In quasi un’ora, Nikolay Seredov riesce a convogliare con grande proprietà compositiva le varie fonti di ispirazione che vanno a comporre questo bel monolite sonoro di puro e melanconico dolore.
E’ da circa un decennio che il musicista russo Nikolay Seredov è sulla scena con questo suo progetto solista denominato Funeral Tears.
Ovviamente, un simile monicker lascia ben pochi dubbi sul genere prescelto, che altro non può essere se non un dolente e malinconico funeral/death doom, e in questi casi l’unica discriminante rispetto a molte altre realtà dello stesso tenore è la competenza nell’approccio al genere. Beyond The Horizon è il terzo fulll length che, dopo prove buone ma ancora leggermente acerbe come Your Life My Death (2010) e The World We Lost (2014), eleva la creatura di Nikolay ad uno status decisamente superiore: nell’album, infatti, tutto funziona per il meglio, a partire da un’ottima resa sonora, base ideale sulla quale erigere un sound che oscilla tra il funeral ed il death doom melodico, con qualche puntata nell’ambient.
In quasi un’ora, il musicista di Tomsk riesce a convogliare con grande proprietà compositiva le varie fonti di ispirazione che vanno a comporre questo bel monolite sonoro di puro e melanconico dolore: chiaramente il tutto è rivolto a quella nicchia di ascoltatori che si nutre avidamente di queste sonorità e che verranno ampiamente ripagati, per esempio, da due tracce magnifiche come Breathe e la conclusiva e struggente Eternal Tranquillity.
In Beyond The Horizon sono ottime le vocals, costituite di norma da un growl profondo che, ogni tanto però, sconfina in un aspro screaming, ed appaiono convincenti anche le trame chitarristiche, lineari ma dal necessario impatto emotivo: i Funeral Tears offrono tutti gli ingredienti capaci di rendere un disco di tale caratteristiche qualcosa di molto simile ad una vertiginosa discesa, senza possibilità di ritorno, nei gorghi della psiche umana.
Tracklist:
1. Close My Eyes
2. Breathe
3. Dehiscing Emptiness
4. I Suffocate
5. Beyond The Horizon
6. Eternal Tranquillity
Il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il genere con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre convince meno il tentativo di rendere il sound più catchy nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic.
Degli spagnoli Graveyard Of Souls ci eravamo già occupati qualche anno fa, in occasione del loro primo full length Shadows Of Lifes.
Autori di un buon gothic death doom, all’epoca i nostri non erano apparsi in grado di elevarsi oltre un livello medio, comunque apprezzabile, e non è che l’impressione vada a modificarsi più di tanto con questo nuovo Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado, album che arriva dopo altre due opere su lunga distanza, Infinitum Nihil e Todos los caminos llevan a ninguna parte.
L’interpretazione del genere da parte di Raul e Angel non lascia spazio a particolari critiche né dal punto di vista esecutivo né da quello della produzione (anche se quest’ultimo aspetto è senz’altro migliorabile), perché in questo genere li ritengo elementi marginali rispetto al potenziale emotivo di un’opera: il problema è che, in buona sostanza, vengono meno quei guizzi capaci di rendere identificabile il sound.
Va detto, ad onore dei Graveyard Of Souls, che alcuni brani si dimostrano senz’altro all’altezza della situazione, specie quando questi possiedono un maggiore respiro atmosferico: non mancano così spunti melodici di buona fattura, come nelle buone Entre fragmentos de locura, Cementerio de ilusiones e Al atardecer, che contribuiscono a mantenere l’album al di sopra della linea di galleggiamento senza però che l’attenzione dell’ascoltatore venga catturata con la necessaria continuità.
Sicuramente il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il death doom con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre le fasi contraddistinte dal tentativo di rendere il sound più catchy, nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic, non convincono anche per l’apparente discrasia stilistica che si manifesta in alcuni momenti dell’album (piuttosto superfluo, per esempio, lo strumentale Across the Cygnus Loop).
Come per l’album d’esordio, non resta così che derubricare l’operato dei Graveyard Of Souls ad un’interpretazione gradevolmente retrò di queste sonorità, senza però che lo scorrere del tempo abbia portato all’auspicato salto di qualità.
Tracklist:
1. Todo se desvanece lentamente
2. Entre fragmentos de locura
3. Beyond the Black Rainbow
4. Cementerio de ilusiones
5. As Lightday Yields (Lake of Tears cover)
6. Al atardecer
7. Across the Cygnus Loop
8. Kristallnacht
Line-up:
Angel Chicote: Music & Lyrics
Raúl Weaver: Vocals
Il death doom dei Sincarnate è pervaso da una costante tensione: la band si muove con grande consapevolezza su un terreno scivoloso, sul quale una minore competenza nel maneggiare la materia porterebbe inevitabilmente a tediare l’audience, cosa che non avviene mai grazie a spunti ora ritmici, ora melodici, esaltati da un produzione di qualità.
Ancora da un suolo rumeno che si sta rivelando sempre più fertile in tema di metal, giunge una proposta di grande interesse a base di death doom, dalla buona personalità ed altrettanta intensità, da parte dei Sincarnate.
In effetti, il genere citato non fotografa correttamente lo stile del gruppo di Bucarest, che immette anche nel proprio sound massicce dosi di black e death metal, con un’aura epica e liturgica che sposta le coordinate altrove rispetto all’interpretazione del genere delle band scandinave, per esempio. In Nomine Homini, così come fanno presagire il titolo e la copertina, oltre che presentare molte parti corali cantate in latino, verte su tematiche religiose, ovviamente rivedute e corrette secondo la personale visione di questo gruppo di musicisti.
L’album, considerando anche le due bonus track, si spinge oltre l’ora complessiva di durata, mettendo comunque alla prova l’attenzione degli appassionati, visto che l’approccio stilistico proposto dai Sincarnate non è mai ammiccante o sbilanciato sul versante melodico, bensì mostra l’intento della band di trascinare l’ascoltatore nel proprio gorgo, rappresentando la religione come tutt’altro che un’estrema ancora di salvezza.
Una rilettura, quella contenuta in In Nomine Homini, che ridisegna a tinte fosche l’impatto del culto del divino sull’umanita, evidenziandone le discrasie e, di fatto, spiegandone attraverso diversi fermi immagine quanto le varie credenze abbiano frenato lo sviluppo dell’autoderminazione dell’uomo, cosa della quale ancora oggi finiamo per pagarne le conseguenze, per assurdo forse ancor più che in epoche definite oscurantiste.
Il death doom dei Sincarnate è pervaso da una costante tensione, che il frequente ricorsi a campionamenti di urla strazianti o di voci recitanti contribuisce a mantenere sempre elevata; la band si muove con grande consapevolezza su un terreno scivoloso, sul quale una minore competenza nel maneggiare la materia porterebbe inevitabilmente a tediare l’audience, cosa che non avviene mai grazie a spunti ora ritmici, ora melodici, esaltati da un produzione di qualità (alla quale ha contribuito anche un nume tutelare della scena estrema rumena come Edmond Karban).
Non serve più di tanto entrare nel dettaglio dei vari brani, visto che In Nomine Homini deve essere assimilato come un continuum che trova il suo termine con la magnifica Liwyatan, traccia che tra voci angeliche, canti gregoriani, ritmiche squadrate ed il growl impietoso di Marius Mujdei, si rivela quale autentica summa concettuale e musicale dei Sincarnate.
Infatti, i due pur ottimi brani finali sono altrettante bonus track che vanno considerate come a sé stanti nell’economia di un album decisamente bello, da lavorare però con dedizione e proprio per questo foriero di soddisfazione non appena si riesce a decrittarne l’essenza.
Tracklist:
1. Attende Domine
2. Agrat bat Mahlat
3. Curriculum Mortis
4. She-Of-The-Left-Hand (Sophia Pistis)
5. In Nomine Homini
6. The Grand Inquisitor
7. Lamentatio Christi
8. Dies Illa
9. Liwyatan
10. De Luctum Perpetuum
11. Atonement
Line up:
Andrei Jumuga – drums
Andrei Zala – bass
Marius Mujdei – vocals
Giani Stanescu – guitars
Cristian Stilpeanu – guitars
Per gli Imindain un ritorno gradito e tutt’altro che superfluo, con la ragionevole speranza che questo ep sia il logico antipasto di un nuovo lavoro su lunga distanza dal quale, oggettivamente, ci si aspetta molto.
Gli inglesi Imindain si erano palesati all’attenzione degli appassionati di doom alla metà dello scorso decennio con due demo, seguiti dal full length And the Living Shall Envy the Dead…
Due split album nel 2009 sembravano aver chiuso l’avventura della band che, invece, dopo otto anni di silenzio si ripresenta con questo lungo ep, fatto di un’intro, due brani inediti ed una cover dei Disembowelment.
Il death doom del trio di Stoke On Trent è ostico ma non privo di spunti melodici, oscillando tra ruvidezze death e il malinconico abbandono del funeral, delineato da una dolente chitarra solista che, sicuramente, aumenta il potenziale evocativo del lavoro.
A livello di riferimenti vengono citati in sede di presentazione quasi tutti i numi tutelari del settore, dai quali gli Imindain attingono con giudizio e mettendoci molto della loro ineccepibile attitudine.
Così, tra accenni all’imprescindibile scuola funeral finlandese (il chitarrista D.L., peraltro, ha fatto parte dei Profetus fino a pochi anni fa), e a quella australiana, omaggiata appunto con la cover dei seminali Disembowelment, The Enemy of Fetters and Dwellers in the Woods scorre in maniera tutt’altro che indolore, lasciando sul campo la giusta dose di fosca mestizia con i due inediti The Final Godhead e A Paean to the Vermin, entrambi caratterizzati da suoni più aspri nella prima parte per poi aprirsi alle emozioni destate da un sapiente uso delle sei corde nella fase discendente.
La stupenda cover di Cerulean Transience of All My Imagined Shores è la ciliegina sulla torta piazzata al termine di un opera convincente: la traccia è resa ottimamente dal terzetto senza snaturarne l’essenza e anzi, mantenendo pressoché intatte le caratteristiche di un pezzo di storia del doom composto quasi un quarto di di secolo fa.
Un ritorno gradito e tutt’altro che superfluo, quindi, per gli Imindain, con la concreta speranza che questo ep sia il logico antipasto di un nuovo lavoro su lunga distanza dal quale, oggettivamente, ci si aspetta molto.
Tracklist:
1. To Meditate upon the Face of Forgotten Death
2. The Final Godhead
3. A Paean to the Vermin
4. Cerulean Transience of All My Imagined Shores (Disembowelment cover)
L’opera prima dei Ruin è senz’altro valida, magari non ancora all’altezza delle migliori espressioni del genere, ma ricca di spunti interessanti che fanno ragionevolmente ritenere i due musicisti dell’Alberta in possesso di tutti i mezzi per incidere, con ancor più efficacia e convinzione, alla prossima occasione.
Prima apparizione per i canadesi Ruin, autori di un death doom melodico di buona fattura.
L’intento di offrire un’interpretazione molto più malinconica che non pervasa da umori drammatici, da parte del duo proveniente dall’olimpica Calgary, è piuttosto scoperto, per cui è più la gradevolezza dell’insieme a colpire l’ascoltatore anziché il ricorso a sonorità plumbee o venate di toni drammatici.
Questo, se da un lato conferisce una buona fruibilità al lavoro, dall’altro gli fa perdere un po’ in profondità, impedendogli forse di lasciare un segno più marcato.
Infatti, quando il sound si avvolge maggiormente di tonalità oscure ed inquiete, l’album subisce una notevole scossa: ne è esempio eloquente l’ottima The Core, il cui andamento decisamente più cupo ricorda non poco l’operato dei Doomed, specialmente nel suono della chitarra; resta comunque molto valido l’approccio dei due ragazzi canadesi nel suo complesso, proprio perché il lavoro appare ben costruito e sempre piacevole nella sua linearità (da non confondere con banalità).
Oltre al brano già citato, sono rimarchevoli gli spunti più robusti ed emotivamente impattanti, esibiti in Beyond Good and Evil e Withering of Gaia, e le melodie tenuamente funeree della conclusiva A Distant View; buono ed appropriato l’utilizzo alternato del growl e delle clean vocals, pur se quest’ultime perfettibili, mentre la prestazione strumentale è piuttosto limpida, avvalendosi anche di una produzione soddisfacente.
In definitiva, l’opera prima dei Ruin è senz’altro valida, magari non ancora all’altezza delle migliori espressioni del genere, ma ricca di spunti interessanti che fanno ragionevolmente ritenere i due musicisti dell’Alberta in possesso di tutti i mezzi per incidere, con ancor più efficacia e convinzione, rispetto a quanto già esibito positivamente in questa occasione
Tracklist:
1. Contagion I
2. Beyond Good and Evil
3. And She Wept
4. The Core
5. Cubensis
6. The Sleeper Awakens
7. Withering of Gaia
8. Chapter One
9. Contagion II
10. A Distant View
Line-up:
Zach Boser – Bass, Drum programming, Guitars, Piano, Synthesizers, Vocals
Adam Smith – Drum programming, Lyrics, Piano, Vocals
Questo ritorno dei Frailty mostra una decisa sterzata verso un indurimento sonoro che, comunque, non snatura l’indole doom della band, ma ne sposta con più decisione le coordinate sonore verso il death.
Terzo full lenght per il lettoni Frailty, band che in oltre un decennio decennio di attività non ha certo brillato per prolificità, contrariamente alla qualità sonora esibita, sempre all’insegna di un death doom di prima qualità.
Melpomene, uscito nel 2012, era un album che in parte risentiva di una tracklist nella quale convergevano brani composti in fasi diverse della storia del gruppo, per cui a tratti affiorava una certa discontinuità che veniva comunque compensata al meglio dalla bontà complessiva di ogni singolo episodio. Ways Of The Dead si nutre di tematiche lovecraftiane e la band di Riga inasprisce non poco il proprio approccio, ripartendo in qualche modo dal brano che apriva il precedente lavoro, Wendigo: i riferimenti naturali cessano così d’essere i maestri del death doom melodico nordeuropeo, lasciando invece che l’ispirazione veleggi oltreoceano, assimilando e rielaborando spunti prossimi ai Novembers Doom .
Tale scelta, se inizialmente spiazza, in corso d’opera si rivela convincente anche se le atmosfere dolenti e malinoniche del passato divengono un ricordo e senz’altro mancheranno a chi predilige maggiormente questo aspetto nel death doom: i nostri scaricano così’ una bella gragnuola di colpi, senza perdere del tutto di vista le proprie radici doom ma rendendole davvero granitiche e aspre in diversi passaggi.
Un impatto più fisico che emotivo, di matrice essenzialmente death, pare essere quindi il filo conduttore di un lavoro che, tutto sommato, va in senso contrario alle abitudini consolidate, che vedono le band semmai ammorbidire il proprio sound con il passare del tempo.
Anche quando il doom, nella sua forma più consueta, prende finalmente campo nel finale con la notevole Alhazred (nome ben noto ai lovecraftiani incalliti), ciò avviene comunque in maniera molto più densa ed oscura che non cristallina ed emotiva.
Un inquietante ronzare di insetti (meglio non sapere attorno a cosa, ma è facile immaginarlo) chiude un album che potrà lasciare qualche perplessità ai primi ascolti, per poi risultare sempre più incisivo man mano che si familiarizza con mazzate quali l’opener And The Desert Calls My Name, Cthulhu, Ia Shub Niggurrath e Scorpion’s Gift, anche se il finale, come detto, riporta ad un approccio più vicino allo stile del passato con la traccia di chiusura. Fa abbastanza storia a sé la a tratti orientaleggiante The House In The Lane Of Scholars, con accenni che si spingono fino ai migliori Iced Earth.
In definitiva, questo ritorno dei Frailty mostra una decisa sterzata verso un indurimento sonoro che, comunque, non snatura l’indole doom della band, ma ne sposta con più decisione le coordinate sonore verso il death, perdendo qualcosa in fascino ed acquistando altrettanto in concretezza: tra il dare e l’avere preferisco sempre tenermi Melpomene, ma Ways Of The Deadresta comunque una buonissima prova.
Tracklist:
1. And The Desert Calls My Name
2. Daemon Sultan
3. Cthulhu
4. Whit The Deep Ones I Descend
5. Tombs Of Wizards
6. Ia Shub Niggurrath
7. The Beast Of Baylon
8. Scoropion’s Gift
9. The House In The Lane Of Scholars
10. Alhazred
Line up:
Mārtiņš Lazdāns – Vocals
Edmunds Vizla – Guitars & Vocals
Jēkabs Vilkārsis – Guitars
Andris Začs – Bass
Lauris Polinskis – Drums & Percussions
Where Darkness Swallow The Sun si attesta su un livello medio alto, magari non sullo stesso piano dei capolavori che il genere sforna con buona regolarità, ma senz’altro di grande sostanza e di gradevole ascolto.
Quasi cinque anni dopo il buon esordio su lunga distanza Leaving The Place Forgotten By Gods ritornano gli ucraini Embrace Of Silence,con il loro eccellente death doom.
All’epoca definimmo quell’album come un’operazione riuscita, in quanto tutto sommato neppure troppo derivativa e dipendente dalle pesanti influenze delle band di riferimento del genere: tale giudizio vale anche per il nuovo Where Darkness Swallow The Sun, nel quale lo stile del gruppo assume contorni ancora più nitidi, benché scevri da ogni tentazione innovativa.
L’album si dipana lungo una serie di tracce dall’incedere oscuramente melodico, con uno sguardo rivolto più alla scuola nordamericana che non a quella scandinava, quindi, per essere sintetici, più affine ai Daylight Dies che non ai Swallow The Sun, benché il titolo dell’album possa suggerire il contrario: alla riuscita del tutto, poi, contribuisce in maniera decisiva quel tocco drammatico che è l’impronta di molte band provenienti dall’ex-URSS.
In un contesto di buona compattezza qualitativa si stagliano la title track, piuttosto movimentata per ritmi e soluzioni melodiche, e la stupenda In The Embrace Of The Stygian River, segnata da un eccellente lavoro chiotarristico che delinea un tema portante davvero struggente.
Proprio le sei corde assumono il totale controllo della situazione, in virtù della rinuncia sostanziale alle tastiere, che venivano invece utilizzate più generosamente in Leaving The Place Forgotten By Gods: questo rende il suono senz’altro più roccioso ed asciutto senza fargli perdere, però, i tipici connotati dolenti anzi, attribuendogli forse anche una maggiore incisività. Where Darkness Swallow The Sun si attesta su un livello medio alto, magari non sullo stesso piano dei capolavori che il genere sforna con buona regolarità, ma senz’altro di grande sostanza e di gradevole ascolto; come per altre band del settore i tempi molto dilatati tra un’uscita e l’altra con aiutano a tenere caldo il nome, per cui una nuova release in tempi leggermente più ristretti potrebbe avere una doppia valenza, quella di fissare nella mente degli appassionati il monicker Embrace Of Silence, oltre alla possibilità di accelerare quell’ulteriore salto di qualità che pare essere nelle corde della valida band ucraina.
Tracklist:
1. The DesertOf Your Mind
2. Where Darkness Swallow The Sun
3. Faceless
4. Last Winter
5. Cyclic Motions
6. Idols Defame Your Faith
7. In The Embrace Of The Stygian River
King Delusion ha tutte le caratteristiche per essere apprezzato da chi ama partiture robuste, ritmate e un po’ malinconiche, soprattutto perché impeccabile per resa sonora e dalla fruibilità relativamente elevata.
King Delusionè il terzo album dei tedeschi Nailed To Obscurity in circa un decennio di carriera.
Indubbiamente i ragazzi della Bassa Sassonia devono essere soliti a prendersi il loro tempo prima di dare alle stampe un nuovo disco, ma tutto sommato i frutti compensano le attese; intendiamoci, qui non si parla di un lavoro epocale e capace di sposate gli equilibri all’interno del death doom melodico, ma sicuramente siamo in presenza di un’opera di indubbio spessore esecutivo e con più di un passaggio dal grande impatto.
Se vogliamo, quello che potrebbe esser il punto di forza dei Nailed To Obscurity, ovvero l’incontro tra il death melodico di scuola scandinava e quello venato di doom, potrebbe rivelarsi anche un aspetto negativo, rischiando di non accontentare i fans più intransigenti in nessuna delle due correnti.
Al di là di questo, King Delusion ha tutte le caratteristiche, invece, per essere apprezzato da chi ama partiture robuste, ritmate e un po’ malinconiche, soprattutto perché impeccabile per resa sonora e dalla fruibilità relativamente elevata.
Provando a shakerare con una certa pervicacia Novembres Doom, Dark Tranquillity, Opeth e Swallow The Sun, quelle che ne salta fuori è a grandi linee il contenuto di quest’album, che vede i suoi picchi in Memento e Devoid, brani che si avvolgono di linee chitarristiche decisamente coinvolgenti, mentre il resto della tracklist non delude e non esalta, lasciando comunque sensazioni abbastanza positive al termine dell’ascolto.
Se proprio devo fare un appunto ai Nailed To Obscurity è la mancanza di una certa profondità, compensata non del tutto dalla padronanza del genere: il re non risulta affatto una delusione, ma alla lunga alcune delle caratteristiche evidenziate impediscono all’album di raggiungere l’eccellenza nonostante, ripeto, l’ascolto si riveli alquanto gradevole.
Il terzo full length dei Marche Funèbre è sicuramente quello della consacrazione, anche se non mancano margini di ulteriore miglioramento.
I belgi Marche Funèbre appartengono a quella tipologia di band che hanno avuto una crescita graduale nel corso degli anni.
Se il primo lavoro su lunga distanza, To Drown, aveva ricevuto pareri discordanti, Root Of Grief aveva già mostrato una progressione importante che non era però ancora sufficiente per portare il gruppo fiammingo al livello delle migliori realtà europee del death doom: l’operazione riesce con questo buonissimo Into The Arms Of Darkness, per la soddisfazione degli estimatori del genere.
Va detto subito che l’album ruota indubbiamente attorno ad un brano magnifico come Lullaby of Insanity, che gode di soluzioni melodiche di gran pregio e si imprime con un certo agio nella memoria, nonostante la sua lunghezza sfiori il quarto d’ora (condivisibile al 100% la scelta di abbinarvi un riuscito video); il risultato è ottimale grazie alle soluzioni brillanti che ben si sposano con l’interpretazione vocale versatile e sentita di Arne Vandenhoeck, con l’unico neo di un break centrale recitato che, per quanto funzionale a livello lirico, finisce inevitabilmente per spezzare il pathos del brano.
A proposito del vocalist, è apprezzabile la sua capacità di districarsi con disinvoltura tra growl, scream e clean vocals, anche se queste ultime non sempre sono stabili per intonazione, ma ciò viene compensato da una spiccata carica evocativa; il riferimento naturale a livello stilistico non può che essere comunque Stainthorpe, per il tipico incedere cantilenante che tutti noi abbiamo imparato ad amare.
Del resto l’interpretazione del genere dei Marche Funèbre è quanto mai ortodossa e trae linfa, appunto, dalla tradizione del death doom albionico, per conferirvi poi una certa vis melodica espressa dal pregevole lavoro di Peter Egberghs alla chitarra solista, ma rinunciando all’uso delle tastiere, strumento che in certi frangenti si sarebbe rivelato utile per riempire un sound talvolta troppo asciutto (come per esempio nel brano di chiusura The Garden of All Things Wild).
Detto ciò, Into The Arms Of Darknessè un disco che parte con il piede giusto fin dall’opener Deprived e così si snoda, prima tramite un’altra traccia dall’andamento simile (Capital of Rain) e contrassegnata da sempre buone linee melodiche, poi con un brano relativamente differente per ritmiche e costruzione come Uneven, carico di tensione nella sua parte iniziale per poi stemperarsi in un lento e più tradizionale deflusso sonoro.
L’episodio conclusivo è invece ingannevole, perché per 2/3 del suo sviluppo appare troppo ripiegato sulle posizioni dei My Dying Bride nella loro versione più statica, ma si riscatta ampiamente con una parte finale dall’elevata emotività: in ogni caso, gli sporadici cali risultano un peccato veniale allorché inseriti nel contesto di un’opera dalla durata corposa, non andando ad inficiarne in alcun modo la resa complessiva.
Sebbene perfettibile in qualche frangente, il terzo full length dei Marche Funèbre è sicuramente quello della consacrazione, anche se ritengo che ci siano abbondanti margini per fare ancora meglio: l’importante monicker prescelto pesa un poco sulle spalle dell’ottima band belga, creando negli appassionati elevate quanto inevitabili aspettative che, comunque, in quest’occasione sono state ampiamente mantenute.
Tracklist:
1. Deprived (Into Darkness)
2. Capital of Rain
3. Uneven
4. Lullaby of Insanity
5. The Garden of All Things Wild
Line up:
Dennis Lefebvre – Drums
Peter Egberghs – Guitars, Vocals
Kurt Blommé – Guitars
Arne Vandenhoeck – Vocals
Boris Iolis – Bass, Vocals
Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.
Gli Ever Circling Wolves arrivano da Helsinki e, quindi, la loro provenienza costituisce una sorta di marchio di qualità quando si parla di death doom dalle inclinazioni melodiche.
Nonostante ciò, le presumibili forti influenze di Swallow The Sum e co. non si fanno sentire più di tanto, perché i nostri prediligono un approccio piuttosto particolare, affidandosi per lo più ad un riffing secco e ritmato e rinunciando sostanzialmente all’apporto delle tastiere. Anche per questo il lavoro, cosi come il sound della band, appare saltellante e talvolta dispersivo ad un primo ascolto: non a caso il meglio lo si percepisce proprio negli episodi più convenzionali, quelli in cui il sound rallenta lasciandosi guidare dalle melodie chitarristiche.
Emblematica in tal senso è la traccia finale These Are Ashes, These Are Roots, perfetta esibizione di death doom dolente e malinconico, ma tutto questo non deve far pensare che il resto del lavoro sia trascurabile: semplicemente Of Woe …è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.
L’operazione riesce piuttosto bene, visto che il death doom del gruppo di Helsinki, screziato da intriganti sfumature sludge (Haunted) e post metal (Challenger Deep), convince non poco a lungo andare, anche se poi sono comunque gli episodi più “classici” a risaltare per il loro carico melodico ed emotivo (assieme alla già citata These Are Ashes, These Are Roots, va segnalata anche In The Trench).
Molto interessante anche una canzone come Lenore,dallo sviluppo particolare visto che, dopo una metà fatta di un riffing abbastanza compatto si apre in una parte corale in stile Novembers Doom, per poi defluire in un bel crescendo di chiatarra, elettrica prima ed acustica infine.
L’album ha avuto una gestazione lunga, dato che parte dei brani trova la sua genesi all’inizio del decennio, subito dopo l’uscita del full length d’esordio The Silence From Your Room, e questo fa pensare che i diversi rivoli stilistici rinvenibili nel lavoro siano dovuti all’inevitabile trascorrere del tempo, oltre che all’evolversi come musicisti da parte di Otto Forsberg ed Henri Harell.
In definitiva, Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloomè un buonissimo disco (oltre che un bel titolo), che necessità però di qualche ascolto in più rispetto al dovuto per coglierne l’essenza e, magari, imparare davvero come smettere di preoccuparsi, accettando il lato oscuro dell’esistenza …
Tracklist:
1. Sunrise Has Gone
2. Coeur
3. Haunted
4. In The Trench
5. Challenger Deep
6. Deeper
7. Lenore
8. Ibn Qirtaiba
9. These Are Ashes, These Are Roots
Line up:
Otto Forsberg – Guitar
Henri Harell – Guitar, Vocals
Niko Karjalainen – Drums
Sami Nevala – Bass
Il sound, ondeggia tra il gothic ed il death doom, con maggior propensione verso il primo, in virtù di una propensione ad una malinconica orecchiabilità, ma con superiore efficacia nell’affrontare il secondo.
Fucked Up Songs, nonostante risulti quale secondo full length di questo duo russo, è in realtà una nuova versione del precedente Neverending Pain, del quale ricalca fedelmente la scaletta mantenendone in comune persino la copertina.
Inoltre, per quanto le tracce siano state oggetto di una revisione, il materiale ivi contenuto è stato composto quasi dieci anni fa, quindi è difficile stabilire quanto possa essere indicativo delle inclinazioni attuali della band.
Il sound, comunque, ondeggia tra il gothic ed il death doom, con maggior propensione verso il primo, in virtù di una propensione ad una malinconica orecchiabilità, ma con superiore efficacia nell’affrontare il secondo, visto che la canzone migliore del lotto è per distacco la conclusiva Blindness, che non a caso è quella che più di altre affonda con più decisione le radici nel doom più estremo, con il suo incedere rallentato sorretto da evocative tastiere e da un bellissimo lavoro chitarristico.
Sullo stesso filone si va a collocare anche At Eternity’s Gate, altra ottima traccia in cui l’ottimo growl ne ammanta di oscurità le trame dolenti meglio di quanto non avvenga con le clean vocals.
Il resto dell’album viaggia invece su coordinate più canonicamente gothic, rievocando a tratti qualcosa dei primi Evereve, ma con una vena drammatica ed un enfasi vocale di molto inferiore, offrendo comunque canzoni pregevoli come Skotodini, Soulless e Paranoia.
Pur non risultando un’opera imprescindibile, Fucked Up Songs (non un gran titolo, peraltro, meglio quello precedente) mostra a tratti la buona qualità compositiva del duo composto da Alextos e Yanis e, in considerazione di quanto detto in fase introduttiva riguardo al periodo di composizione dell’album, non è escluso che un eventuale prossimo lavoro possa mostrare un volto diverso o comunque più definito dei Distressful Project.
Quello dei Famishgod, alla luce di questa prova, si conferma un marchio in grado di garantire una buona qualità nonché l’assoluta fedeltà ai dettami delle sonorità estreme più oscure.
Gli spagnoli Famishgod tornano con un secondo full length, dopo il buon esordio del 2014 intitolato Devourers Of Light: Roots Of Darknessricalca le orme del suo predecessore anche se qui non mancano accelerazioni e passaggi relativamente più aperti che vanno ad incrinare il muro claustrofobico eretto dall’ottimo Pako Daimler, responsabile di tutti i suoni dell’album ad eccezione della voce, come sempre costituita dal terrificante rantolo affidato al ben noto Dave Rotten (Avulsed, nonché titolare della Xtreem Music).
Le coordinate restano, quindi, quelle del death doom più putrescente ed estremo nel suo incedere, con poche concessioni a passaggi chitarristici che non siano volti ad incupire ancor più le atmosfere con i propri toni ultraribassati ma, come detto, qualche concessione a livello ritmico e melodico rende Roots Of Darkness se non superiore, senz’altro meno ostico all’ascolto rispetto a Devourers Of Light, restando comunque un prodotto appannaggio degli amanti di sonorità catacombali sulla falsariga di band quali Disembowlment o Encoffination.
E’ inutile in questi casi mettersi alla puntigliosa ricerca di elementi innovativi o spunti geniali, quel che conta, qui, è la credibilità dell’approccio al genere, che deve innanzitutto rifuggire ogni manierismo per risultare coinvolgente: i Famishgod ci riescono proprio perché, a dispetto di una certa linearità, le atmosfere soffocanti e plumbee non danno quasi mai tregua, lasciando di tanto in tanto fugaci spiragli. come avviene nel finale dell’ottima traccia di chiusura Mournful Sounds of Death, quando la chitarra di Daimler assume per una volta toni più melodici e dolenti.
Nonostante una produzione discografica ancora limitata, quello dei Famishgod, alla luce di questa prova, si conferma un marchio in grado di garantire una buona qualità nonché l’assoluta fedeltà ai dettami delle sonorità estreme più oscure.
Tracklist:
1. Abyss of the Underworld
2. Bad Omen
3. Molested, Defiled, Disrupted
4. Chamber of Chaos
5. Eternal Embrace
6. Lost Language of the Dead
7. Mournful Sounds of Death
Line-up:
Dave Rotten – Vocals
Pako Deimler – All instruments
Like Crows For The Earth è, un album magnifico, che porta di diritto i Tethra al livello delle band di punta del doom tricolore
Sono passati quattro anni dall’ottimo full length Drown In The Sea Of Life ed oggi ritroviamo i Tethra alle prese con un nuovo album intitolato Like Crows For The Earth.
Come spesso accade a troppe band, il vocalist Clode, unico membro originale rimasto, nel frattempo ha dovuto rivoluzionare la line-up approdando ad una formazione a cinque che, rispetto al passato, si avvale dell’apporto di due chitarristi.
Troviamo così, ad affiancare il musicista novarese, Luca Mellana e Gabriele Monti alle sei corde, Salvatore Duca al basso e Lorenzo Giudici alla batteria, a comporre un organico che, a giudicare dall’esito finale, si rivela del tutto all’altezza della situazione, con l’auspicio che ciò possa garantire a lungo termine una certa stabilità.
Come per il suo predecessore la produzione è stata affidata alle mani esperte di Mat Stancioiu, mentre anche il mastering, eseguito da parte dell’eminenza grigia del doom Greg Chandler (Esoteric), e l’artwork, curato da Marco Castagnetto, sono indicatori netti della volontà di non trascurare il benché minimo particolare, in modo da consegnare al pubblico un prodotto impeccabile sotto tutti gli aspetti.
L’obiettivo viene ampiamente raggiunto in virtù di un scrittura varia, che porta i Tethra a spaziare tra le diverse anime del doom, partendo dal gothic, passando a quello di matrice più classica per giungere, infine, a quello dai toni dolenti ed animato da pulsioni death: il tutto viene sviluppato con la massima consapevolezza e maturità, riuscendo nella non facile impresa di mantenere un’impronta ed un’identità precisa, nonostante la tracklist sia composta da una serie di brani dotati ciascuno della propria peculiarità.
L’album si apre con la breve intro acustica Resilience che prepara il terreno a Transcending Thanatos, episodio già sufficientemente indicativo di una maggiore propensione gotica: in particolare lo splendido e trascinante refrain ha riesumato nella mia memoria di vecchio appassionato i misconosciuti olandesi Whispering Gallery, autori di tre oscuri gioelli di death doom melodico all’inizio del secolo. Prelude to Sadness, altro strumentale, introduce Springtime Melancholy, canzone che, pur restando nei canoni del doom tradizionale, mostra una volta di più una maggiore propensione melodica che trova sfogo nell’ottimo assolo conclusivo di Luca Mellana.
E’ il sitar ad aprire Deserted, traccia che, nonostante l’incipit di tutt’altro tenore, si rivela il brano più trascinante ed immediato del lotto, in virtù di un riffing micidiale, un chorus di grande presa ed un break centrale contrassegnato da un altro azzeccato assolo: insomma, qui si trovano tutti gli ingredienti necessari per imprimere la traccia nella memoria, mantenendo intatta la profondità del genere proposto.
L’interludio Subterranean mette in mostra le doti vocali di Clode, che se già prima era lecito considerare un vocalist di indubbio valore, con questo lavoro innalza ulteriormente il proprio livello, spiccando per versatilità e spaziando da tonalità estreme (growl con qualche sconfinamento nello screaming) a profonde ed evocative clean vocals che non possono che rimandare a quelle di Fernando Ribeiro, uno dei modelli di riferimento per chiunque si cimenti in questo genere musicale.
Subito dopo si palesa il momento in cui l’album trova la sua ideale sublimazione con un brano magnifico come The Groundfeeder, che si può considerare idealmente il manifesto musicale dei nuovi Tethra, unendo alla perfezione le diverse anime del sound ed andando a lambire, in certi passaggi strumentali, l’emozionalità dei migliori The Foreshadowing. Entropy è l’ultimo dei frammenti acustici, preparatorio al trittico finale aperto dalle belle melodie chitarristiche di Synchronicity Of Life And Decay, traccia che si sviluppa poi in maniera piuttosto ritmata e chiusa ancora una volta da un assolo brillante che riporta, infine, al punto di partenza, mentre Earthless spinge ancor più sul versante gothic grazie a linee melodiche irresistibili che si alternano a passaggi più rarefatti, esaltati da una prestazione superlative di Clode dietro al microfono: ancora un brano magnifico per intensità e attrattività.
A chiudere il lavoro ci pensa la title track, ultima delle gemme offerte da un album di qualità a tratti sorprendente, il cui suggello non può che essere il brano più malinconico ed oscuro del lotto, esempio magistrale di come il doom possa offrire quel turbinio di sensazioni che ad altri generi non sempre è concesso fare. Like Crows For The Earthè, semplicemente, un disco magnifico, che porta di diritto i Tethra al livello delle band di punta del doom tricolore, grazie all’approdo ad una forma capace di veicolare in maniera più diretta ed efficace quei toni dolenti e malinconici che sono la componente imprescindibile del genere.
Tracklist:
1.Resilience (intro)
2.Transcending Thanatos
3.Prelude To Sadness
4.Springtime Melancholy
5.Deserted
6.Subterranean
7.The Groundfeeder
8.Entropy
9.Synchronicity Of Life And Decay
10.Earthless
11.Like Crows For The Earth
Un album d’altri tempi ma davvero riuscito, emozionale, dal piglio drammatico e melanconico, aggressivo quanto basta per piacere agli amanti del death metal classico
Melodic death metal, con uno sguardo alla scena dei primi anni novanta, dunque parti doom che a tratti lasciano in bocca quel gusto di evocativo, voce in growl profonda, il tutto amalgamato con ottimi spunti heavy prog: ecco cosa attendersi dal sound di End Of Eternity, prima prova sulla lunga distanza dei False Reality, sestetto rumeno, con il fiuto per melodie malinconiche e ispirazioni di scuola doom death.
La band di Braşov è attiva originariamente dal 1998 (ecco spiegato le molte similitudini con la scena novantiana), il suo primo demo infatti risale al 1999, seguito all’alba del nuovo millennio dall’ep Tales Of Eternity.
Poi una lunga pausa ne ha minato la carriera nella scena underground e, quando sembrava che la parola fine fosse ormai scritta sopra il nome della band, ecco che i musicisti rumeni tornano con un full length e l’ottimo lavoro svolto funge da nuovo inizio, questa volta sperando che sia più duraturo e costante.
Death metal melodico dicevamo, con un’attenzione particolare per il lavoro delle sei corde, dal piglio heavy, ritmiche che rallentano e accelerano passando da ritmiche di stampo doom, a mera potenza death, ed orchestrazioni che tornano prepotenti per regalare spettacolari brani orientaleggianti come il piccolo gioiellino Rih Al Khamsin, che al sottoscritto a ricordato gli Orphaned Land del primo, bellissimo, Sahara.
Un album d’altri tempi ma davvero riuscito, emozionale, dal piglio drammatico e melanconico, aggressivo quanto basta per piacere agli amanti del death metal classico, virtù riscontrabile appunto nei primi lavori dei Paradise Lost, ma anche e soprattutto degli Orphanage e della scena centro europea.
Sette brani per cinquanta minuti di ottimo metal estremo melodico non sono pochi, il gruppo come tutte le realtà provenienti dall’est sa il fatto suo e End Of Eternity risulta, grazie alle bellissime The Silence Within e Requiem Into Darkness (oltre alla citata Rih Al Khamsin), un’opera convincente e assolutamente consigliata.
TRACKLIST
1.Bewitched
2.The Silence Within
3.Rapture and Pain
4.Rih al Khamsin
5.Requiem into Darkness
6.End of Eternity
7.Dear Friend
LINE-UP
Ioan Alexandru Crișan – Vocals
Lucian Popa – Guitars, Vocals
Silviu Stan – Guitars
Vlad Amariei – Keyboards, Vocals
Marc Spedalska – Bass
Codrut Costea – Drums
Horror Vacui è l’ennesimo, stupefacente album di death doom partorito in Finlandia, terra nella quale il seme che dà quale frutto simili sonorità continua puntualmente a proliferare.
Dopo un demo d’assaggio risalente al 2014, i finlandesi Marianas Rest si presentano nuovamente al pubblico con questo ottimo primo full length intriso di umori malinconici.
Il death doom di una band finnica non può mai prescindere da quanto già fatto dai Swallow The Sun, ma da questa notevole base di partenza chi ha talento può muoversi con maggiore agio ricercando le soluzioni compositive ideali.
I Marianas Rest, rispetto ad altre band di settore, paiono propendere verso il death melodico più oscuro, almeno questa è l’impressione derivante dai brani più mossi, esprimendo il loro dolente sentire in alcuni brani chiave posizionati al centro della tracklist.
Inframmezzati da drammatici samples, i brani oscillano tra ritmi che, restando nella terra dei mille laghi, possono riportare agli Insomnium (non a caso in Nadir presta la sua voce il loro vocalist Niilo Sevänen) e, appunto, momenti definibili più propriamente death doom, i quali a mio avviso rappresentano i picchi dell’album, rispondenti a gemme di rilucente dolore quali For The Heartless e A Lonely Place To Die.
Indubbiamente quest’opera prima dei Marianas Rest colpisce per la maturità compositiva e, soprattutto, per il perseguimento privo di indugi di un obiettivo ben preciso, quello di proporre un sound malinconico, drammatico ma nel contempo ricco di aperture ariose e dotate di un certo brio; come detto il risultato è eccellente e, francamente, riesce difficile scovare un solo difetto ad un disco che coinvolge dalla prima all’ultima nota, grazie ad un approccio che mette sempre in primo piano uno spiccato senso melodico.
In una prova d’assieme notevole, una nota di merito va alla buona interpretazione vocale di Jaakko Mäntymaa e al lavoro tastieristico misurato ed elegante di Aapo Koivisto, il più conosciuto di questo manipolo di musicisti in virtù della sua militanza negli ottimi Omnium Gatherum.
Horror Vacui è l’ennesimo, stupefacente album di death doom partorito in Finlandia, terra nella quale il seme che dà quale frutto simili sonorità continua puntualmente a proliferare.
Tracklist:
1.The Millennialist
2.Nadir
3.For The Heartless
4.Hurts Like Hell
5.A Lonely Place To Die
6.Chokehold
7.Place Of Nothing
8.Vestigial
Line up:
Harri Sunila – Guitars
Nico Mänttäri – Guitars
Jaakko Mäntymaa – Vocals
Nico Heininen – Drums
Harri Vainio – Bass
Aapo Koivisto – Keyboards
Un album d’altri tempi in cui le atmosfere gotiche fanno da ricamo all’aggressività death metal e ai rallentamenti doom.
Sicuramente non dimostrano molta fantasia nel nome scelto per la band, ma i rumeni Gothic sanno sicuramente come intrattenere gli amanti del genere.
Ovviamente si parla di death metal di matrice gotica e doom, magari poco elegante ma di sicura presa e pesante quel tanto per piacere ai vecchi fans del death/doom che imperversava nei primi anni novanta.
Il gruppo infatti, proprio nel 1993 mosse i primi passi con tre demo usciti tra il 1994 ed il 1996, prima che Touch of Eternity (1998) diede al gruppo la soddisfazione del primo lavoro sulla lunga distanza.
Una compilation nel 2005 e poi il lungo silenzio, spezzato dalla comparsa al Wacken come rappresentati del loro paese, il ritorno con Expect The Worst tre anni fa, seguito dalla firma per Loud Rage Music e questo nuovo lavoro intitolato Demons.
Sarà che non ci siamo più abituati ma Demonssi distacca piacevolmente dai cliché delle gothic metal band odierne: nessuna voce femminile a duettare con l’orco al microfono, orchestrazioni usate con parsimonia, e soprattutto ritmiche potenti e aggressive che non si allontanano dal death/doom e lasciano alle sei corde il compito di sfoderare ottime linee melodiche, accompagnate dai tasti d’avorio mai invadenti, quasi timidi nell’approccio.
Un album d’altri tempi, dunque, dove le atmosfere gotiche fanno da ricamo all’aggressività death metal e ai rallentamenti doom, disegnando immagini di castelli transilvani dove i demoni hanno poco da trastullarsi con sirene dark, intenti ad impalare i loro nemici fatti prigionieri e torturati, mentre Disillusion, Catacombs e la devastante From Within fungono da colonna sonora alle loro efferate gesta. Demonsè un’opera riuscita perché torna a far respirare le atmosfere dei primi anni novanta: le ispirazioni le trovate tutte in quel periodo, ma se volete un mio personale aggancio, pensate ai primi Crematory con un uso più misurato delle tastiere e più velocità nelle ritmiche.
TRACKLIST
1.Shadow Man
2.Disillusion
3.Demons
4.Catacombs
5.Time
6.Destroying The Masses
7.From Within
8.A New End
Una band ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Greg Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.
Gli Illimitable Dolor sono una band australiana che, con questo suo album d’esordio, omaggia la memoria di Greg Williamson, cantante dei The Slow Death scomparso nel 2014.
Non a caso del progetto in questione fanno parte, infatti, tre ex compagni di Williamson, Stuart Prickett, John McLaughlin e Dan Garcia, oltre a Peter O’Donohue che si è occupato del mastering di Ark, album della band di Springwood uscito postumo rispetto alla morte del vocalist.
Come non di rado accade, l’ispirazione derivante da un lutto reale e non virtuale sembra fare la differenza (anche se ovviamente si spera sempre che ciò non sia necessario), specialmente in un genere che già di suo ha il compito di evocare un dolore incontenibile, come da ragione sociale scelta dal gruppo.
Quest’album è una prova magnifica che, a mio avviso, è anche superiore rispetto al valore degli album degli stessi The Slow Death: il funeral death doom degli Illimitable Dolor è tragico, melodico e fortemente evocativo, va diritto al cuore senza perdersi in troppi preamboli, prendendo il meglio di quanto negli anni il genere ha offerto, anche nel continente australe dove, oltre agli ovvi riferimenti alla band madre, non è possibile fare a meno di rapportarsi con i grandi Mournful Congregation, senza però dimenticare i Cryptal Darkness, autori a cavallo del nuovo millennio di due lavori magnifici (prima di trasformarsi nei più gotici e meno incisivi The Eternal) benché fortemente debitori dei My Dying Bride. E, quasi a chiudere un ideale cerchio, proprio la band di Stainthorpe viene omaggiata dagli Illimitable Dolor con un richiamo a Your River (da Turn Loose The Swans), nella parte centrale di quello che è il brano più drammatico ed intenso di questo splendido album, Salt of Brazen Seas.
La prova di Stuart Prickett dietro il microfono è convincente così come quella della band, realmente ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.
Tracklist:
1. Rail of Moon, A Stone
2. Comet Dies or Shines
3. Salt of Brazen Seas
4. Abandoned Cuts of River
Line up:
Stuart Prickett – Guitar, Vocals, Keys
Dan Garcia – Guitar
John McLaughlin – Drums
Guy Moore – Keyboards
Peter O’Donohue – Guitar
Daniel Finney – Bass
La svolta dei Dantalion regala infine agli appassionati un’altra buona band di death doom, togliendone però una altrettanto valida a chi prediligeva i tratti black della loro prima parte di carriera.
Nell’ascoltare questo disco mi sono reso conto all’improvviso che, nel parlare della scena doom death spagnola, ho sempre omesso di citare i Dantalion ma, a ben vedere, un buon motivo c’era: la band galiziana, infatti, nella prima parte della sua carriera era dedita ad una black oscuro, a tratti persino avvicinabile al depressive (ho apprezzato molto, all’epoca, All Roads Lead To Death), prima di approdare in maniera totale alla musica del destino, nelle sue forme più estreme e dolorose, con Where Fear Is Born, risalente al 2014.
E’ molto probabile che il cambiamento sia giunto anche in seguito al pesante rimpasto della line-up avvenuto dopo Return To Deep Lethargy (2010), ma quella che non è cambiata è la realtà di una band capace sempre di maneggiare in maniera efficace la materia oscura, indipendentemente dal genere prescelto.
Oggi le coordinate stilistiche spingono in direzione decisa verso una band seminale come i Novembers Doom, senza ovviamente dimenticare la naturale “dipendenza” dai My Dying Bride e non disdegnando di guardare alle splendide e consolidate band connazionali come Evadne ed Helevorn: quello che ne esce fuori è un gran bel disco, specialmente quando la band di Vigo lascia sfogare la propria vena più melodica e malinconica (Crimson Tide) . …And All Will Be Ashes parte molto bene, con i primi tre brani (oltre a quello già citato, la bellissima ed evocativa Fleshly Sin e A River Of Depravation, che ossequia a tratti i primi Paradise Lost) efficaci e intensi come si richiede al genere, per poi scemare leggermente nella fase centrale: Desperation Nights viene risollevata, dopo un inizio piuttosto opaco, da un bel lavoro chitarristico nella seconda parte, Shadows Doomed To Die ne ricalca a grandi linee gli aspetti, mentre Tears Of Ash, posizionata nel mezzo, è un breve ed interlocutorio strumentale.
Ci pensa la conclusiva No Place For Faith, contraddistinta come il resto del lavoro dal pregevole lavoro della chitarra solista, a riporta l’album al livello della sua prima metà, lasciando così soprattutto buone sensazioni.
La svolta dei Dantalion regala infine agli appassionati un’altra buona band di death doom, togliendone però una altrettanto valida a chi prediligeva i tratti black della loro prima parte di carriera: a chi volesse approfondire proprio questo periodo consiglio di ascoltare l’esaustiva compilation The Ravens Fly Again, uscita nel 2014,che raccoglie il meglio dei primi quattro full length, mentre agli altri non resta che seguire il gruppo spagnolo in questa sua nuova incarnazione, senz’altro allo stesso modo convincente.
Tracklist:
1. Fleshly Sin
2. A River Of Depravation
3. Crimson Tide
4. Desperation Nights
5. Tears Of Ash
6. Shadows Doomed To Die
7. No Place For Faith
Line-up:
Villa – Drums
Brais – Guitars
Rober – Bass
Andres – Guitars
Diego – Vocals
Ristampa in vinile, a cura della Minotauro Records, di questo splendido album dei cechi Et Moriemur, risalente al 2014.
Con il loro secondo album, uscito nel 2014, i cechi Et Moriemur si sono dimostrati una tra le più interessanti realtà europee in ambito gothic-death doom; la riedizione dell’opera in vinile, curata dalla storica label italiana Minotauro Records, ci fornisce l’occasione per riproporre la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes.
Sea Of Trees, traccia inaugurale di Ex Nihilo in Nihilum, mostra subito di che (buona) pasta sono fatti i nostri, trattandosi di un brano che si avvale di un refrain piuttosto orecchiabile e che, per certi versi, potrebbe rivelarsi fuorviante in quanto il resto del disco, pur restando sempre piuttosto godibile, risulta senz’altro meno immediato.
La band praghese si abbevera a fonti comuni a chiunque si cimenti in questo genere, quindi My Dying Bride e Saturnus sono i due riferimenti principali che, però, gli Et Moriemur non scimmiottano bensì utilizzano quale punto di partenza per innestarvi la loro vena decadente, poetica e fornita della sufficiente dose di personalità.
Dai maestri danesi vengono attinti, oltre alle struggenti melodie chitarristiche, anche e soprattutto i passaggi recitati poggiati su base acustica o pianistica, mentre l’influsso della band di Stainthorpe risiede in particolare nell’attitudine romanticamente accorata, che prevale su ciò che, da altri, viene espresso tramite sonorità gonfie di dolore e disperazione. Ex Nihilo in Nihilum non perde mai, quindi, la sua forte connotazione melodica ed è un lavoro che cresce ad ogni ascolto, sintomo questo di un’indubbia profondità compositiva, ben sorretta peraltro dal lavoro eccellente dei singoli.
Oltre alla magnifica Liebeslied, sono soprattutto i due brani più lunghi del lotto, Nihil e Black Mountain, che forniscono la reale misura del valore della band ceca, brava ad introdurre diversi cambi di passo e di umore in grado di rendere avvincenti anche tracce come queste di durata consistente, pur sempre muovendosi nell’ambito di un gothic-death plumbeo e dai ritmi pacati.
Una prova eccellente questa degli Et Moriemur, band che possiede, a mio avviso, ulteriori margini di miglioramento: in particolare, un graduale affrancamento dai propri modelli stilistici, potrebbe portarli in un futuro prossimo a livelli molto vicini ai vertici del genere; già così, comunque, possiamo parlare a buon titolo di una realtà consolidata e di assoluto rilievo.
Tracklist:
1. Sea of Trees
2. Dissolving
3. Norwegian Mist
4. Liebeslied
5. Angst
6. Nihil
7. Le Choix
8. Black Mountain
9. Below
Line-up:
Zdeněk Nevělík – Vocals
Aleš Vilingr – Guitars
Honza Vaněk – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums
La contiguità stilistica con i Mourning Beloveth è sempre piuttosto marcata e questa è l’unica perdonabile pecca di un album bellissimo a prescindere.
Poco più di due anni fa, quando mi ritrovai a parlare dell’album d’esordio dei Crypt Of Silence, Beyond Shades,
mi espressi in maniera non entusiastica nei confronti dell’operato del gruppo ucraino, pur valutandolo alla fine positivamente, in quanti mi appariva troppo appiattito su posizioni simili a quelle dei primi Mourning Beloveth, senza possederne però lo stesso impatto melodico e drammatico.
Oggi il gruppo irlandese rappresenta sempre la Stella Polare per la giovane band dell’est, ma il salto di qualità che auspicavo, confidando anche nell’innato fiuto della Solitude Productions nello scovare talenti, è avvenuto: Awareness Ephemeraè un lavoro che rispecchia in molti aspetti il suo predecessore, con quattro lunghi brani per una durata complessiva attorno ai cinquanta minuti, ma la differenza la fa tutta l’incisività della scrittura.
Infatti, l’incedere dolente e rallentato di Longest Winter, fin dalle prime note fa capire quanto i Crypt Of Silence abbiano appreso al meglio la lezione, ammantando ogni nota del pathos necessario per avvincere e convincere i potenziali ascoltatori: il letale mix fra My Dying Bride, Mourning Beloveth e Daylight Dies (evocati questi ultimi soprattutto in Insignificant Sense) prende corpo srotolandosi dolorosamente, con ritmiche che sovente si fanno asfissianti spingendosi ai confini del funeral, particolarmente nella pachidermica Life Passed By.
E’ la meravigliosa Meridian, comunque, la traccia che chiude l’album, a fotografare nella maniera più nitida l’attuale status dei Crypt Of Silence, i quali scendono senza timore sullo stesso terreno dei loro maestri d’oltremanica, avvicinandoli non poco se non addirittura eguagliandoli a tratti; certo, la contiguità stilistica è sempre molto marcata e questa è, forse, l’unica perdonabile pecca di un album bellissimo a prescindere, anche perché per incidere brani di questo spessore non è sufficiente essere solo dei buoni copisti, ma bisogna possedere la giusta dose di talento.
Il compito che affidiamo ai ragazzi ucraini, alla prossima occasione, sarà soltanto, quindi, quello di farci affermare “sembrano … i Crypt Of Silence”, perché diciamo tranquillamente che il death doom proposto in Awareness Ephemera è inattaccabile per potenziale ed impatto emotivo, il che non è affatto poco per chi si nutre di questo genere musicale.
Tracklist:
1. Longest Winter
2. Insignificant Sense
3. Life Passed By
4. Meridian