di “Andacht” era già in partenza un’impresa oggettivamente ardua, nonostante questo però, il lavoro dei Lunar Aurora si dimostra di qualità eccelsa, perché alla band tedesca non è venuta meno la magistrale capacità di forgiare sonorità oscure ed emozionanti.

Uno dei ritorni più attesi in questo 2012 era sicuramente quello dei Lunar Aurora dopo cinque anni di silenzio seguiti alla pubblicazione di “Andacht”, per chi scrive uno dei migliori album black metal di sempre.

Oggi il gruppo è ridotto a un duo, costituito da Aran, in questa occasione privo del supporto fraterno di Sindar, e da Whyrd, rientrato nella line-up dopo esserne uscito in occasione dell’ultimo disco. E’ inevitabile chiedersi, ogni qual volta una band ritorna sulle scene dopo un lungo silenzio, se tale decisione derivi da una ritrovata vena artistica o piuttosto da semplici motivi commerciali. Per dirimere simili dubbi, già fugati in parte dallo stile dei nostri che è lontano anni luce da qualsiasi tentazione “di classifica”, può bastare la scelta di comporre i testi in dialetto bavarese, cosa che peraltro rende ulteriormente complicato ottenere qualche informazione relativa ai contenuti lirici del disco. Fatte le debite premesse, l’annunciato ritorno sulle scene della band tedesca ha indubbiamente provocato notevoli aspettative da parte dei suoi fedeli estimatori anche se, spesso, le attese eccessive finiscono per compromettere un’analisi obiettiva dei nuovi lavori, poiché la mente e il cuore vanno istintivamente a cercare raffronti con il passato piuttosto che focalizzarsi sul presente. Così le prime 2-3 prese di contatto con Hoagascht si sono rivelate particolarmente ostiche proprio perché mancavano quegli spunti più immediati che avevano caratterizzato l’album precedente. Ma, semmai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta ha ragione chi sostiene che siano necessarie, per apprezzare pienamente l’arte compositiva, sia un’adeguata dedizione sia, soprattutto, molta pazienza. Infatti, dopo ripetuti ascolti, nel corso dei quali di volta in volta il disco svelava quasi con ritrosia i propri lati più nascosti, Hoagascht si è palesato finalmente in tutta la sua affascinante bellezza. Raggiungere i livelli stellari di “Andacht” era già in partenza un’impresa oggettivamente ardua, nonostante questo però, il lavoro dei Lunar Aurora si dimostra di qualità eccelsa, perché alla band tedesca non è venuta meno la magistrale capacità di forgiare sonorità oscure ed emozionanti. Cos’è cambiato dunque rispetto alla precedente opera ? E’ vero che, probabilmente, non si raggiungono i picchi emotivi che trovavano la loro sublimazione in brani come “Findling” o “Gluck” ma, per contro, va detto che Aran e Whyrd con Hoagascht hanno cercato di veicolare in maniera diversa le consuete atmosfere alternando maggiormente rispetto al passato l’impatto dei riff chitarristici a passaggi più rarefatti o sperimentali. Una naturale trasformazione che dimostra, pur senza apportare straordinari stravolgimenti, quanto i Lunar Aurora, con il loro ritorno, abbiano cercato innanzi tutto di non restare arroccati sulle posizioni di “Andacht”. Proprio l’elevato livello che accomuna tutte le tracce rende difficile citarne qualcuna in particolare: dovendo proprio fare una scelta evidenzierei Nachteule, che possiede un’impronta simile per certi aspetti a Der Pakt, o Beachgliachda, brano dall’andamento altalenante contraddistinto da parti lentissime ai confini del doom e brusche accelerazioni caratterizzate da un originale lavoro di tastiera; ma anche Sterna con le sue armonie malinconiche e Håbergoaß, che si distingue come l’episodio più cadenzato del lotto, non sono affatto da meno. Accompagnati da una produzione all’altezza, in grado di valorizzare ogni strumento ma anche di enfatizzare quei caratteristici suoni che talvolta sembrano provenire da una dimensione onirica, i Lunar Aurora del 2012 padroneggiano con disinvoltura la materia perdendo qualcosa in immediatezza ma guadagnando in pulizia ed eleganza compositiva; di sicuro con questo lavoro mantengono e consolidano le peculiarità chi li hanno resi unici all’interno della scena (un loro brano è immediatamente riconoscibile tra altri 1.000, non so per quante altre band si possa dire lo stesso). Probabilmente a causa della provenienza da una nazione dove il black metal non è un genere così radicato, al contrario di quanto avviene in Scandinavia, i bavaresi non hanno mai raccolto un successo comparabile alla straordinaria qualità espressa nei propri lavori; augurandoci che questa possa essere la volta buona, accogliamo con estrema soddisfazione il ritorno sulla scena di una di una band storica, sperando solo di non dover attendere un altro lustro per ascoltare nuovo materiale.

Tracklist:
1. Im Gartn
2. Nachteule
3. Sterna
4. Beagliachda
5. Håbergoaß
6. Wedaleichtn
7. Geisterwoid
8. Reng

Line-up:
Aran – All Instruments, Vocals
Whyrd – Vocals

TEMPLE OF BAAL/RITUALIZATION – THE VISION FADING OF MANKIND

Nel complesso lo split è uno dei migliori usciti nel 2011, e vale sicuramente l’acquisto anche per lo splendido artwork

Split fra due band estreme francesi sulla strada da tempo.

Gli approcci sono differenti, ma l’amore per le tenebre è lo stesso, e i Temple of Baal e i Ritualization sfornano una grande prova di aggressività e durezza. Iniziano i Temple of Baal con un death metal classico di matrice svedese, con una registrazione ruvida e molto molto viva. I Temple sono dei veterani della scena francese, e in questo split hanno registrato nuovamente una canzone del loro primo album, con il nuovo batterista Skum, che fa presagire grandi cose dal vivo. I loro 4 pezzi sono davvero una delizia per ogni palato death metal. A seguire i Ritualization ci danno dentro fin dal primo pezzo Ave Dominus, ma il Dominus in questione non è precisamente il papà di Gesù … I Ritualization sono maggiormente black rispetto ai Temple of Baal, ma hanno anche solide basi death metal, e il loro suono è floridamente vintage come per i loro conterranei e compagni di split. L’ultimo pezzo dei Ritualization è Devil speaks in tongue, una cover dei seminali Mortem, un gruppo peruviano che vale attente ricerche sulla rete. Nel complesso lo split è uno dei migliori usciti nel 2011, e vale sicuramente l’acquisto anche per lo splendido artwork di Christophe Jager.
Insomma la Francia continua a spaccare i culi in ambito metal, e non solo.

Tracklist:
1.Temple Of Baal – Ordeals Of The Void
2.Temple Of Baal – When Mankind Falls
3.Temple Of Baal – Slaves To The Beast
4.Temple Of Baal – Heresy Forever Enthroned
5.Ritualization – Ave Dominus
6.Ritualization – The Second Crowning
7.Ritualization – Devil Speaks In Tongues (Mortem Cover)

REX MUNDI – IVHV

Un album da scoprire, una riedizione di un demo uscito in sole 77 copie ed introvabile, un’opera unica in un genere che è stato devastante e disturbante grazie a dischi come questo.

Riedizione a cura della Debemur Morti del demo targato 2005 dei francesi Rex Mundi.

Questo è un grande album di black metal, con inserti di canti religiosi provenienti da diversi culti, che ne fa un lavoro occulto ed etereo. I  Rex Mundi con questa opera prima entrarono di diritto tra i migliori del genere, nonostante una produzione non eccelsa, ma nel black metal questo a volte non è un problema, quanto piuttosto un pregio. Il black metal è un genere minimale che dà grande spazio alle idee, senza soffocarle con la musica, che è cacofonica, ma in casi come questo è un incredibile tappeto sonoro che sublima il tutto. Certamente quest’album ha forti influenze da gruppi come i Satyricon di Rebel Extravaganza (a mio modesto avviso, uno dei grandi album black metal di sempre), ma rielabora tutto con fortissima personalità, a cominciare dall’inserire canti religiosi, per spingere il discorso all’estremo, caratteristica fondamentale del black metal. La traccia più notevole è la quarta Pious Angels (Sepher Seraphim), un viaggio di 11 e passa minuti in un altro mondo sospeso tra cielo ed inferno. Un album da scoprire, una riedizione di un demo uscito in sole 77 copie ed introvabile, un’opera unica in un genere che è stato devastante e disturbante grazie a dischi come questo.

Blut Aus Nord – 777:The Desanctification

L’assimilazione di simili contenuti musicali non è propriamente agevole, ma chi possiede una sufficiente dose di apertura mentale non si precluda l’opportunità di scoprire le sensazioni uniche regalate da questo gioiello sonoro fuori dagli schemi e dal tempo.

Devo ammettere che in passato band come i Deathspell Omega o gli stessi Blut Aus Nord, pur non essendomi affatto sgradite, non sono mai riuscite a far breccia nelle mie preferenze, forse perché quella particolare commistione tra black e industrial mi risultava in qualche indigesta.

Ma con questo 777 : The Desanctification i Blut Aus Nord mi fanno ampiamente ricredere proprio perché, pur mantenendo gli aspetti emozionali del black, se ne staccano quasi del tutto dal punto di vista compositivo per approdare a sonorità industrial arricchite da una personalissima impronta che spazia tra momenti ipnotici ed altri dalle sfumature rituali, per arrivare alle atmosfere claustrofobiche poste in chiusura del disco. Il risultato è un qualcosa che travalica la concezione stessa di genere musicale riuscendo nell’intento dichiarato di Vindsval (cantante, chitarrista e compositore) ovvero “ disumanizzare la nostra musica per non influenzare quello che ci auguriamo sia un viaggio occulto e mistico per l’ascoltatore”. A tal fine la band francese limita al massimo gli inserti vocali, lasciandoli spesso in secondo piano o filtrandoli, mettendo sempre in primo piano le proprie sonorità destabilizzanti che al primo impatto ti respingono per poi attrarti ed inghiottirti in maniera ineluttabile. Quest’album costituisce il secondo atto della trilogia iniziata con “777 : Sect(s)” (e che troverà il suo epilogo con l’uscita , probabilmente a fine 2012, di “777 : Cosmosophy”) che segna un progressivo distacco dal black metal nella sua accezione più tradizionale; ognuna di queste opere è costituita da brani intitolati “Epitome” contraddistinti da una numerazione progressiva. In The Desanctification ciascuna Epitome è una autentica opera d’arte, a partire dalle iniziali VII e VIII con le loro dissonanze graziate da improvvise aperture melodiche da considerarsi alla stregua di oasi nel bel mezzo di un’infinita distesa desertica, mentre IX è un breve intermezzo dagli inattesi riflessi orientaleggianti. Epitome X riprende impietosa con la sua incessante opera destrutturante ed è seguita da una XI che assume un andamento vagamente psichedelico, con influssi riconducibili ai Killing Joke, ma sono solo barlumi residui di quell’umanità che viene spazzata via senza alcuna misericordia. Epitome XII è un’esperienza sonora straordinaria, con una melodia che si ripete fino a portare l’ascoltatore in un piacevole stato di trance dal quale viene bruscamente ridestato con l’arrestarsi del brano per essere nuovamente scaraventato nei baratri della follia con la conclusiva XIII. Non sappiamo se a fine ascolto l’effetto catartico sia garantito, di certo i Blut Aus Nord con questo disco ci offrono un dono prezioso, quello di essere testimoni di un’opera che si colloca qualche anno-luce avanti rispetto alla quasi totalità delle uscite in ambito estremo. 777 : The Desanctification è un capolavoro che, se ascoltato al momento dell’uscita, avrebbe concorso con “The Book Of Kings” dei Mournful Congregation per la vetta del mio “best of 2011”; l’assimilazione di simili contenuti musicali non è propriamente agevole, ma chi possiede una sufficiente dose di apertura mentale non si precluda l’opportunità di scoprire le sensazioni uniche regalate da questo gioiello sonoro fuori dagli schemi e dal tempo.

Tracklist:
1. Epitome VII
2. Epitome VIII
3. Epitome IX
4. Epitome X
5. Epitome XI
6. Epitome XII
7. Epitome XIII

Line-up: Vindsval – All instruments, Vocals, Songwriting

BLUT AUS NORD – Facebookl

Opera IX – Strix Maledictae In Aternum

Il giudizio finale è positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di “Strix Maledictae In Aeternum” viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Ritornano dopo ben 7 anni gli Opera IX , una delle band storiche della scena black metal tricolore.

Diciamo subito che non ci dobbiamo attendere grandi novità da chi ha fatto della propria integrità stilistica una sorta di bandiera; la proposta risulta oscura e aggressiva, mentre le liriche vertono su tematiche care al gruppo quali stregoneria e occultismo. L’album presenta una serie di brani che colpiscono nel segno, a partire da 1313 , nella quale spiccano pregevoli parti di tastiera, proseguendo con l’altrettanto valida Dead Tree Ballad per arrivare al suo picco con Mandragora, contraddistinta da un impatto leggermente più immediato rispetto al resto del lavoro (e non è un caso che sia il pezzo prescelto per la realizzazione di un video, peraltro molto interessante sotto diversi aspetti …) e la successiva Eyes In The Well con il suo carattere epico. Da segnalare a livello lirico l’uso efficace dell’italiano negli ultimi due brani, abitudine che sta prendendo sempre più piede in ambito estremo, nonostante la nostra lingua ponga maggiori ostacoli dal punto di vista della metrica rispetto all’inglese. Nel suo complesso il platter della band piemontese viene in parte penalizzato sia dalla sua notevole durata sia dalla prevalenza dei mid –tempo che rendono alla lunga l’ascolto meno fluido . Ciò non impedisce agli Opera IX di riuscire nell’intento di condurci per mano nell’oscurità di epoche dominate dalla superstizione e da credenze arcaiche, nelle quali non occorreva molto affinché le maldicenze si trasformassero in accuse e le donne venissero additate come streghe e quindi responsabili di qualsiasi evento avverso. Il giudizio finale è dunque più che positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di Strix Maledictae In Aeternum viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Tracklist:
1. Strix the Prologue (Intro)
2. 1313 (Eradicate the False Idols)
3. Dead Tree Ballad
4. Vox in Rama (Part 1)
5. Vox in Rama (Part 2)
6. Mandragora
7. Eyes in the Well
8. Earth and Fire
9. Ecate – The Ritual (Intro)
10. Ecate
11. Nemus Tempora Maleficarum
12. Historia Nocturna

Line-up: Ossian – Guitars
Vlad – Bass
Dalamar – Drums
M. – Vocals, Guitars (rhythm)

NunFuckRitual – In Bondage To The Serpent

Questo è il black metal, nella sua accezione più malsana e blasfema e senza alcuno spazio per aperture melodiche o pennellate di colore

I progetti paralleli dei musicisti norvegesi stanno fornendo frutti ben più prelibati rispetto alle band originarie.

Così come per i So Much For Nothing, qui trattati recentemente, pure in questa circostanza l’album si rivela un’autentica perla di arte nera. L’idea del polistrumentista e compositore Teloch (Nnidingr) e del vocalist Espen Hangard risale al 2006, ma è solo tre anni dopo che assume una struttura stabile con l’ingresso in formazione del drummer Andreas Jonsson e soprattutto di un autentico mito della scena estrema ovvero il bassista statunitense Dan Lilker, già nella prima incarnazione degli Anthrax, poi con i Nuclear Assault ed attualmente alle prese con i risorti Brutal Truth. Completata la line-up viene inciso il lavoro d’esordio che vede la luce però solo due anni dopo grazie alla lungimiranza della Debemur Morti. Insomma … “vede la luce” forse non è il modo più appropriato per descrivere l’uscita di questo disco, qui regna un’oscurità assoluta, originata da atmosfere plumbee sospese tra sonorità vicine al black old-school ed ai ritmi cadenzati che spesso confluiscono in una sorta di doom malato e perverso. I NunFuckRitual, fin dal monicker adottato, non si pongono certo scrupoli con i loro testi nel colpire i valori ed i postulati della cristianità, scelta sulla quale si può essere più o meno d’accordo, ma fedele a quelli che sono i dettami lirici del genere fin dalla sue origini. Non dimentichiamo che questa avversione verso le religioni monoteiste ha un fondamento storico che risale al X secolo d.c. quando, in Scandinavia, i templi pagani vennero abbattuti ed in loro vece vennero costruite chiese cristiane. Ma questo è il black metal, nella sua accezione più malsana e blasfema e senza alcuno spazio per aperture melodiche o pennellate di colore, contrassegnato da un mid-tempo strisciante che accomuna l’intera opera e che ci avvolge nelle sue spire come il serpente citato nel titolo. Fare una disamina dei singoli brani diviene un esercizio superfluo, dato che il disco scorre come se fosse un corpo unico concedendoci rari momenti di tregua sotto forma di passaggi ambient e fornendo l’illusoria sensazione di trovare finalmente dell’aria respirabile, prima di riscoprirci definitivamente immersi nei miasmi infernali creati da Teloch e co…

Tracklist:
1. Theotokos
2. Komodo Dragon, Mother Queen
3. Christotokos
4. Cursed Virgin, Pregnant Whore
5. Parthenogen
6. In Bondage to the Serpent

Line-up:
Dan Lilker – Bass Espen
T. Hangård – Vocals, Keyboards, Effects
Teloch – Guitars
Andreas Jonsson – Drums

Necrodeath – Idiosyncrasy

“Idiosyncrasy” è un disco che ci consegna una band in ottima forma e nel pieno della propria maturità.

E’ stato veramente desolante constatare che diverse persone abbiano storto il naso a priori alla notizia che il nuovo lavoro dei Necrodeath sarebbe stato costituito da una suite di 40 minuti, per di più con una copertina con i nostri abbigliati in stile “Le Iene”.

Eppure dovrebbe essere noto a tutti, addetti ai lavori e non, che stiamo parlando di una band che per la propria storia, la perizia tecnica e le capacità compositive dei musicisti coinvolti, non ha certo bisogno di alcun beneplacito per discostarsi dalle consuetudini del metal estremo (al riguardo inviterei i più smemorati a ridare un ascolto ai due “Crimson” degli Edge Of Sanity…)
Del resto, fin dal magnifico album della rinascita “Mater Of All Evil”, edito nel 1999, Peso e compagni hanno avuto il merito di cercare ad ogni uscita nuove forme espressive pur senza snaturare la naturale componente black/thrash della loro proposta; va detto, onestamente, che non sempre i risultati sono stati all’altezza delle aspettative ma non è certo questo il caso di Idiosyncrasy , disco che ci consegna una band in ottima forma e nel pieno della propria maturità.
Come è facilmente intuibile, la scelta di presentare il disco sotto forma di un unico brano nasce dall’esigenza di fornire una struttura musicale adeguata ad un concept, che, in questo caso, verte sull’eterna dicotomia tra bene e male e sulla strada irta di difficoltà che deve percorrere ogni individuo alla ricerca della pace interiore; musicalmente ci troviamo dinnanzi ad una scrittura caratterizzata da una violenza disturbante, di sicuro nulla di noioso o di ridondante come magari temevano (o auspicavano…) le solite cassandre.
La caratteristica voce di Flegias, ideatore del concept, la terremotante base ritmica formata da Peso e G.L. e la riconosciuta tecnica chitarristica di Pier Gonella, sono messe al servizio di un album che necessita di diversi ascolti prima di far breccia nell’ascoltatore.
Forse sta proprio in questo aspetto la sola controindicazione riscontrabile nella scelta dei Necrodeath: non tanto a causa della sua limitata immediatezza o della conseguente assenza del caratteristico brano trainante quanto per la necessità di un ascolto integrale dell’intera opera per poterne cogliere in modo esauriente ogni sfumatura.
Ma, al di là questo inconveniente che è del tutto ascrivibile ad una scelta decisamente anti-commerciale, l’esperimento della band genovese può dirsi totalmente riuscito e non sono certo il solo a pensarla così a giudicare da questa recente dichiarazione rilasciata sul suo blog dal noto giornalista inglese Dom Lawson : “Ascoltate Idiosyncrasy, bevete grandi quantità di birra e fate finta che la collaborazione fra i Metallica e Lou Reed non sia mai esistita!”

Tracklist:
1. Part I
2. Part II
3. Part III
4. Part IV
5. Part V
6. Part VI
7. Part VII

Line-up:
Peso – Drums, Lyrics
GL – Bass
Pier Gonella – Guitars
Flegias – Vocals, Lyrics

NECRODEATH – Facebook