Völur – Ancestors

Interessante e molto ben riuscito blend di dark folk,doom e ambient che ci riporta indietro nel tempo,alle radici di un suono.

Molto, molto interessante e affascinante il secondo lavoro dei Völur, trio canadese di Toronto, dedito a un blend di folk ancestrale, doom, ambient assai intenso e ricco di sfumature.

La loro peculiarità si accentua ulteriormente visto che nel loro suono non è prevista alcuna chitarra, ma il tutto si dipana tra un suono di basso che si divide tra ruoli melodici e ritmici, un drumming lento ed evocativo e il violino che modula una moltitudine di ambientazioni, sfiorando anche la “chamber music”, che variano dal pastorale all’ancestrale creando atmosfere di pace e serenità, increspate da momenti di furore in cui emerge tutta l’oscurità e la drammaticità dei loro testi.
Questo Ancestors è il secondo capitolo di una serie di quattro opere incentrate sul vecchio mondo spirituale germanico ; il suono si dipana lento, oscuro, contemplativo in quattro lunghi brani in cui i tre musicisti intrecciano i loro strumenti per creare una miscela antica, che riporta alle origini di certo suono doom (non metal) in cui la potenza e la contemplazione convivono;
E’ come se un vecchio mondo magico tornasse alla luce dopo essere stato oscurato dalla nebbia del tempo; i suoni dell’ opener Breaker of Silence profumano all’ inizio di sapori antichi, polverosi per poi aprirsi, dopo una memorabile frase di basso, in tutta la loro suggestiva potenza: l’ultimo brano, Breaker of Famine, aggiunge anche vocalità black che accentuano la oscura tavolozza dei “colori” di questa opera.
Come sempre ripetuti ascolti giovano all’“innamoramento” di un disco che, forse, avrebbe dovuto essere pubblicato in una stagione non canicolare come l’estate; questi suoni hanno bisogno di scure notti e brevi giornate per poter entrare appieno nel cuore di chi vuole “sentire”.

TRACKLIST
1. Breaker of Silence
2. Breaker of Skulls
3. Breaker of Oaths
4. Breaker of Famine

LINE-UP
Lucas Gadke Bass, Vocals
Laura Bates Vocals, Violin, Effects
Jimmy P Lightning Drums, Percussion

VOLUR – Facebook

In Tormentata Quiete – Finestatico

Quella degli In Tormentata Quiete è una magia che si perpetua da diversi anni con una frequenza che egoisticamente vorremmo maggiore ma che, come l’apparizione nella volta celeste di una cometa ad intervalli di decenni, continua a meravigliare ogni volta e, proprio per questo, porta con sé il dono dell’eccezionalità.

Quella degli In Tormentata Quiete è una magia che si perpetua da diversi anni con una frequenza che egoisticamente vorremmo maggiore ma che, come l’apparizione nella volta celeste di una cometa ad intervalli di decenni, continua a meravigliare ogni volta e, proprio per questo, porta con sé il dono dell’eccezionalità.

L’accostamento di un album come Finestatico ad un evento cosmico non è affatto casuale, visto che l’universo e le sue stelle sono protagonisti del racconto messo in musica dalla band, che procede sulla sua personalissima strada con sempre maggior fermezza e chiarezza d’intenti, in virtù di un talento compositivo che nel nostro paese ha ben pochi termini di paragone.
Il tema lirico affrontato dall’ensemble bolognese è affascinante anche grazie allo stratagemma di dar voce ai corpi celesti, attribuendo loro sentimenti umani che affiorano via via tra unioni indissolubili, allontanamenti, moti di orgoglio, sensi di isolamento e di frustrazione.
Tutto questo, poi, trova il suo naturale approdo in un tessuto musicale talmente vario e cangiante da mettere in crisi anche il più tenace e fantasioso dei classificatori: la realtà è che gli In Tormentata Quiete sono portatori di arte musicale con la a maiuscola, che può essere assimilata al metal per qualche retaggio estremo che oggi, tutto sommato è più che altro riscontrabile nello screaming di Marco Vitale, fondamentale nel creare il peculiare intreccio con le due voci pulite, maschile a femminile (rispettivamente affidate a Simone Lanzoni ed Irene Petitto).
L’idea stessa di provare a descrivere, sia pure a grandi linee, i contenuti di Finestatico, mi appare a tratti un esercizio vano se non addirittura un atto di presunzione: come si può raccontare a parole, infatti, quello che invece è un accumulo di emozioni e sentimenti derivanti dall’ascolto di un’opera che si dipana con magica fluidità tra black, death, folk, doom, cantautorato e symphonic metal, senza che nessuna di tali componenti prevalga mai nettamente sull’altra ?
Mi limiterò solo, quindi, a consigliare vivamente a chiunque voglia farsi un’idea dell’ennesimo capolavoro firmato dagli In Tormentata Quiete di guardare ed ascoltare lo splendido video di R136a1, che non è la canzone più bella dell’album semplicemente perché lo sono tutte (anche se è una di quelle che prediligo assieme a Sirio, brano nel quale la componente folk si manifesta in maniera più netta).
Finestatico è un lavoro imprescindibile, offerto da una band unica il cui operato, in un paese normale, dovrebbe essere divulgato nelle scuole, invece di restare confinato ad un ambito underground, comunque mai così vivo e ricco di talenti che attendono solo ‘d’essere portati in superficie da una comunicazione più attenta e da un pubblico meno appiattito sui soliti nomi …

Tracklist:
1. Zero
2. Sole
3. R136a1
4. Eta Carinae
5. Sirio
6. RR Lyrae
7. Demiurgo

Line up:
Irene Petitto: Female Voice
Marco Vitale: Scream
Simone Lanzoni: Clean Vocals
Lorenzo Rinaldi: Guitars
Maurizio D’Apote: Bass
Antonio Ricco: Keyboards
Francesco Paparella: Drums

Special guests:
Clarinet by Irene Panfili
Music on “Demiurgo” by Luca Gherardi

IN TORMENTATA QUIETE – Facebook

Alchimia – Musa

Musa è davvero ispirato da un’entità superiore, e come i processi alchemici prende degli elementi, li distrugge e li fa rinascere attraverso un processo materiale ma soprattutto spirituale, che in questo caso è la fusione di metal e folklore partenopeo.

Alchimia è la nuovo ideazione di Emanuele Tito, già fautore del progetto Shape.

Questo disco è un ponte gettato tra varie forme di metal e la musica mediterranea, ed in particolare quella napoletana. Musa è però molto di più di quanto sopra, ed il valore del disco è davvero alto. La ricerca musicale di Emanuele è molto profonda, parte dal metal usandolo come codice per poter decifrare linguaggi diversi, e riesce ad accomunate una composizione goticheggiante con le peculiarità della musica popolare napoletana. Il disco è figlio della terra in cui ha le radici, ovvero Napoli e la sua provincia, che hanno una musica e tradizioni tutte loro, che si stanno ormai perdendo, ma dischi come questo e quello di Scuorn valgono oro, perché le tradizioni partenopee sono esplosive come la terra sotto i Campi Flegrei, ed attraversano il sottosuolo per arrivare in superficie e palesarsi in diverse forme, come in questo disco. La bravura di Emanuele è molteplice e si dirige in diverse direzioni e Musa è sicuramente parte di un disegno più grande che sta nella sua testa, e che speriamo possa palesarsi nella sua interezza, perché già così è fantastico. Come generi e sottogeneri del metal qui ne abbiamo in abbondanza, dal gothic al doom, ad un incedere death metal, però il sentire è sempre decadente, ben rappresentato dalla copertina, che è un dipinto di Ettore Tito intitolato Le Ondine. Musa appare davvero ispirato da un’entità superiore, e come i processi alchemici prende degli elementi, li distrugge e li fa rinascere attraverso un processo materiale ma soprattutto spirituale, che in questo caso è la fusione di metal e folklore partenopeo, ma come detto sopra l’opera di Emanuele fonde in sé diversi elementi per diventare un qualcosa di sublime e davvero sentito. Dischi come questo fanno sì che il metal si avvicini ad essere un’arte nel senso classico, ovvero nel tradurre in immagini i movimenti dell’esistenza. Un disco dannatamente vicino ad uno splendido cielo pagano.

TRACKLIST
1. Orizzonte
2. Lost
3. Exsurge Et Vive (Alchemical Door)
4. My Own Sea (Fading)
5. Whisper of the Land
6. Waltz of the Sea
7. Leaves
8. Oceano: Tempesta
9. The Fallen One
10. Assenza (Memory)

LINE-UP
Emanuele Tito – songwriting, guitars, vocals
Fabio Fraschini – bass
David Folchitto – drums
Gianluca Divirgilio – ghost ethereal guitars

ALCHIMIA – Facebook

Furious Georgie – Sono Mama!

Si respira a pieni polmoni rock ispirato alla cultura hippy ed agli anni sessanta, con una mistica calata nel mondo Zen al quale il titolo riporta, mentre Trombino magistralmente regala musica da interpretare ognuno secondo la propria sensibilità.

Archiviato il bellissimo album dei deathsters Haemophagus pensavo che per questo 2017 non avrei più incontrato note musicali in arrivo dalla scena palermitana, ma non avevo fatto i conti con Giorgio Trombino, straordinario polistrumentista e compositore, qui nei panni di Furious Georgie, progetto solista di folk psichedelico, rock acustico e beatlesiano ed ennesima sorpresa che questo fantastico musicista riserva ad ogni passo.

Le giornate per Trombino hanno una durata superiore al normale, altrimenti come potrebbe avere il tempo per scrivere suonare e creare così tanta ottima musica?
Ma lasciando da parte complicate spiegazioni sul lavoro del musicista, presentiamo questa nuova veste, almeno per gli amanti dell’hard stoner rock (Sergeant Hamster, Elevators to the Grateful Sky), del funky/jazz ( The Smuggler Brothers) e del metal estremo (Haemophagus, Cavernicular) chiamata Furious Georgie.
Con Sono Mama! (che, in giapponese, significa “proprio così”), il secondo lavoro licenziato con questo monicker, il musicista siciliano dimostra, oltre ad una creatività musicale impressionante per qualità e varietà di stili, di saperci fare con qualsiasi strumento, suonando tutto quanto possa produrre note, magiche, intense, emozionanti.
Ora, non tutti quelli che leggono i miei deliri su MetalEyes sanno della passione che da sempre mi porto per i Beatles, così che da fan e tuttologo dei Fab Four mi viene sicuramente più facile parlarvi di opere come SGT Pepper’s… e Magical Mistery Tour per introdurvi alla musica di Sono Mama!, il tutto ovviamente riveduto e corretto da Furious Georgie, maestro nel saper confondere le idee, ora con accenni al jazz, ora con rintocchi di note progressive ed una solare predisposizione per il rock americano, dalle spiagge della California al deserto della Sky Valley.
Si respira a pieni polmoni rock ispirato alla cultura hippy ed agli anni sessanta, con una mistica calata nel mondo Zen al quale il titolo riporta, mentre Trombino magistralmente regala musica da interpretare ognuno secondo la propria sensibilità: magari ci avvicineremo allo spirito del musicista, magari saremo lontani da tutto ciò, rimane il fatto che come tutte le forme d’arte la musica regala sensazioni diverse ad ognuno di noi, libera di entrare nella nostra mente e nel nostro corpo per donarci emozioni e brividi.
E con Jubilee, Down To The Belice Valley (un passo nel country rock), Love You All The Time e gli altri brani che compongono questo bellissimo lavoro, Giorgio Trombino ci è riuscito ancora una volta.

Tracklist:
1. Jubilee
2. Strange Neighbour
3. Down to the Belice Valley
4. Let Me Sit You Down
5. Love You All the Time
6. Lascio spazio al vuoto
7. Nothing Special at All
8. Shouting in a Desert Street
9. Sono-Mama! 10. Lunar Baby
11. Strange Windy Day
12. What About that Buzz?
13. Dream Matter

Line-up:
Giorgio Trombino – voce, chitarra elettrica e acustica, basso, batteria, pianoforte verticale, synth, sassofono soprano e contralto, lap steel, flauto, mandolino, percussioni

FURIOUS GEORGIE – Facebook

Noêta – Beyond life And Death

Un album che deve essere assimilato nella sua forma di continuo flusso sonoro, capace di colpire e scuotere emotivamente quegli animi che non si sono ancora del tutto assopiti.

Come sempre, dalla scuderia della Prophecy giunge a noi musica mai banale e che, nella maggior parte dei casi, costringe chi vi si approccia ad uno sforzo in più per scongiurare il rischio di non cogliere il valore del contenuto delle diverse proposte della label tedesca.

Confesso che, nel caso del full length d’esordio del duo svedese Noêta, ho faticato più del solito, a causa del sound rarefatto ed essenziale che, soprattutto nella fase iniziale del lavoro, vede in primo piano la voce salmodiante di Êlea stagliarsi su un tappeto ora tenuemente percussivo, ora acustico ma privo di quegli slanci di immediatezza melodica capaci di conquistare al primo ascolto.
Ma la musica dei Noêta è perfettamente allineata alle tematiche tutt’altro che lievi proposte a livello lirico, sicché la ricerca del significato dell’esistenza, la presa di coscienza della sua imperscrutabilità e lo sgomento che ne consegue, divengono un tutt’uno con suoni pervasi da un constante senso di inquietudine.
Folk, dark, ambient vanno a comporre una quadro affascinante, in grado di insinuarsi con inesorabile lentezza tra le pieghe dell’animo, lasciando al termine dell’ascolto un languido senso di vuoto che mette in stand by ogni sensazione, piacevole o dolorosa che sia.
Come si diceva in apertura, la fatica spesa per penetrare nel sound dei Noêta è ampiamente ripagata, specie nella parte centrale di Beyond life And Death, quando è lo struggimento a prendere campo con una coppia di perle musicali quali In Void e Dead Soil, ma è quasi superfluo precisare come l’album debba essere assimilato nella sua forma di continuo flusso sonoro, capace di colpire e scuotere emotivamente quegli spiriti che non si sono ancora del tutto assopiti.

Tracklist:
1.Beyond Life
2.In Drowning
3.Darkest desires
4.Pneuma
5.In Void
6.Dead Soil
7.Beyond Death
8.In Thunder
9.Urkaos

Line up:
Êlea
Ândris

NOÊTA – Facebook

Dyrnwyn – Ad Memoriam

I Dyrnwyn ci trascinano sul campo di battaglia, ci fanno sentire il battito del cuore del legionario che combatte nel fango della foresta di Teutoburgo, ed è un qualcosa di spiazzante, perché si arriva a capire cosa provavano questi romani che combattevano a migliaia di miglia da casa

I romani Dyrnwyn compiono un capolavoro con questo loro ep Ad Memoriam, dopo il demo del 2013 Fatherland.

Nell’ep vengono rievocate solennemente le gesta di Roma e specialmente dell’esercito romano, braccio armato nella conquista di quello che fu l’impero: se non si parla delle sue gesta e della complessità che aveva ci pensano di Dyrnwyn con un disco clamoroso. Il suono è un folk metal che, a seconda della necessità narrativa, diventa folk, nel momento in cui la storia viene cullata sulle ali del ricordo, o metal nel ricordare il ferro delle legioni romane. La commistione dei generi riesce perfettamente e musicalmente le canzoni sono pazzesche, con un perfetto equilibrio di melodia e cattiveria. Riesce anche molto bene il gioco fra voce pulita e voce in growl, il tutto in italiano. Il risultato è un disco che rievoca in maniera potentissima Roma, la sua gloria, e le sue battaglie. Questa rievocazione non è la solita vuota riproposizione di impeto guerresco, ma un’accurata e sentita ricostruzione di ciò che effettivamente fu. I Dyrnwyn ci trascinano sul campo di battaglia, ci fanno sentire il battito del cuore del legionario che combatte nel fango della foresta di Teutoburgo, ed è un qualcosa di spiazzante, perché si arriva a capire cosa provavano questi romani che combattevano a migliaia di miglia da casa, sapendo che molto probabilmente Roma non l’avrebbero mai più rivista. Ad Memoriam mostra chiaramente, usando alla perfezione il linguaggio del folk metal, il motivo di tutto ciò: la gloria imperitura di Roma, questi ragazzi e questi uomini combattevano per una cosa che noi non ci immaginiamo nemmeno, è qualcosa di incomprensibile perché non lo abbiamo dentro. La musica e i testi del gruppo creano un incredibile empatia tra noi ed i soldati, tra noi e la Roma che fu. E questa Roma è necessariamente pagana, come cantano i Dyrnwyn, perché quando muore il paganesimo muore anche l’idea stessa di Roma, e non c’è storico in buona fede che lo possa negare. Questo ep dovrebbe essere fatto sentire nelle scuole, perché ha un valore storico immenso, ed è a dir poco trascinante. Teutoburgo è una canzone che ti fa sentire lì, in quella foresta germanica, dove furono annientate intere legioni e non solo. Per farvi capire come erano i romani, dopo questo delirio di battaglia, combatterono i germani per sette anni, prima di mettere il fiume Reno come confine a nord. I romani erano dei figli di puttana immensi, in questo disco c’è tutta la loro essenza e questo ep entra nel pantheon del folk metal italiano,che sarà anche limitato, però riserva chicche come questa e Ferro Italico dei Draugr, di cui i Dyrnwyn sono giustamente grandi fan e debitori.

TRACKLIST
1.Ad Memoriam
2.Sangue Fraterno
3.Sigillum
4.Tubilustrium
5.Ultima Quiete
6.Teutoburgo

LINE UP
Ivan Cenerini – basso
Alessandro Mancini – chitarra solista
Ivan Coppola – Batteria
Michelangelo Iacovella – tastiera
Daniele Biagiotti – voce

DYRNWYN – Facebook

Ashaena – Calea

Un album di grande sostanza che conferma quanto, in Romania, le varie forme musicali che prendono le mosse da una base black si stiano sviluppando con grande continuità, in diverse direzioni e con esiti sempre stimolanti.

A sette anni di distanza dal full length d’esordio, i rumeni Ashaena ritornano con un nuovo album, Calea, che segue l’omonimo ep uscito nel 2013.

Poca prolificità (visto anche che ben tre dei sette brani contenuti provengono proprio dall’ep) che per fortuna non va di pari passo con la qualità del pagan black offerto dalla band di Cluj, capace invece di modellare con buona padronanza e personalità un genere nel quale il rischio di scadere nella banalità è sempre dietro l’angolo.
Il valore che aggiungono gli Ashaena è il gusto est europeo per sonorità etniche, il che li porta a non aderire eccessivamente allo stile nordico per andarsi ad avvicinare più volte a sentori folk, naturali per chi fa musica nel medesimo paese dei Negură Bunget: lo stesso ricorso alla lingua madre rende più istintivo un accostamento che non si tramuta mai in un atteggiamento passivamente derivativo.
Del resto, sono proprio i momenti in cui Calea si illumina, ammantandosi di un’aura solenne ed ancestrale, a rendere l’album degno della dovuta attenzione, visto che le accelerazioni di matrice black, da sole, non sarebbero in grado di fare la differenza.
Troviamo così il fulcro nell’accoppiata centrale Crapat di Cer e Spirit-Sageata, dove un’aulica coralità si fonde con le asprezze estreme, creando un ibrido magari non inedito ma davvero riuscito e coinvolgente.
Comunque anche i brani più orientati al pagan godono di una buona personalità e di un gusto melodico sempre di prim’ordine, mentre lo strumentale Tara Berladnicolor è folk metal allo stato puro e, nonostante sia decisamente gradevole, risulta l’episodio più ordinario dell’album. Molto belle anche le più datate Zbor Insetat e Mos Urs, tracce che suggellano un album di grande sostanza, a conferma del fatto che, in Romania, le varie forme musicali che prendono le mosse da una base black si stanno sviluppando con grande continuità, in diverse direzioni e con esiti sempre stimolanti.

Tracklist:
1.Tapae 87
2.Calea
3.Tara Berladnicolor
4.Crapat di Cer
5.Spirit-Sageata
6.Zbor Insetat
7.Mos Urs

Line-up:
Cosmin “Hultanu” Duduc – Guitar, Clean Vocals, Aplehorn and Flutes
Alex “Strechia” Duduc – Drums, Percution, Bagpipe
Marius Gabrian – Bass
Alex “Vrancu” Vranceanu – Guitar and vocals

ASHAENA – Facebook

Heather Wasteland – Under The Red Wolfish Moon

Under The Red Wolfish Moon è un’opera che, in certi momenti, si fa notare più per l’originalità ed il coraggio delle scelte che non per la resa effettiva, ma ciò non significa che l’operato degli Heather Wasteland debba essere ignorato o ancor peggio sottovalutato.

Gli ucraini Heather Wasteland erano una delle band incluse nella compilation Mister Folk, della quale abbiamo parlato qualche settimana fa, ed oggi abbiamo l’opportunità di esaminare il loro operato in maniera più ampia, tramite l’ep d’esordio intitolato Under The Red Wolfish Moon.

Va detto subito che il quartetto originario della Crimea è anomalo in tutti i sensi, incluso quello del teorico genere d’appartenenza: basti pensare che la line up consta di un batterista e tre bassisti, rispettivamente alle prese con lo strumento nella versione a 4, 5 e 6 corde; a quest’ultimo è affidato il compito di arricchire il sound creando le parti di tastiera ed archi tramite un pick up collegato ad un guitar-synth della Roland.
Balza subito all’orecchio che la rinuncia a voce e chitarra potrà costituire un problema per la fruizione immediata del lavoro, anche se va detto che i nostri se la cavano davvero bene, sopperendo a queste volontarie lacune con un sound sufficientemente dinamico ed originale.
Più che folk metal, a tratti, gli Heather Wasteland si spingono verso una forma di musica medievaleggiante e barocca che il triplo basso rende assolutamente peculiare (un titolo come Venice – Barocco Veneziano è abbastanza eloquente, in tal senso).
E’ anche vero, d’altra parte, che la durata ridotta agevola la fruizione , che altrimenti alla lunga potrebbe risultare più difficoltosa, ma in ogni caso Under The Red Wolfish Moon si rivela una prova interessante, anche per i numerosi riferimenti storici contenuti nel libretto che, nel rievocare la storia della parte meridionale della Crimea, finiscono peraltro per richiamare alla memoria una parte importante della storia marinara del nostro paese, che vede la mia Genova ritornare ad essere La Superba e non l’attuale vertice smussato di quello che fu il cosiddetto triangolo industriale.
Under The Red Wolfish Moon è un’opera che, in certi momenti, si fa notare più per l’originalità ed il coraggio delle scelte che non per la resa effettiva e dubito che possa soppiantare nelle preferenze degli appassionati gli album di folk metal, per così dire, più tradizionali; ciò non significa che l’operato degli Heather Wasteland debba essere ignorato o ancor peggio sottovalutato, perché questo quattro simpatici ed audaci “cimmeri”, hanno tutte le potenzialità per sorprenderci ulteriormente in futuro, dopo questo già interessante assaggio del loro “heretical folk”.

Tracklist:
I – Tre Sverd
II – Under The Red Wolfish Moon
III – Venice (Barocco Veneziano)
IV – Beltane (Intro) / Wicker Man
V – Under The Red Wolfish Moon (Single Edit)

Line-up:
Anatoliy Polovnikov – drums
Sergey AR Pavlov – 4-string bass
Andrey “SLN” Anikushin – 5-string bass
Alexander Vetrogon – 6-string bass

HEATHER WASTELAND – Facebook

Uktena – Our Path to Trouble

Il tema del lavoro degli Uktena verte su quel senso di libertà e di simbiosi con la natura che ha sempre costituito il modus vivendi degli indiani d’America, prima d’essere oppressi e confinati nelle riserve dall’invasore “pallido”.

Esordio molto interessante per questa band del North Carolina denominata Uktena.

Portatori di un sound decisamente molto psichedelico ma nel contempo anche robusto, questi americani puntano per il loro passo d’avvio su un unico brano di venti minuti, esattamente ciò che serve per rendere poco appetibile il tutto ad ascoltatori pigri o disattenti …
Meglio così, del resto, in tal modo solo i più meritevoli potranno godersi le sonorità di Our Path to Trouble, un lavoro che, alla fine, non è neppure così facile da catalogare, tra sfumature lisergiche, ritmiche prossime al doom e una voce dal taglio quasi punk, anche se i suoi interventi non sono particolarmente frequenti.
L’opera acquista un peso ancor maggiore per la presenza, in diverse parti del lungo brano, di samples riferiti a John Trudell, cantautore, poeta ed attivista che è stato, fino alla sua morte avvenuta circa un anno fa, una vera spina nel fianco nei confronti di intendeva mettere a tacere per sempre la voce dei nativi americani.
Il tema del lavoro degli Uktena, le cui redini sono nelle mani di Nate Hall, verte proprio su quel senso di libertà e di simbiosi con la natura che ha sempre costituito il modus vivendi degli indiani d’America, prima d’essere oppressi e confinati nelle riserve dall’invasore “pallido”.
Our Path to Trouble, così, si snoda in maniera genuina e nemmeno troppo prevedibile, con un mood psichedelico quasi d’altri tempi che, nella parte finale, lascia spazio ad umori folk, il tutto eseguito con un certo slancio dalla band. Peccato per la durata piuttosto limitata, perché ho trovato davvero moto valida questa nuova formazione ed il suo operato, sia dal punto di vista strettamente musicale che concettuale. In attesa di sviluppi futuri, non resta che supportare per ora gli Uktena, il cui esordio peraltro è avvenuto sotto l’egida di un’etichetta italiana, la Hypershape Records.

Tracklist:
1. Our Path to Trouble

Line-up:
Nate Hall – voce, chitarra, mandolino elettrico;
Joe Anderson – basso;
Scott Thomas – batteria;
Ben Brower – chitarra

UKTENA – Facebook

My Silent Land – Life Is War

Life Is War appare peculiare perché fresco, frutto dell’istinto compositivo di chi è piuttosto al di fuori dei circuiti musicali canonici e che, quindi, compone musica per il solo piacere di farlo senza particolari calcoli.

Ecco arrivare, agli ultimi sgoccioli di un 2016 dimenticabile per molti motivi (in campo musicale principalmente per la moria delle icone del rock/metal e non certo per la qualità delle uscite), un lavoro in grado di emozionare e far pensare, semplicemente tramutando in note, senza ricorrere a trucchi od effetti speciali, il sentire del proprio autore, Silvio Spina da Cossoine (Sassari).

Il suo progetto My Silent Land può essere definibile homemade nel senso più reale del termine, e questo rischia di rivelarsi fuorviante, facendo pensare nell’immediato ad un qualcosa di casereccio e poco curato: l’ascolto di Life Is War, prima uscita in cd della one man band dopo un demo risalente a qualche anno fa, ci mette di fronte all’opera di un musicista con le idee chiare sia dal punto di vista compositivo che lirico.
L’album, infatti, è incentrato su un tema spinoso e forse abusato come la guerra, vista però (fortunatamente) per quello che è, ovvero un tragedia per chi ne viene coinvolto in prima persona e, sovente, anche in maniera indiretta, senza scivolare nelle forme di pericolosa fascinazione che l’argomento esercita in diversi ambienti del metal; musicalmente Silvio si muove su territori ambient-folk-post rock, potendo ricordare di tanto in tanto qualche nome noto, come Antimatter nella fase iniziale di The Battle o gli ultimi Anathema in Dark & Light, ma si tratta solo di lampi, di riflessi incondizionati non tanto dell’autore ma più dell’ascoltatore, specie se ha immagazzinato molti anni di musica nella propria memoria.
La verità è che Life Is War appare peculiare perché fresco, frutto dell’istinto compositivo di chi è piuttosto al di fuori dei circuiti musicali canonici (anche se va annotata la partecipazione come bassista, in The Departure, del conterraneo Bloody Hansen, artefice dell’intrigante progetto The Providence) e che, quindi, compone musica per il solo piacere di farlo senza particolari calcoli e senza perdersi nell’attenzione ai particolari sacrificando la sostanza.
Non c’è un solo minuto sprecato in questo bellissimo lavoro, che ci fa immergere in atmosfere più malinconiche che tragiche, nonostante ciò possa apparire stano per un concept imperniato sulla guerra, qui intesa sia dal punto di vista bellico vero e proprio, sia in senso metaforico volendone creare un parallelismo con la vita quotidiana di ognuno di noi.
E’ piacevole perdersi in questa quarantina di minuti condotti per lo più dalla chitarra acustica e dalla voce, a tratti incerta e in tal senso in linea con le tendenze attuali del neofolk, ma sempre capace di trasmettere con efficacia il pensiero dell’autore, all’insegna di una linearità compositiva che va in direzione ostinata e contraria, per risultato e per intenti, rispetto all’esibizione cervellotica di contorsioni musicali atte a nascondere, il più delle volte, degli enormi vuoti di ispirazione.
Semplicità che, ci tengo a ribadire, non deve essere scambiata per banalità: My Silent Land si rivela un progetto comunque curato, nel quale non mancano riferimenti colti alla cinematografia o alla storia moderna, tramite l’ausilio di campionamenti come quelli tratti da Salvate il Soldato Ryan (The Battle) o il discorso di Kennedy sul New World Order (Dark & Light).
New World Order è, appunto, il brano che chiude il lavoro, una bonus track che rappresenta la versione demo di una traccia che confluirà sul prossimo lavoro targato My Silent Land: un assaggio che, visto l’esito oltremodo positivo di Life Is War, eleva non poco le aspettative nei confronti delle future mosse dell’ottimo musicista sardo.

Tracklist:
1. Feel The War
2. The Departure (feat. Bloody Hansen)
3. Marching Over The Silent Land
4. The Battle
5. Collateral Murders
6. Dark & Light
7. Winter’s Night
8. The Last Letter
9. After The War
10. New World Order (Demo Version)

Line-up:
Silvio “Viossy” Spina – voce, chitarre, basso, drum machine, tastiere, synth

MY SILENT LAND – Facebook

Ra Al Dee Experience – Diatessaron

Musica che affonda le radici nella tradizione mediorientale, esprimendosi con arpeggi ossessivi tra i quali solo di rado trovano uno sviluppo prolungato di linee melodiche convenzionali.

Conosciamo Mors Dalos Ra quale frontman degli interessanti tedeschi Necros Christos, band dedita ad un black death intriso di riferimenti all’occultismo ed alla religione; lo ritroviamo oggi, assieme al percussionista Ben Ya Min Al Dee, alle prese con un particolare progetto acustico denominato Ra Al Dee Experience, del quale Diatessaron è il primo parto discografico.

Così come con i Necros Christos, l’approccio alla materia non è affatto diretto né semplice da decrittare, visto che le citate componenti concettuali che vi vengono immesse rendono ancor più ostica una fruizione immediata.
La veste acustica del lavoro non deve ingannare, infatti, sulla sua natura: quanto contenuto in Diatessaron non è il più consueto neo folk, bensì musica che affonda le radici nella tradizione mediorientale, esprimendosi con arpeggi ossessivi tra i quali solo di rado trovano uno sviluppo prolungato di linee melodiche convenzionali. Se vogliamo, fa eccezione l’unico tentativo di forma canzone che corrisponde alla title track, non fosse altro perché si tratta del solo brano in cui appare la voce e, in effetti, fa un certo effetto sentir cantare in tedesco sopra un tessuto sonoro che si ispira a lande ben lontane geograficamente e culturalmente da quelle germaniche.
Indubbiamente, chi apprezza gli album improntati sulla chitarra acustica potrebbe trarre un certo piacere dall’ascolto di Diatesseron, mentre ho qualche dubbio che lo stesso possa accadere per chi segue i Necros Christos, visto che l’unico tratto comune con i Ra Al Dee Experience, oltre alla presenza di Dalos Ra, è quell’impronta spirituale che, ovviamente, qui viene veicolata in maniera ben diversa.
Un lavoro sicuramente interessante ma che temo sia destinato ad essere derubricato alla stregua di un mero sfogo compositivo del suo autore principale, nonostante l’oggettivo valore, un po’ come accaduto in passato per i due “Saurian” di Karl Sanders dei Nile.

Tracklist:
1 Das Aleph, welches der Ewige, gelobet sei Er, am Berge Sinai intonierte
2 Aller Tage enden im Dunkel
3 Moses geht den Exodus
4 :Diatessaron:
5 Steine sprechen in der Ödnis von Sin
6 Das Wasser von Mara

Line-up:
Ben Ya Min Al Dee – Percussion
M. Dalos Ra – Guitars

RA AL DEE EXPERIENCE – Facebook

Negură Bunget – Zi

Zi è un lavoro francamente inattaccabile, sminuito però dal confronto con le uscite passate, non riuscendo ad indurre nell’ascoltatore lo stesso grado di coinvolgimento.

Con Zi i Negură Bunget giungono alla seconda parte della programmata trilogia transilvanica: il precedente Tau aveva evidenziato l’avvio di un progressivo distacco da quelle radici black che avevano accompagnato la band nello scorso decennio e, in buona parte, anche nel primo degli album che vedeva il solo Negru alle redini della band (Virstele Pamintului).

Tale aspetto si accentua ancor più oggi, relegando quasi ad una presenza marginale le pulsioni più estreme: il lavoro sposta la barra in maniera decisa verso il folk, materia che la band rumena ha sempre interpretato in maniera unica; tutto ciò comporta, rispetto al predecessore, una minore fruibilità, visto che la componente etnica qui non viene mai interpretata in maniera giocosa o ritmata, ma esprime un sentire che va a fondere la tradizione popolare con quella spiritualità che, per i Negură Bunget, è sempre stata una componente essenziale.
Rispetto a Tau non si può comunque fare a meno di rimarcare una minore fluidità, derivante soprattutto da un approccio che mette ancor più ai margini la forma canzone, optando per strutture cangianti che tendono ad esaltare gli aspetti più mistici ed evocativi del sound.
Resta il fatto che, per ascoltare oggi un album dei Negură Bunget, bisogna essere dotati di una buona dose di curiosità e di apertura mentale, oltre che di innata passione per sonorità ancestrali che traggono linfa dalle radici popolari: senza dubbio quello della band rumena è un percorso catartico e spirituale che non ha certo quale primo obiettivo quello di rilasciare musica accattivante e banale e, proprio per questo, Zi è un album che cresce sicuramente dopo molti ascolti, rivelandosi per quello che è, ovvero un buonissimo lavoro che si attesta comunque leggermente sotto a Tau.
Segnalando come episodi migliori i due centrali, Brazdă dă foc e Baciul Moșneag, appunto quelli in cui le due anime della band paiono convivere in maniera più equilibrata, non disdegnando neppure aperture melodiche più canoniche come il bellissimo assolo di chitarra nel finale della seconda delle due tracce, non si può fare a meno di notare come la tensione emotiva, che in Tau non veniva mai meno, qui si manifesta in maniera molto altalenante, compressa da un’attenzione per la forma che talvolta finisce per sacrificare la sostanza.
I Negură Bunget esibiscono così con maestria il loro inimitabile brand ed è innegabile che, preso singolarmente, Zi sia un lavoro francamente inattaccabile, sminuito però dal confronto con le uscite passate, non riuscendo ad indurre nell’ascoltatore lo stesso grado di coinvolgimento.
Un piccolo passo indietro che non inficia in alcun modo il meritato status di culto acquisito dalla band rumena, autrice di una delle espressioni artistiche più peculiari in ambito metal, e non solo.

Tracklist:
1. Tul-ni-că-rînd
2. Grădina stelelor
3. Brazdă dă foc
4. Baciul Moșneag
5. Stanciu Gruiul
6. Marea Cea Mare

Line-up:
Negru – Dulcimer, Tulnic, Toacă, Xylophone (2002-present)
Ovidiu Corodan – Bass
Petrică Ionuţescu – Flute, Nai, Kaval, Tulnic
Adi “OQ” Neagoe – Guitars, Vocals, Keyboards
Vartan Garabedian – Percussion, Vocals
Tibor Kati – Vocals, Guitars, Keyboards, Programing

NEGURA BUNGET – Facebook

Crystalmoors – The Mountain Will Forgive Us

I Crystalmoors hanno voluto offrire qualcosa in più rispetto ad un buonissimo e classico album, inserendo un secondo cd contenete le versioni folk di brani nuovi e vecchi

Non è così scontato imbattersi in band capaci di rendere in maniera così fluida e credibile la fusione tra la materia metal e quella folk: i cantabrici Crystalmoors ci riescono brillantemente con questo loro terzo full length intitolato The Mountain Will Forgive Us.

La band ha una genesi risalente ancora al secolo scorso ma il primo album su lunga distanza ha visto la luce nel 2008; a cinque anni dal precedente Circle of the Five Serpents, il gruppo di Santander presenta la propria personale interpretazione del pagan black metal che risulta avvincente ed accattivante, grazie alla dote non comune di costruire brani piuttosto aspri ma contenenti quelle linee melodiche che rimandano con decisione alla tradizione della musica popolare.
Non va dimenticato neppure che in questa occasione i Crystalmoors hanno voluto offrire qualcosa in più rispetto ad un buonissimo e classico album, inserendo un secondo cd contenete le versioni folk (ovvero scremate dalle loro componente metallica) di brani nuovi e vecchi; difficile quindi che gli appassionati al genere non possano apprezzare una simile scelta, in grado di accontentare tutti, al di là delle singole propensioni verso l’uno o l’altro genere.
La prima parte, intitolata The Sap That Feed Us, è fatta di nove brani di buona fattura, intensi e piuttosto diretti, tra i quali spicca l’anthemica Over The Same Land, tipica canzone capace di trascinare il pubblico in sede live, ma ottime sono anche Devotio Iberica e la più complessa When The Caves Spoke.
Il secondo cd, intitolato La Montaña, mostra il lato folk della band spagnola che, nonostante il ricorso a strumenti per lo più acustici, non rinuncia alle harsh vocals di Uruksoth Lavín, il che stende sul sound una patina ugualmente oscura, così come avviene nel cd, per così dire, più canonico. Nello specifico, come detto, vengono riproposte versioni di brani del passato, oltre ad una Over The Same Land sempre efficace anche nella sua nuova veste, tra le quali brilla di luce particolare la terna finale Greyland Lábaro, Crown of Wolves e Nabia Orebia.
Insomma, The Mountain Will Forgive Us si rivela un lavoro esaustivo e completo che, da un lato, rafforza lo status già soddisfacente raggiunto dai Crystalmoors con le precedenti opere, e dall’ altro ne fa emergere le doti di band capace di manipolare con disinvoltura la materia pagan folk black.

Tracklist:
CD 1: ‘The Mountain Will Forgive Us’
1. Memories
2. Devotio Ibérica
3. Over The Same Land
4. The Mountain
5. A Last Breath Of Peace
6. The Oldest One
7. The Eye Of The Tyrant
8. When The Caves Spoke
9. A Man Under Wolfskin

CD2: La Montaña
10. Over The Same Land (folk version)
11. The Mountain (folk version)
12. Defendiendo Amaia (folk version)
13. Since Old Times (folk version)
14. The Mountain Will Forgive Us (folk version)
15. Greyland Lábaro (folk version)
16. Crown of Wolves (folk version)
17. Nabia Orebia (folk version)

Line-up:
Uruksoth Lavín: vocals
Faramir: guitars, whistle, melodic vocals, bagpipes
Abathor: guitars, chorus
Thorgen: fretless bass, melodic vocals, chorus
Aernus: keyboards & samples, whistle, chorus
Gharador: drums & percussion

CRYSTLAMOORS – Facebook

Opeth – Sorceress

Se gli Opeth dell’era metal hanno dimostrato negli anni ’90 (e inizio dei 2000) di poter essere originali, altrettanto non sta avvenendo con il nuovo corso musicale intrapreso.

Ho un ricordo ancora vivido del mio ultimo concerto degli Opeth al Gods of Metal 2012.

E ricordo simpaticamente l’umorismo di Mr. Åkerfeldt che, tra una battuta e l’altra su Eros Ramazzotti, ci comunicava che per la sua band l’heavy metal è stato caratterizzato dalla fase giovanile, ma era giunto il momento di crescere. L’inquieta band svedese che tanto ha dato al death metal nei primi anni ’90, ha praticamente abbandonato quasi tutti i legami con il metallo preferendo sonorità vicine al rock e prog rock anni ‘70. Se la strada intrapresa sia una reale crescita è argomento (sterile) ormai discusso largamente. Non ci resta che lasciare da parte la nostalgia e ascoltare i nuovi Opeth liberandoci dal passato per almeno 50 minuti. Persephone è una intro di chitarra acustica toccante, ma subito arriva la trama di Sorceress, intessuta da un organo e basso prima (chi conosce gli Area?), poi da un bel riff di chitarra pesante e oscuro: la natura prog-rock della traccia si avverte più dai suoni che non dalla composizione in sé, il pezzo è tutto sommato immediato e accessibile. Più banale The Wilde Flowers, che rivela un mood prog più tradizionale, anche se l’assolo e il finale sono pregevoli. Il gradevole folk acustico e tranquillo di Will O The Wisp, poi attacco hard per Chrysalis, che frulla insieme Ghost e Deep Purple, senz’altro tra gli highlights dell’album. Sorceress 2 potrebbe stare su Led Zeppelin III, mentre  The Seventh Sojourn sembra balzata fuori da Kashmir. L’abbiocco sembra inevitabile finché Strange Brew non esplode al minuto 2 in un riff spaziale di grande prog che, solo per un istante, mi dà l’illusione di trovarmi in un pezzo degli immensi Spiral Architect. Il brano impegna i nostri in un entra-esci da Hendrix ai Beatles e dalle ultime release Opeth. Non si decolla ancora, purtroppo. In  A Fleeting Glance si riaffacciano ancora i Beatles e di tanto in tanto un riffettino o un assolo di chitarra provano a elettrizzare l’andazzo sonnolento. Con Era sembrano voler spezzare il torpore incombente e il brano, pur non così originale, chiude in (parziale) bellezza. Gli Opeth non mi hanno stregato con il loro prog rock, devono ancora lavorare sodo per amalgamare e soprattutto valorizzare al meglio tutte le loro innegabili influenze e quindi trovare una nuova identità. Se gli Opeth dell’era metal hanno dimostrato negli anni ’90 (e inizio dei 2000) di poter essere originali, altrettanto non sta avvenendo con il nuovo corso musicale intrapreso. Previsione personalissima: o torneranno in qualche modo a quello che sanno fare meglio (il metallo) o rischieranno l’oblio.
P.S. Il mio voto è beneaugurante …

TRACKLIST
01. Persephone
02. Sorceress
03. The Wilde Flowers
04. Will O The Wisp
05. Chrysalis
06. Sorceress 2
07. The Seventh Sojourn
08. Strange Brew
09. A Fleeting Glance
10. Era
11. Persephone (Slight Return)

LINE-UP
Mikael Åkerfeldt – Vocals, Guitar
Joakim Svalberg – Keys, Vocals
Fredrik Åkesson – Guitar,Vocals
Martin Mendez – Bass Guitar
Martin Axenrot – Drums

OPETH – Facebook

Rudra – Enemy Of Duality

Un lavoro dallo spessore qualitativo monumentale che dovrebbe indurre ogni appassionato a guardare con occhio molto più attento, e sicuramente meno scettico, verso il metal proveniente dai paesi del sudest asiatico.

Grazie al lavoro dell’instancabile Kunal Choksi e della sua Transcending Obscurity, in questi ultimi anni si è squarciato il velo che teneva in qualche modo nascosto il movimento metal del sudest asiatico, rivelando al mondo l’esistenza di band che dimostrano un’urgenza compositiva ed una freschezza spesso sconosciuta a quelle provenienti dai continenti ove, tradizionalmente, il genere ha sempre avuto la sua dimora.

Quindi può capitare persino che una band come i singaporiani Rudra appaia come una sorta di novità quando, in realtà, la sua genesi risale a circa un ventennio fa e la sua discografia è costellata di una serie di album di livello eccezionale.
Enemy Of Duality è addirittura l’ottavo full length (ma il primo per la label indiana) del gruppo che prende il suo nome dal pantheon vedico: è curioso, ma non del tutto sorprendente, il fatto che nella stessa scuderia stia chi avversa la religione (soprattutto quella induista) in ogni sua forma (Heathen Beast) e chi, al contrario, erge il proprio Vedic Metal come vessillo (Rudra).
Ma in fondo, a ben vedere, trattasi solo di facce diverse della stessa medaglia, in quanto entrambe le band utilizzano una forma di metal estremo, resa in maniera entusiasmante e contaminata fortemente dalla musica tradizionale della loro area geografica, per veicolare la propria personale visione sociale e filosofica.
Parlando dei Rudra, si capisce subito d’essere al cospetto di un combo composto da musicisti esperti e dotati di una tecnica ben superiore alla media, il che consente loro di districarsi mirabilmente tra sfuriate di stampo black death e sonorità etniche, per lo più inserite all’interno delle intricate partiture estreme e non un corpo estraneo ad esse .
Un tentacolare Shiva alla batteria (sopraffino quando maneggia le percussioni etniche) è l’autentico motore che rende inarrestabile la marcia dei Rudra: otto brani in cui l’intensità pare non calare mai, anzi semmai la sensazione è quella di un costante crescendo visto che la traccia migliore, a mio avviso, è addirittura quella conclusiva, una Ancient Fourth che si rivela quale ideale chiave di lettura del modus operandi perseguito in Enemy Of Duality.
Un lavoro dallo spessore qualitativo monumentale che dovrebbe indurre ogni appassionato a guardare con occhio molto più attento, e sicuramente meno scettico, verso il metal proveniente dall’India e dai paesi del sudest asiatico.

Tracklist:
1. Abating the Firebrand
2. Slay the Demons of Duality
3. Perception Apparent
4. Acosmic Self
5. Root of Misapprehension
6. Seer of All
7. Hermit in Nididhyasana
8. Ancient Fourth

Line-up:
Shiva – Drums
Kathir – Vocals, Bass
Vinod – Guitars
Simon – Guitars

RUDRA – Facebook

Khepra – Cosmology Divine

Cosmology Divine è un’opera da non perdersi per alcun motivo, specialmente se si apprezza il symphonic death con sfumature folk orientali

Esordiscono per Rain Without End i turchi Khepra, intrigante realtà in grado di fondere umori mediterranei e mediorientali con il death sinfonico.

In effetti, i nostri fino a qualche tempo fa si chiamavano Gürz ed erano dediti ad una più canonica forma di folk metal: il salto di qualità stilistico li porta oggi scendere su un ipotetico stesso terreno degli attuali Septicflesh, ma questa è un’indicazione di massima, visto che in Cosmology Divine vi sono anche altre nobili sfumature.
Indubbiamente il trio di Istanbul prende ispirazione dal sound proveniente dalle sponde opposte dell’Egeo (Septicflesh, come detto, e Rotting Christ) ma anche da quelle del Mediterraneo sudorientale (Orphaned Land), innestandovi mirabilmente la proprie radici folk: il risultato è convincente sia quando attinge in maniera piuttosto scoperta all’operato della band dei fratelli Antoniou (We Are Descending, Obsession of the Mad, l’elaborata Cosmology Divine) sia quando spingono maggiormente sul versante black death (Ara Hasis, la magnifica Enki, Evil Incarnate).
L’interpretazione vocale di Dou Kalender è efferata il giusto e viene accompagnata da una prova di grande qualità da parte di una band di indiscusso spessore; non deve sminuirne l’operato, d’altro canto, il fatto che la commistione tra metal estremo, pulsioni sinfoniche e folklore mediorientale sia già stata introdotta in precedenza da altri: il sound dei Khepra è sufficientemente personale e ricco di inventiva e, tutto sommato, sembra a tratti persino più ispirato rispetto alle ultime uscite delle citate band di riferimento.
In buona sostanza, Cosmology Divine è un’opera da non perdersi per alcun motivo, specialmente se si apprezzano di base queste particolari sonorità.

Tracklist:
1. Atra Hasis
2. Enki (Diaries of a Forgotten God)
3. Desolation
4. We are Descending
5. Obsession of the Mad
6. Steps of Immortality
7. Evil Incarnate
8. Into the Cosmic Disharmony
9. Cosmology Divine
10. Through the Cosmic Web of Voids

Line-up:
Kenan Turandar – Bass
Dou Kalender – Vocals, Guitars
Tolga Köker – Guitars
Erce Arslan – Drums

KHEPRA – Facebook

Völur – Disir

I non pochi estimatori dei Blood Ceremony e del sentire musicale che essi rappresentano non potranno che apprezzare l’operato dei Völur, brillanti nell’evocare sensazioni ancestrali con questa riuscita miscela di folk, ambient, doom e progressive.

Da una costola dei Blood Ceremony nasce questo interessante progetto denominato Völur.

Lucas Gadke, bassista della nota occult doom band canadese, si avvale dell’aiuto del batterista James Payment e soprattutto della violinista e vocalist Laura Bates, la quale si dimostra elemento decisivo nel conferire peculiarità al lavoro.
L’uscita di Disir, in effetti, risale a poco più di due anni fa in formato cassetta: la sempre attenta Prophecy ripropone il tutto nelle più canoniche versioni in cd e vinile migliorandone nel contempo la reperibilità, specie sul più ricettivo suolo europeo.
I quattro lunghi brani qui contenuti prendono le mosse dal doom per spingersi verso ambiti e sfumature variegate: con il violino a sostituire di fatto la chitarra, il sound dei Völur assume caratteristiche non prive di un certo fascino, andando ad evocare di volta in volta sensazioni oscillanti dalla Mahavishnu Orchestra ai King Crimson con David Cross in formazione, fino a spingersi ai riflessi morriconiani della soffusa White Phantom.
Disir non è un album semplicissimo da assimilare, non tanto per una sua relativa orecchiabilità quanto per il suo andarsi a collocare in un ambito dai confini indefiniti e, quindi, non rivolto ad una specifica fascia di ascoltatori.
Immagino, però, che i non pochi estimatori dei Blood Ceremony e del sentire musicale che essi rappresentano, non potranno che apprezzare l’operato dei Völur, brillanti nell’evocare sensazioni ancestrali con questa riuscita miscela di folk, ambient, doom e progressive.

Tracklist:
1. Es wächst aus seinem Grab
2. The Deep-Minded
3. White Phantom
4. Heiemo

Line-up:
Lucas Gadke – Electric bass, double bass & vocals
Laura C. Bates – Violin & vocals
James Payment – Drums

Völur – Facebook

Briargh – Eboros

Il progetto Briargh è una limpida fonte di black metal e pagan, suonato con stile old school, forte e deciso che regala forti emozioni ad ascoltatori che cercano un certo tipo di emozioni.

Progetto personale di Erun, ex dei Crystal Moors, che con questo disco arriva alla tetrza uscita, proseguendo un discorso di recupero attraverso il black, il pagan ed il folk, delle radici celtiche della Cantabria, gran bella terra della penisola iberica.

Il progetto Briargh è una limpida fonte di black metal e pagan, suonato con stile old school, forte e deciso che regala forti emozioni ad ascoltatori che cercano un certo tipo di emozioni. Il disco non vive mai momenti di calma, o peggio, di noia. Moltissimi sono i riferimenti a gruppi o solisti del passato metal, poiché Erun aka Briargh ha solide fondamenta nella nera arte del metal. Dentro Eboros vi sono amore per la propria terra, ricerca di un essere diverso dalla attuale omologazione e soprattutto ottima musica. Vi è sempre una certa tensione, un continuo volo d’aquila su terre ancora invitte, in un tempo ed in una dimensione che non sono la nostra. Notevolissimo.

TRACKLIST
1.El Llanto del Bosque
2.Silom Sego
3.Sword of Woe
4.Dubos Etenos
5.Sun of the Dead
6.El Canto de las Anjanas (Pt II)
7.El Nubero de Samhain
8.Eboros – Epitome of Death

LINE-UP
Erun

MORBID SHRINE – Facebook

Wöljager – Van’t Liewen Un Stiäwen

Un capolavoro in grado rendersi appetibile anche a chi, pur non frequentando in maniera assidua questo genere, sia in grado di assimilare le emozioni offerte da una musica solo apparentemente semplice ma che arriva dritta al cuore, trovandovi una sua stabile dimora.

Marcel Dreckmann è un musicista tedesco che i più attenti identificheranno nello Skald Draugir degli Helrunar e nel Marsél degli Árstíðir Lífsins, due band autrici di una musica estrema obliqua e colta che, solo per comodità, sono sempre state inserite nel calderone black metal.

Non stupisce più di tanto, quindi, il fatto che Dreckmann avesse già da tempo in canna questo colpo magnifico, sotto forma di un’opera di matrice folk che avrebbe dovuto costituire, peraltro, il supporto musicale di una rappresentazione teatrale.
Come spesso accade in situazioni analoghe, la trasposizione scenica non è mai stata realizzata e così il musicista tedesco ha pensato giustamente di pubblicare il tutto in formato audio con il monicker Wöljager, e menomale, aggiungerei, perché un lavoro di tale spessore qualitativo non poteva certo essere lasciato a languire in attesa di tempi migliori.
Con l’aiuto dei due compagni d’avventura negli Árstíðir Lífsins, il connazionale Stefan Drechsler e l’islandese Árni Bergur, Marcel sciorina una prova maiuscola esibendo il lato più cupo e meditabondo del folk e, a rendere ancor più particolare e degna di attenzione la proposta, a livello lirico viene utilizzato il Münsteran Platt, ovvero il dialetto basso tedesco parlato ancora in alcune regioni del nord ovest della Germania e che, come si può notare, ha non poche similitudini anche con l’idioma dei vicini Paesi Bassi.
Insomma, non sono pochi i motivi di interesse che l’ascoltatore può rinvenire in Van’t Liewen Un Stiäwen, ma ovviamente il principale è il contenuto musicale, fatto di un folk altamente evocativo nel quale vengono banditi del tutto i toni caciaroni a favore di un mood tra il drammatico ed il malinconico che sovente induce alla commozione: difficile che gli occhi non si inumidiscano di fronte a gioielli intrisi di aulico splendore come la title track, Summer e Vettainachtain, o ancora una Üöwer de Heide in odore del Nick Cave più intimista.
Le uniche concessioni ad una musica popolare dall’andamento relativamente più allegro sono la trascinante Kuem to Mi e Junge Dään, non a caso collocate l’una dopo l’altra nella parte centrale del disco, quasi a costituire una parentesi di leggerezza all’interno di un mood complessivo che lascia ben poco spazio alla gioia e all’ottimismo.
Qui ci troviamo di fronte a musicisti di statura superiore alla media e la produzione cristallina restituisce alla perfezione le minime sfumature, esaltando all’ennesima potenza ogni singolo arpeggio chitarristico della coppia Drechsler – Bergur, le carezze degli archi suonati magistralmente da quest’ultimo e il timbro caldo e profondo della voce di Dreckmann.
Uno degli intenti dichiarati di Marcel era quello di dimostrare che un dialetto come quello basso tedesco non deve essere necessariamente associato all’immaginario del folklore da sagra paesana, ma che, invece, può costituire tranquillamente la base linguistica per opere di elevato spessore artistico e dagli umori plumbei come quella rappresentata da Van’t Liewen Un Stiäwen.
La missione è stata compiuta, forse andando anche oltre le iniziali previsioni, perché non esito a definire questo disco un autentico capolavoro in grado rendersi appetibile anche a chi, pur non frequentando in maniera assidua questo genere, sia in grado di assimilare le emozioni offerte da una musica solo apparentemente semplice ma che arriva dritta al cuore, trovandovi una sua stabile dimora.

Tracklist:
1.Vüörgeschicht
2.Van’t Liewen un Stiäwen
3.Swatte Äer
4.Summer
5.Magdalene
6.Kuem to mi
7.Junge Dään
8.Üöwer de Heide
9.Up’n Likwäg
10.Deaolle Schwatters föert to’n Deibel
11.Vettainachtain
12.Dat Glas löp rask
13.Aomdniewel

Line-up:
Marcel Dreckmann – Vocals, Lyrics, Compositions
Stefan Drechsler – Acoustic Guitars
Árni Bergur Zoega – Acoustic Guitars, Viola, String arrangements

Wöljager – Facebook