Non è facile parlare in maniera obiettiva di qualcosa o qualcuno che in una certa fase della propria vita ha contrassegnato o accompagnato i momenti più belli oppure i più difficili.

Proprio per questo per me recensire un album degli Ea è sempre piacevole da un lato e tremendamente complesso da un altro, in considerazione del fatto che non posso nascondere il mio amore sconfinato per ogni nota composta da questa band. Quindi con questa recensione non posso fare altro che cercare di trasmettere le stesse sensazioni a chi mi leggerà, con la speranza di spingere più persone possibili all’ascolto di questa misteriosa band.
Evidentemente, al di là dell’aspetto affettivo non è certo per piaggeria che si può lodare l’operato di un gruppo del quale non si conosce l’identità dei componenti e che non possiede un sito internet, una pagina su Facebook o MySpace, nulla di nulla che possa far sperare il povero recensore di ricevere il minimo feedback …
Quel poco che sappiamo da voci ufficiose è che si dice siano musicisti russi (ma la stessa Solitude che in quelle lande ha la propria sede non accredita questa tesi), che Ea è il nome di una divinità della mitologia accadico-babilonese e che sia i testi sia la lingua utilizzata fanno riferimento a queste antiche civiltà.
Ma questi in fondo sono aspetti marginali perché gli Ea in realtà non sono una band, bensì una sensazione che penetra nell’anima, che si insinua nella mente con le sue note malinconiche guidate ora da efficaci linee di tastiera ora da una chitarra dal timbro desolatamente dilatato.
Il sound di questi anonimi cantori del dolore, infatti, non possiede i tratti disperatamente claustrofobici e l’attitudine nichilista dei Worship o il senso di ineluttabile tragedia che si annida dietro ad ogni nota composta dai Colosseum.
Il male di vivere negli Ea è un evento catartico, dove il triste incedere delle melodie tratteggia il lento consumarsi dell’esistenza fino al suo estremo commiato e le note ne raccontano il melanconico fluire lasciando una sensazione di soffusa malinconia piuttosto che di sconforto e di costernazione.
Questo episodio della loro discografia, il quarto in sei anni, è la logica prosecuzione dei precedenti, anche se per intensità emotiva si avvicina più a “Ea II” che non a “Ea Taesse” e “Au Ellai”: il piccolo elemento di novità risiede nell’aver scelto di presentare un unico brano di quarantotto minuti anziché suddividere come di consueto la musica composta in due o tre tracce.
Quello che impressiona realmente è la capacità che esibiscono questi musicisti nel toccare le giuste corde dell’emozione senza ricorrere a particolari virtuosismi e nemmeno esibendo una tecnica fuori dal comune. La grandezza della band si esalta proprio nell’estrema semplicità compositiva, quella che porta alcune frange della critica a snobbarli perché artefici di soluzioni non sufficientemente cervellotiche per chi si diletta nell’esercizio dello snobismo intellettuale.
Gli Ea hanno creato una via del tutto personale al funeral doom, battuta di recente pure dagli ottimi Comatose Vigil con il loro splendido “Fuimus … Non Sumus”, anche se non sarebbe onesto ignorare che tutti quelli che si cimentano con questo genere devono fare i conti con le inevitabili influenze dei Thergothon prima e degli Skepticism poi.
Questa musica non è certo per chi ricerca avanguardistiche novità o rumorismi assortiti spacciati come la nuova frontiera della musica estrema; al contrario è nutrimento essenziale per chi si “accontenta” di commuoversi al cospetto della malinconica colonna sonora di un’esistenza inevitabilmente destinata all’oblio.

Tracklist:
1. Ea

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