Bong – Thought And Existence

Un disco che è un rito, un rito antico che abbiamo seppellito sotto montagne di false credenze, e non si parla di dei, ma dell’unico dio al quale parla Thought And Existence : il nostro cervello che vuol tornare verso le stelle.

Nuovo viaggio astrale offerto da un gruppo che va ben oltre la musica,i geordies Bong, qui alla loro ottava prova su lunga distanza.

Per chi già li conosce sa che una volta ascoltata la loro musica, la prospettiva delle cose cambia, come quando si legge un libro che sposta l’angolazione dalla quale vediamo la realtà e quindi riusciamo a scostare il velo che ricopre tutto. I Bong fanno musica rituale, aprono porte per andare in dimensioni diverse, e la loro musica non può essere fruita in maniera normale o consumistica, con le cuffie per strada. Bisogna prepararsi per un viaggio mentale, quindi ognuno deve fare la preparazione al rito alla propria maniera, consumando droghe od isolandosi, l’unico denominatore comune è alzare il volume, perché la musica dei Bong è cubitale e molto fisica. Nei dischi precedenti i Bong avevano fatto vedere di cosa sono capaci, ovvero di usare la musica come medium per eccellenza per riti di magick, la magia crowleryana e non solo, che fa andare su piani astrali diversi da quello, davvero misero, nel quale viviamo. Questa musica non è escapismo o un qualcosa di new age, ma è una forza antica che arriva da lontano, e non a caso i Bong sono inglesi, perché l’isola e la sua storia è fortemente permeata di magia e di forze che altrove non esistono, o sono presenti in maniera minore. L’Inghilterra ha un storia antichissima ed il cristianesimo o il protestantesimo qual dir si voglia, è presente da duemila anni, una parentesi ben minore se si pensa agli altri cicli storici. La sapienza druidica è continuata per vie laterali, ed in Thought And Existence è molto presente, come magia per riconnettersi a quello che siamo veramente, energia a stento trattenuta da un corpo e dalle membra. Ascoltando questi droni, questa frequenza che i Bong stendono per tutta la loro opera, si ha la sensazione di tornare a casa, di riunirsi con un qualcosa che ci è stato fatto dimenticare, ed infatti tutto il disco è come un marcia di entità che nello spazio si ricongiungono alle loro altre metà. I Bong fanno qualcosa di potentissimo e di davvero originale, e dare un genere alla loro emissione musicale non è facile, anche se si potrebbe dire che sia un qualcosa fra lo sludge e il drone, post metal altro. In questo frangente si coglie tutta la inadeguatezza della nostra civiltà a definire una cosa come Thought And Existence, perché questo disco viene da lontanissimo, ed è passato in qualcosa dello spirito psichedelico inglese degli anni sessanti e settanta, ma prima era nelle processioni druidiche lungo il serpente Tamigi: proviene dallo spazio ed è stato a volte visto dai Neurosis e dagli Ozric Tentacles, è pura energia mentale. Un disco che è un rito, un rito antico che abbiamo seppellito sotto montagne di false credenze, e non si parla di dei, ma dell’unico dio al quale parla Thought And Existence: il nostro cervello che vuol tornare verso le stelle.
Forse la migliore prova di un gruppo che non fa solo musica da consumare.

Tracklist
01. The Golden Fields
02. Tlön, Uqbar, Orbis Tertiu

Line-up
David Terry – Bass
Mike Smith – Drums
Mike Vest – Guitars

BONG – Facebook

Premarone – Das Volk Der Freiheit

A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante.

Tornano nell’etere le pesanti e psichedeliche note dei Premarone, notevolissimo gruppo psych doom alessandrino.

A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante. Das Volk Der Freiheit è la colonna sonora più adeguata alla crepuscolare fine che noi chiamiamo vita, alla nostra folle corsa verso una distopica dittatura dove noi saremo felici di essere tecno zombie. Questa opera è davvero un capolavoro di musica sociale, nel senso che riesce a cantare la nostra italianità attraverso i nostri difetti e le nostre quotidiane tragedie. L’Italia è un paese terribile, tanto bello quanto bastardo e corrotto, molle e sempre con dei soldi in mano insieme al cazzo che non si rizza nemmeno più. I Premarone ci portano in giro per la nostra psiche collettiva, ispirandosi ad un altro bellissimo viaggio lisergico del passato, il debutto della krautrock band German Oak, una comune hippie di cinque membri di Dusseldrorf, che registrò un disco eccezionale sulla Germania in un bunker. I Premarone partono da lì per spaziare tantissimo, usando la formula della jam, e ci regalano molta gioia e molta inquietudine. Das Volk Der Freiheit è un viaggio potentissimo che va affrontato senza paure, bisogna immergersi in questo lungo flusso di coscienza dove si può ritrovare il gusto del krautrock nell’esplorare senza timore, la forza del doom, il cantato in italiano con stile molto Cccp e Disciplinatha, per raccontare ciò che viviamo ogni giorno. La bellezza di questo lavoro è la sua totale e brutale sincerità, riuscendo ad arrivare dove è difficile spiegare, in quell’intrico di merda e sangue che è l’Italia. La produzione è curata assai bene, supporta benissimo la narrazione. Ci sono anche droni e momenti di stasi, anche perché questo disco ha una fisicità molto importante, è come viaggiare su un tappeto magico e ci sono cose sotto e sopra di te. I Premarone sono dei fantastici narratori, non perdono un colpo, dilatano e restringono il campo visivo del nostro terzo occhio a loro piacimento, spiegando in forma quasi subliminale concetti altresì difficilmente esplicabili. Un disco di psichedelia pesante fatto per farci pensare e per portarci lontano, sopra questo mare di dolorosa plastica tricolore.

Tracklist
1.Intro – Mani pulite
2.Parte I – D.V.
3.Interludio – Interferenze
4.Parte II – D.F.

Line-up
Pol – Bass
Ale – Drums
Fra – Guitars, Vocals
Mic – Keyboards

PREMARONE – Facebook

NONSUN – Black Snow Desert

Ben dosato ed equilibrato in tutte le sue componenti ed ottimamente eseguito, Black Snow Desert è frutto di un talento compositivo che scongiura il ricorso a soluzioni sonore infinite e prive di alcuno sbocco.

Dopo circa due anni dalla sua prima uscita in autoproduzione, l’album d’esordio dei Nonsun viene pubblicato in formato cd e digitale dalla Cimmerian Shade Recordings ed in vinile dalla Dunk!Records. Per l’occasione riproponiamo la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes, anche perché vale la pena di riportare questo buonissimo lavoro all’attenzione di chi non lo avesse intercettato all’epoca.

Gli ucraini Nonsun di sicuro non si sono posti dei problemi legati alla commercializzazione del loro prodotto, nel momento di comporre l’album: se già il proporre un genere come uno sludge/drone/doom dai tratti sperimentali riduce all’osso il bacino dei potenziali ascoltatori, farlo con un doppio cd per una durata di circa un’ora e mezza equivale all’atto di piantare i chiodi su una bara in cui è stata rinchiusa ogni forma di possibile ammiccamento.
Il bello di tutto questo, però, è che il duo di Lviv riesce a mettere sul piatto un lavoro sicuramente mastodontico ma non pesante, nel senso che, fatta salva la sua natura, si rivela un ascolto impegnativo senza risultare noioso.
Del resto, uno stile musicale di questo tipo, se interpretato senza un minimo di variazioni sul tema, rischia di rimanere troppo indigesto a chiunque: Black Snow Desert non si riduce, quindi, ad una sequela interminabile di sequenze droniche ma offre anche abbondanti porzioni di sludge doom, disturbate e disturbanti quanto basta per attrarre fatalmente l’attenzione. Per assurdo, una lunghezza che potrebbe apparire quasi una forma di autolesionismo,  consente invece ai Nonsun di sviluppare ed esprimere in maniera più congrua quanto hanno da offrire.
Ben dosato ed equilibrato in tutte le sue componenti ed ottimamente eseguito dal polistrumentista Goatooth e dal batterista Alpha, Black Snow Desert è frutto di un talento compositivo che scongiura il ricorso a soluzioni sonore infinite e prive di alcuno sbocco.
Bravi pertanto i Nonsun nell’aggirare questo ostacolo, proponendosi con questo loro esordio su lunga (anzi, lunghissima …) distanza, come qualcosa in più di un semplice surrogato a Sunn O))), Earth e compagnia di sperimentatori.

Tracklist:
1.No Pity for the Beast, No Shelter for the Innocent
2.Ashes of Light, Demons of Justice
3.Peace of Decay, Joy of Collapse
4.Heart’s Heavy Burden
5.Observing the Absurd
6.Rest of Tragedy

Line-up:
Goatooth – guitars
Alpha – drums

NONSUN – Facebook

Pissboiler – In The Lair Of Lucid Nightmares

I Pissboiler possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità.

Gli svedesi Pissboiler sono un’altra delle interessanti novità portati alla luce dalla Third I Rex.

Il trio scandinavo esordisce su lunga distanza con questi In The Lair Of Lucid Nightmares, lavoro la cui base di partenza è un funeral doom che viene ampiamente contaminato da una componente sludge, oltre che da pulsioni droniche che trovano eccellente sfogo nell’ultima traccia.
L’interpretazione dei Pissboiler  è comunque abbastanza ortodossa nell’opener Ruins of the Past, dove il sound si trascina con tutto il suo penoso carico di dolore , senza far venire meno la caratteristica principale del genere che è la reiterazione di accordi dolentemente melodici.
Questi svedesi, però, possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità, e il tutto viene evidenziato nei disturbati dieci minuti di Pretend It Will End, nel corso dei quali i suoni si fanno più aspri ma senza che scemi l’atmosfera ottundente che avvolge l’intero lavoro.
La lunga traccia finale Cutters, come detto, è un delirio drone rumoristico che attrae e respinge allo stesso tempo, un aspetto che diviene tratto comune quando la componente claustrofobica finisce per soffocare gli sporadici spunti melodici.
Ma questo è un modo di intendere la materia funeral che non fa sconti, andando a scavare nelle carni esacerbando il dolore invece che lenirlo: i Pissboiler con In The Lair Of Lucid Nightmares dimostrano che non c’è un modo giusto od uno sbagliato di approcciare il genere, perché a fare la differenza è sempre il filo sottile, eppure ugualmente solido come quelli tessuti da un ragno, che riesce indissolubilmente a unire il sentire dei musicisti con quello degli ascoltatori.

Tracklist:
1. Ruins of the Past
2. Stealth
3. Pretend It Will End
4. Cutters
Line-up:
Pontus Ottosson – Guitars
Karl Jonas Wijk – Drums, Guitars
LG – Vocals (lead), Bass

PISSBOILER – Facebook

Uruk – I Leave A Silver Trail Through Blackness

Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale, questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Cosa succede nel momento in cui si compenetrano due stili musicali diversi, due cammini effettuati con mezzi differenti ma con lo stesso imperativo di ricercare sempre e comunque ?

Succede che nasce un’entità musicale dalla ben difficile collocazione come gli Uruk, figlia dell’incontro tra Massimo Pupillo, l’immenso bassista degli Zu e nei Triple Sun, e Thighpaulsandra, epica figura già nei Coil, poi con Julian Cope e eminente membro di quell’esoterismo inglese, non solo musicale, che vive da molto tempo. I due si sono sempre ammirati, e questo disco, una suite di circa trentanove minuti, è qualcosa di più di una semplice collaborazione. Il disco è un qualcosa di esoterico, una commistione di ambient e di drone, un ricollegarsi alle nostre origini più ancestrali, come indicato dal nome del gruppo. Uruk era una città della civiltà sumera, narrata nell’epopea di Gilgamesh, ed uno dei maggiori insediamenti della nostra antichità. Gruppi come Zu e i Coil attraverso la loro musica hanno sempre ricercato e smosso qualcosa di antico dentro di noi, scavalcando la nostra modernità e parlando a qualcosa che tentiamo di negare. Proprio come questo disco, che ci mostra un’antichissima storia messa in musica, ovvero la capacità umana di dare un senso differente e personale a dei suoni, semplici come il rumore primordiale. I Leave A Silver Trail Through Blackness fa scaturire dentro ognuno di noi una propria personale interpretazione, ma più di tutto è un portale, un codice di vibrazioni per portarci da qualche altra parte in uno stato alterato di coscienza, obiettivo anche dei live del duo, davvero molto coinvolgenti. Non ci si può approcciare a questo disco aspettandosi della musica come la intendiamo comunemente, perché questo è il senso ancestrale di tale arte. Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale. Questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Tracklist
1. I Leave A Silver Trail
2. Through Blackness

Line-up
Massimo Pupillo
Thighpaulsandra

COUNSULING SOUNDS – Facebook

Monarch – Never Forever

Ancora una buona prova da parte dei Monarch, gruppo culto di extreme doom europeo: convinti della loro arte ci regalano un’opera intensa, avvolgente nel suo drone-doom.

Nome di culto nella scena extreme doom europea, i francesi Monarch si ripresentano dopo Sabbracadaver del 2014, sempre per l’etichetta statunitense Profound Lore che continua, a ragione, a credere nella loro oscura arte.

La band, attiva ormai dal 2005, oggi con Never Forever ci propone un grandioso abisso di suoni drone stesi su un colossale e profondo doom e, come afferma la band, ci presenta “a new path to explore”. Cinque lunghi brani, ed il suono estenuante (non in accezione negativa) che viene prodotto si tinge di una vena melanconica e sinistra, dove le clean vocals, sussurrate ed eteree di Emilie Bresson, producono sinistre ambientazioni plumbee per nulla rassicuranti (Song to the void); il mood deve essere quello giusto per abbandonarsi e lasciarsi conquistare dalla profondità dei riff creati dalle due chitarre.
In questo disco risalta maggiormente , rispetto ai precedenti, l’importanza maggiore data alla struttura di brani che, nonostante il lungo minutaggio, mantengono forma e non perdono nulla in atmosfera, sempre spettrale e ossessiva. Il primo brano Of night, with knives è esemplificativo: lento, imponente, screziato dal lento salmodiare delle vocals, accompagnato da chorus intensi che si sfaldano su vocals sgraziate, si abbatte senza speranza sull’ascoltatore; l’atmosfera pesante mantiene una vena malinconica, non molto presente nei precedenti lavori, piuttosto intensa e inattesa. Gli altri tre brani presentano una band matura, conscia dei propri mezzi, che non teme di coverizzare in Diamant Noir il brano dei Kiss, Black Diamond, trasfigurandolo completamente e riducendolo in un qualcosa difficilmente riconducibile al brano originale. L’ultimo brano, Lilith, con i suoi venti minuti accentua l’iniziale componente drone creando un’atmosfera immobile e spettrale prima di far iniziare il viaggio verso luoghi con aromi di kosmische musik. In definitiva, ancora una buona prova da parte di musicisti capaci, con personalità e che amano ricercare il meglio dalla propria arte.

Tracklist
1. Of Night with Knives
2. Song of the Void
3. Cadaverine
4. Diamant Noir
5. Lilith

Line-up
Emilie Bresson – Vocals, Electronics
Shiran Kaïdine – Guitars
Miomio – Guitars
MicHell Bidegain – Bass
Benjamin Sablon – Drums

MONARCH – Facebook

Lento – Fourth

I Lento sono un magnifico vortice che ti attrae al suo interno, un’ipnosi musicale che non vorresti finisse mai, rompono i confini dei generi e fluttuano inesorabilmente attraverso dimensioni diverse, mondi persi dentro al nostro io.

Fourth è un disco da ascoltare e riascoltare all’infinito per poterne conoscere almeno la maggior parte dei sentieri, delle vie battute da questo gruppo italiano che sta facendo una poetica musicale unica, con una traiettoria che mi ricorda quella dei Neurosis, dato che la loro epica è simile. Abbiamo imparato a conoscere il suono dei Lento in questi anni grazie agli ottimi dischi precedenti, ed è proprio il suono la caratteristica principale, il motore primo e il fine ultimo di Fourth. Giri, droni, riffs, momenti di tempesta e momenti di calma ieratica, fluidi e pietre che cadono dal cielo. Fourth è un gioiello che arriva dopo altri gioielli, ma forse è il più luminosamente tenebroso e visionario di tutti i sei dischi del gruppo romano. La durezza viene mitigata da pezzi di ambient davvero ben fatto, che ci trasportano in un’altra dimensione. Ci sono ovviamente le parti più dure e veloci e sono titaniche, ma il cielo è un obiettivo troppo basso per questo gruppo, che ha fatto della ricerca sonora per creare una certa atmosfera una ragione di vita. Tutto viene trasfigurato e cambiato, si gira, si vola e si va sotto terra per cercare un qualcosa che è nascosto ai nostri occhi perché non abbiamo la chiave giusta per cercarlo. Fourth è strutturato benissimo a cerchi concentrici e i Lento ci accompagnano come fece Virgilio per Dante in questo viaggio pesantemente lisergico. Il gruppo romano è uno dei migliori esempi di musica pesante e pensante al mondo, rilasciano magia musicale che cola in mille rivoli, diventa gas e sale fino al cielo. Questo disco può generare infiniti ascolti, e ogni ascolto sarà diverso, perché muta come mutiamo noi.

Tracklist
1. Persistency
2. Disinterested Pleasures
3. Or A Hostile Levity
4. Resentment
5. Before The Crack
6. Compromise
7. Or Belief
8. Bygones (A Grievence)
9. Urgency

Line-up
Emanuele Massa – Bass
Federico Colella – Drums and live samples
Donato Loia – Guitars
Giuseppe Caputo – Guitars
Lorenzo Stecconi – Guitars

LENTO – Facebook

Theta – Obernuvshis’

Pur essendo di natura totalmente strumentale, se si fa eccezione per le voci campionate che si susseguono nei diversi brani, l’album non possiede alcuna delle controindicazioni che sovente accompagnano tale scelta: qui la musica si prende la scena con decisione ed il rischio di vederla scivolare via senza lasciare alcuna traccia è scongiurato.

Prima prova su lunga distanza per Theta, progetto solista del musicista lombardo Mattia Pavanello, dopo l’uscita di un ep intitolato LXXV che aveva anticipato le coordinate sonore di una delle realtà più inquietanti in ambito musicale tricolore.

Pavanello è conosciuto per la sua militanza in band come Heavenfall e Furor Gallico, oltre che per una collaborazione illustre con i Folkstone, quindi sorprende in qualche modo ritrovarlo alle prese con un sound decisamente antitetico come il funeral doom dai tratti dronici e sperimentali offerto in Obernuvshis’.
Pur essendo di natura totalmente strumentale, se si fa eccezione per le voci campionate che si susseguono nei diversi brani, l’album non possiede alcuna delle controindicazioni che sovente accompagnano tale scelta: qui la musica si prende la scena con decisione ed il rischio di vederla scivolare via senza lasciare alcuna traccia è scongiurato: Mattia dimostra di conoscere alla perfezione il genere senza però seguirne le coordinate pedissequamente, consentendo alla sua ispirazione di incanalarsi di volta in volta in flussi differenti che vedono la componente funeral preponderante, ma arricchita ed integrata da ambient, drone, sludge e qualche venatura di post metal.
Del resto Theta nasce come progetto in grado di incanalare le diverse pulsioni compositive di Pavanello verso un sound oscuro, privo di lampi di positività ma non per questo scevro di un buon impatto melodico: in poco più di tre quarti d’ora, Obernuvshis’ riesce a scuotere menti intorpidite dall’ascolto di dischi prodotti con il pilota automatico, grazie a soluzioni per nulla scontate.
Come già accennato, però, il punto di forza di un album come questo è il suo essere ascoltabile, pur essendo di fatto costruito su un’impalcatura atta ad evidenziare il lato oscuro dell’esistenza: a tale proposito il nostro evita di rifugiarsi nella cripticità sovente fine a sé stessa del rumorismo, per provare invece a creare un coinvolgimento, anche emotivo, ma è chiaro che la fruibilità di cui si accennava poc’anzi è strettamente connessa al background musicale di chi si accosta all’operato di Theta, rivolto soprattutto ad estimatori del doom dalla comprovata dimestichezza con il genere.
Come avviene spesso in questi casi, la suddivisione in tracce lascia il tempo che trova, sicché l’album va ascoltato e sviscerato nel suo complesso, con picchi qualitativi rinvenibili un po’ in tutti gli episodi fino al bellissimo epilogo di Concrete And Foundation, dove Pavanello dimostra le sue doti di chitarrista anche con un dolente ed ispirato assolo che chiude nel migliore dei modi un’opera di grandissimo pregio.

Tracklist:
1.Travel Far Into The Black Hole Depths
2.Ruins Of Inari
3.Butterfly’s Cycle
4.Harshness Of A
5.Concrete And Foundation

Line-up:
Mattia Pavanello – Guitars, Bass, Drum Programming, Synths and Sampling

THETA – Facebook

La Cuenta – La Confessione di Antonius Block

Un lavoro magnifico, di grande impatto sia dal punto di vita musicale sia da quello prettamente concettuale, e capace di restituire in toto, quasi ne fosse la colonna sonora,  le atmosfere cupe e l’inquietudine magistralmente evocate da Bergman con Il Settimo Sigillo.

Quarto impressionante full length per i fiorentini La Cuenta, autori di uno sludge doom che si muove su binari tutt’altro che scontati, nonostante i concreti rischi che si corrono quando si struttura un lavoro in maniera simile.

Qui, infatti, troviamo un solo brano di circa trentacinque minuti, nel corso del quale la chitarra di Matteo Gigliucci urla e reitera le sue note, ben sostenuta dal violoncello dell’ospite Naresh Ran, creando un tessuto sonoro ossessivo e straniante, ottimamente sorretto dal lavoro percussivo di Nicola Savelli, ma alla resa dei conti, neppure troppo ostico all’ascolto, almeno per orecchie adeguatamente allenate.
Intendiamoci, la musica di immediata fruibilità è tutt’altra cosa, ma in quest’opera on si rinviene un rumorismo dronico fine a sé stesso e neppure una serie di suoni affastellati l’uno sull’altro contro ogni logica, bensì una linea armonica ben distinguibile, specie nella parte iniziale, prima che i campionamenti tratti dal bergmaniano Il Settimo Sigillo (del quale l’Antonius Block del titolo è il protagonista) irrompano, con il personaggio interpretato da Max Von Sydow (qui con la voce del doppiatore Emilio Cigoli) a farsi portavoce di una serie di quesiti destinati a restare irrisolti.
Per almeno una ventina di minuti il flusso sonoro si insinua nell’udito in maniera irresistibile e l’effetto è talmente soffocante che, quando interviene un cambio di registro, il respiro invece di aprirsi si blocca prima di ritrovare qualche particella di ossigeno; poi, quando si ode Block iniziare la sua confessione, a prendere la scena è la spinta sperimentale, anche se la tensione non scema affatto, semplicemente viene alimentata da un impatto più drammatico e solo in apparenza meno nitido, sovrapponendosi a linee guida in precedenza maggiormente identificabili.
Alla fine, del toccante dialogo tra Block con e la Morte, disturbato da un effluvio di effetti e negli ultimi minuti da riff di estrema pesantezza, l’unica frase che risulta perfettamente intelligibile è “non credi che sarebbe meglio morire?”, risultando in qualche modo emblematica della venefica profondità di questo magnifico album, di grande impatto sia dal punto di vita musicale sia da quello prettamente concettuale, e capace di restituire in toto, quasi ne fosse la colonna sonora,  le atmosfere cupe e l’inquietudine magistralmente evocate con il suo film dal regista svedese, tutto questo proprio nell’anno in cui ne ricorre il cinquantennale dell’uscita.

Tracklist:
1. La confessione di Antonius Block

Line-up:
Matteo Gigliucci: chitarra, ampli e pedali.
Nicola Savelli: batteria, macchine e pedali.

Guest:
Narèsh Ran: violoncello

LA CUENTA – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Q65vxYlOXHI

Paolo Spaccamonti/Paul Beauchamp – Torturatori

Beauchamp e Spaccamonti dipingono in gran bell’affresco con molti colori e con una bellissima vibrazione di fondo, per un disco che è molte cose e che è anche molto semplicemente grande musica fatta da due sensibilità affini.

La musica è fatta anche di incontri, di scelte di condividere la propria sensibilità e le modalità possibili per fare ciò.

La imprescindibile e misteriosa Torino fa da sfondo a questo incontro di due musicisti che si sono conosciuti proprio lì e che in quella città hanno la loro congiunzione astrale favorevole. Paul Beauchamp è un chitarrista americano esploratore di toni diversi dal solito, più eterei e misteriosi utilizzando acustica ed elettronica, mentre Paolo Spaccamonti è un chitarrista che vive in cinematografiche distese di note e ha una passione che muove anche noi, quella del metal. Insieme hanno scritto composto e suonato due tracce che si completano e che sono come la nostra vita , una bianca e l’altra nera. L’ incontro di questi due chitarristi ha prodotto un luogo musicale sterminato e tutto da ascoltare, figlio di due DNA musicali differenti ma assolutamente affini, che hanno prodotto una musica che allarga spazi e si moltiplica nella testa di chi sente. Dolci droni ed elettronica che parla al cuore, per un paesaggio musicale immenso e lentamente rotante, con colori che cambiano come in un tramonto prima di un apocalisse, nella tenerezza del primo o dell’ultimo abbraccio. Beauchamp e Spaccamonti dipingono un gran bell’affresco con molti colori e con una bellissima vibrazione di fondo, per un disco che è molte cose e che è anche molto semplicemente grande musica fatta da due sensibilità affini. Per tutto ciò dobbiamo anche ringraziare forte l’Argo Laboratorium di Gianmaria Aprile di Fratto9/UnderTheSky e musicista nei Luminance Ratio, un produttore e conoscitore davvero profondo di musica mai ovvia.

TRACKLIST
A. White Side
B. Black Side

FRATTO9 – Facebook

Hjarnidaudi – Psykostarevoid

Psykostarevoid offre una visione del doom che non ha nulla di rassicurante, rovistando incessantemente tra le viscere con il suo incedere distorto e fragoroso.

La Dead Seed Productions ha realizzato le versioni in vinile dei due album pubblicati nello scorso decennio dagli Hjarnidaudi, progetto solista drone doom del musicista norvegese Vidar “Voidar” Ermesjø, altresì noto per la sua militanza nei Koldbrann.

Quello che prendiamo brevemente in esame è il secondo dei due, nonché ultima uscita a nome Hjarnidaudi  in ordine temporale, Psykostarevoid.
L’album si snoda lunga quattro tracce di natura strumentale, dalla lunghezza media di 10 minuti ed ovviamente il genere prescelto e lo stile con cui viene proposto non sono materia proprio per tutti.
Il doom, nella lettura di Ermesjø, è un qualcosa di ancora più criptico e disturbante rispetto a quanto normalmente siamo soliti ascoltare, e la sua bravura sta, a mio avviso, nel non indulgere in interminabili sperimentazioni droniche bensì nel lanciarsi in reiterazioni ossessive ma terribilmente avvolgenti, come avviene in maniera mirabile nella traccia II, autentico monolite di sofferenza dai suoni distorti, asfissianti ma non del tutto privi di una parvenza melodica.
Questa caratteristica rende peculiare la proposta anche nei restanti brani, che continuano ad offrire una visione del doom che non ha nulla di rassicurante, rovistando incessantemente tra le viscere con il suo incedere distorto e fragoroso.
Peccato che ormai da otto anni non pervenga più nuovo materiale marchiato con questo monicker, perché un album simile rappresenta una lettura del genere non convenzionale, pur senza sconfinare nella cacofonia; spesso, però, queste riedizioni sono propedeutiche al ritorno in auge di progetti accantonati da tempo, quindi non resta che sperare che questo possa valere anche per gli Hjarnidaudi.

Tracklist:
1. I
2. 2. II
3. 3. III
4. IV

Line up:
Vidar “Voidar” Ermesjø

HJARNIDAUD – Facebook

Sepvlcrvm – Vox In Rama

Il rito dei Sepvlcrvm è un convolgere piani diversi della nostra esistenza.

Cosmogonie di una musica che si fa contemporaneamente religione e logos.

Il duo che risponde al nome Sepvlcrvm arriva al secondo disco, dopo Hermeticvm del 2010. Con quest’ultimo avevano fatto un deciso ingresso nella musica rituale, o nel rito musicale qual dir si voglia. I droni si allacciano ad una intelaiatura di improvvisazioni con un gusto kosmische. Il rito dei Sepvlcrvm è un coinvolgere piani diversi della nostra esistenza. Il duo opera una seria ricerca esoterica sia musicale che religiosa, perché l’aspetto ritualistico della musica è quello più antico, e qui viene recuperato in toto. Le cinque canzoni in realtà sono due, poiché I e III sono più intermezzi funzionali alle due tracce più lunghe II e IV che vanno oltre i venti minuti. Il percorso dei Sepvlcrvm è un continuum di passaggi debitori ad un sapere antico che abbiamo rifiutato, svendendolo per una falsa sapienza. In questo disco ognuno può ricercare ciò che vuole, ma l’unica condizione è lasciarsi andare a questo flusso, questa forza che nasce e che sembra inerte, ma in realtà è fortissima. Vox In Rama è un’esperienza che si fonda sull’immutabilità e la forza di credenze e coscienze pagane forti come querce. Non ci sono molti paragoni per i Sepvlcrvm, se non loro stessi. Ad impreziosire il tutto l’artwork è a cura di Marco Castagnetto.

TRACKLIST
I
II
III
IV

LINE-UP
Marcvs F
Marcvs Ioannes

SEPVLCRVM – Facebook

Abbotoir – Reclaim

Una proposta migliorabile ma che già oggi risulta sicuramente intrigante oltre che coraggiosa.

I nord irlandesi Abbotoir propongono una forma di funeral lontano da qualsiasi ammiccante forma di melodia e ciò, ovviamente, non ne aumenta l’appeal nei confronti di chi segue il genere in maniera marginale.

Reclaim è il titolo di questo Ep, costituito da un unico brani di circa 26 minuti (Descension), che arriva dopo il full-length d’esordio uscito lo scorso anno; stilisticamente il trio di Belfast si colloca dalle parti di un act come i Bosque, ponendosi quindi alla ricerca costante di sonorità disturbanti grazie al massiccio contributo di elementi ambient-drone.
La reiterazione pressoché ininterrotta di un riff di volta in volta accompagnato da effetti elettronici, inclusa una drum-machine e una voce filtrata, potrebbe far pensare a un qualcosa di terribilmente noioso e, oggettivamente, il rischio esiste, stante la mancanza di uno sviluppo armonico capace di restare memorizzato in qualche modo nella mente dell’ascoltatore.
Ma, se vogliamo, proprio l’apparente freddezza del sound, che pone gli Abbotoir nella posizione privilegiata di distaccati osservatori delle miserevoli vicende umane, si rivela un elemento caratterizzante capace di provocare quello straniamento che è sicuramente uno degli obiettivi della band britannica.
Un produzione volutamente intrisa di riverberi ed un sound che definire ossessivo è un eufemismo, rendono oggettivamente complessa la fruizione di Reclaim, fornendo la sensazione che talvolta gli Abbotoir travalichino quel labile confine posto tra la sperimentazione e l’autocompiacimento.
E, in effetti, a partire dal minuto 19, Descension offre quei minimi appigli, che fino a quel momento aveva pervicacemente negato, mostrando parvenze infinitesimamente umane ed è proprio su questo lato della proprio sound che gli Abbotoir potrebbero maggiormente insistere in futuro, per migliorare ulteriormente una proposta che già oggi risulta sicuramente intrigante, oltre che coraggiosa.

Tracklist:
1. Descension

Line-up :
_ – Bass
J – Guitars
D – Vocals

ABBOTOIR – Facebook