Woodhawk – Beyond The Sun

Beyond The Sun, forte di un notevole impatto, si basa molto sui riff roboanti e su una buona impronta vocale dalle reminiscenze hard’n’heavy e dove non arrivano le due principali componenti, ci pensa l’hammond a riempire di atmosfere evocative la musica dei Woodhawk.

Hard rock ispirato dai classici monsters settantiani è quello che ci offrono gli Woodhawk, trio proveniente da Calgary.

Potente come il boato di un tuono perso sulle montagne dove osano le aquile e nascono leggende di dei, eroi e spade, il terzetto composto da Turner Midzain (chitarra e voce), Mike Badmington (basso e voce) e Kevin Nelson (batteria) si autoproduce questo buon lavoro, pervaso da una forte sentore stoner, ormai nel dna dei gruppi dediti al genere, anche se la band non manca di colorare il sound di arcobaleni psichedelici e sabbathiani.
Beyond The Sun, forte di un notevole impatto, si basa molto sui riff roboanti e su una buona impronta vocale dalle reminiscenze hard’n’heavy e dove non arrivano le due principali componenti, ci pensa l’hammond a riempire di atmosfere evocative la musica dei Woodhawk: i brani godono di una naturale freschezza ed un impatto diretto che non lascia scampo, andando subito al sodo e valorizzando la componente heavy metal.
Le lame delle spade sono incandescenti quando i fabbri degli dei della montagna cominciano a martellare sull’acciaio creando mortali armi fiammeggianti, e i musicisti canadesi immortalano sullo spartito le atmosfere roventi delle caverne dove il lavoro non si ferma mai, con una serie di brani evocativi, metallici, dai potenti mid tempo ed impreziositi da chitarre heavy metal, portando il sound del gruppo dagli anni settanta al decennio successivo.
The High Priest, Magnetic North, Quest For Clarity sono le canzoni più suggestive di questo buon lavoro che nulla aggiunge e nulla toglie alle tante opere uscite in questo periodo, ma che si fa ascoltare con piacere.

Tracklist
1. Beyond The Sun
2. The High Priest
3. Living In The Sand
4. Magnetic North
5. Lawless
6. Quest For Clarity
7. A New Hope
8. Forsee The Future
9. Chrononaut

Line-up
Turner Midzain – Guitar, Vocals
Mike Badmington – Bass, Vocals
Kevin Nelson – Drums

WOODHAWK – Facebook

Kabbalah – Spectral Anscent

L’album, che definire vintage è un eufemismo, piacerà non poco ai doomsters dai gusti classici, con le tre musiciste spagnole che hanno il merito di mantenere alta la componente atmosferica e rituale senza perdere nulla in impatto.

E chi l’ha detto che per fare doom rock bisogna per forza avere folti barboni a coprire i manici delle chitarre e vocioni alla zio Ozzy in perenne trip? Chi meglio di tre streghe spagnole, può suonare retro rock, mistico ed occulto, liturgico e sabbathiano?

Benvenuti ai piedi dell’altare dove le tre sacerdotesse (Marga, Carmen e Alba) vi ipnotizzeranno per poi sacrificarvi nel bel mezzo di una messa dai colori scuri e ombre luciferine.
Le Kabbalah tornano con questo nuovo lavoro e ci imprigionano nel loro vortice di musica doom/psichedelica devota agli anni settanta e al filone occulto del rock e dell’ hard rock.
Quindi niente scherzi, lasciate perdere le trovate pubblicitarie su testi letti alla rovescia delle icone del rock mondiale, le tre musiciste spagnole fanno sul serio, imprigionandovi con incantesimi stregoneschi e sacrificandovi sull’altare mentre un lungo pugnale maledettamente lucido rispende nell’oscurità prima di stapparvi il cuore al ritmo di Resurrected, The Darkest End, o Dark Revelation.
La componente psichedelica che si insinua come un serpente albino nelle trame ricoperte da insidiose ragnatele dove dominano aracnidi dal morso letale e mid tempo che avvolgono lo spartito tra oscure note liturgiche, sono il contorno al doom rock di scuola Black Sabbath che le Kabbalah creano quale colonna sonora ai loro pericolosissimi sabba, mentre tutto intorno l’odore di incenso copre quello dolciastro e ferroso del sangue.
Album che definire vintage è un eufemismo, piacerà non poco ai doomsters dai gusti classici, le tre musiciste spagnole hanno il merito di mantenere alta la componente atmosferica e rituale senza perdere nulla in impatto.

Tracklist
1.Spectral Ascent
2.Resurrected
3.Phantasmal Planetoid
4.The Darkest End
5.The Reverend
6.The Darkness of Time
7.Dark Revelation
8.The Shadow
9.Presence

Line-up
Marga
Carmen
Alba

KABBALAH – Facebook

Profetus – Coronation of the Black Sun/Saturnine

Coronation of the Black Sun in questa nuova veste diventa appetibile anche per chi già ne conosce il funesto contenuto, grazie all’allargamento della tracklist ai brani che facevano parte di Saturnine, demo d’esordio dei Profetus.

L’attiva label giapponese Weird Truth, specializzata nelle forme più catacombali del doom, con un roster che comprende tra gli altri Ataraxie, Mournful Congregation e Worship, immette sul mercato questa eccellente riedizione di una delle migliori espressioni del funeral doom fnlandese più recente, ovvero Coronation of the Black Sun, primo full length dei Profetus, pubblicato originariamente nel 2009.

La band di Tampere, che ha all’attivo anche un altro album si lunga distanza, l’ottimo …to Open the Passages in Dusk, fin da subito è apparsa l’ideale trait d’union tra le due seminali band del funeral, non solo in ambito finnico, Thergothon e Skepticism, prendendo l’abissale e depressivo incedere dei primi e le solenni atmosfere punteggiate dall’organo dei secondi.
Pur essendo un lavoro da consigliare a chi volesse far propria una selezione ristretta di una ventina di dischi funeral, ai fini di una full immersion in un genere fino a quel momento sconosciuto, Coronation of the Black Sun in questa nuova veste diventa appetibile anche per chi già ne conosce il funesto contenuto, grazie all’allargamento della tracklist ai brani che facevano parte del demo Saturnine, risalente al 2007 ed edito all’epoca solo in cassetta (il che equivale di fatto alla sua attuale irreperibilità).
Tutto ciò non riveste esclusivamente un valore storico, visto che i due brani aggiunti, Skull Of Silence e Winter Solstice, sono perfettamente allineati per caratteristiche e qualità alle altre tre litanie funebri costituite da The Eye of Phosphorus, Coalescence of Ashen Wings e il capolavoro Blood of Saturn, riproposto in coda alla tracklist anche in versione live, in occasione di un concerto tenuto dai Profetus a Kuopio.
In particolare, Winter Solstice appare davvero come una perla che sarebbe stato delittuoso non riportare alla luce, trattandosi di un brano di struggente e terribile bellezza che rappresenta, fondamentalmente, la quintessenza del funeral doom, con le sue atmosfere soffocanti e allo stesso tempo commoventi.
Spesso la riedizione di album relativamente recenti si rivela poco incisiva se non superflua, ma non è certo questo il caso, proprio perché, al di là del valore intrinseco del lavoro in questione, sono proprio i contenuti aggiuntivi a fare la differenza, rendendo la scelta della Weird Truth meritevole di un plauso incondizionato.

Tracklist:
1. Skull of Silence
2. The Eye of Phosphorus
3. Coalescence of  Ashen Wings
4. Blood of Saturn
5. Saturnine Night
6. Winter Solstice
7. Blood of Saturn (Kuopio live)

Line-up:
V. Kujansuu – Drums
Eppe Kuismin – Guitars
A. Mäkinen – Guitars, Vocals
S. Kujansuu – Keyboards

PROFETUS – Facebook

Old Night – Pale Cold Irrelevance

Questo disco d’esordio degli Old Night si presenta come una delle più belle sorprese dell’anno in ambito doom.

Questo disco d’esordio degli Old Night si presenta come una delle più belle sorprese dell’anno in ambito doom.

La band istriana, guidata da Luka Petrović, membro di una band storica della scena croata come gli Ashes You Leave, imprime da subito la propria interpretazione del genere, con l’intento piuttosto evidente di proporre un doom tradizionale ma con ampie sfumature che riportano al grunge più evocativo, e in primis agli Alice in Chains
Autori di una prova superba su tutta la linea, gli Old Night si avvalgono della notevole prestazione vocale di Matej Hanžek, raro esempio di equilibrio laddove molti eccedono in tonalità troppo stentoree oppure scelgono soluzioni opinabili.
Il substrato sonoro è robusto e rallentato come da copione ma la differenza viene fatta appunto da quella componente che trasporta i ragazzi di Rjieka direttamente all’estremo nord della West Coast senza che il tutto appaia affatto forzato e derivativo.
Pale Cold Irrelevance cresce con gli ascolti oltre che con lo scorrere della tracklist, avviandosi con brani più vicini al doom classico, pur se parzialmente intrisi di una componente alternative, per poi approdare ad una seconda metà davvero splendida, con una Architects of Doom degna dei miglior brani cadenzati degli Alice In Chains, per arrivare alle conclusive Something is Broken e Contemptus Mundi, quest’ultima splendente gioiello che si avvale di uno dei tanti ottimi assoli di Bojan Frlan, fotografando al meglio il talento e la maturità di questi ragazzi croati.
Da non sottovalutare neppure una evocativa Thieves of Innocence, altra testimonianza di una rara freschezza nella scrittura, nonostante le sonorità esibite affondino saldamente le loro radici nei fertili anni novanta; Pale Cold Irrelevance si colloca senza dubbio tra i migliori esordi di quest’anno, presentandoci nella maniera più sfolgorante una nuova band come gli Old Night, in grado di emozionare riproponendo in maniera personale sonorità immortali, in barba ai molti che frettolosamente le ritengono già archiviate.

Tracklist:
1. The Last Child of Doom
2. Mother of all Sorrows
3. Thieves of Innocence
4. Architects of Doom
5. Something is Broken
6. Contemptus Mundi

Line up:
Matej Hanžek – Vocals (lead), Guitar
Luka Petrović – Bass, Vocals
Nikola Jovanovic – Drums
Bojan Frlan – Guitars (lead)
Ivan Hanžek – Guitars (lead), Vocals

OLD NIGHT – Facebook

Bluedawn – Edge Of Chaos

Un album nato da un’arcobaleno di tonalità che dal nero si spostano al grigio, teatrale ed affascinante: Edge Of Chaos è un lavoro riuscito, magari di nicchia, ma in grado di intrattenere le anime dalla sensibilità dark che popolano le notti del nuovo millennio.

Misteri, leggende, storie tramadate per secoli in una città che fu repubblica e crocevia di razze, ombre che le strette strade dei vicoli trasformano in oscure creature che ci inseguono fino al mare.

Una Genova alternativa fuori dagli sguardi superficiali dei turisti o di chi vive la città senza fermarsi un attimo a condividerne l’anima e la sua totale devozione alla musica rock, fin dai tempi dell’esplosione progressiva negli anni settanta, dei cantautori e del sottobosco musicale che ha dato i natali a straordinarie realtà metal.
In questo contesto si colloca la Black Widow Records e di conseguenza i Bluedawn, band heavy/prog doom metal capitanata dal bassista e cantante Enrico Lanciaprima, attiva dal 2009 ed arrivata con questo Edge Of Chaos al terzo capitolo di una discografia che si completa con il primo album omonimo e Cycle Of Pain, licenziato quattro anni fa.
Con l’aiuto di una serie di ospit,i tra cui spicca Freddy Delirio (Death SS), la band genovese esplora in lungo e in largo il mondo oscuro del doom/dark progressivo, ed Edge Of Chaos risulta così un lavoro affascinante anche se pesante e dipinto di nero, cantato a due voci da Lanciaprima e da Monica Santo, interprete perfettamente calata nel sound disperatamente oscuro e malato dell’album.
E sin dalle prime note dell’intro The Presence la tensione e la soffocante atmosfera dell’album sono ben evidenziate, con un’aura occulta ed evocativa a permeare tutti i brani dell’opera che sono valorizzati dai vari ospiti e da un uso molto suggestivo delle voci, uno dei punti di forza di un brano come Dancing On The Edge Of Chaos.
Il sax di Roberto Nunzio Trabona conferisce ad alcune tracce un tocco crimsoniano e l’anima progressiva del gruppo si fa tremendamente mistica ed occulta, con accenni atmosferici a Devil Doll ed al dark rock dei Fields Of The Nephilim, mentre la parte elettronica spinge la splendida The Serpent’s Tongue verso il podio virtuale all’interno della tracklist di Edge Of Chaos.
Sofferto, pesante ma tutt’altro di ascolto farraginoso, il pregio di questo lavoro è proprio quello di tenere l’ascoltatore con le cuffie ben salde alle orecchie: le sorprese del primo passaggio nel lettore diventano conferme dello stato di salute dei Bluedawn che, al terzo album, centrano il bersaglio, come confermato dalla notevole Baal’s Demise, nella quale tornano protagonista il sax, e di conseguenza, le sfumature crimsoniane.
Un album nato da un’arcobaleno di tonalità che dal nero si spostano al grigio, teatrale ed affascinante: Edge Of Chaos è un lavoro riuscito, magari di nicchia, ma in grado di intrattenere le anime dalla sensibilità dark che popolano le notti del nuovo millennio.

Tracklist
1.The Presence
2.Sex (Under A Shell)
3.The Perfect me
4.Serpent’s Tongue
5.Dancing On The Edge Of Chaos
6.Wandering Mist
7.Black Trees
8.Burst Of Life
9.Sorrows Of The Moon
10.Baal’s demise
11.Unwanted Love

Line-up
Monica Santo – Vocals
Enrico Lanciaprima – Bass, Vocals
Andrea “Marty” Martino – Guitars
Andrea Di Martino – Drums

James Maximilian Jason – Keyboards, Synth, Vocals
Caesar Remain – Guitars
Roberto Nunzio trabona – Saxophone
Marcella Di Marco – Vocals
Freddy delirio – Keyboard, Synth
Matteo Ricci – Guitars

BLUE DAWN – Facebook

Sator – Ordeal

I Sator fanno musica per terrorizzare chi sta loro davanti, con un cantato gridato su un tappeto sonoro sempre più potente ad ogni giro di chitarra e basso, con una batteria incalzante, dannati come una nave di pirati zombie.

Atteso ritorno di uno dei migliori gruppi italiani di sludge doom, fautori di un gran rumore, i genovesi Sator.

Dopo il debutto omonimo su Taxi Driver Records, i Sator passano su Argonauta Records per il loro secondo disco.
L’esordio era stato ottimo, con uno sludge doom molto potente con un forte substrato hardcore, ma con questa seconda prova il trio compie un’ulteriore evoluzione positiva, andando ad aggiungere maggiore spessore alla sua musica. Le composizioni hanno sempre grande potenza e viene inserita più psichedelia pesante per un effetto ancora più magniloquente. I Sator fanno musica per terrorizzare chi sta loro davanti, con un cantato gridato su un tappeto sonoro sempre più potente ad ogni giro di chitarra e basso, con una batteria incalzante, dannati come una nave di pirati zombie. L’approccio è simile a quello dei primi Electric Wizard, anche se hanno una maggiore varietà di soluzioni, e rimane quell’incalzare l’ascoltatore promettendo e mantenendo grandi cose dal vivo. I Sator sono un vortice dal quale non è possibile non venire attratti, sono affascinanti come sanno esserlo le cose malvagie. Ordeal è un gran salto di qualità per un gruppo che fa della potenza e della pesantezza le proprie armi vincenti, basterebbe ascoltare la canzone che da il titolo all’album dove c’è tutto il loro repertorio: riff potentissimi, basso a mille e batteria tentacolare, con stop and go e tanta distruzione. I Sator sono anche giustamente critici verso questa società che, come ben rappresentato in copertina, porta a divorarci l’un l’altro, senza ritegno né pietà per nessuno. In Ordeal aleggia anche lo spettro degli Eyehategod, un gruppo che dove c’è putridume è sempre presente, anche se qui ci sono molte cose in più. Ordeal è un monolite che sarà amato da chi segue la musica pesante.

Tracklist
1.Heartache
2.Ordeal
3.Soulride
4.Sky Burial
5.Funeral Pyres

Line-up
Drugo-Drum
Mauro-Guitar
Valy-Bass/vox

SATOR – Facebook

Lying Figures – The Abstract Escape

The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.

Primo full length per questa band francese che ha mosso i sui primi passi alla fine dello scorso decennio e che, oggi, dà finalmente un seguito consistente agli accenni di ottimo death doom fornito con un demo ed un ep rilasciati qualche anno fa.

The Abstract Escape si rivela infatti un’opera di notevole spessore, anche perché il gruppo di Nancy spicca per un approccio alla materia leggermente diverso, senza tralasciare di immettere nelle proprie composizioni passaggi riconducibili al gothic più depressivo, sfumatura quest’ultima che ben si sposa a tematiche legate a disagi psichici ed esistenziali.
Dei Lying Figures colpisce la capacità di toccare notevoli vette evocative subito dopo averne preparato il terreno con passaggi più rarefatti e solo apparentemente interlocutori, il tutto in qualche modo aderendo all’andamento schizofrenico di una mente malata che prova, invano, a riemergere dagli abissi nella quale è sprofondata.
In circa 50 minuti la creatura fondata dai due chitarristi Mehdi Rouyer e Matthieu Burgaud offre questi otto brani di ottima fattura, dimostrando la padronanza tipica di chi si è preso tutto il tempo necessario (come non sempre avviene) prima di imbarcarsi in un’avventura tutt’altro che scontata come il primo passo su lunga distanza: anche grazie a questo The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.
La voce di Thibault Robardey interpreta tutto ciò con la giusta enfasi e, anche se magari certi passaggi possono risultare un po’ forzati, l’effetto desiderato viene raggiunto ampiamente: tutto ciò contribuisce a rendere diversi brani delle opalescenti e dolorose perle, il cui afflato melodico è sempre in primo piano e capace di illuminare il disco con improvvise aperture.
Tormented Soul e There was a hole here, it’s gone now sono due trace magnifiche per intensità, aderendo alle caratteristiche appena descritte, ma sono di poco superiori, probabilmente solo per gusto personale, al resto di una tracklist che vede anche la disperata Monologue of a sick brain, la gothicheggiante e più ritmata Remove the black e la conclusiva Zero, all’insegna invece di un sound più rallentato, quali altri punti di spicco di un disco bellissimo.
The Abstract Escape, come molte altre opere simili, va lavorato con pazienza perché non entra nelle corde dell’ascoltatore con particolare agio, ma quando ciò avviene rilascia quelle sensazioni che ogni amante del doom che si rispetti ricerca con doverosa e tenace pazienza.

Tracklist:
1. Hospital of 1000 deaths
2. Tormented souls
3. Monologue of a sick brain
4. The Mirror
5. There was a hole here, it’s gone now
6. My Special place
7. Remove the black
8. Zero

Line-up:
Thibault Robardey – vocals
Matthieu Burgaud – guitars
Mehdi Rouyer – guitars
Frédéric Simon – bass
Charles Pierron – drums

LYING FIGURES – Facebook

Illimitable Dolor – Illimitable Dolor

Una band ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Greg Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.

Gli Illimitable Dolor sono una band australiana che, con questo suo album d’esordio, omaggia la memoria di Greg Williamson, cantante dei The Slow Death scomparso nel 2014.

Non a caso del progetto in questione fanno parte, infatti, tre ex compagni di Williamson, Stuart Prickett, John McLaughlin e Dan Garcia, oltre a Peter O’Donohue che si è occupato del mastering di Ark, album della band di Springwood uscito postumo rispetto alla morte del vocalist.
Come non di rado accade, l’ispirazione derivante da un lutto reale e non virtuale sembra fare la differenza (anche se ovviamente si spera sempre che ciò non sia necessario), specialmente in un genere che già di suo ha il compito di evocare un dolore incontenibile, come da ragione sociale scelta dal gruppo.
Quest’album è una prova magnifica che, a mio avviso, è anche superiore rispetto al valore degli album degli stessi The Slow Death: il funeral death doom degli Illimitable Dolor è tragico, melodico e fortemente evocativo, va diritto al cuore senza perdersi in troppi preamboli, prendendo il meglio di quanto negli anni il genere ha offerto, anche nel continente australe dove, oltre agli ovvi riferimenti alla band madre, non è possibile fare a meno di rapportarsi con i grandi Mournful Congregation, senza però dimenticare i Cryptal Darkness, autori a cavallo del nuovo millennio di due lavori magnifici (prima di trasformarsi nei più gotici e meno incisivi The Eternal) benché fortemente debitori dei My Dying Bride. E, quasi a chiudere un ideale cerchio, proprio la band di Stainthorpe viene omaggiata dagli Illimitable Dolor con un richiamo a Your River (da Turn Loose The Swans), nella parte centrale di quello che è il brano più drammatico ed intenso di questo splendido album, Salt of Brazen Seas.
La prova di Stuart Prickett dietro il microfono è convincente così come quella della band, realmente ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.

Tracklist:
1. Rail of Moon, A Stone
2. Comet Dies or Shines
3. Salt of Brazen Seas
4. Abandoned Cuts of River

Line up:
Stuart Prickett – Guitar, Vocals, Keys
Dan Garcia – Guitar
John McLaughlin – Drums
Guy Moore – Keyboards
Peter O’Donohue – Guitar
Daniel Finney – Bass

ILLIMITABLE DOLOR – Facebook

Akasava – Nothing At Dawn

Nothing At Dawn, nel suo variopinto caleidoscopio di sonorità doom, si rivela un album vario e godibilissimo, specialmente per gli amanti della variante classica del genere

Stoner, classico, death e psichedelico sono solo alcune delle varianti con cui il doom si è affacciato nel nuovo millennio.

I transalpini Akasava, per esempio suonano doom classico, che pesca a suo modo dagli anni settanta (Black Sabbath) ma che non si ferma ad una mera trasposizione di quel verbo, aggiungendovi dosi letali di psichedelia ed epico heavy rock.
Formatosi in Normandia un paio di anni fa, e con l’ep Strange Aeons dello scorso anno come apripista, il gruppo francese ci presenta il suo primo full length, Nothing at Dawn, un monolite occulto e psichedelico dai buoni spunti e dall’ottimo songwriting.
Niente di così nuovo o originale, solo doom epico, che non manca però di far viaggiare l’ascoltatore tra le onde lisergiche di uno spartito che il gruppo maneggia con sufficiente disinvoltura.
Si passa quindi da brani più diretti (The Devil’s Tide), a jam liquide perse nel rock progressivo e psichedelico di una quarantina d’ anni fa (Pyramid’s Eyes), lenti e soffocanti episodi atmosfericamente a metà strada tra Pink Floyd e Sabbath (Zora The Traveller) e piccoli gioiellini stoner che tornano a far risplendere il sole nella Sky Valley (Solitude Of The Goat).
Nothing At Dawn, nel suo variopinto caleidoscopio di sonorità doom, si rivela un album godibilissimo, specialmente per gli amanti della variante classica del genere, anche se non mancano spunti d’interesse anche per chi ne preferisce la parte più moderna e stoner.

TRACKLIST
1.Season of the Poet
2.The Devil’s Tide
3.Assembly of Fools
4.Pyramid’s Eyes
5.Zora the Traveller
6.Solitude of the Goat
7.Astral Truth
8.Nothing at Dawn

LINE-UP
Amélie Gavalda – Bass
David Touroul – Drums
Arnold Lucas – Guitars, Organ
Louis Hauguel – Vocals

AKASAVA – Facebook

Cardinal Wyrm – Cast Away Souls

La band dice: ”We walked till dawn to find the doorway to the stars”, proseguiamo con loro…

Magnifica la Svart Records, label finnica che in questi ultimi anni ci ha permesso di conoscere alcune grandi band, come ad esempio Oransii Pazuzu, Katla, Domovoyd, che elaborano un loro suono, assolutamente fuori da schemi prefissati.

Dagli Stati Uniti, dalla zona della Bay Area, provengono i Cardinal Wyrm che con Cast Away Souls producono il loro terzo full length, il secondo per Svart dopo Black Hole Gods del 2014; sono in tre, con la particolarità di avere il batterista, Panjal Tiwari, che si occupa anche delle vocals che passano da un tono declamatorio dai rimandi a Peter Steele  ad un growl “schizzato”.
Il loro sound, denso, bizzarro e teatrale, parte da basi doom, ma incontra variazioni heavy, acide e psichedeliche soprattutto nelle parti soliste di chitarra, creando un ponte tra passato e presente, cercando di trovare una strada per apparire personale.
Questo atteggiamento si avverte già nel primo brano (Silver Eminence) che parte doom, ai confini del funeral con un organo pesante come un macigno, per poi dopo un paio di minuti esplodere in un riff heavy vicino al trash, proseguendo poi con densità sludge e riflessi addirittura simil-voivodiani.
Gli altri cinque brani, sei in tutto per circa quarantasei minuti di puro godimento, sono sempre dello stesso alto livello, pieni di variazioni che possono essere colte da ascoltatori attenti (esempio l’intro spettrale di Grave Passages o le vocals darkwave all’inizio di The Resonant Dead); ulteriore nota di merito per Lost Orison, delicato brano aperto e punteggiato da una tromba immaginifica e dalle voci della bassista, Leila Abdul-Rauf (Vastum) e del batterista.
Cover particolare virata su colori viola e nero e testi, scritti dal batterista, declamanti storie di occultismo, depressione e realtà alternative invitano, come al solito, a ripetuti ascolti per scoprire un modo diverso di pensare e suonare doom “mutante”.

TRACKLIST
1. Silver Eminence
2. The Resonant Dead
3. Grave Passage
4. Lost Orison
5. Soul Devouring Fog
6. After the Dry Years

LINE-UP
Nathan Verrill – Guitars,Organ,Bass
Pranjal Tiwari – Drums, Vocals
Leila Abdul-Rauf – Live Bass, Trumpet, Vocals

CARDINAL WYRM – Facebook

Apneica – Pulsazioni…Conversione

Prova formidabile per gli Apneica, altra gemma nascosta che merita d’essere portata alla luce.

C’è decisamente qualcosa che non quadra, dopo aver ascoltato questo Ep dei sardi Apneica, e non sto parlando della qualità del lavoro che, come vedremo, è assolutamente al di sopra della media, ma del fatto che fino ad oggi ben pochi paiono essersi accorti del potenziale enorme di questa band.

Probabilmente il fatto di non esser supportati da una label o da qualche agenzia che curi la promozione dell’Ep influisce non poco al riguardo, e questo è un vero peccato, visto che ho perso il conto delle band che non valgono un’unghia degli Apneica e che, nonostante questo, vivacchiano sotto le comode ali protettive di etichette anche di un certo nome.
Così, chi si attende di dover ascoltare un prodotto artigianale o ancor peggio, raffazzonato, si ritrova folgorato da un primo brano come Alba Artificiale che, in qualche modo, smentisce parzialmente l’etichetta death-doom che accompagna i ragazzi di Sorso: personalmente ritrovo anche un notevole influsso del post metal più nobile, che sposta il sound verso lidi per certi versi inconsueti, ma forse più consoni ai quei mondi alieni descritti dalle ottime liriche rigorosamente in italiano .
Anche se lo stile della band del sassarese è sicuramente molto personale (e in un genere come questo, credetemi, è tutt’altro che scontato riuscirci) il primo nome che mi viene in mente a livello di contiguità stilistica è un altra giovane realtà nostrana, ovvero i bresciani (EchO).
L’ottima alternanza tra growl e voce pulita esibita da Ignazio Simula è l’ideale mezzo espressivo per assecondare le doti compositive di Alessandro Seghene, mastermind del gruppo ed impeccabile chitarrista; il passaggio da progetto solista a band a tutti gli effetti è coinciso con l’approdo a sonorità più focalizzate rispetto al death-doom sperimentale e strumentale contenuto nel lavoro omonimo uscito nel 2011, risultato al quale ha contribuito ovviamente anche la coppia ritmica costituita da Francesco Pintore (basso) e Luigi Cabras (batteria).
In effetti, questa differenza è riscontrabile ascoltando proprio il brano di chiusura, la title-track, uno strumentale perfettamente eseguito e di indubbia qualità al quale, però, l’assenza del contributo vocale che ci aveva accompagnato nei primi venti minuti dell’Ep, finisce per non rendere del tutto giustizia.
Assenza di Gravità e In Orbita, infatti, sono altre due tracce dall’enorme impatto e non c’è dubbio che il growl del buon Ignazio contribuisce ad inasprire i suoni tanto quanto la sua voce pulita ne ingentilisce i tratti, evitando così che il sound assuma connotazioni interlocutorie.
Se Pulsazioni … Conversione rappresentava una sorta di test voluto da Alessandro per verificare la resa degli Apneica in questa loro nuova veste, direi che gli esiti sono andati ben oltre le più rosee aspettative: il lavoro è un vero proprio gioiello che deve finire al più presto sulla scrivania di qualche label lungimirante (e in Italia ce ne sono, sicuramente) in grado di aiutare i nostri a raggiungere, con la loro musica, più persone possibili anche al di fuori dei confini nazionali, laddove la ricettività verso questo tipo di suoni è di gran lunga superiore.

Tracklist:
1.Alba Artificiale
2.Assenza di Gravità
3.In Orbita
4.Pulsazioni…Conversione

Line-up:
Ignazio Simula-Vocal
Alessandro Seghene-Guitars
Francesco Pintore-Bass
Luigi Cabras-Drum

APNEICA – Facebook

Demonic Death Judge – Skygods

Una prova sorprendente per qualità e chiarezza delle idee riversate in questa cinquantina di minuti che volano via in un amen, proprio grazie alla capacità dei finnici di comporre brani dotati di profondità, pur senza rivelarsi eccessivamente ostici ai primi ascolti.

I Demonic Death Judge provengono dalla Finlandia e la loro proposta è incentrata su uno sludge/doom dai tratti avvincenti e soprattutto dotato di un notevole groove.

Il quartetto nasce nel 2009 da una costola degli industrial deathsters Total Devastation, il che tutto sommato fa capire quale sia la versatilità dei nostri, alle prese con generi oggettivamente piuttosto distanti tra loro. Skygods è il secondo full-length, che segue a poca distanza il pregevole esordio “The Descent”, e ne parliamo solo ora nonostante sia uscito effettivamente negli ultimi mesi dell’anno scorso. In quest’album, contrariamente a quanto potrebbe far pensare il retaggio musicale del quartetto, lo sludge assume sembianze tutto sommato accessibili, ovviamente relativizzando il tutto, mostrando un approccio alla materia fresco e accattivante. Difficile non restare coinvolti da brani come la title-track, la successiva Salomontaari dagli accenni blues, la lisergica Knee High, la sabbathiana Aqua Hiatus o la splendida ed oscura Pilgrimage, posta in chiusura del lavoro. Una prova sorprendente per qualità e chiarezza delle idee riversate in questa cinquantina di minuti che volano via in un amen, proprio grazie alla capacità dei finnici di comporre brani dotati di profondità, pur senza rivelarsi eccessivamente ostici ai primi ascolti. Skygods è un disco vivamente consigliato a tutti coloro che apprezzano questo tipo di sonorità, sicuramente non ne resteranno delusi.

Tracklist :
1. Skygods
2. Salomontaari
3. Latitude
4. Knee High
5. Aqua Hiatus
6. Cyberprick
7. Nemesis
8. Pilgrimage

Line-up :
Pasi Hakuli – Bass
Lauri Pikka – Drums
Saku Hakuli – Guitars
Jaakko Heinonen – Vocals

DEMONIC DEATH JUDGE – Facebook