I finlandesi Ordog solo tre anni fa si erano rivelati con un disco straordinario come “Remorse”, nel quale fornivano un interpretazione del funeral doom del tutto personale, sia per i suoni prescelti sia per l’approccio decisamente naif alla materia.
Pertanto mi sono avvicinato speranzoso a questo nuovo Trail for the Broken, quarto full-length della loro discografia, ricevendone in cambio una parziale delusione.
Intendiamoci, il disco di per sé non è affatto disprezzabile e contiene, anzi, diversi episodi di ottima fattura; il fatto è, però, che delle sonorità plumbee e sofferte del suo predecessore non è rimasto quasi più nulla visto che quello che potremo ascoltare in questo frangente è un gothic-prog-doom dai tratti sempre piuttosto anticonvenzionali ma ben lontano dall’evocare le atmosfere malate o dal riprodurre gli spunti geniali del suo predecessore.
Se gli Ordog, finchè erano alle prese con il funeral sghembo di “Remorse”, riuscivano a sopperire ad alcune lacune di stampo esecutivo grazie alla loro particolare sensibilità compositiva, con l’approdo a sonorità più fruibili si spingono in territori nei quali non sempre si trovano a proprio agio, specie per l’uso di clean vocals non all’altezza che affossa in più parti il disco anche quando vengono espressi spunti strumentali di indubbio spessore.
La voce di Aleksi Martikainen è infatti troppo piatta e talvolta neppure sufficientemente intonata per fare presa su un pubblico più ampio, come si presume sia stato l’intento dei finnici con questo evidente salto stilistico, ed il virtuale accantonamento del più consono growl non si rivela una scelta azzeccata.
L’album vive così di sprazzi di buona musica nei quali l’abilità dei nostri nell’imbastire melodie struggenti non viene meno, il tutto però è caratterizzato da un’eccessiva discontinuità e, laddove si centra il bersaglio con due brani segnati da un bel lavoro di tastiera come Devoted to Loss e Enter The Void, oppure come con I Ceased to Dream, che si risolleva dopo un avvio poco incisivo grazie a un finale decisamente riuscito, bisogna fare i conti anche con un episodio invero sconcertante per la sua piattezza come Abandoned.
Ma forse io sono severo per troppo amore nei loro confronti e, probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà comunque apprezzabile quest’album che, come già detto, non sarebbe corretto liquidare come un qualcosa di negativo; se vogliamo tracciare un parallelismo, il loro percorso rassomiglia non poco, anche come esito, a quello dei Pantheist, partiti come i finnici da una base funeral-death doom, poi abiurata per approdare a sonorità più marcatamente gotiche e progressive.
Semplicemente, chi ne avesse voglia, vada a riascoltarsi la title track di “Remorse” quando, dopo tredici minuti di autentica agonia basati su passaggi pianistici minimali
ed un riff distorto all’inverosimile, il brano esplode in un delirio psichedelico degno dei migliori Bigelf: l’esperienza di questo ascolto varrà più di mille parole per spiegare in maniera chiara e netta chi erano gli Ordog nel 2011, una band in grado di raggiungere magari pochi intimi ma capace di regalare loro momenti indimenticabili, e quello che sono oggi, un gruppo che piacerà senz’altro a molte più persone senza riuscire probabilmente a lasciare una traccia tangibile nel cuore di alcuno.
Tracklist:
1. The Trail
2. Scythe
3. The Swarm of Abhorrence
4. Devoted to Loss
5. Enter the Void
6. I Ceased to Dream
7. Abandoned
8. The Crows of Towerpath
Line-up :
Valtteri Isometsä – Guitars, Drums, Vocals (backing)
Aleksi Martikainen – Vocals
Jussi Harju – Keyboards
Ilkka Kalliainen – Bass