Non ci sono mai passaggi ovvi, riempitivi o momenti di stanca, il viaggio nelle tenebre non conosce sosta, tutto cambia e noi non siano più al centro, siamo spettatori di qualcosa di immensamente più grande di noi che non riusciamo né a vedere né a comprendere ma che i The Negative Bias mettono benissimo in musica.
I The Negative Bias sono una nemesi musicale che si abbatterà su di voi attraverso uno dei migliori black metal europei.
Gli austriaci sono qui alla loro seconda prova, dopo il primo Lamentations Of The Chaos Omega. In questo ultimo lavoro troviamo due pezzi di oltre venti minuti dagli svariati contenuti. L’assalto black è quello tipico anni novanta, con momenti moderni ed innovativi, ma il tiro è quello. La forza dei The Negative Bias è di mutare sempre il flusso musicale, ci si immerge in un nero universo senza lasciare tempo all’ascoltatore di abituarsi, si viene rivoltati, la prospettiva muta in continuazione. Ad un certo punto il vortice, la parola inglese void è maggiormente adeguata, ti prende e ti conquista, ed è bellissimo lasciarsi portare in giro da questo black metal mai uguale a sè stesso. Per poter compiere un’operazione del genere bisogna avere un talento musicale ed in particolare compositivo fuori dal comune, e qui ne troviamo in abbondanza. Non ci sono mai passaggi ovvi, riempitivi o momenti di stanca, il viaggio nelle tenebre non conosce sosta, tutto cambia e noi non siano più al centro, siamo spettatori di qualcosa di immensamente più grande di noi che non riusciamo né a vedere né a comprendere ma che i The Negative Bias mettono benissimo in musica. Persino i momenti più lenti hanno un senso, non sono calme parentesi ma è assenza di respiro. Un disco che porta molto avanti il discorso cominciato dal primo lavoro e mette il gruppo austriaco sotto i riflettori di chi ama il black metal più vero, viscerale e anche innovativo. Il disco esce per la triestina ATMF, una delle etichette guida per chi ama il nero metallo che raramente sbaglia disco, ma cosa ancora più importante sta sviluppando una propria particolare poetica che la porta a pubblicare album di mortale bellezza che toccano direttamente i nostri cuori.
Tracklist
1.Narcissus Rising
2.Insomnic Sermons of Narcistic Afterbirth (At the Threshold where Chaos Turns into Salvation)
Il genere è di per sé ostico, ma è indubbio che il gruppo parigino abbini al sound una certa alternanza di atmosfere che rendono l’ascolto più fluido.
Quando di mezzo c’è la label francese Les Acteurs de l’Ombre non ci si trova mai davanti ad opere banali, trend confermato dal primo lavoro degli Heaume Mortal, gruppo parigino nato dalla mente del polistrumentista Guillaume Morlat, accompagnato in questa avventura dal batterista Jordan Bonnet e dal cantante Julien Henri.
Solstices è composto da sei brani, di cui la metà superano abbondantemente i dieci minuti, immersi nella natura selvaggia, glaciale e violenta ed usata come metafora della vita.
Le sonorità di cui si caricano i brani presenti alternano black metal atmosferico, doom e dark metal, in un crescendo di drammatica tensione: la violenza black viene apparentemente smorzata da passaggi intimisti e doom, lente marce in territori ostili, disperati e tragici momenti di tempeste black ed atmosferiche sfumature post metal formano composizione di non facile ascolto come l’opener Yesteryears, Oldborn e Tongueless (part III).
Il genere è di per sé ostico, ma è indubbio che il gruppo parigino abbini al sound una certa alternanza di atmosfere che rendono l’ascolto più fluido: Solstices rimane comunque un’opera a cui va concesso il giusto tempo per farsi spazio anche negli ascoltatoti più attenti.
A confermare l’atmosfera glaciale ed ostile dell’album, gli Heaume Mortal ci regalano la cover di un brano di Burzum, Erblicket Die Tochter des Firmament dal masterpiece Filosofem, in una loro personale versione assolutamente riuscita.
Tracklist
1.Yesteryears
2.South of No North
3.Oldborn
4.Erblicket die Tochter des Firmament (Burzum cover)
5.Tongueless (Part III)
6.Mestreguiral
Line-up
Jordan Bonnet – Drums
Guillaume Morlat – Guitars, Bass, Synths
Julien Henri – Vocals
Un lavoro di buona fattura che riesce nell’intento del suo autore di voler trasmettere il dolente sentire di chi è condannato da una sensibilità superiore a sminuzzare all’infinito ogni frammento dell’esistenza.
Laho è il titolo del secondo full length della one man band Kval, guidata dall’omonimo musicista finlandese.
L’album mostra un approccio al black metal decisamente atmosferico ed ammantato di quel velo di malinconia che accompagna, nella maggior parte dei casi, le opere musicali provenienti dal paese dei mille laghi. Anche se certe soluzioni le abbiamo già sentite innumerevoli volte, non si può fare a meno di apprezzare il lavoro del giovane Kval per il gusto melodico che dimostra in ogni frangente e per un inserimento efficace di elementi folk con l’utilizzo di strumenti tradizionali. I quattro lunghi brani sono decisamente validi con menzione d’onore per la title track con la sua alternanza tra passaggi acustici ed ariose aperture melodiche. La bonus track, ripresa strumentale del brano d’apertura Valosula, nulla aggiunge ad un lavoro di buona fattura (e la cosa non sorprende quando un album esce sotto l’egida della Hypnotic Dirge) che riesce nell’intento del suo autore di voler trasmettere il dolente sentire di chi è condannato da una sensibilità superiore a sminuzzare all’infinito ogni frammento dell’esistenza.
The Cold Night mostra un notevole equilibrio tra le diverse componenti del sound e, pur non brillando per la sua originalità, merita di ritagliarsi ben più di un ascolto distratto da parte di chi ama il black metal nelle sue sembianze melodico-depressive.
Yusuke Hasebe (in arte solo Yu) è uno di quei musicisti che si possono definire eufemisticamente prolifici: con il suo progetto solista No Point in Living, infatti, dal 2017 ad oggi ha pubblicato la bellezza di 18 full length senza farsi mancare anche qualche altra uscita di minore minutaggio.
A questo punto viene lecito chiedersi per quale motivo la Heathen Tribes si sia presa la briga di ripubblicare il quinto album The Cold Night, uscito originariamente nel novembre del 2017, visto che di materiale inciso dal musicista nipponico in giro ce n’è già a sufficienza.
La risposta è che, francamente, il nostro possiede un talento rimarchevole, benché costantemente a rischio d’essere annacquato dalla sua bulimia compositiva, e The Cold Nightè lì a dimostrarlo con i suoi tre quarti d’ora di depressive atmospheric black oltremodo convincente.
Ammetto di non conoscere il resto della discografia di Yu, ma se la qualità di ogni uscita fosse pari a quella di questo lavoro sarebbe un evento quasi miracoloso: dubito, infatti, che si posa pensare di mantenere alta con tale frequenza una tensione emotiva come quella esibita nella lunghissima I Hate Everything o nella poco più breve Path to the End, tanto per fare degli esempi concreti. The Cold Night mostra, peraltro, un notevole equilibrio tra le diverse componenti del sound e, pur non brillando per la sua originalità, merita di ritagliarsi ben più di un ascolto distratto da parte di chi ama il black metal nelle sue sembianze melodico-depressive.
Nel frattempo lo Stakanov di Sapporo, quando non siamo arrivati neppure a metà giugno, nel corso del 2019 ha già pubblicato tre full length ed un ep per un fatturato complessivo di circa due ore e mezza di musica: insomma, riuscire a seguirne le gesta può essere complicato anche per il fan più incallito, per cui non resta che provare ad intercettarne l’opera di tanto in tanto per verificare quale sia lo stato dell’arte.
Tracklist:
1. Intro
2. Impatience
3. I Hate Everything
4. The Cold Night
5. The Path to the End
6. Ocean of Sorrow
Háiyáng è un lavoro a suo modo sorprendente che ritengo meriti la chance dell’ascolto da parte degli appassionati del black meno canonico e dalle provenienze esotiche.
Diverse sono le particolarità che rendono degno di un ascolto questo esordio marchiato Laang.
Intanto la provenienza geografica, anche se quella di Taiwan non è in assoluto una primizia in ambito black, ma resta comunque un qualcosa di inconsueto; oltre a questo Yáng Tāohái, il musicista che da solo ha curato questo progetto, pubblicando Háiyáng diverso tempo dopo essersi risvegliato dal coma in seguito ad un incidente stradale, ha deciso di descrivere quello stato di anticamera della morte che a suo dire ha vissuto mentre era in quello stato.
Non si può giurare che il tutto sia vero o si tratti di un puro artificio compositivo, fatto sta fatto che l’album si snoda all’insegna di un black metal sinfonico, benché molto sui generis, ricco di passaggi emotivamente rimarchevoli, inframezzati da altri di matrice puramente ambient.
In effetti ciò che colpisce del lavoro è la capacità del musicista asiatico di conferire una certa originalità alla sua proposta, proprio perché l’adesione solo parziale agli schemi del genere risente della provenienza da una scena decisamente lontana (non solo geograficamente) da quelle più conosciute: il risultato è una serie di brani dal buon impatto melodico ma effettivamente dal contenuto piuttosto vario ed evocativo, grazie anche all’apporto del pianoforte che in più di un caso si sostituisce ad un più algido synth.
Particolare è l’uso della voce che non è un consueto screaming di matrice black ma un qualcosa di più sgraziato (accentuato in tal senso da una lingua madre il cui adattamento al metal è tutto da verificare) che sembra, però, ben adattarsi al contesto drammatico che il nostro vuole evocare, la cui punta viene a mio avviso toccata con le notevoli progressioni di un brano davvero particolare come Cāngliáng. Háiyáng è un lavoro a suo modo sorprendente che ritengo meriti la chance dell’ascolto da parte degli appassionati del black meno canonico e dalle provenienze esotiche.
L’opera di None è di assoluto rilievo per l’abilità nell’unire in maniera ottimale le componenti più cupe e al contempo più atmosferiche del black metal, al cui interno la tendenza di matrice depressive viene infatti stemperata da aperture melodiche.
None è il nome di un progetto atmospheric black del quale poco si sa, se non il fatto che la sua provenienza è la sempre fertile per queste sonorità terra statunitense.
Damp Chill of Life è il terzo full length che, come quelli usciti nel 2017 e nel 2018, è stato pubblicato puntualmente l’11 aprile, data che evidentemente riveste un significato preciso per questo musicista (probabile infatti che si tratti di un solo project).
L’opera di None è di assoluto rilievo per l’abilità nell’unire in maniera ottimale le componenti più cupe e al contempo più atmosferiche del black metal, al cui interno la tendenza di matrice depressive viene infatti stemperata da aperture melodiche che rimandano alle band cascadiane, ma il tutto viene poi rafforzato da una scrittura non banale e sempre carica di tensione emotiva. Damp Chill of Life si snida per circa tre quarti d’ora, tra brani molto lunghi come la title track, dal drammatico incedere punteggiato dal tipico screaming disperato, o Cease, dall’incipit ambient che si apre nella seconda parte in un dolente e cristallino afflato melodico.
La componente ambient è comunque sempre piuttosto presente, così come sprazzi di folk regalati da un notevole lavoro di chitarra acustica: Damp Chill of Lifeè un album in cui vengono alternati con maestria passaggi dall’enorme impatto emotivo ad altri più rarefatti e riflessivi, senza il tutto appaia mai frammentato e qui risalta la bravura, anche esecutiva, del nostro anonimo quanto ottimo protagonista.
Una produzione al di sopra della media per gli standard del genere chiude alla perfezione un cerchio all’interno del quale è possibile conservare con cura questo album, chiuso da un altro splendido e sofferto monumento alla disperazione come A Chance I’d Never Have.
Per fortuna, contraddicendo il titolo di quest’ultima traccia, un progetto come None ha avuto invece la possibilità di emergere in tutta la sua bellezza in questi ultimi anni, grazie al supporto di un etichetta come la Hypnotic Dirge, come sempre capace di portare alla luce magnifiche realtà altrimenti destinate a languire nei meandri dell’underground più nascosto e inaccessibile.
Tracklist:
1.Fade
2.The Damp Chill of Life
3.Cease
4.You Did a Good Thing
5.It’s Painless to Let Go
6.I Yearn to Feel
7.A Chance I’d Never Have
L’ennesima opera superba offerta da questo gruppo di musicisti unici per la loro capacità di avvolgere il black metal di un’aura solenne ed emozionante.
Saga á tveim tungum I: Vápn ok viðr è il quarto full length di una delle creature più pregiate in ambito black metal emerse nell’ultimo decennio.
Nulla di strano, a ben vedere, nel momento in cui si realizza che l’islandese Árni, motore della band, fa parte anche dei formidabili Carpe Noctem, oltre ad aiutare Marcel Dreckmann negli altrettanto grandi Helrunar.
Il musicista tedesco contraccambia prestando la sua profonda voce alla riuscita del progetto a cui partecipa anche l’altro germanico Stefan, coinvolto a sua volta nei notevoli, ma ormai da tempo ai box, Kerbenok. Diciamo subito che, in quest’ultima opera, il black metal così come lo conosciamo viene spesso scalzato da una solenne anima folk che sovrasta per potenziale evocativo l’impatto delle tracce più robuste. Infatti, al termine dell’ascolto di questo splendido lavoro, è difficile rimuovere dalla memoria brani di rara profondità emotiva come Sundvǫrpuðir ok áraþytr, Siðar heilags brá sólar ljósi e Fregit hefk satt, che non spezzano la tensione ma semmai ne aumentano l’impatto allorché la stessa viene scaricata tramite cavalcate perfette per scrittura ed esecuzione come Fornjóts synir ljótir at Haddingja lands lynláðum, Morðbál á flugi ok klofin mundriða hjól o Stǫng óð gylld fyr gǫngum ræfi.
Dopo quasi un’ora di splendida musica arriva la lunghissima chiusura di matrice black doom Haldi oss frá eldi, eilífr skapa deilir, traccia che racchiude nel suo limpido scorrere tutte le anime che pulsano all’interno degli Árstíðir Lífsins. Saga á tveim tungum I: Vápn ok viðr si rivela così l’ennesima opera superba offerta da questo gruppo di musicisti unici per la loro capacità di avvolgere il black metal di un’aura solenne ed emozionante che si stacca per approccio sia dalla tradizione scandinava, sia dalle più recenti tendenze cascadiane provenienti da oltreoceano, offrendo una cifra stilistica difficilmente replicabile per chiuque.
Tracklist:
1.Fornjóts synir ljótir at Haddingja lands lynláðum
2.Sundvǫrpuðir ok áraþytr
3.Morðbál á flugi ok klofin mundriða hjól
4.Líf á milli hveinandi bloðkerta
5.Stǫng óð gylld fyr gǫngum ræfi
6.Siðar heilags brá sólar ljósi
7.Vandar jǫtunn reisti fiska upp af vǫtnum
8.Fregit hefk satt
9.Haldi oss frá eldi, eilífr skapa deilir
Furia, stasi, estasi, pianto e meraviglia, per un disco che non si vorrebbe mai smettere di ascoltare, facendosi trascinare in qualcosa di molto intimo, di struggente e di solipsistico.
Il titolo di questo disco, A Place I Don’t Belong To, è un qualcosa che molti di noi provano sulla propria pelle e dentro la propria pelle.
Quella sensazione di essere in un posto, o meglio, dentro una vita che non gli appartiene e di non trovare mai una casa: tutto ciò è dentro questo disco e si va anche oltre, grazie allo splendido post black metal dei Falaise, un duo proveniente da Todi. Qui tutto è finalizzato ad emozionare e a stupire nel senso che avevano queste parole nel mondo classico, ovvero meravigliare in maniera profonda. Ci sono momenti, come nel pezzo finale della traccia Leaves In The Wind, ma se ne potrebbero citare molto altri, che sono di valore assoluto, nei quali si vorrebbe correre gridando per prati sotto la pioggia, rotolarsi in qualche altra vita, chiudere gli occhi e basta. Disco figlio del dolore di vivere e di avere qualcosa a cui davvero non si appartiene, ma da ciò può scaturire un album come questo, contenitore di un post black metal di assoluto valore e di grande originalità. I Falaise sono attivi dal 2015 e hanno sempre prodotto cose di buona qualità, partendo dal black metal e andando a compiere una sintesi molto originale e bella del post black metal. Questo sottogenere è avanzato molto negli ultimi anni grazie a gruppi molto validi, ma i Falaise sono di un altro livello. Nella loro proposta musicale il black metal è ancora molto presente, i brani sono costruiti con un approccio neo classico, e ci sono anche elementi di molti altri generi, come lo shoegaze, il metal sinfonico ed altro. Tutti questi differenti codici musicali vengono usati, insieme ad una voce in growl, per portare l’ascoltatore in alto, per farlo sognare ad occhi aperti, ma forse è meglio chiuderli per sognare più forte. Non esiste un pezzo migliore come non ci sono riempitivi, qui tutto scorre per rimanere impresso nella memoria: ci sono momenti molto vicini al black più tradizionale, anche perché i Falaise giocano con la chitarra, mentre la batteria è sublime ed è un elemento portante. Furia, stasi, estasi, pianto e meraviglia, per un disco che non si vorrebbe mai smettere di ascoltare, facendosi trascinare in qualcosa di molto intimo, di struggente e di solipsistico. Un disco a cui aprire le braccia e abbandonarsi completamente.
Tracklist
1.Intro
2.Once, My Home
3.When The Sun Was Warming My Heart
4.A Place I Don’t Belong To
5.An Emptiness Full Of You
6.Leaves In The Wind
7.Consumed Soul
8.Holding Nothing
Quarta chiamata per il gruppo svedese di Uppsala. Un album splendido, complesso ed antico, ordito su trame di profonde e remote atmosferiche note, almeno tanto quanto la Cabala Ebraica, qui tematica prevalente delle loro liriche.
Misteriosamente malvagi, malignamente arcani, anticamente occulti: queste tre definizioni rendono l’idea di quanto siano e di quanto ci propongano gli svedesi Mephorash.
La band di Uppsala non può che rendere felici tutti i fan del Black Metal più tetro ed oscuro. Atmosfere nere come l’antro di Satana e rosse come il fuoco avernale, sublimano i nostri padiglioni auricolari, immergendoci in un mare di cupo ed arcaico misticismo ebraico. Sì, perché le tematiche affrontate dai Nostri, ruotano pressoché tutte attorno agli aspetti più tetri ed antichi della religione ebraica. Shem ha-Mephorash, d’altro canto, non è altro che il Tetragramma (o Tetragrammaton), ossia la sequenza delle quattro lettere che compongono “il nome impronunciabile di Dio” (YHWH, dall’ebraico, lingua che non prevede in scrittura le vocali; ossia : yod, he, waw, he, anche se la vera pronuncia è nota solo ai rabbini iniziati) e presente nella Cabala, propria dell’esoterismo ebraico. Riferimenti alle forze del male, ossia gli aspetti più impuri di tutto il misticismo della religione rabbinica, pregnano i testi di tutta la loro produzione (questo è il loro quarto full-length che, insieme a due ep e ad uno split con gli statunitensi Ashencult, ne rappresentano tutta la carriera dal 2010 sino ad oggi), e ci vengono “raccontati” egregiamente, grazie ad uno stile molto personale di interpretare il Black Metal. Qui ci potremmo sicuramente accostare ai greci Rotting Christ ed Acherontas o ai polacchi Behemoth, almeno per quanto riguarda, sia l’attitudine alla teatralità e alla maestosità degli ingressi di ogni traccia, che alla conduzione dei momenti musicali, sempre imperiosa, maestosa ma anche tragicamente solenne. Forse però, a differenza delle (super) band citate, nei Mephorash si percepisce in ogni singola nota, una misteriosità antica, remota, che rimanda ad ere così lontane nel tempo, che le memorie non riescono a rimembrare, o che forse, non desiderano farlo, tale è la pregnanza di occulti misteri, arcani enigmi e malvagi ed innominabili segreti.
L’utilizzo pressoché perfetto dei synth, accompagnato da stigi arpeggi e, talvolta, da femminili soavi – ma al contempo dolorosi – vocalizzi, creano attorno ad un Black Metal più “mediterraneo” che “scandinavo”, splendide atmosfere che contribuiscono ad affrescare la tavola, ove i colori più vivaci risultano essere il grigio ed il nero. Ascoltare brani come King of Kings, Lord of Lords, Epitome II: The Amrita of Vile Shapes e la stessa title-track (15 minuti di assoluta delizia musicale), possibilmente con testi alla mano, appagano i nostri più reconditi desideri di sapere e di conoscere, quanto di più occulto e misterioso, l’antica religione, ci può raccontare.
Strutturalmente si parla sempre di Black Metal, intendiamoci, ma arricchito qui da favolosi influssi Death che adornano di scale musicali tutta la loro composizione (come per i citati polacchi), e si accompagnano ad un double scream (quello di Mashkelah M’Ralaa e di N. Tengner) che duetta magicamente, senza mai essere troppo legato ad un genere o all’altro; sempre in bilico, come talvolta accade tra Tolis ed Ace (Rotting Christ) o tra Nergal e Orion (Behemoth), ma qui impostato come vero e proprio matrimonio, ove vige parità di diritti, e non come un semplice fidanzamento tra main e backing vocals.
Ascoltare Shem Ha Mephorash infine, significa rimanere racchiusi nei gusci e negli involucri (dall’ebraico Qliphoth, nella tradizione cabalistica, le forze del male, che nel grimorio “Black Magic Evocation of the Shem ha Mephorash” rappresentano i quattro anti-mondi che si contrappongono ai quattro mondi elementari della Cabala Ebraica, ossia : Atziluth, Beri’ah, Yetzirah e Assiah), di sonorità profondamente antiche, che proiettano l’immaginario dell’ascoltatore più attento e più sensibile, in un reame (musicale) quasi metafisico, qui raccontatoci non dallo Sefer Yetzirah, bensì attraverso sublimi note musicali e dall’immensa complessità delle liriche di cinque ragazzi svedesi!
Tracklist
1. King of Kings, Lord of Lords
2. Chant of Golgotha
3. Epitome I: Bottomless Infinite
4. Sanguinem
5. Epitome II: The Amrita of Vile Shapes
6. Relics of Elohim
7. 777: Third Woe
8. Shem Ha Mephorash
Ci sono momenti di estrema commozione in questo disco, e a volte si ha persino l’ansia che questa musica scompaia all’improvviso, per quanto è bella.
Torna uno dei gruppi più significativi del black metal italiano e non solo, fautore di un black metal che trasporta lontano.
Strettamente legati alla natura e alla loro terra, la Val Di Susa, gli Enisum hanno sviluppato negli anni una poetica musicale unica ed immediatamente riconoscibile, partendo dal black metal per andare ben oltre, e questo ultimo disco è una pietra miliare della loro discografia, combinando insieme diversi elementi e portandoli ad un livello superiore. Nella musica di questo gruppo, che in un tempo relativamente breve ha saputo entrare nei cuori di molte persone, c’è una spiritualità che nasce anche dal fondere insieme vari generi e varie istanze. Il black metal, più che un genere, qui è un punto di partenza ed un sentimento dell’animo umano, una narrazione possibile. Partendo dal nero metallo gli Enisum trovano molte soluzioni sonore, e Moth’s Illusion è la sublimazione di un suono bellissimo e di un sentire e vedere la vita in un modo diverso. Il gruppo ci parla per immagini, costruendole come in un film e facendoci immergere nella nostra vera natura. Moth’s Illusionha molti significati, ma il principale è forse quello di fermarsi e di ascoltare un battito che non nasce dal silicio, un respiro che viene dalla terra e dal quale siamo usciti anche noi, perché alla fine questo è un capolavoro folk, per quanto è vicino alla natura e al nostro cuore. Da tempo è in atto una guerra dentro noi stessi, nel tentativo di combattere la frattura che ci sta spaccando l’anima, smarriti i fra i vecchi dei che stanno perdendo terreno rispetto ai nuovi che vengono fuori da bytes e da tubi sotto l’oceano, facilitatori di una realtà fallace. Moth’s Illusion è un ritorno a ciò che potrebbe essere se fossimo più aderenti a quello che siamo sempre stati. Ci sono momenti di estrema commozione in questo disco, e a volte si ha persino l’ansia che questa musica scompaia all’improvviso, per quanto è bella. Rispetto agli altri lavori del gruppo si accentuano gli aspetti più melodici e al contempo epici del sound, bisogna però dire che, come per ogni album degli Enisum, la situazione è sempre diversa. E’ difficile ed insieme magnifico parlare di un disco così, che fa piangere e pensare, commuovere e lottare, e che è da sentire dall’inizio alla fine.
Tracklist
1.Cotard
2.Anesthetized Emotions
3.Where Souls Dissolve
4.Afframont
5.Moth’s Illusion
6.Last Wolf
7.Ballad of Musinè
8.Coldness
9.Petrichor
10.A Forest Refuge
11.Lost Again Without your Pain
12.Burned Valley
Line-up
Lys-guitars,vocal
Leynir-bass
Dead Soul-drum
Epheliin-female vocal
Interessante esordio di questo duo francese, capace di creare ambientazioni maestose, imponenti e ammantate da tristezza e nostalgia: un black avanguardistico intriso di suggestioni doom e funeral.
Varie suggestioni emana l’esordio dei Triste Terre, gruppo francese di recente costituzione, con tre EP all’attivo dal 2016: un avanguardistico black metal intriso di doom, aromi funeral, dissonanze e capacità di creare ambientazioni misteriose e maestose.
Naal, compositore delle musiche e dei testi, accompagnato da Varenne al contrabbasso e Lohengrin alla batteria, ci propone in quasi sessantacinque minuti musica molto interessante capace di costruire imponenti affreschi che potrebbero ricordare per alcuni aspetti il suono degli inglesi Lychgate. L’uso sapiente dell’organo apre scenari che trasportano chi ascolta in territori ricchi di pathos e orrore. La lunghezza dei brani, in media superiore ai dieci minuti, permette di addentrarsi in territori multidimensionali, dove la furia black (Corps Glorieux) si amalgama perfettamente con parti nostalgiche e ammantate di tristezza, che pervade comunque ogni nota dell’ opera. Ogni brano nel suo divenire nasconde idee, suoni che conquistano e ogni ascolto scopre partiture che non si erano evidenziate prima; lentamente il suono si apre a nuove sensazioni ed è come emergere da profondi abissi prima di scoprire la maestosità della proposta. Il suo essere avanguardistico non comporta momenti di stanca o di noia, anzi è una continua sfida lasciarsi sommergere da imponenti strutture che non mancano di potenza e di coesione e i brani sono perfettamente delineati nel loro saliscendi emozionale, sia quando guardano al suono black, sia quando le note si sciolgono in momenti atmosferici di gran pregio. La componente doom è ricca di tensione e talvolta deflagra in momenti death doom pregevoli; le armonie, alcune molto dolci, sono sempre coperte da una aura sinistra a creare ambientazioni malsane e non confortevoli (Luer émerite). Un debutto davvero interessante in una scena, quella francese, molto attiva e sempre con progetti atmosferici piuttosto personali.
Tracklist
1. Œuvre au noir
2. Corps glorieux
3. Nobles luminaires
4. Grand architecte
5. Lueur émérite
6. Tribut solennel
I Nasheim non sono paragonabili a nessun altro gruppo attualmente: la loro proposta di atmospheric black metal ha una trascendenza,un lirismo e una personalità senza pari.
Un fluire ininterrotto di pura emozionalità e una classe cristallina ci riportano all’ascolto della seconda opera di Nasheim, one man band svedese composta da Erik Grahn con l’aiuto di vari collaboratori, tra cui R.Bjornstrom alla batteria, Harper al violino e R.Shakespeare al cello.
Ogni singola nota e ogni parola sono create dal leader che, dopo lo splendido Solens Vemod del 2014, si è preso tutto il tempo necessario per far crescere la propria creatività e poter far fuoriuscire con personalità e forte identità il proprio spirito. Questa musica, o meglio arte, non può lasciare indifferente chi si accosta, qui ci sono note di atmosferico black metal che porta il genere a un livello superiore, e l’accostamento tra folk nordico e materia black genera un’opera molto curata, rifinita in ogni sua parte ma che rappresenta in toto l’anima dell’artista. Arte e vita si intrecciano e ci avvolgono continuamente in questi tre brani che rappresentano uno “stream of consciousness” trascendente, onirico e ipnotico. Durante l’ascolto sembra di entrare in un mondo parallelo dove nulla è definito e tutto è in continuo divenire e i venti minuti di Att Svava Jogg Sviderna sono lì a dimostrarlo. Non vi è sfoggio di tecnica particolare, esiste solo una forte espressività che avviluppa noi ascoltatori in una atmosfera quasi ultraterrena, dove bellezza e tensione sono in perfetto equilibrio. La musica fluisce libera, possente, l’alternanza tra clean vocals e scream è naturale, l’intreccio strumentale è fluido e spontaneo generando un miscuglio di emozioni tra speranza, disperazione che eleva la nostra coscienza a livelli superiori dove forse pensavamo di non poter mai arrivare. Lo struggente sviluppo del terzo e conclusivo brano Sank Mig I Tystnad dimostra ampiamente che i Nasheim non sono paragonabili a nessun altro gruppo attualmente: l’artista sviluppa un personale percorso nella costante ricerca di adamantina bellezza.
Tracklist
1. Att sväva över vidderna
2. Grå de bittert sådda skogar
3. Sänk mig i tystnad
Le sonorità offerte da Svirnath sono del tutto in linea con le produzioni facenti capo alla brillante label tedesca Naturmacht, autentico punto di riferimento per chi voglia ascoltare black metal atmosferico nella sua accezione più pura e underground.
Arriva al secondo full length Frans, musicista lombardo/piemontese attivo anche nei validi doomsters Abyssian e nei Consolamentum, che con il suo progetto solista Svirnath propone un black metal atmosferico e dai tratti pagan folk.
Dalle Rive del Curone, fin dal titolo, evidenzia quanto siano importanti per l’autore gli spunti derivanti dall’amore e dal rispetto per una natura che dovrebbe essere sempre parte integrante del modus vivendi di ciascuna persona.
A livello musicale l’album si snoda piuttosto bene, essendo ricco di valide aperture atmosferiche, e se mostra alcune incrinature queste vanno ricercate in uno screaming perfettibile (pur essendo una caratteristica che sembra accomunare gran parte delle uscite in quest’ambito) e in un lavoro chitarristico che nelle parti soliste mostra qualche sbavatura, a fronte di un afflato melodico tutt’altro che trascurabile. Ed è proprio limando tali aspetti che brani notevoli come la title track o L’etereo bagliore potrebbero risaltare ancor più di quanto non avvenga, in virtù di una scrittura sempre volta all’esibizione del lato più evocativo del genere.
Le sonorità offerte da Svirnath, del resto, sono del tutto in linea con le produzioni facenti capo alla brillante label tedesca Naturmacht, autentico punto di riferimento per chi voglia ascoltare black metal atmosferico nella sua accezione più pura e underground.
Tracklist:
1. Vir Naturae
2. All’ombra delle fronde
3. L’etereo bagliore
4. Dalle rive del Curone
5. Quando soffia il Maestrale
6. L’abete
Come sanno fare solo i più bei dischi di black metal altro, Rain trasfigura completamente la nostra realtà, dato che ci si perde in questo muro sonoro, in questa cascata di suoni ed immagini, dove si viene portati in cielo e da lì nello spazio profondo, ma dove ci dovrebbe essere solo silenzio e buio troviamo prati di vita e fiori di morte.
Sadness è il progetto solista di Elisa, polistrumentista messicana che vive in Illinois, dove ha registrato questa sua seconda opera.
Rain è un disco che porta in un’altra dimensione, con uno spettacolare suono che parte dall’atmospheric black metal per arrivare al blackgaze e al depressive black metal, sottogenere di cui è uno dei migliori esemplari. Ci sono trame e sottotrame in queste canzoni, ognuna fa storia a sé ed insieme ci rendono un bellissimo dipinto che pulsa al ritmo di questa musica. Per esempio Pure Dream, la seconda traccia del disco, è un esempio perfetto di cosa sia Rain, un sogno, una sorta di filtro attraverso il quale vedere la vita in maniera diversa, una sospensione del tempo che ci permette di rallentare e di capire meglio. Elisa suona come se fosse al comando di un magma, con gli strumenti che si fondono per arrivare ad un certo risultato, dove ogni cosa è fondamentale ma mai come il tutto che concorre a formare. Sogno, estasi, paura della perdita e superamento della morte, ci sono tantissime cose in questo disco. Come sanno fare solo i più bei dischi di black metal altro, Rain trasfigura completamente la nostra realtà, dato che ci si perde in questo muro sonoro, in questa cascata di suoni ed immagini, dove si viene portati in cielo e da lì nello spazio profondo, ma dove ci dovrebbe essere solo silenzio e buio troviamo prati di vita e fiori di morte. Sintesi di purezza e corruzione, è davvero difficile catalogare questo disco come una mera opera musicale, perché è molto di più. Innanzitutto esplora le parti più nuove ed ancora parzialmente inesplorate dell’universo black metal, e chi si poteva aspettare che dai primi ruggiti norvegesi a distanza di molti anni sarebbero poi potute nascere opere come Rain? Ciò è possibile perché il black metal è come un codice sorgente dal quale possiamo prendere e sviluppare ciò che ci interessa, ed è proprio ciò che ha fatto Elisa. Un disco molto toccante, bello ed etereo, blackgaze di ottima fattura.
S.I.G.H.S. può rappresentare per gli Afraid Of Destiny una sorta di compendio definitivo dei primi 5-6 anni di carriera, propedeutico alla creazione di nuovo materiale inedito in grado di consolidare il nome di questa realtà dal grande potenziale non ancora del tutto espresso.
Il depressive black in Italia è un sottogenere magari non diffusissimo ma sicuramente esibito a livello per lo più ottimo dai suoi interpreti, tra i quali rinveniamo gli Afraid of Destiny, tipico esempio di band nata come progetto solista e poi evolutasi nel corso del tempo in una realtà più composita e, soprattutto, in grado di proporre anche dal vivo la propria musica.
L’attività degli Afraid of Destiny è stata piuttosto intensa in questi sei anni decorsi dal demo d’esordio, così, oltre a diverse uscite minori, troviamo tre full length dei quali l’ultimo è questo S.I.G.H.S., uscito per Talheim Records, anche se di fatto il lavoro comprende per buona parte la rivisitazione di brani composti dal fondatore Adimere quando era ancora neppure maggiorenne.
In effetti, le prime tracce dell’album sembrerebbero mostrare più un gruppo dedito ad un black atmosferico e ragionato, per quanto cupo, ben rappresentato dalla buonissima Shells, sulla quale offre un gran bel contributo chitarristico Thomas Major dei Deadspace, ma è nella seconda metà del lavoro che prende campo un incedere più malinconico e ripiegato su una negatività di fondo, che vede quale suo ideale prologo Tutto Ciò che Sento, un dialogo tratto dal film “Lei” sul quale si incastonano struggenti note pianistiche.
Il lungo strumentale I’m Crying (proveniente dal primo full length Tears Of Solitude, così come la conclusiva Killed By Life) rappresenta un bellissimo intermezzo ricco di atmosfere e melodie che mostrano un volto più malinconico e struggente che non disperato, introducendo al meglio il dolente sentire acustico di Cursed and Alone e l’interludio pianistico Malinconica Venezia, prima che la già citata Killed By Life, traccia molto lunga (ancor più di quanto non lo fosse nella sua prima stesura grazie ad un’appendice strumentale) quanto intensa, chiuda in maniera ottimale l’album descrivendo il vortice di sensazioni disseminate lungo il percorso che conduce ad un’ineluttabile quanto tragica conclusione. S.I.G.H.S. (che è peraltro l’acronimo di Still I Gently Hide Sadness) è un’opera che si snoda lungo vari sentieri stilistici come è prevedibile quando i brani in esso contenuti sono stati composti in diverse epoche e quindi a qualche anno di distanza l’uno dall’altro: troviamo così episodi di black tout court come Take Me Home, Death assieme a malinconici affreschi acustici che riconducono a sonorità di matrice dark doom, ma il tutto comunque convive senza troppe forzature; almeno in quest’occasione il sentire depressivo viene veicolato musicalmente (e anche a livello di interpretazione vocale da parte di R.F. Sinister) più con un senso di rassegnazione che non di rabbia impotente: questo consente agli Afraid Of Destiny di risultare graditi, oltre agli ascoltatori gravitanti in ambito black, anche da chi ama farsi cullare da sonorità cupe e a tratti intimiste.
Considerando che un po’ tutta la storia della band è stata, fino ad oggi, caratterizzata da uscite volte anche al riassemblaggio o al recupero di brani dalla genesi più datata e che il compositore principale Adimere è ancora molto giovane, mi piace pensare che S.I.G.H.S. possa essere per gli Afraid Of Destiny una sorta di compendio definitivo dei primi 5-6 anni di carriera, propedeutico alla creazione di nuovo materiale inedito in grado di consolidare il nome di questa realtà dal grande potenziale non ancora del tutto espresso.
Tracklist:
1 – Timor Mortis
2 – Take Me Home, Death
3 – Shells
4 – Tutto Ciò che Sento
5 – I’m Crying (Tears of Solitude MMXIX)
6 – Cursed and Alone
7 – Malinconica Venezia
8 – Killed by Life
M.S. (ex member): solo guitars
N. (Blaze of Sorrow): session drums
B.M. (Skyforest, ex Annorkoth): session piano
Thomas Major (Deadspace): guest solo on Track 3
Laura Zaccagnini: guest lyrics on Track 6
Debutto col botto per la one-man band lucana. Un lavoro pressoché perfetto, un depressive black metal ricco di pathos e atmosfera, che non può e non deve passare inosservato.
Angoscia è l’unico sentimento che provo all’ascolto del debut ep degli italiani Amataster, uscito per l’italiana Masked Dead Records. Un sensazionale tuffo nella più profonda delle depressioni sonore, un viaggio introspettivo e melanconico, attraverso i più sconcertanti dolori che la vita possa causare.
La one-man band di John Poltergeist (già frontman dei depressive blacksters Eyelids) arriva dalla Basilicata e ci propone un meraviglioso Black Metal atmosferico ricco di pathos, che coinvolge totalmente l’ascoltatore, che vuole farsi travolgere da un’incalzante marea di afflizioni, affanni e sofferenze, attraverso 4 tracce della durata di poco più di venti minuti, ben architettate, quasi a voler tracciare un percorso personalmente interpretativo e assolutamente soggettivo della vita, qui dichiaratamente avara di gioie e di luce.
Così comincia l’avventura (anzi la disavventura) musicale con un brano – L’anima è in fiamme – tipicamente Black ma ricco di funeree ed annichilenti atmosfere. L’incipit delle liriche ci prepara sin da subito a quanto di più doloroso ci si può aspettare da questo disperato percorso attraverso le desolanti disillusioni della vita: “Guardate morire le vostre madri, Guardate soffrire i vostri cari, Bevo il loro sangue, lo sputo sulle vostre mani. Ora inginocchiatevi con me, piangete. Ecco questo è il dolore…” sono versi che ci raccontano molto di quanto sia il leitmotiv dell’album, soprattutto se si considera che vengono preceduti da un intro di synth che gioca meravigliosamente con una soave, ma incredibilmente melanconica, voce femminile, che introduce il Black di Mr. Poltergeist, costruito sul più tipico dei blast, e che alterna, alle oramai immancabili chitarre zanzarose, un lamento ed un pianto disperato di donna, che in maniera devastante, avvilirebbero e sconforterebbero anche l’animo più puramente ottimista. Perché? – la successiva traccia – si domanda John, e dopo un sospiro che pare provenire dai più profondi ed oscuri meandri dell’Inferno, parte un Black tiratissimo che danza armonicamente con gli insert di synth, che contribuiscono a creare un dicotomico connubio tra rabbia (il testo ne è carico sino al midollo) e ossessiva depressione. Rabbia, come detto, e furore sonoro, si avventano contro i nostri padiglioni auricolari, lasciandoci annichiliti, di fronte ad un Depressive che non ammette pause, lento sì in parte, ma pronto a reagire con impetuose sfuriate, proprio nel momento in cui l’ascoltatore sta per assopirsi, assuefacendosi all’atmosfera funerea, che permea tutto l’album…
“Ferite dal passato alimentano il mio dolore” ci racconta la successiva Dono delle ombre che, immancabilmente, ci riporta al pensiero che si tratti di una possibile accusa verso una meschina vita, che congiura contro di noi, conducendoci all’odio imprescindibile verso chi ce l’ha donata. Un alchimia di mid e up tempo, sostengono l’attenzione, quasi a voler mantenere alta la nostra concentrazione sul testo, focalizzati su una consapevolezza sempre maggiore della tragicità dell’esistenza umana, che nulla merita, se non un carico incommensurabile di rabbia: “ormai sei solo un ricordo, c’è solo rabbia, in una gabbia” ; qui, nella rima baciata tra rabbia e gabbia, si individua una delle più classiche metafore sull’essenza umana, di chi la legge e la vive, nell’eterna bipartizione tra vita e prigione.
Un arpeggio che ci introduce all’ultima canzone – A.T. the Heart – accompagnato da un breve ma azzeccatissimo assolo, presentano il brano che più si avvicina al Depressive (tanto caro a molte band francesi). I lamenti strazianti di John non lasciano dubbi, sul significato della volontà di chiudere questo debutto nel migliore dei modi. Funerei passaggi , lente ed oscure atmosfere, dipingono ed affrescano l’opera del nuovo Goya della musica, principe della melodia depressiva, a cornice di una pittura che nel ‘700, portava tale nome.
Tracklist
1. L’anima è in fiamme
2. Perché?
3. Dono delle ombre
4. A.T. the Heart
Demiurgus valica montagne musicali ed oltrepassa confini, viaggiando su territori in cui metal estremo, tecnica individuale e parti progressive costruiscono ponti di spartiti su fiumi di note in piena.
Dopo un primo ep rilasciato nel 2016, arrivano al debutto sulla lunga distanza gli Equipoise con Demiurgus, mastodontico lavoro che non lascerà certo indifferenti i fans del death metal tecnico e progressivo.
Sette musicisti provenienti da varie band del circuito estremo, uniti sotto lo stesso monicker producono grande musica: questo in sintesi è quello che troverete in Demiurgus, un’ora abbondante di scale musicali, fughe metalliche, ritmiche da capogiro e tanto death metal valorizzato da un ottimo songwriting.
Beyond Creation,Virulent Depravity, Ashen Horde, The Fractured Dimension, Abigail Williams, Hate Eternal, Perihelion, Wormhole sono solo alcuni dei gruppi che fanno parte del curriculum dei musicisti coinvolti nel progetto Equipoise, una bestia progressiva che non conosce limiti, tra furia e tecnica esecutiva sorprendente così come una forma canzone che invoglia l’ascolto di devastanti e tecniche prove di forza come Alchemic Web of Deceit o Dualis Flamel o accenni a generi lontanissimi dal metal estremo, come in molte delle opere del genere, in brani stratosferici come Waking Divinity o Cast Into Exile. Demiurgus valica montagne musicali ed oltrepassa confini, viaggiando su territori in cui metal estremo, tecnica individuale e parti progressive costruiscono ponti di spartiti su fiumi di note in piena.
Consigliato agli amanti del genere e di band che vanno dai Cynic agli Obscura, dagli Atheist ai Beyond Creation, Demiurgus si candida già da ora come uno degli album di quest’anno appena iniziato, almeno per quanto riguarda il technical progressive metal.
Tracklist
1.Illborn Augury
2.Sovereign Sacrifices
3.Alchemic Web of Deceit
4.A Suit of My Flesh
5.Shrouded
6.Sigil Insidious
7.Reincarnated
8.Dualis Flamel
9.Eve of the Promised Day
10.Waking Divinity
11.Ecliptic
12.Squall of Souls
13.Cast into Exile
14.Ouroboric
Line-up
Stevie Boiser – Vocals/Lyrics
Phil Tougas – Guitars
Nick Padovani – Guitars/Composition
Sanjay Kumar – Guitars
Hugo Doyon-Karout – Fretless/Fretted Bass
Jimmy Pitts – Keyboards/Synths
Chason Westmoreland – Drums
Gli Insonus esibiscono una vena fondamentalmente atmosferica, racchiusa in un sound cupo e al contempo melodico, nel quale il disperato abbandono del depressive lascia spazio ad una rabbia che diviene l’altra faccia di una stessa medaglia nel modo di elaborare il male di vivere.
Gli Insonus sono una nuova realtà black metal italiana, nata per volere di due musicisti abruzzesi, R. e A., quest’ultimo nome che chi frequenta il genere conoscerà quanto meno per il suo progetto L.A..C.K., uno dei migliori esempi nazionali di depressive.
Il duo, che si fa aiutare da altri due corregionali come HK (Eyelessight – drums editing) e Fulguriator (Selvans – chitarra acustica) esibisce una vena fondamentalmente atmosferica, come già fatto molto bene due anni fa con l’ep Nemo Optavit Vivere, racchiusa in un sound cupo e al contempo melodico, nel quale il disperato abbandono del depressive lascia spazio ad una rabbia che diviene l’altra faccia di una stessa medaglia nel modo di elaborare il male di vivere.
L’ovvio riferimento alla scena scandinava (nell’ambito della quale continuo a trovare in più di un caso gli Arckanum quale accostamento più attendibile, non fosse altro che per la comune capacità di esibire marcati tratti melodici senza perdere nulla in ruvidità e robustezza del sound) non rende affatto The Will to Nothingness un lavoro impersonale, perché i brani sono tutti molto solidi e dal potente impatto, contribuendo così a rendere la proposta sicuramente ben focalizzata ed avvincente.
Se le tracce I e II sono senz’altro due ottimi esempi di interpretazione del genere nell’ambito della tradizione, III si propone quale manifesto dell’album, con la sua ripresa della confessione di Antonius Block (dal capolavoro bergmaniano Il Settimo Sigillo) culminante nel momento in cui la Morte offre la logica soluzione ai tormenti del protagonista pronunciando la glaciale frase “non credi che sarebbe meglio morire “? Il tappeto sonoro che ne consegue e quello dal più elevato contenuto drammatico del lavoro, in grado di avvincere pur nella sua inusuale lunghezza di quasi dieci minuti.
Il resto di The Will to Nothingnesscontinua a regalare un black metal di grande qualità e tensione (splendida e relativamente orecchiabile la traccia IV e molto varia e dal notevole crescendo la lunga e conclusiva VI) che si lega alla perfezione con testi che, ovviamente, non seguono l’abusato filone lirico satanista o antireligioso per dare spazio invece all’esplicito e doloroso disagio derivante dall’incapacità di trovare un senso logico e compiuto all’esistenza.
L’unione di una struttura musicale piuttosto legata alla tradizione, ma pervasa da un senso melodico spiccato, ad un comparto lirico di classica matrice depressive conduce ad un risultato davvero ottimo, confermando quello degli Insonus come uno dei nomi più interessanti in ambito nazionale.
Tracklist:
1.The Will To Nothingness I
2.The Will To Nothingness II
3.The Will To Nothingness III
4.The Will To Nothingness IV
5.The Will To Nothingness V
6.The Will To Nothingness VI
Line-up:
R. (Raven) – Lead and Rythm Guitars
A. (Acheron) – Vocals,Guitars,Bass,Programming,Mixing
Drums editing by HK
Acoustic guitars by Fulguriator
Dopo un ottimo lavoro come The Wiccan del 2015, la chitarra dei Rotting Christ (George Emmanuel) e il basso dei Nightfall (Stathis Ridis) escono con questo The Order, attento seguace delle sonorità delle due cult band ateniesi, splendido accolito di tutta la loro produzione, ma altrettanto fedele ammiratore delle sonorità industrial.
Una rapida scorsa alle origini dei greci Lucifer’s Child e ci si rende immediatamente conto che si è difronte ad un super combo.
Formatisi nel 2013 dall’idea di George Emmanuel (chitarra) dei Rotting Christ e Stathis Ridis (basso) dei Nightfall, i nostri sono fautori di un Black Metal, molto articolato, complesso, a tratti prog, spesso industrial. The Order– uscito per la più che prolifica polacca Agonia Records – è un album davvero interessante. Ci troviamo di fronte ad un prodotto multiforme, dalle molteplici sfaccettature e non facilmente etichettabile. Di sicuro il Black ne costituisce la scenografia, il fondale di un opera frastagliata, eclettica nella struttura, composita sì, ma dall’elevatissima qualità nella sua amalgamazione.
Solide basi industrial, costituiscono il leitmotiv Wagneriano, che tessono trame complesse sulle quali si dipana un Black Metal dall’impronta molto gotica ed a tratti, di una maestosità che annichilisce l’ascoltatore. Brani come Viva Morte e la Title-Track non nascondono volutamente l’imprinting di Emmanuel e di Ridis, proiettandoci all’interno di un Maelstrom ellenico di suoni imponenti, di smisurata imperiosità, a tratti sublimemente pomposi, quasi si volesse ostentare burbanzosa autorità. Anche nella successiva Fall of the Rebel Angels si ha l’impressione che i nostri avessero proprio l’intenzione di ridurre a totale prostrazione l’ascoltatore, tale è la magnificenza del corredo musicale, ordito attorno al momento Black. Nel brano, come anche in El Dragón, il sound, marcatamente industrializzato, però non ci rimanda al più classico degli Industrial Black Metal come si potrebbe ragionevolmente pensare (tipo Mysticum, per intenderci), bensì ai macchinosi, pesantissimi soffocanti martellamenti di band quali Ministry, Fear Factory e Rammstein, strizzando l’occhio anche a gruppi come i Pain, denotando forti ammiccamenti alle commistioni elettroniche della band di Tägtgren.
Intendiamoci, non siamo di fronte ad un minimalista copia ed incolla, o ad un’accozzaglia di stili ed influenze messe lì a caso. Tutto è fluido, nella sua complessità, e le digressioni musicali accompagnano sempre un Black Metal suonato perfettamente, infarcito, come nella goticissima Through Fire We Burn, o in Black Heart (che pare brutalmente prelevata da Khronos o da Macabre Sunsets) da cupe eteree atmosfere, avvolgenti la ritmata ossessività tipica del Black, ma altresì musicanti la pomposità della marcia, quando non sfocia nel Blast più violento. Haraya , la penultima traccia, va a braccetto con le canzoni precedenti, costruita su un’attenta intelaiatura Gothic Black (è la song che maggiormente rispecchia le radici dei Lucifer’s Child, ossia le due cult band ateniesi che ne hanno prestato chitarra e basso) che, abilmente ritmata da Ridis e Vell (batteria), non si addormenta mai, avviluppandosi su se stessa su troppo rigide diatoniche atmosfere da Canto Gallicano o Gregoriano, ma sostiene egregiamente i suoi quasi cinque minuti, senza mai far assopire l’ascoltatore con passaggi ben programmati, tra mid e up tempo.
Al contrario, ed in direzione diametralmente opposta, Siste Farvel. Qui il Funeral Black la fa da padrone. Non più industrial ed elettronica, ma una magnificente malinconica marcia funebre, che ci congeda con l’ultimo addio (appunto Siste Farvel, dal danese) che tragicamente ci deprime, generando lo sconforto di chi sa che l’album è oramai terminato, e che l’ultima nota, ci proietterà ben presto nel vuoto assoluto del silenzio delle nostre cuffie.
Tracklist
1. Viva Morte
2. The Order
3. Fall of the Rebel Angels
4. Through Fire We Burn
5. El dragón
6. Black Heart
7. Haraya
8. Siste farvel
Line-up
Stathis Ridis – Bass
George Emmanuel – Guitars
Marios Dupont – Vocals
Nick Vell – Drums
Come primo passo Les avatars du vide si rivela un qualcosa di solido e convincente per i Blurr Thrower, perché il solo fatto di mantenere alto il livello dell’attenzione dell’ascolatore con una formula non troppo usuale è di per sé un indicatore importante del valore di questo gruppo (o one man band che sia).
I Blurr Thrower sono una misteriosa entità parigina all’esordio con questi ep composto da due lunghissimi brani.
Il contenuto del lavoro si dimostra fin da subito tutt’altro che banale nel suo snodarsi in un black metal atmosferico ma decisamente inquieto e ben poco prevedibile, tra pulsioni post e ambient.
Non stupisce del resto il fatto che la band in questione sia transalpina, considerata la costante obliquità dell’approccio al genere da quelle parti: nel caso in questione, però, talvolta i Blurr Thrower paiono trarre linfa anche dalla scuola nordamericana in quota cascadiana.
Tutto questo rende Par-Delà les Aubes e Silences due episodi che, nonostante la considerevole lunghezza (diciotto minuti di media), scorrono in maniera mirabilmente fluida nonostante nulla venga fatto per rendere il sound più ammiccante. Les avatars du vide è un’opera che mantiene un fondo malinconico, in quanto non tocca gli apici di disperazione del depressive e nemmeno si concede a melodie di agevole fruizione: chi ha composto questo disco ha saputo dosare molto bene le varie componenti, ora amalgamandole ora alternandole creando soprattutto nei momenti più rarefatti la giusta tensione prima di esplodere in prorompenti cavalcate.
I due brani differiscono di poco ma quanto basta per fornire loro una forma più delineata, con Par-Delà les Aubes più complessa e tormentata e Silences invece strutturata in maniera più nervosa e a suo modo aggressiva al netto dei deu minuti e mezzo d break centrale.
Come primo passo Les avatars du vide si rivela un qualcosa di solido e convincente per i Blurr Thrower, perché il solo fatto di mantenere alto il livello dell’attenzione dell’ascolatore con una formula non troppo usuale è di per sé un indicatore importante del valore di questo gruppo (o one man band che sia), il cui nome è bene che venga tenuto in debita considerazione in prospettiva futura.