Sul fatto che i Black Sabbath siano stati i creatori del doom nessuno può avanzare dubbi. Anche sul fatto che il genere si sia sempre più imposto, specie nei paesi anglofoni ed in Svezia, a partire dagli anni Ottanta – complice anche la NWOBHM (Legend, Ritual, Witchfinder General) – in pochissimi potranno avanzare riserve.
Il doom – oggi coltivato specialmente nei paesi nordici, nel Maryland, nell’Oregon e nella Columbia britannica – ha dato origine a generi e filoni importanti ed amatissimi, come Drone, Funeral, Gothic Metal, Black Doom, Ambient Doom e Avantgarde Doom, ovviamente senza dimenticare lo Stoner della scena di Palm Desert e lo Sludge della Louisiana. Dagli anni ’90, sino ad oggi, rilevanza estrema e meritata ha avuto il Death Doom, inventato dal cosiddetto trittico inglese, ossia Paradise Lost, Anathema e My Dying Bride (a cui va aggiunta – lo si faccia, una volta tanto – la luminosa meteora Enchantment).
Tuttavia, esiste anche una preistoria del genere, quando ancora non si chiamava così. Prima, infatti, che si incominciasse a parlare di doom metal, l’hard rock e il blues già avevano iniziato ad edificare muri sonori con rallentamenti, tempi cadenzati e solenni, arcane malinconie e ancestrale maestosità, distorsioni e dissonanze, scale minori e squarci epico-ossianici, giochi di riverberi e colti riferimenti di natura esoterico-letteraria ed occultistica.
Se vi riflettiamo, scopriamo che già i Blue Cheer – in particolare quelli di Vincebus Eruptum, vale a dire con alla chitarra Leigh Stephens (poi nei durissimi Silver Metre) – avevano aperto le porte a un nuovo genere musicale ed alla sua codificazione artistico-culturale. In tale senso, il proto-doom può essere cercato e felicemente rintracciato, tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Settanta, negli inglesi Leaf Hound (una costola degli Atomic Rooster), nei gallesi Budgie, negli americani Sir Lord Baltimore (gli iniziatori, tra il 1970 ed il 1972, della scena di Washington DC), nei primi album dei tedeschi Lucifer’s Friend, negli australiani Buffalo, nella giapponese Flower Travellin’ Band (Satori, il loro capolavoro targato 1971, che tanto anticipa i Rush delle suite).
I seminali Pentagram, anche sotto il nome di Bedemon, nacquero e furono attivi in Virginia a partire dal lontano 1971. I britannici Pagan Altar incisero il loro disco d’esordio – pubblicato, poi, solo nel 1984 – già nel 1978. Altre entità solo a torto (ed ingiustamente) etichettabili come ‘minori’, sia pure senza mai pubblicare in vita le loro registrazioni, hanno dato un forte e significativo contributo alla causa. Si pensi solo (riscoperti oltre vent’anni fa, dalla purtroppo defunta Kissing Spell) ai britannici Wicked Lady, Ice, Stone Angel, Daemon, Irmin’s Way, Dark ed in parte Dragon Milk, tutti attivi a metà circa degli anni ’70. Musiche bellissime, senza tempo.
Né vanno certo dimenticati, ai fini della nostra ricostruzione storica e del discorso che andiamo qui svolgendo, i Night Angel (poi evolutisi nella EF Band, nel 1979), gli scozzesi Iron Claw (attivi tra il 1969 e il 1974, senza purtroppo mai arrivare al traguardo del debutto su vinile), gli Egor del singolo Street (1971), gli Stallion inglesi (vissuti tra il 1974 e il 1976 e responsabili d’un entusiasmante hard prog, con Moog), gli eterei e cupi Wooden Lion (nero space prog hawkwindiano, durati dal 1973 al 1976). Una menzione particolare merita quindi la Flying Hat Band, fondata a Birmingham nel 1971 dal chitarrista Glenn Tipton, in seguito una delle due asce (insieme a KK Downing) dei Judas Priest (autori di un classico del doom settantiano, con lo storico ed imprescindibile Sad Wings of Destiny, uscito per la Gull nel 1976).
I gruppi di cui in questa sede stiamo trattando non erano ovviamente di puro doom (non aspettatevi i Candlemass, dunque), ma al genere di fatto arrivavano mescolando sapientemente hard rock, prog, blues, folk anglo-britannico alla Stackridge e dark di matrice Black Widow (la band di Leicester era in pista dal 1969: autentici modelli e prime-movers).
Occulti e cosmici furono acts di proto-doom come gli Zior. Il loro primo album omonimo apparve, nel 1971, per la piccola Nepentha. Univa hard progressive ed atmosfere gothic dark plumbee, molto ossessive e tetre, in anticipo sullo shock rock di Alice Cooper e Ozzy Osbourne. Vera demonologia in musica, con richiami alla magia e un’ottima reputazione concertistica. Gli Zior combinavano nel modo migliore effetti elettronici, ricerca sperimentale e gusto per la distorsione, con una voce molto alla Arthur Brown, quindi enfatica e teatrale. Prodotti da Larry Page dei Kinks, realizzarono, giusto due anni dopo, un secondo lavoro, rimasto inedito all’epoca e ristampato su CD assieme al primo. Il rock blues stravolto dei Blue Cheer veniva, in questo secondo capitolo, da loro appesantito ancor di più, reso travolgente, ma altresì capace di lasciare spazio a ballate dark e pagine trasognate. Un altro gioiello, dal punto di vista sia timbrico sia iconografico.
Altra pietra miliare del proto-doom rimane l’unico album omonimo degli Horse. Hendrixiani, con in cabina di regia l’ingegnere del suono di Led Zeppelin e Hawkwind, gli Horse debuttarono nel 1970, per la RCA. Influenzati dai Black Widow nella costruzione dei brani (e dagli Yes in certe armonie vocali), allo scioglimento si trasformarono in Saturnalia (un solo rarissimo LP, di tarda psichedelia, forse più bello per la veste grafica che per le composizioni), mentre il drummer Rick Parnell entrò negli Atomic Rooster del quarto e quinto disco (periodo pertanto 1972-1973).
Gli Horse, a tutti gli effetti, osarono molto, preceduti soltanto dai connazionali Harsh Reality (1969, interessante e pionieristico hard prog dalle tinte fosche) e Plus (il masterpiece Seven Deadly Sins, anch’esso del 1969, combinava in maniera straordinaria nascente rock sinfonico e proto-doom). Nel 1971, sempre in Inghilterra, uscì per la Vertigo Three Parts of My Soul, dei misteriosi e assai lugubri Dr. Z: un eccellente rock progressivo, dominato dalle tastiere di Keith Keyes, con ritmiche spartane e originali suggestioni misticheggianti, dalla multiforme vena interpretativa, fra disperazione e ansie pessimistiche. Quattro anni dopo vide la luce Green Eyed God (Penny Farthing, 1975) dei londinesi Steel Mill, quintetto influenzato da Black Widow e Van der Graaf (per l’uso dei fiati) e naturalmente dai Black Sabbath per le sezioni chitarristiche. Hard prog, folk celtico e rimandi floydiani possiamo rinvenire in questa perla rara dell’underground britannico, pubblicata inizialmente solo in Germania Ovest dalla Bellaphon (nel 1972) e ancora una volta prodotta da Larry Page degli Zior.
Un validissimo gruppo britannico, che non giunse però mai a pubblicare il proprio disco, fu quello dei Three-Headed Dog. Ispirati dalla figura mitologica di Cerbero, appunto il cane a tre teste scelto come monicker, i Three-Headed Dog registrarono sei brani nel 1972 e altri cinque l’anno seguente: tutti e undici sono stati finalmente pubblicati, solo moltissimo tempo dopo, nel 2006, dalla volitiva e benemerita Audio Archives (specializzata in questo tipo di operazioni di recupero musicale, si pensi al secondo disco dei Fantasy). Una edizione laser che ci permette, ora, di apprezzare tutta l’arte della band, antesignana di un hard-doom primordiale ed oltremodo evocativo.
E veniamo finalmente a un gruppo di illustri sconosciuti: gli Iron Maiden. No, non è uno scherzo ai danni del lettore. Quelli ai quali ci riferiamo adesso sono gli Iron Maiden di Bolton, nati nel 1968 ed attivissimi dal vivo, tra il 1970 e il 1975, pure di spalla a UFO, Procol Harum e Thin Lizzy. Nulla ci rimane del loro mix dalle mille sfumature di proto-doom e hard prog metallizzato, se non i nastri di Maiden Flight, pubblicati postumi dalla Perfect Pitch, nel 2005. Paradossalmente e incredibilmente, ancora più prossimi al doom furono gli Iron Maiden di Basildon nell’Essex – no, neanche loro sono quelli famosi di Paul Di Anno e Bruce Dickinson – autori nel 1969 del 45 giri God of Darkness, con sul Lato B Ballad of Martha Kent. La sfortunata band, che firmò anche per la Gemini senza arrivare tuttavia a nulla, meritava davvero altra sorte. A renderle in parte giustizia, pure in questo caso grazie alla Audio Archives, la stampa postuma del 1998, dal titolo Maiden Voyage, con ottimi riff e lunghe composizioni, dai sette minuti di media. Piccola postilla per i curiosi: questi Iron Maiden aprirono, a volte, anche per i loro idoli Black Sabbath. Alcuni di loro, successivamente, suonarono con Spirit of John Morgan (un mito dell’underground UK), Zior, Poco, Venom, Nik Turner ed Hawkwind. Senza dubbio, un curriculum di tutto rispetto.
Un altro nome di culto, quello dei Warlord, può far pensare ai grandi colleghi statunitensi.
Tuttavia, questi Warlord sono inglesi, nati a Londra nel 1974, particolarmente attivi tra il 1976 e il 1977, con un tastierista ospite. Il loro unico disco, un bel concentrato di hard rock tradizionale e proto-doom, è apparso infine omonimo, solo nel 2002, nuovamente per la Audio Archive. Li si può ascoltare anche sulla compilation Necrocopia – Original UK Doom in memoriam, altro CD della Audio Archive che copre tutto il periodo 1968-1977, nel Regno Unito, con pezzi di Night Angel, Horse, Wooden Lion, Iron Claw, Three-Headed Dog, Zior, Iron Maiden (quelli di cui sopra), Stallion, Necromandus, Egor e Flying Hat Band. Un prodotto assolutamente essenziale e irrinunciabile: un pezzo di storia, e non solo per collezionisti ed amanti di rarità storiche sepolte tra la polvere del passato.
Quest’ultima ha finito per avvolgere anche altre band, da riscoprire. Ad esempio, non si possono né devono fare passare sotto silenzio gli Electric Funeral. Svizzeri – come Cardeilhac, Country Lane e Spot – gli Electric Funeral proponevano un heavy sabbathiano ed oscuro, ruvido e selvaggio. Erano di Neuchatel e le loro incisioni di distorto proto-doom, risalenti ad un nastro del 1970-71, sono state rese pubbliche con il titolo The Wild Performance solamente nel 1991, per mano della Vandisk. La band aveva doti tecniche e qualità di scrittura superiori alla media e avrebbe meritato certo migliore destino. Tuttavia, come si è visto e si sta vedendo, pochi del gruppi esaminati qui hanno potuto poi dare alle stampe un album. Se lo avessero fatto, con buona probabilità, oggi si direbbe, apertamente, che la nascita effettiva del doom metal va collocata nei Seventies e non nella decade successiva.
Non raggiunsero l’altrimenti meritato traguardo dell’album neanche i Sudden Death, oscura band di Los Angeles, sorta nel 1970. Un gruppo di valore, come confermarono a quell’epoca i concerti con i Blue Cheer, i Seeds e le prime Runaways. Nel 1972, i Sudden Death registrarono un demo live, fra proto-doom e complesse trame hard. La Rockadelic lo ha pubblicato infine nel 1995, intitolandolo per l’occasione Suddenly. Un bel coacervo di rimpianti e storia infranta.
I Warpig erano, invece, canadesi e riuscirono nell’impresa di pubblicare il loro (unico) LP, registrato nel 1970 e stampato nel 1972 dalla Fonthill. Il quartetto dell’Ontario poteva contare su un axeman di eccezione, l’insegnante di chitarra Rick Donmoyer. Purtroppo, il debut dei Warpig, sabbathiano fin dal nome scelto, non ebbe quasi riscontro, malgrado gli aiuti e l’amicizia di Terry Brown, dei Rush: un vero peccato, dato che il proto Doom Metal dei quattro era a dire poco straordinario, con echi di Uriah Heep e Deep Purple, ed eccellenti parti di tastiera. Si sciolsero nell’indifferenza generale, nel 1975. La ristampa della Relapse ce li ha, se non altro, restituiti in tutto il loro incandescente e tetro splendore.
Parliamo ora di tre band che riuscirono, per quanto privatamente, a pubblicare i loro dischi, ma che restano, oggi, rarissime chimere per collezionisti, dato che una riedizione su compact – né ufficiale, né in formato bootleg – non è mai stata approntata. Si tratta di tre gruppi tutti americani. I Sorcery, rispettivamente nel 1978 e nel 1980, pubblicarono il debutto Sinister Soldier e il doppio Till Death Do We Part: fantastici esempi di hard-doom sabbathiano e astrale, che affonda le radici nel sound di marca Seventies. Molto belli anche i Lodestone (un album omonimo nel 1982): tra doom e nascente US metal, coi sintetizzatori che spingono le sonorità di ascendenza Black Sabbath in una direzione talora quasi futuristica e vagamente fantascientifico-siderale. La strada percorsa poi dallo stoner, in America e non soltanto. Infine, segnaliamo i leggendari – davvero, l’aggettivo calza qui a pennello – Laudanum: due LP per la Byron Records – di proprietà del leader, e così denominata in omaggio al grande poeta del Romanticismo inglese – a spasso tra Black Sabbath, ELP, Atomic Rooster, Mozart, con aperture che spaziavano dal proto-doom settantiamo (che ormai abbiamo imparato a conoscere) a porzioni tanto massicce quanto barocche e spaziali, epiche e sinfoniche. Il cantante era innamorato perso della musica e della cultura del Settecento, del resto. Il che è molto in carattere.
Chiudiamo con i Necromandus, che incisero anche loro un disco mai stampato all’epoca. Registrato nel 1973, da un quartetto amico nientemeno che di Tony Iommi, Orexis of Death fu pubblicato solo nel 1991, su vinile (dalla Reflection) e ancora più tardi su compact dalla Rise Above di Lee Dorrian: l’occasione imperdibile, finalmente, per apprezzare la musica dei Necromandus, un heavy prog dalle pieghe notevolmente doomeggianti e dagli stacchi a tratti quasi fusion. Membri del gruppo hanno in seguito suonato con ELO e Hammerhead.
Per Max
Bibliografia
– Alberto Bia, The Bible of the Devil. The Essential Obscure Hard Rock Encyclopedia (2015)
– Antonello Cresti, Come to the Sabbath. I suoni e le idee della Britannia esoterica (2011)
– Cesare Rizzi, Progressive & Underground (2003)