Embrace Of Silence – Leaving The Place Forgotten By God

Un album davvero valido, tutto sommato meno derivativo di tanti altri che mi è capitato di recensire recentemente in ambito doom, che merita ben più di un ascolto distratto da parte dei fans del genere.

Positivo esordio su lunga distanza degli ucraini Embrace Of Silence, alle prese con un death doom di matrice classica, dagli ovvi rimandi ai capiscuola del genere.

Il fatto che il precedente Ep fosse una raccolta di cover che iniziava proprio con due brani dei My Dying Bride fa intuire senza difficoltà il tipo di sound contenuto all’interno di Leaving The Place Forgotten By God.
Però, a differenza di quanto fatto recentemente dai compagni di etichetta Graveflower, la band originaria di Izmail non riproduce in maniera così fedele il sound dei maestri britannici bensì segue una linea leggermente più personale, sia per il ricorso alternato di growling e screaming, evitando quindi le sofferte clean vocals in stile Stainthorpe, sia soprattutto per le sonorità meno introspettive e malinconiche e senz’altro più dirette.
Non che qui l’allegria regni sovrana, ovviamente: il mood è appropriato al genere proposto ma, piuttosto che utilizzare note dolenti di violino o pianoforte, i ragazzi ucraini costruiscono i loro brani su efficaci linee di chitarra.
La condivisibile scelta di proporre un lavoro dalla durata inferiore ai tre quarti d’ora rende meno complesso l’ascolto di Leaving …, facendo sì che la musica scorra in maniera fluida e sempre godibile.
Tutti i brani si collocano ampiamente al di sopra di un’ampia sufficienza ma, tra questi, vanno segnalati gli ottimi Way To Salvation, con la sua sapiente alternanza tra accelerazioni e rallentamenti, sempre contraddistinti da ficcanti melodie, e la traccia di chiusura I’m Your Jesus, nella quale le chitarre si ergono ancora ad assolute protagoniste.
Un album davvero valido, tutto sommato meno derivativo di tanti altri che mi è capitato di recensire recentemente in ambito doom, che merita ben più di un ascolto distratto da parte dei fans del genere.
Embrace Of Silence: un nome da tenere d’occhio nel prossimo futuro.

Trackist :
1. In Gloom of Somnolent Night
2. The Slave of Forgotten Graves
3. The Gates of Remembrance
4. Silent Voice, Empty Words
5. Way to Salvation
6. In Angel’s Hand
7. I’m Your Jesus

Line-up :
Eugeniy Voronchihin – Bass
Yuriy Sivkov – Guitars
Eugenia Krapivina – Violin, Keyboards
Igor Zhurzha – Vocals, Guitars
Andrey Lyhorod – Drums

Doomed – The Ancient Path

Nel tirare le somme, non si può che apprezzare in maniera incondizionata questo lavoro, che mette in mostra il sicuro talento del musicista di Zwickau.

Doomed è il progetto solista del musicista tedesco Pierre Laube, attivo anche come chitarrista e tastierista nei P.HA.I.L.

Come fa intendere la scelta (invero non troppo originale) del monicker, la musica contenuta in questo lavoro
è votata a un death-doom oscuro e privo di compromessi; rispetto ad altre uscite del genere The Ancient Path ha un carattere maggiormente chitarristico mentre la tastiera assume prevalentemente un ruolo di accompagnamento.
L’opener Sun Eater è esemplificativa dell’intento, da parte di Pierre, di colpire prevalentemente l’ascoltatore con l’impatto di riff granitici piuttosto che con atmosfere malinconiche; chiaramente se l’effetto è notevole nel suo insieme è anche vero che questa scelta stilistica, alla lunga, può rivelarsi controproducente.
Per ovviare a questo possibile inconveniente il musicista tedesco alterna brani nei quali prevale la componente death ad altri dal mood leggermente più atmosferico e dai rallentamenti ai confini con il funeral, come avviene per esempio in She’s Calling Me e parzialmente in Caesar’s Whore.
E’ evidente che la migliore dote di Pierre risiede nella linearità priva di fronzoli della sua proposta unita alla volontà di rifuggire da facili soluzioni melodiche; in tal modo il disco si mantiene di livello medio alto per tutta la sua durata, con la perla, come è giusto che sia, posta in chiusura.
My Love Is Dead, infatti, smussa certe spigolosità presenti negli episodi precedenti lasciando fluire finalmente la tensione emotiva accumulata fino a quel momento: ciò che ne scaturisce è un brano che amalgama alla perfezione pathos e impatto sonoro.
Nel tirare le somme, non si può che apprezzare in maniera incondizionata questo lavoro, che mette in mostra il sicuro talento del musicista di Zwickau.
Un progetto come Doomed merita d’essere supportato da una label ed essendocene molte sparse in tutta Europa che hanno già dimostrato coraggio e lungimiranza, questa è una ghiotta occasione per arricchire qualitativamente il proprio roster.

Tracklist:
1. Sun Eater
2. Collapsing Guts
3. She’s Calling Me
4. Caesar’s Whore
5. Death Is No Respecter
6. My Love Is Dead

Line-up:
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

Abske Fides – Abske Fides

E’ possibile che gli Abske Fides siano ancora alla ricerca di una stabilità che consenta loro di focalizzarsi su un percorso musicale ben definito.

Gli Abske Fides dopo una serie di interessanti Ep e una storia alle spalle già abbastanza lunga, arrivano all’esordio su lunga distanza con questo album autointitolato sotto l’egida delle sempre attiva Solitude.

Il lavoro in oggetto rappresenta un’ulteriore evoluzione del combo brasiliano che, dal black metal degli esordi, è passato successivamente a una forma di cavernoso funeral doom per giungere oggi a un particolare connubio tra doom e post-metal.
L’operazione riesce anche se non al 100%: infatti, se la proposta musicale è davvero valida nella sua alternanza tra parti cupe, con riff convincenti e vocals aggressive, e momenti più rarefatti con venature psichedeliche, alcune piccole imperfezioni esecutive e clean vocals non sempre all’altezza della situazione ne inficiano in parte la resa finale.
Ma, nonostante ciò, la band paulista dimostra d’avere numeri di prim’ordine, specialmente in brani intensi ed emozionanti come Won’t You Come e 4.48, o come in The Coldness of Progress, dove emergono inattese influenze opethiane.
L’album necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato in maniera ottimale, ma questo sforzo viene ripagato da una qualità compositiva comunque meritevole d’attenzione.
E’ possibile che gli Abske Fides, dopo le già menzionate sterzate stilistiche, siano ancora alla ricerca di una stabilità che consenta loro di focalizzarsi su un percorso musicale ben definito; questo full-length si colloca in ogni caso ben al di là della sufficienza e potrebbe trovare diversi estimatori tra gli appassionati di sonorità meno convenzionali.

Tracklist:
1. The Consequence of the Other
2. Won’t You Come
3. The Coldness of Progress
4. Aesthetic Hallucination of Reality
5. 4.48
6. Embroided in Reflections

Line-up:
K. – Drums, Bass, Vocals
Nihil – Guitars
Necrophelinthron – Guitars, Keyboards, Violin, Vocals

Evadne – The Shortest Way

Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Il secondo album degli iberici Evadne trova nella Solitude un’etichetta in grado finalmente di valorizzarlo e distribuirlo come merita, dopo la sua iniziale uscita come autoproduzione alla fine dello scorso anno.

Per valutare i progressi della band di Valencia può rivelarsi utile fare un raffronto con il precedente “The 13th Condition”, risalente al 2007, lavoro che, pur denotando ottimi spunti e collocandosi ad un livello più che discreto, denotava diverse imperfezioni sul versante della produzione oltre ad un sound orientato al gothic più canonico con l’inflazionato ricorso a voce femminile, violino e tastiere
Quattro anni non sono trascorsi invano e The Shortest Way lo dimostra pienamente: intanto la resa sonora del disco è stata affidata alle cure di Dan Swanö, un nome che sotto quest’aspetto è sinonimo di qualità, mentre i cliché tipici del gothic sono pressoché scomparsi lasciando spazio ad un death-doom che coniuga, in maniera esemplare, il senso di ineluttabile rovina dei My Dying Bride con le meste armonie dei Swallow The Sun.
Ad integrare un aspetto musicale di primissima qualità vanno evidenziati anche i testi intrisi di drammaticità che rendono l’album, di fatto, un concept legato alla morte della persona amata e alla conseguente incapacità di sopravvivere alla perdita subita da parte di chi resta. Mai come in questo caso si può affermare che le tematiche trattate siano in perfetta sintonia con il monicker della band, ispirato ad un personaggio della mitologia greca: Evadne, infatti, successivamente all’uccisione del marito Capaneo per mano di Zeus, si gettò sulla sua pira funebre decidendo di morire con lui.
Questa dimostrazione d’amore tragica quanto estrema viene adeguatamente descritta sia a livello lirico che musicale: il growl di Albert, migliorato in maniera esponenziale in questi anni, si rivela efficace nell’ergersi sulle melodie cupe e pregne di disperazione dei suoi compagni d’avventura.
Si fatica a individuare un brano che si stagli sugli altri in questo splendido album : dovendo proprio fare una scelta citerei Dreams in Monochrome, per la magnifica linea di chitarra che rappresenta alla perfezione la sensazione di sconcerto e turbamento evocata nel testo e All I Will Leave Behind, brano davvero commovente e poetico, nel corso del quale la disperazione del protagonista raggiunge il suo culmine con la decisione, comunicata a familiari e amici, di togliersi la vita pur di raggiungere la persona amata; con quali esiti, lo lascio scoprire a voi, ma è facile intuire che non ci sarà un lieto fine …
Gli Evadne con questo lavoro confermano, assieme a Helevorn e In Loving Memory, la vitalità della scena spagnola, dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che il death-doom non è prerogativa solo delle fredde lande nordiche, ma trova terreno fertile pure in corrispondenza delle assolate latitudini mediterranee.
Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Tracklist :
1. No Place For Hope
2. Dreams In Monochrome
3. This Complete Solitude
4. One Last Dress For One Last Journey
5. All I Will Leave Behind
6. The Wanderer
7. Further Away The Light
8. Gloomy Garden

Line-up :
Albert – vocals
Josan – guitars
Jose – bass
Ifrit – drums
Marc – guitars

When Nothing Remains – As All Torn Asunder

La band riesce a mantenere sempre un eccellente equilibrio, evitando da una parte di cadere nel’immobilismo di certo funeral e dall’altra di farsi attrarre irrimediabilmente dalla faciloneria di molte proposte gothic-doom.

I When Nothing Remains sono l’ennesima ottima espressione del doom scandinavo estratta dal magico cilindro della Solitude.

La band svedese è di recente formazione anche se i due musicisti coinvolti, Peter Laustsen e Jon Sallander, non sono certo alle prime armi; in particolare il primo è stato fino allo scorso anno una colonna portante dei validi gothic-doomsters Nox Aurea.
Come spesso mi trovo a sostenere in queste occasioni, il fatto che la proposta musicale non presenti particolari variazioni sul tema, non esclude a priori la possibilità di ascoltare un lavoro di qualità rilevante.
E’ questo il caso di All Torn Asunder, disco che attinge certamente a piene mani da quanto già prodotto dalle band che hanno fatto la storia del death-doom, ma con un gusto e una sensibilità compositiva davvero encomiabile.
In effetti, il sound dei nostri si presenta da subito come un riuscito mix tra Swallow The Sun e My Dying Bride (inevitabili quando si parla di death-doom), con un certo sbilanciamento però a favore dei primi.
Infatti, molti brani riportano alla mente le prime uscite della band finlandese, con l’uso di sonorità malinconiche contrappuntate da uno splendido lavoro di tastiera e dall’uso di un growl molto efficace; alcuni spunti melodici si rifanno alla migliore produzione dei Draconian, e forse non è un caso che Johan Ericson, che di questi ultimi è chitarrista e compositore, sia stato chiamato a produrre l’album e a prestare le proprie clean vocals.
Il disco, pur nella sua lunghezza che supera abbondantemente l’ora complessiva di durata, mantiene sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore, anche perché , pur mantenendo il mood malinconico che è il marchio di fabbrica del genere, ogni brano denota una certa varietà presentando break melodici con clean vocals, come nella coda dell’opener Embrace Her Pain, oppure ricorrendo ad riff granitici quanto efficaci (esemplare in questo senso la splendida The Sorrow Within); nel complesso si può tranquillamente affermare che la band riesce a mantenere sempre un eccellente equilibrio, evitando da una parte di cadere nel’immobilismo di certo funeral e dall’altra di farsi attrarre irrimediabilmente dalla faciloneria di molte proposte gothic-doom.
Il lavoro non presenta alcuna traccia più debole, quella che fa venire voglia di premere il tasto “skip”; ogni brano riesce a imporsi grazie alla capacità del duo nel creare atmosfere maliconiche e ricche di melodie memorabili: dovendo fare una scelta, davvero difficile in questa occasione, estrapolerei Mourning Of The Sun con una splendida linea chitarristica a far da guida nei suoi quasi nove minuti di durata, Her Lost Life, “swallowiana” più che mai, e la title-track, intrisa di drammaticità fin dall’intro tastieristico e dai rallentamenti ai confini del funeral.
I testi, come si può immaginare già dai titoli di ogni traccia, non trattano di elfi e dragoni o di epiche battaglie, ma sono intrisi di un lirismo cupo e privo di ogni barlume di speranza (… we have come to the final moment…)
Insomma, un album sul quale veramente non c’è nulla da eccepire e che cresce a ogni ascolto svelando ogni volta un nuovo interstizio ricolmo di struggente amarezza.
Ritengo che la proposta dei When Nothing Remains sia superiore per qualità e pathos rispetto a quanto già fatto dai Nox Aurea, pur battendo questi ultimi territori chiaramente più orientati al gothic; grazie alla scelta di Peter Laustsen, da oggi i malati di doom hanno un altro magnifico progetto sul quale fare affidamento.

Tracklist:
1. Embrace Her Pain
2. The Sorrow Within
3. A Portrait of the Dying
4. Mourning of the Sun
5. Solaris
6. Her Lost Life
7. In Silence I Conceal the Pain
8. As All Torn Asunder
9. Outro: Tears

Line-up :
Peter Laustsen – Vocals, All Instruments
Jon Sallander – Vocals, All Instruments

Frailty – Melpomene

I Frailty ci regalano più di un’ora e un quarto di death-doom di primissima qualità.

I Frailty giungono con Melpomene (nella mitologia greca, la musa della Tragedia) alla seconda prova su lunga distanza e non deludono le attese che si erano create dopo la pubblicazione dell’esordio “Lost Lifeless Light” del 2008 e dei successivi EP “Frailty” e “Silence Is Everything …”.

La band lettone con la sua proposta musicale si colloca sui territori death-doom già battuti in modo lusinghiero in questo spicchio di 2012 dagli iberici In Loving Memory; analogamente a questi ultimi i Frailty mostrano la loro spiccata attitudine nel comporre brani nei quali convivono in perfetta armonia aggressività e melodia.
A livello di ispirazione i nostri hanno rivolto lo sguardo verso le altre sponde del Baltico dove i riferimenti sono i Saturnus su quella danese, per quanto riguarda i brani risalenti all’EP del 2010, e i Swallow The Sun su quella finlandese, per i brani più recenti composti appositamente per questo disco.
In questo senso appare sorprendente la traccia d’apertura Wendigo che, con le sue sonorità più aspre rispetto alle produzioni precedenti dei lettoni, si avvicina ai brani di maggiore impatto dei Novembers Doom, anche se l’aspetto melodico non viene trascurato grazie ad uno splendido break a metà del brano.
Già la successiva Cold Sky, che inaugura un trittico di brani maestosi, sin dalle prime note chiarisce eventuali dubbi sorti su un possibile sbilanciamento delle composizioni verso il death, caratterizzandosi per il magnifico lavoro alla chitarra di Edmunds, capace di tratteggiare melodie sognanti e melanconiche allo stesso tempo; segue Desolate Moors che, nonostante i suoi quattordici minuti, non accusa cali di tensione con le sue ritmiche pachidermiche ben coadiuvate dalla tastiera di Ivita, per un risultato degno dei migliori Saturnus.
Underwater chiude l’ideale prima parte del disco ed è un brano semplicemente grandioso che racchiude in sé tutte le caratteristiche essenziali del death-doom: grandi riff, melodie dolcemente ammantate di mestizia e un growl proveniente dagli abissi più reconditi.
Onegin’ s Death è una traccia strumentale acustica che funge come introduzione di altro magnifico trittico di brani, partendo da The Doomed Hall Of Damnations, che lambisce territori funeral con le sue atmosfere soffocanti, per passare da Eternal Emerald, che ci riporta ad un clima decisamente più arioso, e concludendo con Thundering Heights, che è l’altra perla del disco, con Edmunds sugli scudi grazie a un memorabile assolo di chitarra nella parte finale.
Melpomene, pubblicato dall’attiva label ucraina Arx Productions, si chiude degnamente con un altro brano strumentale, The Cemetery Of Colossus, lasciando appagato chi sperava di trovare conferma alle potenzialità in precedenza espresse dalla band.
Andando alla ricerca del classico pelo nell’uovo, si nota una lieve discontinuità tra i brani meno recenti e quelli nuovi, cosa che normalmente accade quando nel pubblicare un full-length si includono anche pezzi già editi in demo, singoli o EP.
Nulla che possa influire sul giudizio finale, sia chiaro, soprattutto quando una band come i Frailty ci regala più di un’ora e un quarto di death-doom di primissima qualità, con un vocalist dal growl terrificante, un chitarrista dal tocco personale e dal grande gusto melodico e altri quattro ottimi musicisti che forniscono il loro contributo preciso ed essenziale alla riuscita di un bellissimo album.

Tracklist:
1. Wendigo
2. Cold Sky
3. Desolate Moors
4. Underwater
5. Onegin’s Death
6. The Doomed Halls of Damnation
7. Eternal Emerald
8. Thundering Heights
9. The Cemetery of Colossus

Line-up:
Lauris Polinskis – Drums
Edmunds Vizla – Guitars, Vocals
Ivita Puzo – Keyboards
Martins Lazdāns – Vocals
Jānis Jēkabsons – Bass
Jēkabs Vilkārsis – Guitars (rhythm)

(EchO) – Devoid Of Illusions

Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Devoid Of Illusions è il miglior esordio discografico che mi sia capitato di ascoltare da diverso tempo a questa parte.

I bresciani (EchO) sono l’ennesima pietra preziosa che, con la consueta lungimiranza, la Solitude Productions (tramite la sub-label BadMoodman) lancia nella scena doom mondiale; anche se, in effetti, racchiuderli in maniera semplicistica all’interno del genere appare riduttivo.
Infatti i nostri, pur muovendosi chiaramente nell’ambito di competenza dell’etichetta con sede a Orel (Russia), riescono a fornire al loro sound una serie di sfumature e di influenze che spaziano dal gothic/doom più classico fino ad un progressive dalla tonalità darkeggianti.
Tale progetto riesce alla perfezione grazie alle innegabili capacità tecniche della band e a un vocalist come Antonio Cantarin in grado di passare con disinvoltura dal growl più catacombale a clean vocals evocative e prive di qualsiasi sbavatura.
In un quadro di questo genere la classica ciliegina sula torta è costituita da una produzione che valorizza al massimo le sonorità dell’album a cura di un autentico mostro sacro del doom metal, ovvero Greg Chandler, mastermind degli Esoteric.
In Devoid Of Illusions tutto funziona alla perfezione, ciascun brano possiede un’impronta che lo rende memorizzabile e distinguibile dagli altri, benché certamente non si stia parlando di musica di facile presa.
Del resto, proprio ciò che ad un primo impatto potrebbe costituire il punto debole del lavoro, ovvero l’eterogeneità stilistica che si manifesta anche all’interno delle singole tracce, in realtà finisce per rivelarsi il valore aggiunto dato che l’alternanza tra atmosfere apparentemente discordanti tra loro avviene magicamente in maniera del tutto naturale e spontanea.
Prendendo in esame alcune dei brani, The Coldest Land vive sull’avvicendamento tra arpeggi delicati prossimi ai Katatonia ed un’irresistibile melodia chitarristica contrassegnata da un growl impetuoso, mentre Omnivoid si caratterizza per un riff pesantissimo che improvvisamente si dissolve per lasciare spazio a sonorità prossime al depressive metal.
Disclaiming My Fault è un’altra delle tante perle dell’album, un brano che nasce con un’impronta prog alla Porcupine Tree che viene trasfigurata nel finale da un furioso death metal; Once Was A Man invece risalta come un’eccezione nel contesto dell’album poiché, se come la precedente traccia si muove inizialmente su territori contigui alla band di Steve Wilson, finisce per confluire in passaggi degni dei Cure di “Disintegration”; in sintesi : splendido !
Sounds From Out Of Space chiude alla grande il lavoro con la partecipazione dello stesso Greg Chandler che, con la sua voce e la sua chitarra, finisce inevitabilmente per “esoterizzare” il brano, ma questo non è certo un male, anzi …
Proprio il contrasto tra il cupo funeral doom introdotto dall’illustre ospite e le caratteristiche aperture post metal che, giunti alla fine dell’album, abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare, si erge a simbolo dell’intero lavoro e dimostra quanto il talento degli (EchO) renda naturale la convivenza tra sonorità apparentemente incompatibili.
Non c’è molto altro da aggiungere se non l’esortazione nei confronti di chi ama la buona musica (non solo il metal) affinché supporti questa magnifica realtà nostrana.
Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Tracklist:
1. Intro
2. Summoning the Crimson Soul .
3. Unforgiven March
4. The Coldest Land
5. Internal Morphosis
6. Omnivoid
7. Disclaiming My Faults
8. Once Was a Man
9. Sounds From Out of Space

Line-up:
Antonio Cantarin – Vocals
Mauro Ragnoli – Guitars
Simone Saccheri – Guitars
Simone Mutolo – Piano, Keyboards
Agostino Bellini – Bass
Paolo Copeta – Drums

In Loving Memory – Negation Of Life

Gli In Loving Memory ottengono il nostro plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Gli In Loving Memory costituiscono, assieme a Helevorn, Evadne ed Autumnal, la massima espressione in ambito death-doom della penisola iberica.

I doomsters spagnoli nascono come band nel 2005 ed un anno dopo pubblicano un primo demo influenzato da uno dei trend dell’epoca , ovvero il gothic- doom con voce femminile.
La scelta di virare verso sonorità più robuste, oltre a quella di affidare le vocals al chitarrista Juanma, si rivela vincente e già in “Tragedy & Moon” del 2008 vengono messe in mostra le qualità che ritroviamo in Negation Of Life , lavoro che presenta una band in grande spolvero e focalizzata sull’obiettivo di produrre un sound pesante e malinconico come il genere esige.
A tale proposito, posiamo collocare gli In Loving Memory nel solco stilistico tracciato, ad altre latitudini, dagli Swallow The Sun in particolare, ma senza che per questo la band rinunci ad esprimere la necessaria personalità
L’album è caratterizzato da riff robusti, solos malinconici, un growl corrosivo ed un lavoro di tastiere efficace senza essere mai invadente, il tutto supportato da una produzione encomiabile. Grazie a queste caratteristiche ed all’ottimo bilanciamento tra parti aggressive e momenti melodici tutti i brani si lasciano ascoltare senza alcun affanno.
La traccia iniziale, Even A God Can Die è forse quella che concede meno spazio alle melodie, riservando solo a qualche breve inserto pianistico il compito di contrastare la pesantezza delle chitarre e della base ritmica, ma già dalla successiva Skilled Nihilism la proposta degli iberici si fa più immediata ed accattivante.
Adversus Pugna Tenebra parte con un arpeggio delicato ed una voce sussurrata per poi sfociare in un riff melodico che ricorda un’altra grande band mediterranea come i greci Nightfall.
La title-track è un altro splendido episodio che, per le sue atmosfere malinconiche, non avrebbe affatto sfigurato in un capolavoro come The Morning Never Came, mentre November Cries e Through a Raindrop si rivelano più coinvolgenti nel finale quando la chitarre di Jorge e Juanma costruiscono linee melodiche struggenti.
Shimmering Divinity emerge come uno dei picchi dell’album grazie ad una seducente armonia chitarristica che lascia successivamente spazio ad un break di chiara matrice death per poi abbandonarsi a quelle atmosfere dolenti che, con la loro presenza, caratterizzano l’intero lavoro.
Celestial costituisce l’episodio più acustico del lotto, mentre Nulla Religio, Solum Veritas chiude l’album così come era iniziato, all’insegna di una rabbiosa malinconia tratteggiata da testi pervasi da una sconfinata amarezza .
La Solitude Prod. (qui tramite la sublabel BadMoodMan) continua a proporci band relativamente nuove ma tutte di elevato livello e gli In Loving Memory non fanno eccezione, ottenendo il nostro un plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Tracklist:
1. Even a God Can Die
2. Skilled Nihilism
3. Adversus Pugna Tenebras
4. Negation of Life
5. November Cries
6. Shimmering Divinity
7. Through a Raindrop
8. Celestial
9. Nulla Religio, Solum Veritas

Line-up:
Raúl Arauzo – Bass
Jorge Araiz – Guitars
Juanma Blanco – Vocals, Guitars
Mauricio C. – Drums
Alberto O. – Keyboards

IN LOVING MEMORY – Facebook

Mare Infinitum – Sea Of Infinity

I Mare Infinitum riescono a condurre saldamente per mano l’ascoltatore all’interno degli oscuri meandri evocati nei loro brani.

In questi ultimi anni la Russia si sta rivelando un’autentica fucina di band dedite alle forme di metal più plumbee e malinconiche, ovvero il doom nelle sue varianti death e funeral.

Questo movimento in costante evoluzione trova il suo naturale sbocco in un’etichetta autoctona come la Solitude Productions, che ha avuto il merito di inserire all’interno del proprio roster una serie di nomi che stanno contribuendo a riscrivere la storia del genere.
I Mare Infinitum sono alla loro prima uscita discografica ma certo non possono essere definiti dei debuttanti in quanto i due musicisti coinvolti nel progetto sono piuttosto noti nella scena dell’ex Unione Sovietica : Homer, polistrumentista ex-Who Dies In Siberian Slush ed il più noto A.K. iEzor batterista e cantante di Comatose Vigil e Abstract Spirit.
Inevitabilmente il genere proposto dai due non si discosta di molto da quanto prodotto dalle band appena menzionate, ma è comunque apprezzabile il tentativo di inserire momenti di discontinuità rispetto agli schemi compositivi consueti, grazie alle frequenti aperture melodiche e all’utilizzo di diversi ospiti alle clean vocals in alternanza al canonico growl.
Il doom in fondo non è genere che si presti troppo a voli pindarici da parte dei suoi interpreti e per certi versi la fedeltà ai modelli consolidati costituisce garanzia di fedeltà e dedizione totale alla causa della “musica del destino”.
Il metodo ideale per assaporare le sonorità funeree ed allo stesso tempo emozionanti di questo lavoro è quello di approcciarlo con la giusta predisposizione mentale, rinunciando a ricercare chissà quali novità stilistiche o compositive.
I Mare Infinitum assolvono pienamente alla loro missione con un album ricco di momenti delicatamente malinconici, sia con brani virati verso il death/doom, come l’iniziale In Absence We Dwell o in Beholding The Unseen, così come in parte della strumentale November Euphoria, con i suoi passaggi prossimi al quella gemma preziosa che e’ stata “They Die” degli Anathema, sia con due episodi decisamente più orientati al funeral come In The Name Of My Sin e la superlativa Sea Of Infinity.
A chi potrebbe aver da obiettare nei confronti di un giudizio del tutto positivo, rimarcando la scarsa originalità della proposta, ricordo che ci sono band come Motorhead e AC/DC, tanto per citare due nomi “qualsiasi”, che propongono fondamentalmente lo stesso disco da 20 anni eppure nessuno osa batter ciglio in nome di una effettiva e consolidata integrità stilistica; la realtà è che, se un album è bello, lo è punto e basta.
Se in questo o quel passaggio i Mare Infinitum possono ricordare i Comatose Vigil piuttosto che gli Ea, ma riescono a condurre saldamente per mano l’ascoltatore all’interno degli oscuri meandri evocati nei loro brani, significa che l’obiettivo è stato raggiunto pienamente .
Io non mi sono ancora stufato di ascoltare Sea Of Infinity, provate a scoprire se vi farà lo stesso effetto…

Tracklist:
1. In Absence We Dwell
2. Sea of Infinity
3. Beholding the Unseen
4. November Euphoria
5. In the Name of My Sin

Line-up:
Homer – Vocals, Drums
A.K. iEzor – Guitars, Bass, Programming, Lyrics