Eye Of Solitude – Canto III

La tentazione di misurarsi con “La Divina Commedia” ha contagiato in passato, facendo anche qualche vittima illustre, diversi musicisti , non solo in ambito metal, ma non ci sono dubbi sul fatto che, mai prima d’ora, tale ambizioso accostamento abbia prodotto un risultato entusiasmante come avviene in questo Canto III.

Gli Eye Of Solitude sono una doom band di stanza a Londra che vede tra le sue fila musicisti i quali, pur risiedendo sul suolo inglese, hanno nazionalità o comunque origini sicuramente non britanniche, a partire dal vocalist rumeno Daniel Neagoe (che abbiamo già incontrato negli ottimi Deos), per passare al drummer italiano Adriano Ferraro e finendo con i chitarristi Indee Rehal-Sagoo e Mark Antoniades e il tastierista Pedro Caballero Clemente, lasciando al solo bassista Chris Davies un presumibile dna al 100% albionico.
Non è da escludere, quindi, che un simile mix di influenze e tradizioni musicali abbia influito positivamente nell’ideazione e nella realizzazione di un prodotto perfetto come quello che si è rivelato questo full-length.
Collocabili a grandi linee tra il funeral ed il death doom, gli Eye Of Solitude con un lavoro di tale portata riscrivono la storia del genere, andandosi a collocare nell’empireo dove sono assisi i padri Thergothon assieme ai loro figli prediletti Skepticism, Evoken, Mourniful Congregation ed Esoteric; dirò di più: dall’inizio del secolo ho perso il conto di quanti album di doom estremo siano passati nel mio lettore fornendomi emozioni impagabili e, in quel momento specifico, apparentemente ineguagliabili, eppure nessun’altro, salvo forse l’ultimo degli Ea, è stato capace di coinvolgermi in maniera assoluta dalla prima all’ultima nota come è accaduto con Canto III.
Questa autentica “internazionale del dolore” (integrata anche dal contributo in qualità di ospiti dei russi Anton Rosa alle clean vocals e Casper al violino) , come mi piace ribattezzarla, ci conduce, per poco più di un’ora, nei meandri più profondi della psiche umana, tra le sue paure ancestrali, l’affanno di una vita che scorre ineluttabilmente verso l’epilogo, l’angoscia che deriva dall’illusoria speranza di un’esistenza post-mortem, unico fragile appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla tragica consapevolezza che nulla potrà riportare indietro le lancette del tempo.
Lo scenario dell’Inferno dantesco, del resto, viene rappresentato in maniera coerente, e lo testimonia la recitazione dai toni drammatici, pur con una pronuncia italiana non impeccabile, di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale; proprio le parti recitate rappresentano i passaggi più delicati e, in qualche modo a rischio, all’interno del lavoro, perché il confine tra l’enfasi recitativa e la pacchianeria è davvero molto sottile, ma lo stato di grazia che accomuna tutti i musicisti coinvolti nel disco fa sì che tali momenti si rivelino invece assolutamente affascinanti oltre che del tutto funzionali alla riuscita del lavoro.
I sei lunghi brani costituiscono l’immagine della perfezione del suono e del songwriting: le parti acustiche, dai toni rarefatti e sovente accompagnate dai suddetti passaggi recitati, si dilatano creando attimi di vera angoscia, nei quali l’impressione di pace illusoria lascia spazio ad un’attesa che si fa via via spasmodica mentre si prepara il terreno all’irruzione corale di tutti gli strumenti; tutto ciò, specie quando viene sovrastato dal growl quasi irreale di Daniel, riesce a trasmettere quel pathos in grado davvero di far vibrare le corde più recondite dell’anima e al quale è impossibile sottrarsi senza prima aver versato qualche lacrima.
Non c’è un brano particolare da segnalare, non una traccia o un passaggio sulla quale indugiare più a lungo o altre da ignorare, non una sola nota superflua o fuori luogo in questo compendio di dolore , disperazione , smarrimento, malinconica e incommensurabile bellezza.
Un disco che va riascoltato più e più volte, perché in ogni frangente è capace di svelare nuove sfumature, particolari apparentemente insignificanti che si palesano invece in tutta la loro rilevanza nell’economia del lavoro: la solennità degli Skepticism, il senso di tragedia imminente dei Colosseum, la compattezza degli Evoken, il gusto melodico degli Ea e il lirismo decadente dei My Dying Bride vanno ad amalgamarsi in un’irripetibile e, attualmente, incomparabile espressione sonora.
Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
A costo di sembrare retorico, mi piace pensare che il Sommo Poeta abbia concesso la propria benevola approvazione agli Eye Of Solitude trasferendo loro tutta l’ispirazione necessaria per onorare nel migliore dei modi la sua opera immortale: per trovare dei punti deboli nell’operato della band londinese in questo frangente bisogna semplicemente essere prevenuti nei confronti del genere che propongono.
Disco dell’anno, senza dubbio, e mi scuso con chi non lo troverà citato nella mia playlist del 2013, pubblicata poco prima di ascoltare questo autentica opera d’arte; ma, si sa, le classifiche hanno un valore del tutto relativo quanto effimero, specie quando vengono piacevolmente smentite e stravolte da lavori del calibro di Canto III.

Tracklist:
1. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)
2. Act II: Where the Descent Began
3. Act III: He Who Willingly Suffers
4. Act IV: The Pathway Had Been Lost
5. Act V: I Sat in Silence
6. Act VI: In the Desert Vast

Line-up :
Daniel Neagoe – Vocals
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Pedro Caballero Clemente – Keyboards

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