Acretongue – Ghost Nocturne

Ghost Nocturne non manca certo di brani dal buon appeal, per quanto il sound non sconfini mai più di tanto in una ammiccante ballabilità; infatti, in ossequio al titolo, l’album mostra una certa vena intimista e, appunto, notturna, dal discreto fascino ma priva di picchi particolari.

Secondo full length per il musicista sudafricano Nico J.con il suo progetto Acretongue.

Ghost Nocturne arriva ben otto anni dopo l’esordio Strange Cargo, album che all’epoca dell’uscita aveva ottenuto buoni riscontri.
L’elettro dark esibito in questo frangente è indubbiamente di buona qualità, nella scia di un modello vocale come Frank Spinath e musicale come i suoi Seabound, ma rispetto allo psicologo tedesco prestato al synth pop quella di Nico J. si rivela una versione valida ma leggermente meno incisiva
Ghost Nocturne non manca certo di brani dal buon appeal, per quanto il sound non sconfini mai più di tanto in una ammiccante ballabilità; infatti, in ossequio al titolo, l’album mostra una certa vena intimista e, appunto, notturna, dal discreto fascino ma priva di picchi particolari.
Brani come Requiem e la successiva Endling’s Call sono indicativi di un buon talento compositivo che forse si è leggermente affievolito rispetto a quanto esibito all’iizio del decennio.
Detto ciò Ghost Nocturne resta un lavoro gradevole e di classe, per quanto collocabile nella fascia subito inferiore a quella di vertice dell’elettro synth pop mondiale.

Tracklist:
1.Abacus
2.Requiem
3.Endling’s Call
4.Nocturne I – Dawn Crimson
5.Contra
6.Nightrunner
7.Minutia’s Curse
8.Nocturne II – The Drowning Hour
9.Haven

Line-up:
Nico J.

Canaan – Images From A Broken Self

I Canaan producono un altro disco bellissimo e terribile, nel quale l’elettronica regna sovrana e dalla freddezza del silicio nasce un calore che avvolge tutto e tutti, e si proiettano verso uno spazio che è differente da quello nel quale viviamo.

I Canaan sono dei moderni sciamani che ci fanno vedere la realtà squarciando il velo che la avvolge e che ce la fa sembrare sostenibile.

La loro ultima opera è incentrata sul rendere in musica le immagini delle nostre anime spezzate dalle vite che facciamo e le lacerazioni che procurano. Ascoltare i Canaan è come fare terapia psicologica iniettandoci il virus che vogliamo sconfiggere, è lottare senza stare comodi, andare avanti senza sapere dove potremmo arrivare, ma continuare. La parabola musicale di questo gruppo è una delle più interessanti e preziose della musica underground italiana, ed è cominciata tanto tempo con il gruppo doom death dei Ras Algethi, per poi continuare nei Canaan con due terzi del gruppo capitanati da Mauro Berchi, una delle figure più importanti che abbiamo nella musica in Italia. I Canaan non suonano un genere musicale ben preciso, essendo uno di quei pochi gruppi che non è circoscrivibile in uno specifico ambito, esibendo uno stile del tutto proprio. Se gli esordi erano molto darkwave e gothic, con gli ultimi dischi il suono si sta rarefacendo, portandolo più in alto, ma il tutto appare ancora più soffocante e claustrofobico. Come detto prima, i Canaan ci fanno vedere con le loro sensazioni in musica che la nostra vita è abbastanza inutile, che il nulla ci avvolge e che i nostri sforzi, oltre che vani, sono controproducenti. Tutto ciò sarebbe spaventoso, anche se nell’arte abbiamo tantissimi esempi, o forse l’arte serve proprio a farci vedere il nulla, ma il gruppo milanese riesce a rendere sublime tutto ciò. Dopo il meraviglioso il Giorno Dei Campanelli del 2016, i Canaan producono un altro disco bellissimo e terribile, nel quale l’elettronica regna sovrana e dalla freddezza del silicio nasce un calore che avvolge tutto e tutti, e si proiettano verso uno spazio che è differente da quello nel quale viviamo: forse è sogno, perché la musica dei milanesi è un qualcosa di meravigliosamente indefinito, un sogno con la febbre, una febbre che ci fa capire, il nulla che parla. Ogni canzone è molto curata, come sempre ogni nota e ogni respiro elettronico ha un senso per un gruppo che va davvero oltre la musica e ti porta in un luogo tutto suo. Per chi li ascolta da anni non è facile descrivere l’esperienza che viene vissuta, perché i Canaan non sono un gruppo che si possa ascoltare con le cuffie mentre si va a lavorare, ma devono essere assimilati come un rito, perché aprono una dimensione nuova nella quale il dolore prende vita e forma, e il nulla si può rivelare liberamente.

Tracklist
1.My Deserted Place
2.The Story Of A Simple Man
3.Words On Glass
4.Hint On The Cruelty Of Time
5.I Stand And Stare
6.Of Sickness And Rejection
7.The Dust Of Time
8.Adversaries
9.That Day
10.A Tired Sentry
11.Worms
12.Through Forging Lines

Line-up
Alberto
Mauro
Nico

CANAAN – Facebook

Paradise Lost – Host (Remastered)

Appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della discografia dei Paradise Lost, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo.

C’era una volta la sacra triade inglese del gothic death doom, massima espressione di un movimento che produsse tramite i suoi migliori esponenti una serie di capolavori che segnarono pesantemente la storia del metal più oscuro all’inizio degli anni ’90.

I primi ad abbandonare la tenzone furono gli Anathema, pubblicando nel 1996 il pinkfloydiano Eternity, disco comunque splendido che venne seguito dal magnifico Alternative 4 e, po,i dall’altrettanto validoJudgement, per arrivare infine al definitivo distacco dal metal avvenuto con A Fine Day To Exit.
Nel 1998 anche i più ortodossi del trio, i My Dying Bride, tentarono di inserire elementi elettronici nel loro sound con un disco strambo ma tutt’altro che deprecabile come 34.788%… Complete, salvo poi tornare precipitosamente sui propri passi con il successivo The Light at the End of the World e continuando a sfornare in serie altri buoni lavori, culminati con il bellissimo e ultimo Feel The Misery, del 2015.
Prima di quanto fatto dai loro concittadini, nel 1997 i Paradise Lost, dal canto loro, avevano già impresso una svolta al proprio sound pubblicando One Second, album che era pervaso da una fino ad allora insospettabile fascinazione nei confronti dell’operato dell premiata ditta Gore/Gahan, ma che aveva fornito a mio avviso un risultato molto intrigante, grazie ad una serie di brani ispirati (tra cui forse quella che si può considerare la vera e propria hit della band di Halifax, Say Just Words) per quanto decisamente spiazzante nei confronti dei puristi.
Ed arriviamo al 1999, anno in cui viene pubblicato il controverso Host: volendo giocare con i nomi delle band, se One Seoind poteva essere definito un disco dei Paradise Mode, quest’ultimo parto era più ragionevolmente attribuibile a degli ipotetici Depeche Lost, in quanto ogni pulsione metallica era pressoché sparita, rimpiazzata da un elettro gothic dark piuttosto annacquato.
Già, perché al di là dell’incapacità di molti fans nell’accettare il fatto che una band possa avere tutto il diritto di sperimentare nuove soluzioni ed abbracciare stili diversi, il problema di Host era sostanzialmente il fatto d’essere un lavoro fiacco, privo di brani realmente trainanti (personalmente salvo solo le più oscure In All Honesty e Deep) tanto che, a quel punto, perso per perso, conveniva andarsi a recuperare i lavori dei capostipiti del genere piuttosto che ascoltarne una sbiadita e poco convinta copia rappresentata dai Paradise Lost.
Alla luce di questa lunga premessa, appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della loro discografia, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo (tra l’altro, se proprio lo si voleva/doveva fare per incombenze di tipo commerciale o contrattuale, non era meglio attendere almeno il ventennale che sarebbe caduto l’anno prossimo?).
Ora, va detto che in epoca di revisionismo acrobatico, quello che spinge i più smemorati a riscrivere e stravolgere la storia a proprio uso e consumo, non mi meraviglierei di trovare qualcuno che vorrà riabilitare Host (mi riferisco solo al disco, i Paradise Lost non hanno certo bisogno d’essere riabilitati, ma semmai vanno ringraziati per quella che è stata la loro carriera nel complesso); io ho provato a riascoltarlo con la segreta speranza di cogliere qualcosa che magari mi ero perso all’epoca della sua uscita, ma devo ammettere d’essermi annoiato dalla prima all’ultima nota esattamente come mi accadde nell’ormai lontano 1999.
Per concludere la retrospettiva storica, resta da aggiungere che Mackintosh e soci ritrovarono la via maestra di un sound a loro più consono, solo con la pubblicazione del disco autointitolato del 2005, vero e proprio inizio di una progressiva rinascita culminata con un album ispirato e degno del blasone della band come il recente Medusa.
Inutile aggiungere che se a qualcuno avanzassero degli euro è meglio che li investa diversamente, relegando Host all’oblio riservato ai dischi poco riusciti che anche alle migliori band capita di produrre.

Tracklist:
1. So Much Is Lost
2. Nothing Sacred
3. In All Honesty
4. Harbour
5. Ordinary Days
6. It’s Too Late
7. Permanent Solution
8. Behind The Grey
9. Wreck
10. Made The Same
11. Deep
12. Year Of Summer
13. Host

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Lee Morris – Drums

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