Paradise Lost – Host (Remastered)

Appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della discografia dei Paradise Lost, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo.

C’era una volta la sacra triade inglese del gothic death doom, massima espressione di un movimento che produsse tramite i suoi migliori esponenti una serie di capolavori che segnarono pesantemente la storia del metal più oscuro all’inizio degli anni ’90.

I primi ad abbandonare la tenzone furono gli Anathema, pubblicando nel 1996 il pinkfloydiano Eternity, disco comunque splendido che venne seguito dal magnifico Alternative 4 e, po,i dall’altrettanto validoJudgement, per arrivare infine al definitivo distacco dal metal avvenuto con A Fine Day To Exit.
Nel 1998 anche i più ortodossi del trio, i My Dying Bride, tentarono di inserire elementi elettronici nel loro sound con un disco strambo ma tutt’altro che deprecabile come 34.788%… Complete, salvo poi tornare precipitosamente sui propri passi con il successivo The Light at the End of the World e continuando a sfornare in serie altri buoni lavori, culminati con il bellissimo e ultimo Feel The Misery, del 2015.
Prima di quanto fatto dai loro concittadini, nel 1997 i Paradise Lost, dal canto loro, avevano già impresso una svolta al proprio sound pubblicando One Second, album che era pervaso da una fino ad allora insospettabile fascinazione nei confronti dell’operato dell premiata ditta Gore/Gahan, ma che aveva fornito a mio avviso un risultato molto intrigante, grazie ad una serie di brani ispirati (tra cui forse quella che si può considerare la vera e propria hit della band di Halifax, Say Just Words) per quanto decisamente spiazzante nei confronti dei puristi.
Ed arriviamo al 1999, anno in cui viene pubblicato il controverso Host: volendo giocare con i nomi delle band, se One Seoind poteva essere definito un disco dei Paradise Mode, quest’ultimo parto era più ragionevolmente attribuibile a degli ipotetici Depeche Lost, in quanto ogni pulsione metallica era pressoché sparita, rimpiazzata da un elettro gothic dark piuttosto annacquato.
Già, perché al di là dell’incapacità di molti fans nell’accettare il fatto che una band possa avere tutto il diritto di sperimentare nuove soluzioni ed abbracciare stili diversi, il problema di Host era sostanzialmente il fatto d’essere un lavoro fiacco, privo di brani realmente trainanti (personalmente salvo solo le più oscure In All Honesty e Deep) tanto che, a quel punto, perso per perso, conveniva andarsi a recuperare i lavori dei capostipiti del genere piuttosto che ascoltarne una sbiadita e poco convinta copia rappresentata dai Paradise Lost.
Alla luce di questa lunga premessa, appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della loro discografia, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo (tra l’altro, se proprio lo si voleva/doveva fare per incombenze di tipo commerciale o contrattuale, non era meglio attendere almeno il ventennale che sarebbe caduto l’anno prossimo?).
Ora, va detto che in epoca di revisionismo acrobatico, quello che spinge i più smemorati a riscrivere e stravolgere la storia a proprio uso e consumo, non mi meraviglierei di trovare qualcuno che vorrà riabilitare Host (mi riferisco solo al disco, i Paradise Lost non hanno certo bisogno d’essere riabilitati, ma semmai vanno ringraziati per quella che è stata la loro carriera nel complesso); io ho provato a riascoltarlo con la segreta speranza di cogliere qualcosa che magari mi ero perso all’epoca della sua uscita, ma devo ammettere d’essermi annoiato dalla prima all’ultima nota esattamente come mi accadde nell’ormai lontano 1999.
Per concludere la retrospettiva storica, resta da aggiungere che Mackintosh e soci ritrovarono la via maestra di un sound a loro più consono, solo con la pubblicazione del disco autointitolato del 2005, vero e proprio inizio di una progressiva rinascita culminata con un album ispirato e degno del blasone della band come il recente Medusa.
Inutile aggiungere che se a qualcuno avanzassero degli euro è meglio che li investa diversamente, relegando Host all’oblio riservato ai dischi poco riusciti che anche alle migliori band capita di produrre.

Tracklist:
1. So Much Is Lost
2. Nothing Sacred
3. In All Honesty
4. Harbour
5. Ordinary Days
6. It’s Too Late
7. Permanent Solution
8. Behind The Grey
9. Wreck
10. Made The Same
11. Deep
12. Year Of Summer
13. Host

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Lee Morris – Drums

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