Morbid Flesh – Embedded In The Ossuary

Copertina che più death metal non si potrebbe, un’intro che ci prepara al massacro e via, si viaggia tra i gironi infernali dell’old school insieme agli spagnoli Morbid Flesh

Copertina che più death metal non si potrebbe, un’intro che ci prepara al massacro e via, si viaggia tra i gironi infernali dell’old school insieme agli spagnoli Morbid Flesh, ex Undertaker, al terzo lavoro dopo un demo del 2009 ed il full-length “Reborn in Death” del 2011.

Embededd In The Ossuary è un EP di cinque brani più intro, totalmente devoto allo scandinavian death di Dismember, Entombed e compagnia malefica, un buon tuffo nelle sonorità dei primi anni novanta, quando quelle band erano alla testa dell’esercito che, partendo dal freddo nord, di lì a poco avrebbe conquistato tutta l’Europa metallica. I ragazzi spagnoli ci fanno riassaporare tutto il buono di dischi che hanno fatto la storia del metal estremo europeo, come “Left Hand Path” (Entombed) e “Like An Ever Flowing Stream” (Dismember), riuscendoci alla perfezione grazie a una buona padronanza strumentale e ad un dischetto ben prodotto, che si rivela un piccolo orgasmo di ventitre minuti per tutti i fan della vecchia scuola. Dopo l’intro la band mette la quarta e parte il massacro dove si staglia feroce il growl del singer Vali: i ritmi si mantengono velocissimi per tutto l’Ep con il brano Under Ragged Hoods vero apice della distruzione sonora messa in campo dai nostri, fino ad arrivare alla bellissima e conclusiva Summoning The Sorcery Of Death, nella quale un’iniziale atmosfera doom/death sulla falsariga degli Asphyx si trasforma in una cavalcata da antologia. Buon prodotto dunque, questo Ep che, pur non portando alla causa niente di nuovo, si fa apprezzare risultando un buon antipasto in vista del prossimo album che, a questo punto, aspettiamo fiduciosi.

Tracklist:
1. Entrance to the Ossuary (Intro)
2. Charnel House
3. Under Ragged Hoods
4. Rising of Shadows
5. From Beyond the Bounds
6. Summoning the Sorcery of Death

Line-up:
Makeda – Bass
Mitchfinder General – Drums
C. – Guitars
Gusi – Guitars, Vocals (backing), Drums
Vali – Vocals

MORBID FLESH – Facebook

Árstíðir Lífsins – Þættir úr sǫgu norðrs

Ciò che maggiormente colpisce, in “Þættir úr sǫgu norðrs”, è la profondità della musica proposta, capace di riprodurre con rara efficacia il carattere ancestrale di poemi composti in epoche così lontane dalla nostra.

Abbiamo fatto la conoscenza di questa ottima band nel 2012 in occasione dello split album con gli Helrunar, Fragments: A mythological Excavation.

Dopo qualche tempo senza dare notizie e con una formazione ridotta a trio, che vede i tedeschi Stefán (Kerbenok) e Marsél (Helrunar) e l’islandese Árni (Dysthymia), dopo la fuoriuscita di un membro storico quale Georg, l’interessante combo si ripresenta con questo mini cd che trae ispirazione da due diversi poemi islandesi risalenti al decimo secolo. Come è facilmente intuibile, il black degli Árstíðir Lífsins possiede un marcato tratto epico e certamente l’utilizzo di testi cantati nell’antico idioma isolano ne accentua tale caratteristica.
Nel contempo, la componente tedesca della formazione indubbiamente caratterizza a modo suo il sound della band conferendogli quindi anche una particolare aura di algida solennità.
I due primi brani sono di fatto contigui oltre che ispirati allo stesso poema, mentre del tutto diversa è la terza traccia, molto teatrale e caratterizzata da parti corali e sinfoniche, sicuramente lontana da qualsiasi sfumatura estrema.
Il lavoro è piuttosto breve, poco più di 25 minuti, ma è fuori discussione che l’accoppiata iniziale costituisca un qualcosa che non è ascoltabile tutti i giorni per intensità e coinvolgimento emotivo (anche se su piani stilistici leggermente differenti, siamo molto vicini ai migliori Lunar Aurora, mentre Hrafns þáttr réttláta è un brano per iniziati che esula decisamente dal contesto introdotto dalle due parti di Þórsdrápa.
Ciò che maggiormente colpisce, in Þættir úr sǫgu norðrs, è la profondità della musica proposta, capace di riprodurre con rara efficacia il carattere ancestrale di poemi composti in epoche così lontane dalla nostra.
Per una band che è ormai garanzia di elevata qualità una splendida prova, capace di lenire l’attesa per un nuovo album che, si spera, non si faccia attendere ancora per troppo tempo.

Tracklist:
1. Þórsdrápa I
3. Þórsdrápa II
3. Hrafns þáttr réttláta

Line-up :
Stefán: Guitars, bass, vocals & choirs
Árni: Drums, double bass, viola, vocals & choirs
Marsél: Storyteller, vocals & choirs

Guests;
Sveinn: Horn, keyboards & effects
Bjartur: Viola

Árstíðir Lífsins – Facebook

Nefesh – Contaminations

Album d’autore per i Nefesh, splendida realtà del metal tricolore e grande acquisto in casa Revalve.

Secondo album per gli anconetani Nefesh, creatura prog/death dal notevole impatto che, sotto l’attenta Revalve, licenzia questo bellissimo lavoro.

Fondata nel 2005 e, dopo il classico demo di esordio, l’anno successivo la band registra nel 2011 il primo full-length dal titolo “Shades and Light”, masterizzato presso i famosi Finnvox Studios di Helsinki e che portano una discreta notorietà al gruppo anche fuori dai confini nazionali. Arriviamo così a ottobre dello scorso anno, quando i Nefesh cominciano i lavori per questo nuovo Contaminations, consegnato a noi all’inizio di aprile. È un lavoro tragicamente oscuro, pregno di rabbia, controllata dall’immensa tecnica dei nostri e incanalata in un songwriting eccelso, nel quale trovano spazio spunti di più generi metallici, che vanno dal power al thrash, dal death al prog e dove non mancano momenti di pura poesia in musica, avallata da un cantato in italiano che rarissime volte ho trovato così ben inserito in un contesto del genere. Produzione stellare ed uno spirito prog mai domo, fanno di questo album un viaggio entusiasmante nell’arte delle sette note che arriva all’apice nella trilogia My Black Hole / Figlio Della Vita / My White Star, praticamente una suite divisa in tre parti dove la lingua italiana e quella inglese convivono in perfetta, drammatica armonia, in un crescendo tragico pari solo a una “Trial Before Pilate”, da Jesus Christ Superstar di Andrew Lloyd Webber (My Black Hole) suonata dai King Crimson. L’album, pur mantenendo una tensione altissima, passa da momenti ultraheavy a bellissimi passaggi acustici, piccoli sprazzi di ariose aperture melodiche per tornare in un attimo nel più oscuro tunnel dove non si trova via d’uscita, accompagnati dalla voce del superlativo Paolo Tittarelli, grandissimo vocalist dalle mille risorse, passionale, teatrale, bravissimo nello screaming e meraviglioso quando il suo tono pulito si fa drammatico: in poche parole uno dei più bravi cantanti in circolazione. Non da meno i picchiatori del combo Michele Baldi alla Batteria e Diego Brocani,nuovo arrivato in casa Nefesh, al basso; Luca Lampis alla sei corde e Stefano Carloni alle tastiere completano una squadra perfetta, vera macchina che sa trasmettere emozioni come pochi altri, confezionando un’opera d’arte che va aldilà del mero genere, per inserirsi tra quei pochi artisti che regalano musica a 360°. Reborn Together, The Shades, la bellissima Una Piacevole Sorpresa, ancora cantata in italiano, sono esempi della grandezza di questa band che, a modo suo, è riuscita a far compiere un balzo in avanti al prog metal, un genere che, troppe volte, supportato solo dalla tecnica dei musicisti, si dimentica di toccare l’anima di chi lo ascolta. Album da avere assolutamente!

Tracklist:
1. Intro
2. Reborn Together
3. Una piacevole sorpresa
4. The Shades
5. My Black Hole (Trilogy Part I)
6. Figlio della vita (Trilogy Part II)
7. My White Stars (Trilogy Part III)
8. Dreams Beyond the Sky
9. Oltre me
10. After the End
11. Outro

Line-up:
Diego Brocani – Bass
Michele Baldi – Drums
Luca Lampis – Guitars
Stefano Carloni – Keyboards
Paolo Tittarelli – Vocals

NEFESH – Facebook

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Rhino – Rhino

La Sicilia si conferma, con l’esordio dei Rhino, terra di ottimi artisti e nuovo fulcro dello stoner tricolore.

One, two, three, four rock’n’roll … anzi stoner rock.

Dalla Sicilia, sotto gli influssi dei vapori vulcanici dell’Etna e non solo, arrivano a noi i Rhino con il loro stoner desertico e dai rimandi psichedelici, assuefatti da dosi massicce di Kyuss, Black Sabbath, Sleep e molto rock’n’roll. Jammano che è un piacere i ragazzi siciliani, la loro musica grezza e potente stordisce come un mega joint fumato nei pressi delle fauci di quel vulcano e ci sembrerà di essere inghiottiti dal cono di questo gigante neanche troppo addormentato. I quattro brani che formano questo EP di esordio regalano atmosfere legate allo stoner americano, con suoni impastati come da copione, riff settantiani e un’aura “tossica” che rende il tutto molto freak. A parte la bellissima Bing Bong Bubbles, la più psichedelica del lotto, con i suoi rimandi pinkfloydiani e vicina al capolavoro “Cloud Eye” di un’altra band siciliana come gli Elevators To The Grateful Sky, l’album è una lunga jam composta da tanto spirito rock’n’roll ipervitaminizzato da bombardate di hard rock acido, supportate da una sezione ritmica potente, composta da Marco “Franksquirt” al basso e Alfredo “Frankhobo” alla batteria, i quali non mollano un attimo il tiro ed accompagnano i deliri distorti delle due chitarre, in mano a Seby “Redfrank” e Francesco “Feliscatus”, quest’ultimo alle prese anche con il microfono. Spiral Target, Hiperviper e la grandiosa For My Pleausure, brano sopra le righe dove sono presenti rimandi al blues sporcato da iniezioni di Kyuss, Fu Manchu e Monster Magnet (praticamente il meglio dello stoner psichedelico a stelle e strisce), formano un tris di song che non fanno prigionieri, assottigliando sempre di più la linea che passa dalla Sicilia al deserto americano. Buon banco di prova questo demo per i Rhino, ora più che mai pronti al gran salto del full-length.

Tracklist:
1.Spiral Target
2.Hiperviper
3.Bing Bong Bubbles
4.For My Pleausure

Line-up:
Marco “Franksquirt” – Bass
Alfredo “Frankhobo” – Drums
Seby “Redfrank” – Guitars
Francesco “Feliscatus” – Guitars,Vocals

RHINO – Facebook

Aphonic Threnody & Frowning – Of Graves, of Worms, and Epitaphs

Questo split conferma il momento di grazia degli Aphonic Threnody, dai quali invochiamo a gran voce al più presto un nuovo album, e ci offre un nuova realtà come Frowning che attendiamo con curiosità all’esordio su lunga distanza.

Tempo di split album per gli Aphonic Threnody, i quali, dopo l’ottimo “Immortal In Death”, in coppia con i georgiani Ennui, sempre sotto l’egida della GS Production ci regalano altre due splendide tracce, questa volta condividendo gli spazi con la meno conosciuta one man band tedesca Frowning.

Rispetto a “Ruins”, contenuta nella predente uscita, spicca l’assenza di Kostas sicchè anche le tastiere vengono curate da Riccardo Veronese, il che rende il sound decisamente molto più guitar oriented e, a mio avviso, ancor più efficace rispetto alla già rimarchevole precedente uscita.
Scorched Earth è un brano dall’elevato tasso drammatico, nel quale la band, supportata dall’illustre ospite Jarno Salomaa (Shape Of Despair) rallenta ulteriormente il passo creando atmosfere avvolgenti grazie a riff che combinano impatto e melodia, il tutto esaltato da una magnifica prestazione vocale di Roberto Mura.
La successiva The Last Stand Against the Gloom non si rivela affatto inferiore, esaltando ancor più se possibile l’ispirato trademark classico del death-doom d’oltemanica, tanto che viene spontaneo chiedersi come mai gli Aphonic Threnody non abbiano fatto uscire un intero lavoro a proprio nome, mettendo assieme questi tre eccellenti brani per un minutaggio complessivo di quasi tre quarti d’ora, invece di spalmarli su due split album.
Poco male, comunque, quando la musica è di questo livello, la maniera scelta per veicolarla passa necessariamente in secondo piano.
Come detto, la seconda parte dello split è affidata ad un nome nuovo, Frowning, progetto solista funeral di Val Atra Niteris, musicista tedesco di estrazione black che ha all’attivo un album con gli Heimleiden.
Portandosi inevitabilmente appresso alcune delle caratteristiche tipiche delle one man band, il suono in questo caso è più minimale rispetto a quello di una band vera e propria come gli Aphonic Threnody, ma il risultato non è affatto disprezzabile, anzi: Funeral March è un brano decisamente in linea con gli standard del genere, esibendo una struttura compositiva capace di evocare il giusto pathos, mentre più composita appare In Solitude, dotata com’è di una toccante intro pianistica, e mostrando nel complesso il lato più riflessivo di Val.
Due brani piuttosto convincenti che costituiscono la maniera ottimale per presentarsi agli appassionati in attesa del full-length di prossima uscita .
In definitiva, questo split conferma il momento di grazia degli Aphonic Threnody, dai i quali invochiamo a gran voce al più presto un nuovo album, e ci offre un nuova realtà come Frowning che attendiamo con curiosità all’esordio su lunga distanza.

Tracklist:
1. Aphonic Threnody – Scorched Earth
2. Aphonic Threnody – The Last Stand Against the Gloom
3. Frowning – In Solitude
4. Frowning – Funeral March

Line-up :
Aphonic Threnody
Riccardo – Guitars, Bass, Keyboards
Roberto – Vocals, Lyrics
Abel – Cello
Marco – Drums

Frowning
Val Atra Niteris – Everything

APHONIC THRENODY – Facebook

Tenebrae – Il Fuoco Segreto

Da sentire, risentire e sentire ancora, finchè la musica composta dai Tenebrae a supporto della storia tragica, ma illuminante, del protagonista Johann Georg, riuscirà a rapire la vostra anima senza che possiate opporre la minima resistenza.

Siete convinti di vivere in una nazione nella quale tutto va catastroficamente alla rovescia ? Pensate che ci deve essere qualche grosso equivoco alla base di una realtà che vede milioni di persone perbene faticare per sbarcare il lunario mentre le camere della repubblica sono affollate da pregiudicati e da plurindagati? Ebbene, l’ascolto di un disco come Il Fuoco Segreto  rafforzerà ulteriormente la vostra convinzione riguardo all’andamento delle cose in questo splendido quanto contraddittorio frammento di pianeta.

Non che i Tenebrae  si occupino di questioni sociali, intendiamoci, anzi, le tematiche trattate dalla band genovese si ispirano all’opera di un gigante della letteratura dello scorso millennio quale fu Goethe; il motivo che mi ha spinto ad introdurre in questa maniera il disco è l’amara constatazione di quanto la meritocrazia da queste parti si riveli, in qualsiasi campo, una pura utopia: al termine dell’ascolto di Il Fuoco Segreto  buona parte di voi, in particolare quelli che non conoscevano i Tenebrae, non potranno fare a meno di chiedersi come gli autori di un’espressione artistica di tale livello abbiano faticato persino a trovare una label desiderosa di promuoverli, prima del recente accordo raggiunto con la House Of Ashes.
Se non altro il buon Marco Arizzi, anima e unico superstite della formazione originaria, non si è mai perso d’animo in tutti questi anni, fatti di line-up rivoluzionate e mille altri problemi che avrebbero fatto desistere chiunque non fosse stato mosso dalla ferma convinzione d’avere ancora molto da dire (e da fare) in una scena musicale spesso afflitta da un’inspiegabile cecità.
Per certi versi, i Tenebrae sono probabilmente vittime della difficoltà di catalogarli in un genere ben definito (e non è un caso se lo stesso leader ama definirne lo stile “art rock”), essendo alla fine molto più spostati verso un ambito progressive nonostante i musicisti che ne fanno parte abbiano fondamentalmente un background metal; per quanto mi riguarda non ci sono dubbi di alcun tipo: Il Fuoco Segreto è un album progressive in tutto e per tutto, in grado di rivaleggiare dal punto di vista qualitativo con un altra perla partorita lo scorso anno dalla Superba, ovvero “Le Porte Del Domani” de La Maschera Di Cera.
Attenzione, però, pur partendo da posizioni contigue, le due band esplorano differenti versanti musicali proprio alla luce della diversa estrazione di ciascuno: se gli uni, quindi, rivolgono il loro sguardo principalmente verso l’epopea settantiana del prog italiano, andando addirittura a proporre un sequel di “Felona e Sorona”, gli altri vanno ad attingere al migliore rock nostrano (Litfiba, Timoria) senza omettere di conferire al tutto un’aura oscura attraverso frequenti incursioni nell’heavy metal, con tanto di voce in growl a rimarcare l’asprezza di tali momenti.
Le chiavi della riuscita del lavoro sono sostanzialmente due: l’indubbio talento compositivo di Marco Arizzi e la voce di Pablo Ferrarese, un cantante conosciuto in ambito locale anche per le sue performance vocali in una tribute band di Ozzy Osbourne, un ruolo per certi versi riduttivo se rapportato alla voce del “Madman” (sia detto con il dovuto rispetto), alla luce della versatilità esibita nell’interpretare, con la giusta dose di enfasi e teatralità, i profondi testi, rigorosamente in italiano e liberamente adattati dal “Faust” da Antonella Bruzzone.
Dopo essere stato folgorato dalla loro esibizione di supporto ai Secret Sphere lo scorso 29 marzo, Il Fuoco Segreto è entrato definitivamente in loop nel mio lettore e, anche grazie alla sua lunghezza non eccessiva, è possibile goderne ogni intenso attimo, a partire dalla intro Faust sino all’ultima nota di Limite, in un ininterrotto susseguirsi di emozioni in grado di toccare vette altissime nel capolavoro Margarete, un brano che, pur sapendo di attirarmi le ire o gli sberleffi di qualche purista del prog, mi azzardo a definire la “750.000 anni fa l’amore” del nuovo millennio, tale è la capacità di portare alla commozione l’ascoltatore grazie al perfetto connubio tra le dolenti note del pianoforte e la magnifica interpretazione di Ferrarese.
La verità è che non si ravvisa un solo momento di stanca in un disco per il quale, tutto sommato, la durata limitata si traduce nella sintesi perfetta grazie alla quale nessuna nota viene sprecata per diluire inutilmente un contenuto musicale che rasenta la perfezione.
Rock, prog e metal per una volta vanno a braccetto come pochi sono riusciti a fare nel recente passato, e i Tenebrae lo fanno per di più attingendo meritoriamente alla nostra tradizione musicale che rimane, questa sì, uno degli aspetti del paese di cui andare fieri.
Da sentire, risentire e sentire ancora, finchè la musica composta a supporto della storia tragica, ma illuminante, del protagonista Johann Georg, riuscirà a rapire la vostra anima senza che possiate opporre la minima resistenza.

Tracklist:
1. Faust
2. Luce nera
3. Mephisto
4. Perdizione
5. Fuoco segreto
6. Margarete
7. Occhi spezzati
8. Schegge di specchio
9. Limite

Line-up :
Marco “May” Arizzi – Chitarre
Francesco Mancuso – Tastiere
Alessandro Fanelli – Batteria
Pablo Ferrarese – Voce e Cori
Fabrizio Bisignano – Basso

TENEBRAE – Facebook

Crypt Of Silence – Beyond Shades

Esordio soddisfacente ma non eccezionale, difficilmente però la Solitude punta sui cavalli sbagliati, quindi attendiamo fiduciosi un salto di qualità decisivo fin dal prossimo album.

Gli ucraini Crypt Of Silence si presentano al passo d’esordio per la Solitude con un solido album di death doom piuttosto ossequioso alla tradizione ma non per questo da sottovalutare a priori.

Indubbiamente la band di Mikhael Graver non si va a collocare sui livelli di eccellenza raggiunti da diversi loro compagni di scuderia negli ultimi tempi, difettando rispetto a questi sia in drammaticità che in gusto melodico, ma resta il fatto che ogni appassionato che si rispetti non dovrebbe ignorare questo buonissimo disco, all’insegna di un sound molto essenziale, nel quale spicca soprattutto l’assenza delle tastiere e quindi, di quelle armonie capaci spesso di fare la differenza in un genere dai tratti monolitici come quello in questione.
In sede di presentazione da parte della label viene citato curiosamente un singolo album come principale fonte di ispirazione, ovvero quel “The Sullen Sulcus” che è sicuramente stato il migliore degli album prodotti dai Mourning Beloveth fino all’uscita dello splendido Formless, ma non parliamo certo di un lavoro capace di segnare la storia del genere; sicuramente tali riferimenti non sono campati per aria (in particolare nelle conclusiva End of Imaginary Line ) ma qui siamo di fronte, soprattutto, ad una band relativamente giovane che intende proporre un death doom scarno ma dall’immutato impatto malinconico senza cercare facili scorciatoie.
Le quattro lunghe tracce portano Beyond Shades a sfiorare i cinquanta minuti, snodandosi in maniera sofferta ma sufficientemente coinvolgente, con qualche assolo di chitarra e diversi passaggi acustici ad incrinare il muro sonoro eretto dai quattro ragazzi ucraini.
E’ da considerare quindi più che sufficiente questo lavoro dei Crypt Of Silence, considerando appunto che si tratta pur sempre di un esordio, in particolare per l’integrità dimostrata e per il coraggio nel proporre con efficacia un modello stilistico leggermente superato; difficilmente la Solitude punta sui cavalli sbagliati, quindi attendiamo fiduciosi un salto di qualità decisivo fin dal prossimo album.

Tracklist:
1. Walk with My Sorrow
2. Bleeding Her Eyes
3. The Wrath Song
4. End of Imaginary Line

Line-up :
Andriy Buchinskiy – Drums
Roman Kharandyuk – Guitars (rhythm), Vocals
Roman Komyati – Guitars (lead)
Mikhael Graver – Vocals, Bass, Lyrics

CRYPT OF SILENCE – Facebook

Kuolemanlaakso – Tulijoutsen

Viene confermata l’impressione di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere.

Il secondo album dei finnici Kuolemanlaakso arriva dopo un ep di recente uscita (Musta Aurinko Nousee) del quale abbiamo parlato qualche mese fa su queste pagine .

Il lavoro su lunga distanza conferma l’impressione ricavata in tale circostanza, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band che, pur dedita al death doom, non si accontenta di seguire pedissequamente gli schemi compositivi delle band più note del genere, e questo pur potendo annoverare in formazione uno come Mika Kotamaki, vocalist dei Swallow The Sun, il che farebbe presupporre sonorità in qualche modo ricondicibili a quella band.
In realtà croce e delizia del disco è la relativa disomogeneità della proposta che, se da un parte ha il pregio di mostrare diverse sfaccettature stilistiche, dall’altra tenta con qualche difficoltà di far convivere all’interno del lavoro brani tra di loro agli antipodi come per esempio la rocciosa opener Aarnivalkea e la discutibile “swing-doom” Glastonburyn Lehto.
La stessa Me vaellamme yössä, che avevamo già trovato in apertura di “Musta Aurinko Nousee” in versione “edit”, in questa sua veste integrale si conferma canzone di sicuro impatto e dal buon potenziale commerciale, ma inserita tra la pesantezza dei riff delle ottime Verihaaksi e Arpeni finisce per apparire persino come un brano troppo “leggero”.
Ma, a conti fatti, se escludiamo la sola Glastonburyn Lehto, eccessivamente fuori dagli schemi per poter essere realmente apprezzata, Tulijoutsen è decisamente un buon disco che oltre ad avvalersi delle sempre efficaci vocals di Kotamaki mette in luce le eccellenti doti compositive di Laakso, in grado di produrre brani convincenti sia quando calca la mano sul versante più cupo e intimista (Arpeni) sia quando riesce a trovare un equilibrio ideale tra la robustezza del sound e le aperture melodiche, come avviene nella conclusiva Tuonen Tähtivyö, impreziosita anche da una gradevole voce femminile.
Kuolemanlaakso si rivela quindi un disco meritevole di attenzione, per quanto non troppo accessibile in tempi brevi in particolare per il ricorso alla lingua madre in sede di stesura dei testi; la sensazione è però quella che Laakso stia ancora testando sul campo la resa effettiva del suo progetto, come farebbe pensare l’elevata frequenza delle uscite (due full-length e un Ep) in un lasso di tempo relativamente breve.

Tracklist:
1. Aarnivalkea
2. Verihaaksi
3. Me vaellamme yössä
4. Arpeni
5. Musta
6. Glastonburyn lehto
7. Tuonen tähtivyö

Line-up :
Usva – Bass
Tiera – Drums
Kouta – Guitars
Laakso – Guitars, Keyboards
Kotamäki – Vocals

KUOLEMANLAAKSO – Facebook

Aphonic Threnody & Ennui – Immortal In Death

Per entrambe le band ci troviamo probabilmente di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.

Chi pensa che gli split album siano tutto sommato operazioni trascurabili nel complesso della discografia di una band, pur non avendo del tutto torto a livello di principio, viene nell’occasione smentito da questo Immortal In Death, che vede alle prese, con un brano ciascuno, una sorta di internazionale del doom come gli Aphonic Threnody e gli emergenti georgiani Ennui.

Del resto, tre quarti d’ora di musica racchiusa in sole due tracce testimoniano quanta carne al fuoco ci sia all’interno di questo ottimo lavoro all’insegna del funeral-death doom più cupo e malinconico.
Lo split si apre con i venti minuti di Ruins, ad opera degli Aphonic Threnody, band che racchiude musicisti piuttosto noti nella scena quali l’inglese Riccardo V. (Dea Marica, Gallow God), gli italiani Roberto M. e Marco Z. (Dea Marica, Urna), il belga Kostas P. (Pantheist, Wijlen Wij) e l’ungherese Abel L..
Mai come in questo caso, l’unione di queste ottime individualità produce una somma di valori adeguata alle attese, regalando un brano eccellente che va a collocarsi oltre il livello standard raggiunto con le già quotate band di provenienza: Ruins risulta una vera e propria summa di tali esperienze con la quale, aderendo in toto ai dettami della scuola britannica, gli Aphonic Threnody fanno propria la lezione intrisa di decadente lirismo impartita un ventennio fa dai My Dying Bride, rielaborandola con la necessaria competenza ed ottenendo un risultato per certi versi inatteso, tale è il coinvolgimento prodotto da questo brano, capace di crescere in maniera esponenziale fino ad esaltare le caratteristiche peculiari del genere in un finale magnifico.
La traccia proposto dagli Ennui, Hopeless, ci consente di mettere a confronto una scuola più consolidata con quella di recente tradizione dell’area ex-sovietica: il duo georgiano composto da David Unsaved e Serj Shengelia ha all’attivo due album di recente uscita, “Mze Ukunisa” del 2012 e “The Last Way” del 2013, entrambi di ottima fattura e capaci di imporli immediatamente all’attenzione degli appassionati.
Rispetto ai compagni di avventura gli Ennui accentuano maggiormente l’aspetto malinconico della composizione, lasciando che il costante connubio tra la chitarra solista ed il growl profondo di David dipinga uno scenario di immane disperazione; il risultato è brano lungo quanto intenso e in grado di sprigionare emozioni a getto continuo, ale quale è pressoché impossibile restare indifferenti.
Ecco spiegato il motivo per il quale vale la pena di attribuire a questo split, pubblicato dall’etichetta russa GS Production, la stessa dignità di un full-length, non solo per la sua ragguardevole durata complessiva ma soprattutto per la qualità immessa da Aphonic Threnody e Ennui nei due brani spingendomi ad affermare che, per entrambe le band, ci troviamo di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.

Tracklist:
1. Aphonic Threnody – Ruins
2. Ennui – Hopeless

Line-up :
Aphonic Threnody
Riccardo V. – Guitars, Bass
Roberto M. – Vocals, Lyrics
Abel L. – Cello
Marco Z. – Drums
Kostas P. – Keyboards

Ennui
Serj Shengelia – Guitars, Bass, Drums
David Unsaved – Guitars, Vocals

APHONIC THRENODY – Facebook

ENNUI – Facebook

Hornwood Fell – Hornwood Fell

Per gli Hornwood Fell un esordio positivo, all’insegna di un black dal sapore antico ma non per questo necessariamente anacronistico.

In una nazione come la nostra nella quale la decadenza morale appare inarrestabile, non si può fare a meno di apprezzare chi esibisce una dote in via d’estinzione quale è la coerenza.

Rispetto dei canoni stilistici tradizionali e recupero dello spirito primevo del black metal, questo è ciò che propongono i laziali Hornwood Fell con questo loro esordio auto intitolato; anche se, molto spesso, tali dichiarazioni di intenti servono a nascondere evidenti limiti tecnico- compositivi, questo non è certo il caso dei nostri, capaci invece di proporre una quarantina di minuti di musica avvolgente e disturbante, che riporta le lancette dell’orologio indietro di una ventina d’anni, senza che per questo si avverta nell’aria un odore stantio. Tenendosi alla larga da qualsiasi deriva di tipo melodico o avanguardistico, il trio tira dritto per la propria strada, lastricata di integrità e genuina passione: questo disco esibisce le caratteristiche salienti del genere nella sua versione più verace, quali vocals aspre, blast beat furiosi, chitarre ronzanti e una produzione priva di fronzoli; una serie di elementi che costituiscono sia il maggiore pregio sia il peggiore difetto, a seconda del punto di osservazione. Se il risultato è quello di offrire tracce intense quanto lineari, come ad esempio Meca e Mutavento, ben venga allora la manifesta rinuncia a qualsivoglia intento innovativo e, paradossalmente, tutto ciò appare come una boccata d’aria fresca se paragonato alle molte uscite plastificate e originali solo in apparenza, in quanto di fatto semplici copia e incolla di generi diversi tenuti insieme da una colla scadente. Per gli Hornwood Fell un esordio positivo, all’insegna di un black dal sapore antico ma non per questo necessariamente anacronistico.

Tracklist:
1. Cerqua
2. Tempesta
3. Meca
4. L’ira
5. Mutavento
6. VinterFresa part 1
7. VinterFresa part 2

Line-up :
Andrea Vacca – Bass
Andrea Basili – Drums
Marco Basili – Guitars, Vocals

HORNWOOD FELL – Facebook

Fäulnis – Snuff // Hiroshima

Snuff // Hiroshima convince pienamente mostrando una band capace di proporre un lavoro piuttosto scorrevole, nonostante un genere musicale ed un contenuto lirico ben lungi dal potersi considerare “leggeri”.

I tedeschi Fäulnis sono attivi da circa un decennio, nel corso del quale hanno ottenuto una discreta notorietà in patria e, con Snuff // Hiroshima, giungono al loro terzo full-length.

Nata come one-man band, la creatura del musicista amburghese Seuche con il passare del tempo ha visto sempre più aumentare il numero dei musicisti coinvolti fino ad assumere le attuali sembianze di gruppo a tutti gli effetti. I Fäulnis propongono un black metal che sicuramente non possiede le caratteristiche più integraliste del genere, spaziando tra umori depressive e partiture più propriamente dark sino a sconfinare spesso e volentieri in spunti di matrice punk. Proprio questo, se vogliamo, è il maggior motivo d’interesse visto che il connubio, pur non essendo in assoluto una primizia, non è neppure così comune. Snuff // Hiroshima non è comunque un lavoro particolarmente ostico dal punto di vista musicale, dato che i Fäulnis si tengono alla larga da tentazioni avanguardiste puntando maggiormente ad un impatto diretto e comunque sempre contraddistinto da una spiccata impronta melodica. Purtroppo l’utilizzo della lingua madre da parte di Seuche ci impedisce di apprezzare pienamente e conferire il giusto peso ad una parte lirica che affronta argomenti scomodi e tutt’altro che rassicuranti (ne è esempio eloquente il tema dell’automutilazione nell’opener Grauen) e, in generale, tesa ad evocare immagini per lo più sgradevoli di miserie umane e di totale incomunicabilità; tutto sommato questo è il classico corredo misantropico che accompagna di norma gli album di DSBM, ma in questo caso Seuche preferisce veicolarlo tramite un sound molto più dinamico che, per lo più, sembra evocare una rabbia sorda e irragionevole piuttosto che cupa rassegnazione. Per mia indole prediligo i Fäulnis quando rallentano un pò l’andatura, mostrando un lato vagamente più malinconico come in Abgrundtief e Durch die Nacht mit… e, soprattutto, nella a tratti doomeggiante Atomkinder und Vogelmenschen, ma è nel suo complesso che il lavoro riesce a scongiurare la noia grazie a brani sempre capaci di destare l’attenzione dell’ascoltatore. Snuff // Hiroshima quindi convince pienamente mostrando una band capace di proporre un lavoro piuttosto scorrevole, nonostante un genere musicale ed un contenuto lirico ben lungi dal potersi considerare “leggeri”.

Tracklist:
1. Grauen
2. Weil wegen Verachtung
3. Distanzmensch, verdammter!
4. Abgrundtief
5. Paranoia
6. Durch die Nacht mit…
7. In Ohnmacht
8. Atomkinder und Vogelmenschen
9. Hiroshima

Line-up :
Seuche – Vocals
N.G. – Drums
P.K. – Bass
N.N – Guitars
M.R.M – Guitars

FAULNIS – Facebook

Fuoco Fatuo – The Viper Slithers in the Ashes of What Remains

I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.

L’album d’esordio dei varesini Fuoco Fatuo si presenta all’insegna del death-doom più rigoroso e incontaminato, una scelta stilistica invero non troppo diffusa dalle nostre parti.

The Viper Slithers in the Ashes of What Remains infatti, riesce nell’impresa di amplificare nel contempo sia l’esasperante lentezza del doom sia la sorda violenza del death: il risultato è uno spaventoso monolite sonoro di oltre cinquanta minuti, capace di afferrare alla gola i malcapitati ascoltatori trascinandoli nei suoi gorghi e spingendoli sempre più in basso, fino a quegli abissi mai lambiti da un barlume di luce e popolati da creature mostruose, simili a quelle che popolavano i visionari racconti di Lovecratf.
Avevamo lasciato il trio lombardo alle prese con un ep, “33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero”, che ne aveva messo in luce le indubbie potenzialità, vedendoli spaziare da una base solidamente doom, ora verso sfumature sludge ora di matrice dark ambient, senza disdegnare l’uso di un hammond capace di imprimere al sound un indubbio fascino; poco più di un anno dopo la direzione musicale appare molto più chiara e, mai come in questo caso, la compattezza stilistica a scapito di una certa versatilità si rivela paradossalmente essere più un vantaggio che non un limite.
I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.
Le rare accelerazioni, dai rimandi black, non vanno ad intaccare un quadro d’insieme che, per esemplificare al massimo, potrebbe ricordare sia una versione a 16 giri degli opprimenti Morbid Angel di “Covenant” sia, soprattutto, un’ulteriore estremizzazione del già pesante death-doom dei maestri statunitensi Evoken; una nera colata di note che non lascia speranze di salvezza alle anime dannate, pervicacemente percosse da una tale ottundente violenza.
Ascoltate The Viper Slithers in the Ashes of What Remains come se fosse composto da un’unica traccia, ad un volume confacente ai biechi intenti dei Fuoco Fatuo, lasciandovi definitivamente seppellire da una lavoro dannatamente coinvolgente pur nella sua apparente linearità.

Tracklist:
1. Ancestral Devouring Anxiety
2. Junipers of Black Iridescence
3. Inner Isolation in a Sea of Mist
4. Eternal Transcendence into Nothingness
5. Requiem for Nulun

Line-up :
Giovanni “Ken” Piazza – Bass
Fabrizio Moalli – Drums
Milo Angeloni – Vocals, Guitars

FUOCO FATUO – Facebook

Shattered Hope – Waters Of Lethe

Quattro anni rispetto alla precedente uscita non sono passati invano portando al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.

Quando, nel 2010, i greci Shattered Hope pubblicarono il loro album d’esordio intitolato “Absence”, non tutta la critica fu concorde nel riconoscervi i prodromi di un’esplosione definitiva di quel potenziale, allora solo parzialmente dimostrato, convogliato in questo magnifico Waters Of Lethe.

In effetti, il lavoro d’esordio mostrava una band dal songwriting piuttosto lineare e, tutto sommato, orientato ad un death-doom pesante il giusto ma contenente pur sempre ampi squarci melodici, decisamente apprezzabile quindi, per quanto non ancora sufficiente a collocare il combo ateniese ai vertici del doom estremo.
Waters Of Lethe dimostra, invece, quella crescita che appariva ineluttabile quasi si trattasse di un disegno delle divinità dell’Olimpo: gli ottanta minuti di opprimente e plumbeo dolore tradotto in musica spostano in maniera netta le coordinate sonore sul versante funeral, senza che per questo motivo la componente melodica venga messa in secondo piano.
Visti dal vivo lo scorso anno in quel di Romagnano nella loro unica apparizione italiana di fronte a pochi e fortunati intimi, gli Shattered Hope erano chiaramente quelli che, tra le band presenti, esibivano il suono meno immediato, più profondo eppure ricco di fascino, capace di lasciare allo spettatore il piacere di trovare la giusta chiave di lettura per assaporarne pienamente l’amaro calice musicale .
Con queste premesse l’attesa per il nuovo album era sicuramente giustificata e fortunatamente non è stata tradita, a conferma del fatto che questi quattro anni sono stati un periodo senz’altro lungo ma necessario per portare al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.
Waters Of Lethe prende l’avvio con Convulsion, brano caratterizzato da una struggente parte finale che mostra però, a tratti, un sound leggermente più aggressivo rispetto a quello che verrà proposto nel resto del lavoro; ma appare evidente che, dopo questa eccellente prova di forza di oltre dodici minuti, quello che ci attende è un viaggio agli inferi lento, terribile, opprimente e pregno di disperazione, ovvero tutto ciò che chi ama il funeral desidera ascoltare.
La successiva For the Night Has Fallen è, infatti, un classico brano nel quale le armonie chitarristiche si snodano in maniera ottimale su una struttura più tradizionalmente devota ai maestri My Dying Bride, mentre My Cure Is Your Disease va a rievocare le partiture bradicardiche degli Worship del brano capolavoro “All I Ever Knew Lie Dead” arricchendole di un relativo dinamismo e di un più spiccato gusto melodico, per un risultato finale splendido.
La bellezza di questo disco è riscontrabile anche nella sua costante progressione qualitativa che trova il suo apice in Obsessive Dilemma, traccia nella quale la chitarra dipinge desolanti affreschi sonori che vanno ad intrecciarsi con un growl cangiante ed espressivo.
Un lavoro già ampiamente al di sopra della media va a chiudersi con due tracce dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora che risultano nel contempo le più complesse del lotto, ma capaci di svelare sempre più il loro fascino dopo ogni ascolto: certo, i cinque minuti di funeral integralista collocati nella coda di Aletheia contribuiscono ad appesantire di molto l’ascolto, quasi a voler controbattere la relativa orecchiabilità della sua parte centrale, ma costituiscono pure un ideale viatico alle atmosfere sublimi poste ad introduzione della conclusiva Here’s To Death, lunghissima litania dai tratti delicati quanto funesti capace di uguagliare i miglior Esoteric e Mournful Congregation.
Come già ripetuto più volte in frangenti analoghi, il recente Canto III degli Eye Of Solitude, spostando ulteriormente in alto lo standard qualitativo del genere, si pone nel presente come ingombrante termine di paragone per chi voglia cimentarsi in questo medesimo terreno: ebbene, al riguardo si può dire che nessuno come gli Shattered Hope sia riuscito finora ad avvicinarsi alla magnificenza della band londinese, rispetto alla quale il sestetto greco risulta appena inferiore solo per l’impatto drammatico, essenzialmente a causa di una minore enfasi, conferita in quel caso dall’imponente lavoro delle tastiere che, invece, in Waters Of Lethe, svolgono un elegante quanto discreto lavoro di accompagnamento lasciando principalmente alle chitarre il compito di sviluppare armonie splendide quanto malinconiche.
Ma non c’è dubbio sul fatto che questo lavoro rappresenti un’ideale summa di quanto prodotto dal pantheon del funeral death-doom negli ultimi vent’anni, andando non solo a rimodellare con una rilettura del tutto personale quanto già fatto da chi ha scritto la storia del genere, ma riuscendo persino ad eguagliarne l’intensità e il pathos.

Tracklist:
1. Convulsion
2. For the Night Has Fallen
3. My Cure Is Your Disease
4. Obsessive Dilemma
5. Aletheia
6. Here’s to Death

Line-up :
Nick – Vocals
George – Drums, Percussion
Sakis – Guitars
Thanos – Guitars
Eugenia – Keyboards
Thanasis – Bass

SHATTERED HOPE – Facebook

Spellblast – Nineteen

Gli Spellblast confezionano un grande album di power metal dalle atmosfere western, amalgamando la nostra musica preferita con le colonne sonore di Ennio Morricone.

L’ho ascoltato e riascoltato quest’album perché ancora stento a credere che una band di tale portata non abbia un’etichetta alle spalle e che, quindi, un disco di tale levatura debba uscire autoprodotto.

Non ne conosco i motivi (anzi, diciamo che un’idea me la sono fatta) ma cominciano ad essere davvero troppe le band meritevoli prive dell’appoggio, a mio avviso fondamentale, di qualcuno che creda nelle loro potenzialità e che possa occuparsi di tutti gli aspetti organizzativi e promozionali lasciando ai componenti delle band il compito essenziale di suonare e comporre musica. Gli Spellblast provengono da Bergamo e sono attivi dal 1999 ma, dopo un demo nel 2004, l’esordio su lunga distanza avviene con “Horns Of Silence” solo nel 2007, mentre il secondo album “Battlecry” risale al 2010, impreziosito dalla partecipazione di Fabio Lione. In questa sua ultima bellissima uscita il combo lombardo abbandona il folk metal dei dischi precedenti per regalarci un power metal dalle originalissime atmosfere western, che aiutano la band a raccontare le vicende tratte dalla “The Dark Tower Saga”, monolite cartaceo ad opera di Stephen King. Ora, se siete incuriositi dalla parola western, chiarisco subito che Nineteen è un gran bel pezzo di metallo, duro, oscuro, dove le orchestrazioni e le atmosfere da cavalli e polvere sono magistralmente inserite nel contesto, rendendo la musica epicissima senza per una volta scomodare Tolkien, draghi e folletti. Daniele Scavoni, singer dalla voce possente, protagonista di una prova maiuscola per tutta la durata dell’album, ricorda a tratti il miglior Zachary Stevens, assecondato da un songwriting eccelso e da compagni di viaggio altrettanto bravi, che formano una banda degna di Butch Cassidy e Billy the Kid. Accontenterà un pò tutti i fan del power questo disco, sia chi preferisce un approccio più diretto, si gli amanti del sound orchestrale; le song non mancano di picchiare duro e lo fanno praticamente sempre, mentre laddove la frontiera prende il sopravvento, lo fa tenendo ben alta la tensione con atmosfere perennemente da duello allo scoccare del mezzogiorno. Non si può non chiamare in causa il Maestro Ennio Morricone e le sue straordinarie colonne sonore, ciliegina sulla torta dei film di Sergio Leone e della saga di Ringo con il compianto Giuliano Gemma, e gli Spellblast assorbono il meglio del compositore romano e lo usano al servizio del loro metal per un risultato entusiasmante. In materia di power metal siamo al cospetto di un grande album, il migliore di quiest’anno finora insieme all’ultimo Persuader: A World That Has Moved On, Into Demon’s Nest, Shattered Mind, We Ride, The Calling sono solo alcuni stupendi esempi del livello altissimo del lavoro di questa grande band nostrana.

Tracklist:
1. Banished
2. Eyes in the Void
3. Highway to Lud
4. A World That Has Moved On
5. The Reaping
6. Into Demon’s Nest
7. Blind Rage
8. Shattered Mind
9. Until the End
10. We Ride
11. Programmed to Serve
12. Endless Journey
13. The Calling

Line-up:
Daniele Scavoni – Voce
Luca Arzuffi – Chitarra
Aldo Turini – Chitarra
Xavier Rota – Basso
Michele Olmi – Batteria

SPELLBLAST – Facebook

Dead End Finland – Season Of Withering

I Dead End Finland fanno centro con il rolo melodic death grazie ad un grande vocalist ed ad un ottimo songwriting: un album tutto da ascoltare.

Nereo Rocco diceva: datemi un portiere che para e un centravanti che segna … la frase di questo grande mister, ben si adatta al disco in questione: infatti i Dead End Finland, per far piacere il loro album, hanno dalla loro delle belle canzoni ed un vocalist bravissimo, peculiarità che, in un genere inflazionato come il melodic death fanno decisamente la differenza.

I quattro ragazzi di Helsinki arrivano al secondo album dopo l’esordio, “Stain Of Disgrace” del 2011, ed il loro death melodico infarcito da abbondanti tastiere e con strizzate d’occhio a sonorità moderniste, non tralasciando puntate verso melodie vicine agli ultimi e connazionali Amorphis.
La punta di diamante del combo finnico è il vocalist Mikko Virtanen, perfetto nel growl e splendido nell’utilizzo delle clean vocals, il che, abbinato ad un ottimo songwriting, rende l’ascolto del disco una vera goduria per gli amanti di queste sonorità, una quarantina di minuti di metal trascinante che passeranno alla velocità della luce, in modo tale che non vi rimarrà che riascoltare il tutto dall’inizio.
Dai suoni moderni della title-track ai tastieroni in tipico Children of Bodom style, accompagnati da clean vocals degne di Tomi Joutsen, cantore del Kalevala in casa Amorphis, è tutto un susseguirsi di ben accolti clichè, bissati da Zero Hours, altro bellissimo esempio di metal scandinavo, dove il drumming impetuoso di Miska Rajasuo prende per mano il brano e ritorna prepotentemente protagonista anche nella durissima Silent Passage, nella quale spuntano richiami ai Dark Tranquillity.
Sinister Dream, Shape of the Mind e la conclusiva Dreamlike Silence alzano, e non di poco, il parere positivo su questo album: tre canzoni nelle quali in una quindicina di minuti viene convogliato il meglio del genere, con i Dead End Finland intenti a sparare le loro frecce avvelenate dai suoni di Amorphis, In Flames, Dark Tranquillity e primi Sentenced, mettendo la parola fine al lavoro tra i doverosi applausi, da estendere anche alla produzione da top album che rende il suono piacevolmente cristallino.
In conclusione mi permetto una considerazione: negli anni in cui il melodic death dettava legge sul mercato metallico trovarono la gloria band considerate allora fenomenali ma sicuramente di gran lunga inferiori agli attuali Dead End Finland.
Quindi fidatevi e date un ascolto a Season Of Withering.

Tracklist:
1. Season of Withering
2. Zero Hour
3. Hypocrite Declaim
4. Paranoia
5. An Unfair Order
6. Bag of Snakes
7. Silent Passage
8. Sinister Dream
9. Shape of the Mind
10. Dreamlike Silence

Line-up:
Miska Rajasuo – Drums
Santtu Rosen – Guitars, Bass
Jarno Hänninen – Keyboards
Mikko Virtanen – Vocals

DEAD END FINLAND – Facebook

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Asofy – Percezione

Un’altra ottima opportunità di ascolto per chi predilige tonalità oscure striate da fiochi bagliori di luce.

Nati all’inizi del secolo come progetto solista di Tryfar, i milanesi Asofy ritornano a pubblicare un album dopo quello d’esordio datato ormai 2001 , intervallato da un Ep nel 2007 ed un più recente split con gli Sleeping Village.
La novità rispetto ai lavori citati è che la parte vocale e lirica, rigorosamente in lingua italiana, è stata affidata in toto ad Empio, lasciando a Tryfar il compito di occuparsi esclusivamente del suo percorso musicale che va a lambire, di volta in volta, le sponde dei generi maggiormente ammantati di oscurità, quali black, doom, depressive, post-metal e dark ambient.
E, in effetti, il connubio tra l’impalcatura sonora voluta dal polistrumentista lombardo e le vocals del suo sodale appare vincente, poichè i tre quarti d’ora abbondanti di musica contenuti in Percezione sono tanto difficili da assimilare quanto appaganti nel momento in cui si riesce a penetrare attraverso la spessa corazza di incomunicabilità creata dall’efferata esposizione dei testi, grazie ai frequenti spiragli lasciati aperti dalla componente strumentale
Chiamatelo black avanguardista o come meglio vi aggrada, ma ciò che maggiormente interessa è constatare quanto il lavoro degli Asofy sia fondamentalmente un’opera che trasuda personalità e chiarezza d’intenti e nella quale Tryfar riesce nella non facile impresa di imprimere nelle menti degli ascoltatori quattro lunghi brani dalle diverse peculiarità ma accomunati da un mood oscuro, talvolta disperato, in altri momenti intriso di un profondo nichilismo, sempre in grado comunque di fare breccia nel cuore e nella mente di chi si lascia trasportare dalla musica senza porsi alcun limite precostituito.
Indubbiamente la scelta di Empio di ricorrere per lo più ad una voce urlata, che non è neppure definibile come un classico screaming di matrice black, può costituire un elemento di disturbo per chi è meno avvezzo a sonorità di stampo estremo ma, in realtà, rappresenta al pari della parte strumentale un tassello fondamentale per lo sviluppo dell’album proprio perché, con Percezione, gli Asofy non vogliono portarci a spasso per lande fiorite bensì scaraventarci senza misericordia negli abissi più reconditi dell’esistenza umana.
Un’altra ottima opportunità di ascolto per chi predilige tonalità oscure striate da fiochi bagliori di luce.

Tracklist:
1. Luminosità
2. Saturazione
3. Ombra
4. Oscurità

Line-up :
Tryfar – Instruments and Music
Empio – Vocals

Warknife – Amorphous

Gli Warknife con il loro nuovo lavoro hanno veramente fermato l’attimo, spingendosi non troppo lontano dalla perfezione

Ora stiamo veramente esagerando (in positivo): la nostra bistrattata penisola sta diventando la culla del metal in tutte le sue forme e non esiste più regione, città o paesino dove non ci siano gruppi di altissimo livello, da prendere seriamente in considerazione.
Per esempio quella dei Warknife, da Lecce, una creatura post hardcore, evolutasi in questo secondo magnifico album, in un mostruoso connubio tra death moderno, prog e sonorità core, è solo l’ultima in ordine di tempo tra le uscite in grado di destabilizzare il mercato.
Formatasi nel 2005, con all’attivo un demo ed un primo full-length uscito nel 2009 dal titolo “Dream of Desolation”, i quattro ragazzi salentini stupiscono con Amorphous per intensità, maturità compositiva e tecnica strumentale, confezionando un lavoro superbo.
Tecnica strumentale: partendo dalla performance di Simone Mele alla sei corde, chitarrista dalla tecnica ed emozionalità unica, passando da una sezione ritmica, fondamenta del disco, sempre perfetta sia nei brani dove deve picchiare il dovuto sia nei momenti nei quali il sound si apre su scenari death-prog e composta da Cesare Zuccaro alle pelli e Daniele Gatto al Basso, si arriva a Marco Landolfo, vocalist di razza, superlativo cantore su tutto l’album.
Intensità: ogni nota di questo disco sembra di vederla uscire dagli strumenti, la tensione rimane altissima così come l’emozionalità.
Maturità compositiva: un songwriting stellare costringe non solo a sentire l’album ma a viverlo per tutta la sua durata e ad ogni ascolto si scopre sempre un dettaglio,una nota nuova; non di semplice ascolto, ma i brani sono talmente belli che si arriva alla fine con la voglia di ricominciare tutta l’esperienza dall’inizio.
The Veil Fragments è la song dove, credo, tutto quanto ho scritto viene confermato dalla musica della band, il punto più alto di questo gioiello musicale tutto da scoprire: Machine Head, Lamb of God, Dark Tranquillity e Opeth sono solo nomi che potrete trovare nei solchi dell’album ma, ad un ascolto attento, troverete molto di più.
Gli Warknife con il loro nuovo lavoro hanno veramente fermato l’attimo, spingendosi non troppo lontano dalla perfezione …
Grande album, grande band.

Tracklist:
1. Act I. Shapeless Birth
2. The Infected Enigma
3. A Bleeding Sunset
4. Behold Regression
5. A Veil Fragments
6. Act II. Shape Shifting
7. Hateseed
8. Ill Becomes Order
9. Shining Phoenix
10. F.A.I.L.

Line-up:
Cesare Zuccaro Drums
Simone Mele Guitars
Marco Landolfo Vocals
Daniele Gatto Bass

WARKNIFE – Facebook

Wraithmaze – Fields Of Nihilism

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.
Il sound della band, infatti, appare incentrato sull’ottimo lavoro alle tastiere del leader Janne Kielinen, ma va detto che lo strumento non finisce per debordare come sovente avviene in simili frangenti, lasciando invece il giusto spazio anche al resto della strumentazione.
Proprio l’accentuato gusto melodico è ciò che più piace in Fields Of Nihilism: i quattro brani sono decisamente scorrevoli e, in fondo, se non ci fosse il growl di Jarko Rintee ad incattivire e conferire morbosità al songwriting, l’Ep resterebbe stabilmente ancorato ad atmosfere potenzialmente fruibili anche per ascoltatori non necessariamente avvezzi al genere.
Molto azzeccato tra gli altri, il tema portante di Homeless, ma un pò tutti i brani sono disseminati di passaggi emozionanti, avvincenti, spesso accostabili alla solennità di certe colonne sonore (Battle with the Bottle ) ed eseguiti in maniera eccellente dal punto di vista tecnico.
Peccato solo che il tutto si esaurisca in poco più di venti minuti, ma chi volesse, in attesa di un nuovo album, può andarsi tranquillamente a riscoprire il precedente full-length “Adagio in Self-Destruction” senza correre il rischio di restarne deluso.
Davvero bravi i Wraithmaze, i quali, pur senza reinventare la ruota, mettono sul piatto un lavoro affascinante e di grande sostanza, ideale viatico ad un auspicabile prossimo album.

Tracklist:
1. Shrine of the Unwanted
2. Homeless
3. Battle with the Bottle
4. Funeral Autumn

Line-up :
Janne Kielinen – Guitars, Keyboards
Jarkko Rintee – Vocals
Jan Siekkinen – Guitars
Lord Angelslayer – Bass

WRAITHMAZE – Facebook

Wijlen Wij – Coronachs of the Ω

Il secondo album della band belga alterna momenti eccellenti ad altri piuttosto opachi, per un risultato complessivo soddisfacente ma non esaltante.

A sette anni dal disco d’esordio ritornano i doomsters belgi Wijlen Wij, progetto che vede coinvolto Kostas Panagiotou, conosciuto anche come leader dei più noti Pantheist.

Coronachs of the Ω esce per la Solitude, autentico marchio di garanzia per il funeral death doom e tutto sommato, anche in questo caso, tale assunto non viene smentito nonostante l’operato del trio belga sia caratterizzato da diversi alti e bassi.
L’opener … boreas apre le danze invero come meglio non si potrebbe, grazie alle sue sonorità devote ai migliori Skepticism, in virtù soprattutto del timbro tastieristico scelto da Kostas: il brano è decisamente evocativo, trascinante, dotato anche di un relativo dinamismo, con uno splendido break pianistico centrale, insomma possiede tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un disco del genere; la seguente Die Verwandlung rallenta di molto l’andatura alternando a buoni spunti chitarristici quella staticità del sound che la sua notevole lunghezza non contribuisce certo a migliorare, caratteristica, questa, che si accentua in maniera ancor più evidente in Laying Waste to the City of Jerusalem, autentica mattonata priva di qualsiasi sbocco melodico che rischia pericolosamente di affossare un lavoro nato invece sotto i miglior auspici.
Fortunatamente A Solemn Ode to Ruin…, accostabile per sonorità ai vicini di casa olandesi Officium Triste, pur essendo anch’essa un pò troppo dilatata, rimette le cose a posto mostrando atmosfere sufficientemente cariche di pathos, e la conclusiva From the Periphery è un’altra traccia decisamente riuscita con il proprio andamento dolente e malinconico.
Coronachs of the Ω è in assoluto un buon disco, che gli amanti del genere apprezzeranno senz’altro anche se, al termine dell’ascolto, resta il rammarico di non aver potuto ascoltare un lavoro nel complesso qualitativamente all’altezza della traccia di apertura, e il motivo può dipendere da vari fattori: il growl del volenteroso Lawrence Van Haecke si rivela adeguato solo al’interno delle tracce migliori, mentre appare troppo piatto per risultare incisivo quando deve assumere suo malgrado un ruolo di primo piano come in Laying Waste to the City of Jerusalem (non male invece, nel complesso, le clean vocals); la produzione non fa molto per smussare qualche imperfezione che affiora qua è là e, in particolare, non viene valorizzato al meglio il suono della chitarra solista, capace sovente di brillanti intuizioni melodiche.
In fin dei conti la sensazione che si trae dall’ascolto di Coronachs of the Ω è che i Wijlen Wij siano l’altra faccia della medaglia dei Pantheist: tanto resta radicato nella tradizione il sound dei primi, conservando quell’alone vintage che può avere un suo fascino ma pure apparire irrimediabilmente datato, quanto è stata spinta forse all’eccesso dal buon Kostas l’evoluzione stilistica dei secondi finendo per spingerli ben oltre i confini riconosciuti del doom più canonico.
In mezzo resta un territorio sufficientemente vasto per essere ulteriormente esplorato con successo da diverse band e non ci sono dubbi sul fatto che tra queste possano esserci in futuro anche i Wijlen Wij.

Tracklist:
1. …boreas
2. Die Verwandlung
3. Laying Waste to the City of Jerusalem
4. A Solemn Ode to Ruin…
5. From the Periphery

Line-up :
Kris Villez – Drums
Kostas Panagiotou – Guitars, Keyboards
Lawrence van Haecke – Vocals

WIJLEN WIJ – Facebook

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