Luna – There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask

L’Ep scorre in maniera oltremodo piacevole, collocando Luna tra i prospetti da tenere sotto stretta osservazione nel prossimo futuro

Ritroviamo, dopo circa sei mesi, questo progetto solista del musicista ucraino DeMort sotto forma di un breve Ep che su rivela, però, piuttosto interessante per diversi motivi.

Dall’ascolto di “Ashes to Ashes”, album uscito lo scorso anno sempre per la Solitude, era rimasta l’eredità delle pesanti influenze di band come Ea e Monolithe, benché di per sé ciò non debba essere considerato in assoluto un male ed il lavoro non fosse affatto disprezzabile: l’adesione a quei modelli appariva però eccessiva, e la presenza saltuaria di buoni spunti melodici non giustificava del tutto la totale rinuncia ad un proprio tratto personale; nei due brani pubblicati in questa occasione, DeMort pare invece essersi svincolato in buona parte da tali spunti stilistici, approdando ad una forma di doom atmosferico dai tratti meno funerei e dalle ampie aperture melodiche, non prive peraltro di una certa solennità.
There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask scorre pertanto in maniera oltremodo piacevole, collocando Luna tra i prospetti da tenere sotto stretta osservazione nel prossimo futuro.
Meno di un quarto d’ora di musica, ma ben focalizzata ed altrettanto ottimamente eseguita, costituisce infatti il viatico ideale per un prossimo full length che potrebbe garantire l’auspicabile salto di qualità alla one man band ucraina.
Resto, come sempre, lievemente perplesso al cospetto di proposte dal formato interamente strumentale (il ricorso ad un buon growl costituirebbe un valore aggiunto non da poco) ma, indubbiamente, questa è una prova che merita la dovuta attenzione ed un doveroso ascolto da parte degli appassionati alla ricerca di nomi nuovi.

Tracklist:
1. In a Silver Velvet of the Moon
2. There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask

Line-up:
DeMort – All Instruments

Woebegone Obscured – Deathscape MMXIV

Una prova interessante, nel suo complesso, che pone le basi per un’ulteriore progressione della band danese.

I danesi Woebegone Obscured, dopo due full length, l’ultimo dei quali risalente al 2013 (“Marrow Of Dreams”), si rifanno vivi con questo Ep uscito il mese scorso.

La band nordica è dedita ad un funeral-death doom piuttosto cangiante per gli standard del genere, visto che le consuete partiture plumbee sono spesso alternate ad ariose aperture melodica con tanto di clean vocals: nel precedente album questa soluzione si rivelava sicuramente interessante ma la sensazione era che le varie componenti risultassero ancora piuttosto slegate tra loro.
Vanno senza’altro meglio le cose in Deathscape MMXIV, dove, oltre a due cover, ci vengono proposti circa 25 minuti di musica inedita, tra i quali spiccano la title track, ottimo brano che spiega più di tante parole quale sia il modus operandi degli Woebegone Obscured (un inizio canonico a ritmi lentissimi che si stempera in un intermezzo acustico propedeutico all’ingresso di una stentorea voce pulita), e la bellissima e soave While Dreaming in the Ethereal Garden, traccia che pare uscita da un album della 4AD degli anni ’90.
In mezzo, Catharsis of the Vessel si rivela un episodio leggermente più cervellotico, per quanto non privo di spunti interessanti che mi hanno riportato alla mente una misconosciuta quanto valida band di due decenni fa quali furono i tedeschi Dark Millennium.
L’Ep si chiude con due cover piuttosto impegnative, visti i nomi che sono chiamati in causa, e bisogna dire che i danesi se la cavano bene in entrambe le occasioni, pur dovendo affrontare due stili diametralmente opposti: sia la bathoriana Call From The Grave, sia soprattutto Xavier, una delle canzoni in assoluto più belle (per chi scrive) tra le tante composte dai Dead Can Dance, vengono rese in maniera piuttosto fedele per quanto adeguatamente “doomizzate”.
In fondo, la contrapposizione tra questi due brani è un po’ la fotografia del sound degli Woebegone Obscured, i quali cercano lodevolmente di far convivere queste loro diverse pulsioni riuscendoci tutto sommato abbastanza bene; inoltre depone certamente a loro favore il fatto che, rispetto al precedente album, sia decisamente migliorata la qualità delle clean vocals e sia stato fatto un notevole passo in avanti anche per quanto riguarda la produzione.
Una prova interessante, nel suo complesso, che pone le basi per un’ulteriore progressione della band danese.

Tracklist:
1. Deathscape MMXIV
2. Catharsis of the Vessel
3. While Dreaming in the Ethereal Garden
4. Call from the Grave (Bathory cover)
5. Xavier (Dead Can Dance cover)

Line-up:
D. Woe – Drums, Keyboards, Vocals
Q. Woe – Guitars, Keyboard, add. Vocals
M. Woe – Guitars
Andreas Tagmose Grønkjær – Fretless Bass, Cello

WOEBEGONE OBSCURED – Facebook

Who Dies In SIberian Slush / My Shameful – The Symmetry Of Grief

Un ottimo split album che conferma lo status raggiunto dai My Shameful e che, invece, fa presagire qualcosa di molto interessante per il futuro in casa degli Who Dies In Siberian Slush

Altro split album  dai tratti funerei, questa volta ad opera della label moscovita MFL Records che propone la band di “casa”, Who Dies In SIberian Slush, in coppia con i finlandesi My Shameful.

Come sta accadendo da diverso tempo, le uscite in questo formato si stanno rivelando prodighe di ottima musica, mostrando per di più sfumature diverse di uno stesso genere musicale grazie alla diversa interpretazione delle band coinvolte.
L’apertura è affidata ad uno dei nomi storici del doom estremo nell’area ex-sovietica, gli Who Dies In Siberian Slush di Evander Sinque che, come da loro abitudine, propongono un funeral-death che non punta tutto sulle atmosfere bensì su un impatto più disturbante, con il suo andamento sghembo sempre in bilico tra il drammatico ed il dissacrante; meglio di altre volte, i moscoviti esprimono questo mood peculiare, particolarmente nell’ottima The Tomb of Kustodiev, dove passaggi ultrarallentati vengono rimarcati dall’uso di un trombone: non è difficile, chiudendo gli occhi, associare questo sound alle immagini di una banda che, con passo incerto accompagna il defunto verso la sua ultima e definitiva dimora. Se vogliamo, lo stile degli Who Dies In Siberian Slush mostra sovente tratti più grotteschi che non drammatici, ed è senz’altro un modo diverso dal solito di fronteggiare il dolore della perdita o l’approssimarsi della fine, forse meno evocativo nell’immediato ma ugualmente di grande interesse, come rimarcato anche dall’altro brano affidato alla band russa, And It Will Pass.
La seconda metà dello split è affidata ai My Shameful di Sami Rautio, che si ripongono a breve distanza dall’uscita del ottimo “Hollow”: i due brani presenti, per forza di cose, mostrano una certa contiguità rispetto a quanto mostrato nel full-length, ribadendone la bontà e rafforzando l’idea di una raggiunta focalizzazione dello stile da parte della band finlandese, che oggi pare aver trovato brillantemente il giusto equilibrio tra la ruvidezza della base death ed il malinconico incedere del doom.
The Land of the Living possiede le stimmate del miglior funeral, mentre Downwards mostra tratti più melodici, rivestita com’è di una certa patina gotica: senza dubbio due brani eccellenti, che fugano così il dubbio che in questo split i My Shameful potessero riversare degli “scarti” di “Hollow”.
E’ possibile invece che questi brani siano stati sacrificati in quel frangente per non appesantire oltre un album piuttosto lungo, il che dimostra comunque l’elevata qualità media delle composizioni di una band piuttosto prolifica rispetto alle abitudini di chi si cimenta con il genere.
Un ottimo split album che conferma lo status raggiunto dai My Shameful e che, invece, fa presagire qualcosa di molto interessante per il futuro in casa degli Who Dies In Siberian Slush, alla luce anche del recente splendido lavoro degli Unmercenaries (che ha visto protagonisti Gungrind ed Evander Sinque, oltre a Jürgen Frohling degli Stessi My Shameful, a ribadire lo stretto legame che intercorre tra le due band).

Tracklist:
1. Who Dies in Siberian Slush – The Tomb of Kustodiev
2. Who Dies in Siberian Slush – And It Will Pass
3. My Shameful – The Land of the Living
4. My Shameful – Downwards

Line-up:
Who Dies in Siberian Slush
Gungrind – Guitars (rhythm)
A.Z. – Flute
Alexey Kraev – Bass
A.S. – Drums
Flint – Guitars (lead)
E.S. – Guitars, Vocals
L.K. – Keyboards, trombone

My Shameful
Twist – Bass
Jürgen Frohling – Drums
Sami Rautio – Vocals, Guitars, Keyboards

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

MY SHAMEFUL – Facebook

MFL RECORDS – Facebook

Lachrimatory – Transient

“Transient” offre oltre un’ora di funeral-death doom di grande qualità, con una produzione magari perfettibile ma tutto sommato accettabile e, soprattutto, ricco di grande pathos.

Transient è l’album d’esordio della band brasiliana Lachrimatory, pubblicato come autoproduzione nel 2011 e riedito quest’anno dalla sempre attenta label russa Solitude Productions.

Non sempre le riedizioni di album usciti diversi anni prima si rivelano operazioni necessarie o comunque stuzzicanti ma, in questo caso, basta ascoltare i primi due-tre brani del lavoro composto dal gruppo di Curitiba per renderci conto che un simile gioiellino merita d’essere riproposto, visto che ai più (compreso il sottoscritto) probabilmente all’epoca della sua prima pubblicazione era sfuggito.
Transient offre oltre un’ora di funeral-death doom di grande qualità, con una produzione magari perfettibile ma tutto sommato accettabile e, soprattutto, ricco di grande pathos: i Lachrimatory, del resto, non sono dei neofiti del genere, infatti i loro primi passi risalgono addirittura al 1999, ma prima di dare alle stampe un full-length hanno voluto a tutti i costi avere per le mani del materiale all’altezza, riuscendo senz’altro in questo intento.
Peraltro, pur facendo propri gli insegnamenti delle band più note in tale ambito, alla fine il sound dei brasiliani non appare neppure particolarmente derivativo, finendo per non assomigliare a qualcuno in particolare; l’uso del violoncello, che sovente va a sostituire la chitarra nelle parti soliste (vedi lo splendido finale di Void), offre una connotazione particolare alle composizioni, che durano mediamente una decina di minuti e che vivono su atmosfere malinconiche, nelle quali la parte del leone la fa indubbiamente Ávila Schultz, vocalist e tastierista.
Transient ha forse il solo difetto d’essere un po’ sbilanciato a livello di scaletta, per cui i primi tre brani Seclusion, Lachrimatory e Twilight, appaiono molto più efficaci ed evocativi rispetto alle successive Clarity e Deluge, mentre Void, come detto, vede i suoi momenti miglior nella parte conclusiva.
L’impressione (e auspicio) è che questa band, ottenuta una certa visibilità grazie alla riedizione di questo ottimo album, possa trovare il giusto impulso per proporre nel prossimo futuro qualcosa di ancor più convincente.

Tracklist:
1. Seclusion
2. Lachrimatory
3. Twilight
4. Clarity
5. Deluge
6. Void

Line-up:
Tiago Alvarez – Guitars, Vocals (backing)
Ávila Schultz – Vocals, Keyboards
Paulo Kolb – Drums
Maiko Thomé – Cello
Alexandre Antunes – Guitars, Vocals (backing)
Wagner Müller – Bass

LACHRIMATORY – Facebook

Unmercenaries – Fallen In Disbelief

“Fallen In Disbelief”, esordio degli Unmercenaries, si rivela in extremis una delle migliori uscita dell’anno in ambito doom.

Fallen In Disbelief, esordio degli Unmercenaries, si rivela in extremis la migliore uscita dell’anno nell’ambito del doom russo, una scena , questa, che ci aveva abituati molto bene negli anni passati ma che, nel 2014, non ha offerto stranamente lavori sopra la media, almeno nei suoi versanti più estremi quali funeral e death doom.

Gli Unmercenaries non sono certo degli sconosciuti, infatti trattasi di un progetto voluto da Gungrind, chitarrista degli Who Dies In Siberian Slush, il quale, ovviamente, alla voce non poteva che avvalersi di Evander Sinque, frontman di quell’ottima band nonché anima della MFL Records, la label moscovita (MFL è l’acronimo di Moscow Funeral League, per amor di precisione) che pubblica il lavoro; assieme ai due musicisti russi troviamo alla batteria Jürgen Fröhling dei My Shameful, mentre le tastiere sono suonate in veste di ospite dalla ben nota I.Stellarghost degli Abstract Spirit.
Inevitabilmente, specie nei primi due brani, affiorano tratti comuni con i WDISS e, francamente sarebbe stato strano il contrario, ma se ciò avviene è solo per una naturale contiguità stilistica e non a causa di un songwriting asfittico: infatti, se Among the Stars, traccia d’apertura, conserva quelle caratteristiche tipiche del doom moscovita prima d’aprirsi nella sua parte centrale a melodie struggenti delineate dalla brava tastierista, la successiva A Portal, dopo una breve e cacofonica sfuriata strumentale che ritroviamo anche in chiusura, si staglia in tutta la sua dolente solennità, andando a costituire un monolite di dolore nel quale la chitarra di Gungrind recita le proprie magnifiche litanie a supporto del ben noto growl di Evander; questo brano è in assoluto uno dei migliori ascoltati nel genere quest’anno, rivelandosi un’ipotetica summa tra i parametri della scuola ex-sovietica e l’influsso nobile degli Skepticism.
Circles Of Disbelief mantiene elevatissimo il pathos del lavoro e si rivela oltremodo interessante per la presenza alle clean vocals di Daniel Neagoe, il quale ricambia così il favore ad Evander, che aveva cantato una breve parte nel capolavoro degli Eye Of Solitude “Dear Insanity; come talvolta accade (e a mio avviso ciò non è in assoluto un male) la presenza dell’ospite indirizza in qualche modo il sound verso la band di appartenenza di quest’ultimo: è innegabile, infatti, che la traccia possieda i tratti malinconici e drammatici al contempo che contrassegnavano il precedente “masterpiece” degli EOS, “Canto III”. Considerando anche che Evander è uno dei pochi “umani” in possesso di un growl in grado di reggere il confronto con quello di Daniel, appare evidente che qui abbiamo tutti gli ingredienti per la riuscita di un altro brano magnifico, al quale le tastiere di I.Stellarghost donano davvero una particolare enfasi.
A Beggar’s Lesson si snoda per lo più su una linea melodica che richiama le atmosfere austere ed affascinanti dell’estremo est europeo, e la sua considerevole lunghezza viene stemperata da un finale molto evocativo che suggella in maniera ideale uno splendido album.
Senza dimenticare il prezioso contributo del drummer tedesco Jürgen Fröhling e dello stesso Gungrind per quanto riguarda la parte ritmica, l’unico rimpianto è che questo lavoro sia stato pubblicato successivamente alla compilazione delle inevitabili charts di fine anno; oddio, non credo il fatto di trovarsi tra i primi posti nella mia personale graduatoria avrebbe cambiato la vita agli ottimi Unmercenaries, ma è fuor di dubbio che un posticino tra i migliori 5 album doom dell’anno l’avrebbero tranquillamente trovato.
Poco male, per loro, e molto bene, invece, per noi appassionati, che ci ritroviamo come regalo di Natale (il disco è uscito proprio il 25 dicembre …) una nuova grande band capace di proporre ai massimi livelli il nostro genere preferito.

Tracklist:
1.Among the Stars
2.A Portal
3.Circles Of Disbelief
4.A Beggar’s Lesson

Line-up:
Gungrind – guitars,acoustic guitar,bass
E.S. – vocals
Jürgen Fröhling – drums

Guests:
I.Stellarghost – keys
Daniel Neagoe – additional vocals at “Circles Of Disbelief”

UNMERCENARIES – Facebook

EYE OF SOLITUDE – Intervista

Intervista con Daniel Neagoe, vocalist e principale compositore degli Eye Of Solitude, la band funeral-death doom che ha chiuso al primo posto nella mia personale classifica del 2014.

Gli Eye Of Solitude sono da almeno due anni la migliore doom band del pianeta, capace di coniugare una qualità stupefacente ad una frequenza di uscite elevata, almeno se rapportata agli standard del genere in questione: l’Ep Dear Insanity si è rivelato, infatti, un altro capolavoro giunto a bissare dopo circa un anno quell’altra pietra miliare intitolata Canto III.
Non a caso quindi, nell’anno solare che sta volgendo al termine, per quanto mi riguarda Dear Insanity è stato per distacco il miglior lavoro pubblicato tra tutti quelli che ho avuto modo di ascoltare, come testimonia il best of … pubblicato nei giorni scorsi.
Grazie all’intercessione di una label che non sbaglia un colpo da diverso tempo come la francese Kaotoxin Records, nella persona di Nico, ho avuto la possibilità di porre una serie di domande all’uomo che, di fatto, è il motore della band, ovvero il vocalist Daniel Neagoe.
Pur senza conoscerlo personalmente, mi sono da subito fatto l’idea che, contrariamente a quanto farebbe pensare il genere proposto dagli EOS, Daniel potesse essere una persona dotata di grande senso dell’humour, e questo mi ha spinto a porgli anche dei quesiti piuttosto originali che, per fortuna, paiono aver riscosso un certo successo nei confronti del mio interlocutore.
Ne è venuta fuori, così, una chiacchierata davvero interessante per il cui esito devo ringraziare doppiamente il mio grande amico Alberto Carmine: infatti, è grazie alla sua smisurata competenza che ho potuto scoprire gli Eye Of Solitude in occasione della pubblicazione di Canto III; inoltre, sfruttando la sua conoscenza della lingua inglese sicuramente meno scolastica della mia, gli ho chiesto di ritoccare le domande in modo che Daniel fosse indotto a ridere solo per i loro contenuti e non per la forma con la quale venivano poste …
L’operazione pare essere riuscita in pieno; buona lettura, quindi.

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da sinistra : Steffan Gough, Chris Davies, Daniel Neagoe, Mark Antoniades, Adriano Ferraro

 

iye Ciao Daniel, grazie per la tua disponibilità. Comincio con una domanda che ti potrà apparire strana: se ti dicessi che tu sei la persona che più mi ha fatto piangere gli ultimi dodici mesi, come ti sentiresti?

Sarei onorato e felice che la musica possa aver avuto per te una funzione catartica, come è destinata ad avere. Vivrei con grande soddisfazione il fatto che qualcuno ascolti e capisca la nostra musica con la massima intensità e viva quel momento attraverso il dolore.

iye Quelli che non sanno cosa sia il doom pensano che sia chi lo suona sia chi lo ascolta siano un’accozzaglia di depressi con spiccate tendenze suicide. A giudicare da quanto si può intuire dal tuo profilo Facebook fornisci l’impressione d’essere agli antipodi rispetto a questa immagine e io stesso, che del genere ne sono un fruitore compulsivo, sono ritenuto da chi mi conosce bene una persona piuttosto divertente. Allora ti chiedo: secondo te, da dove scaturisce l’urgenza di esprimere tutto questo dolore in chi suona e il desiderio di immergervisi da parte di chi lo ascolta?

Questa è la vita, in ogni suo momento, e spetta a ogni individuo esprimere la propria sofferenza interiore.
Ciò che siamo nella vita reale non ha nulla a che fare con la musica che creiamo, anche se purtroppo potrebbe sembrare così.
Alcuni sono davvero depressi ed antisociali, distanti e solitari, ma questo è nella loro natura e nessuno può farci nulla.
Tutta la musica, di qualsivoglia natura, è destinata ad essere catartica, indipendentemente da quello che è il proprio stato emotivo; il doom, tuttavia, è quello che mi permette di liberarmi di tutta la negatività, è il mio modo di sfuggire allo stato di depressione e mi permette di essere normale nella mia vita quotidiana.

iye Parliamo degli Eye Of Solitude: avevo definito “Canto III” un capolavoro inarrivabile, poi però avete pensato bene di smentirmi pubblicando un’altra pietra miliare come “DearInsanity”. Ci racconti come si sviluppa un disco degli EOS e come è distribuito il lavoro compositivo?

La musica arriva in maniera spontanea, questo è più o meno tutto ciò che potrei dire per quanto riguarda la domanda.
Il flusso deve essere mantenuto costante ed è qualcosa che va a mio sfavore, visto che significa essere costretto a dedicare alla musica anche il tempo che dovrei utilizzare per dormire o fare qualcos’altro.
Tuttavia, questa è stata una mia scelta e ci convivo benissimo. Non scrivo perché devo, bensì perché ne ho bisogno e lo voglio.

iye L’uscita dalla band di Indee Rehal-Sagoo e di Pedro Caballero ha influito sulla direzione più orientata al funeral intrapresa con “Dear Insanity”? Apparentemente parrebbe così, alla luce di una decisa riduzione delle parti soliste di chitarra e dell’accompagnamento atmosferico delle tastiere.

Non necessariamente, anche se un cambiamento doveva verificarsi, date le circostanze.
Noi consideriamo Eye Of Solitude come un’entità che ha bisogno di sperimentare e di progredire, piuttosto che seguire ancora e ancora le proprie orme.
“Dear Insanity” era già programmato, questo è sicuro, e Indee e Pedro hanno portato il loro contributo alle composizioni, naturalmente; tuttavia, dal momento che non eravamo più insieme, la musica stessa avrebbe potuto prendere una piega più o meno differente, non necessariamente in senso peggiorativo.
Il lato funeral della nostra musica deriva da una maggiore inclinazione e un diverso orientamento, e sarebbe emerso con o senza Indee e Pedro.

iye Il tuo growl è oggettivamente qualcosa di realmente impressionante : esiste una tecnica particolare per raggiungere simili risultati oppure è tutto frutto di una tua naturale predisposizione?

Haha, sei troppo gentile nelle tue affermazioni … Comunque, ti ringrazio, è una bella iniezione di fiducia, questo è sicuro.
La tecnica è qualcosa che ho acquisito in diversi anni di pratica e di sviluppo professionale come cantante; ho voluto questo e per farcela ho dovuto lavorare duramente.
E poiché la musica è così per sua natura, la necessità di aggiungere la voce come se fosse un altro strumento era di vitale importanza.

iye È bizzarro, però, che in “Dear Insanity” abbiate affidato una breve parte ad un altro che in quanto a growl non scherza affatto, come Evander Sinque (Who Dies In Siberian Slush). Se non fosse stato lo stesso vocalist russo ad indicarmi quale parte aveva interpretato, avrei faticato non poco a distinguere i vostri timbri vocali.
Come mai la scelta è ricaduta proprio su di lui e non su qualcun altro dalla tonalità più lontana dalla tua?

La risposta potrebbe apparire sorprendente, ma l’unico motivo è la continuità: penso che Evander sia un grande cantante non solo nel doom, ma in molti altri generi, e la mia ammirazione per lui cresce continuamente.
Era la soluzione perfetta per questo materiale e quando ha mi ha mandato il suo demo sono rimasto particolarmente colpito. E’ avvenuto così, in maniera naturale.

iye Anche l’aiuto di quell’altro genio del tuo amico Déhà è stato importante nell’ultima parte del lavoro, o sbaglio?

Vero, Déhà è uno dei miei migliori amici e lavorare con lui è stato più o meno come mettere assieme i piselli e le carote. Io e lui la pensiamo più o meno allo stesso modo quando si tratta di musica, e se le idee sono grandi, perché non usarle in modo creativo e costruttivo?

iye Deos, Slow, Eye Of Solitude, Clouds, Imber Luminis, Sidious, We All Die (Laughing) e mi fermo qui: tutte band o progetti eccezionali che vedono impegnati tu o Déhà e, in alcuni di questi (Deos e Clouds) assieme.
So che tra l’altro è alle porte un vostro nuovo progetto black metal denominato Vær: mi chiedo dove troviate l’ispirazione e, soprattutto, il tempo per riuscire ad operare contemporaneamente si tutti questi fronti.

Come ho detto prima, dedico la maggior parte del mio tempo per scrivere e registrare musica. Questo è un qualcosa che io e Déhà facciamo entrambi, da qui nasce anche lo stretto rapporto di amicizia e collaborazione che abbiamo.
Comunque vorrei precisare che Vær è un progetto creato esclusivamente da Déhà, io ho avuto solo l’onore di contribuirvi con la voce.
Per quanto riguarda l’ispirazione, questa proviene da molte cose, buone o cattive, positive o negative che siano, non fa differenza. E’ una maniera per esprimere se stessi e praticamente potrei definirlo un modo di vivere.

iye In “Canto III” vi eravate misurati, correndo anche qualche rischio, con l’opera del nostro sommo poeta, in “Dear Insanity”, invece, qual è il tema portante?

Con “Dear Insanity” abbiamo cercato di creare un semplice sequel di “Canto III”, che ci crediate o no. “Canto III” è incentrato del tutto sulla discesa agli inferi, come il poema racconta. Con “Dear Insanity” abbiamo voluto tratteggiare, invece, lo scenario di follia nei momenti che precedono la discesa.
E ‘introspettivo e personale, ovviamente, ma ciò che personalmente volevo descrivere era la calma prima della tempesta, il diluvio dolente e il dolore che lascia senza respiro prima della morte: quindi la pazzia, la perdita del controllo mentale e lo sperimentare la tortura fisica e psichica prima della fine.
Potrei andare avanti su questo argomento per tre giorni e non sarebbe sufficiente per descrivere quello che avevo in mente come concetto …

iye Tu sei rumeno, Adriano Ferraro è italiano, Mark Antoniades dal cognome direi che ha origini greche, Indee Rehal-Sagoo era chiaramente asiatico e Pedro Caballero ispanico. L’unico inglese “vero” parrebbe Chris Davies. Io vi ho definiti, ai tempi di “Canto III”, “un’internazionale del dolore”: ti piace questa definizione e inoltre, ritieni che questo mix culturale contribuisca in qualche modo al processo creativo?

Haaha, in realtà mi è piaciuto molto! E’ certamente qualcosa di diverso quando hai diverse nazionalità all’interno di una band. Ci sono cinque differenti input dei quali possiamo approfittare quando si tratta di musica, quindi credo che la cosa funzioni perfettamente.

iye Quando si parla di metal e Romania l’associazione di idee porta inevitabilmente a pensare ai Negură Bunget e alla diaspora che ha portato poi alla nascita dei DorDeDuh.
Conosci personalmente qualcuno di questi musicisti e, nel caso, che idea ti sei fatto della vicenda?

Conosco i ragazzi dei DorDeDuh personalmente, così come ciò che resta dei Negură Bunget. Comunque mi scuso in anticipo se sarò laconico al riguardo, ma mi piace solo la musica e preferisco tenere fuori il gossip.
Tutto quello che so è che ognuno di loro si trova molto più a proprio agio nella situazione attuale.

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iye Fermo restando che, dipendesse da me, vorrei che uscisse un nuovo lavoro degli Eye Of Solitude ogni settimana, ho visto che per l’anno prossimo avete già programmato uno split ed un altro album. Rispetto alla maggior parte delle band funeral-death doom siete decisamente prolifici, non avete pura, per assurdo, di pubblicare troppo materiale in tempi ravvicinati?

Sì, rilasceremo uno split album con i nostri buoni amici Faal e stiamo ri-registrando il nostro album di debutto “The Ghost”, il che ci terrà occupati per un bel po’.
Stiamo anche lavorando su un altro full length, tuttavia, con l’ingresso di Steffan (Gough, ndr) alle chitarre, vorremmo prenderci il tempo necessario per esplorare maggiormente le sue idee ed il suo apporto alla band.
Posso però dire che abbiamo pronto un set di otto nuove canzoni davvero bello e ragguardevole, ma stiamo scrivendo sempre di più e presto inizieremo ad selezionare il materiale.
Vogliamo fortemente che il prossimo nuovo album sia qualcosa di speciale, quindi l’impegno sarà raddoppiato.
Mi piacerebbe anche pubblicare un nuovo lavoro ogni settimana, davvero, e me non me ne può importare di meno di quello che qualcuno potrebbe avere da dire al riguardo. Noi non stiamo seguendo un insieme specifico di regole o di una tendenza, o cercando di diventare una cult band con idee cult e tutte quelle stronzate. Noi siamo musicisti e stiamo facendo ciò che conosciamo meglio: la musica; se si ha la fortuna di poter scrivere più del solito, allora perché non rilasciare un album ogni anno?
Quindi credo che la risposta alla tua domanda potrebbe essere: noi in effetti scriviamo “troppa musica” e ci piace che i nostri fan la sentano. E ciò non la rende mediocre, meno interessante o poco rifinita.

iye Avete mai pensato di fare un concerto suonando prima come Sidious (eccellente progetto black metal che coinvolge quasi tutti i membri della band, ndr) e poi come Eos, o viceversa, potrebbe essere un’idea originale …

No. Sidious e Eos sono due entità diverse che suonano due generi diversi; abbiamo differenti identità e vorremmo rispettare una certa privacy nella pianificazione quando si tratta delle due band.

iye A proposito di concerti, se io fossi un condannato a morte, come ultimo desiderio chiederei di vedervi suonare dal vivo in Italia: per, esempio c’è qualche possibilità di vedere gli EOS dividere il palco con gli Esoteric il prossimo 31 marzo al Colony di Brescia ?. Ho qualche speranza prima che mi venga fatta l’iniezione letale?
(l’intervista è stata fatta prima che fosse ufficializzato il bill del concerto in questione che, purtroppo, nonostante sia comunque di altissimo livello, probabilmente non comprenderà gli Eye Of Solitude, ndr)

Hahahaha. questa sì che è una domanda !!!! E’ meglio sperare che il concerto di cui sopra si svolga al di fuori delle circostanze citate 🙂
Ci piacerebbe davvero suonare in Italia, finora non abbiamo mai visitato la vostra bella patria.

iye Mi dici quali sono i tre dischi funeral-death doom che hanno maggiormente influenzato la tua formazione come musicista e, in generale, quali sono le band che ritieni determinanti nell’averti spinto a diventare un musicista?

Il primo album doom che ho ascoltato è stato “Serenades” degli Anathema.
Questo è ciò che ha dato inizio a tutto: con il passare degli anni sono sempre stato più attratto dal doom e dai suoi sottogeneri.
Ci sono stati gruppi come Esoteric, Skepticism, Pantheist e così via, che hanno influenzato il mio range musicale. Ma, pur essendo un appassionato di doom metal, ho anche avuto un interesse verso il death ed il black metal. La musica è la mia passione da quando avevo 11 anni.

iye So che hai un bimbo piccolo: io sono un po’ più vecchio di te, mia figlia ha quasi vent’anni e ancora oggi mi accusa scherzosamente di averle creato delle turbe psichiche facendole ascoltare mentre era in culla i My Dyng Bride …
Dall’alto della mia “esperienza” ti consiglierei quindi di non fare altrettanto e soprattutto di non cantargli la ninna-nanna in growl …

Questo è davvero cool haha … Mio figlio è abbastanza freddo quando ascolta la musica.
Finora non è stato distrutto dal growl di papà, al contrario, sembra solo interessato e probabilmente si chiede perché papà stia urlando come un pazzo a volte.
Io, naturalmente, cerco di fare il meglio per lui ascoltando musica metal, ma alla fine la scelta sarà sua; potrò essere solo d’accordo e rispettare ogni sua scelta nella vita.

iye Ti ringrazio per aver risposto a tutte le domande, anche a quelle più scherzose.
Nel congedarci puoi dirci quali sono i programmi imminenti degli Eye Of Solitude e, in subordine, i tuoi?

Grazie per l’intervista così interessante: onestamente, è stato un vero piacere rispondere alle tue domande, seriamente non ricordo quando è stata l’ultima volta che ho mi sono divertito così tanto rispondendo ad un’intervista, quindi ti ringrazio per questo.
Come Eye Of Solitude, come detto, pubblicheremo lo split con i Faal, e ri-registreremo l’album di debutto “The Ghost”, quindi ci lanceremo in un mini-tour con i Saturnus ed i nostri buoni amici Marche Funebre, e terremo qualche concerto qui e là oltre a partecipare ad un grande festival dal nome prestigioso nel Regno Unito.
Personalmente, continuerò a scrivere musica per un paio di miei progetti ed aiuterò un buon amico a portare avanti il proprio personale progetto di vita, quindi sarà un anno molto impegnativo per me.
Ancora una volta, grazie per le tue gentili parole e la possibilità di far sentire la nostra voce in Italia! Grazie Mille!

Frowning – Funeral Impressions

“Funeral Impressions” si dimostra una prova di grande spessore qualitativo nel corso della quale viene esibita un’ora abbondante di suoni dolenti ma arricchiti da una connotazione melodica sempre in bella evidenza.

Dopo il riuscito split con gli Aphonic Threnody ritroviamo i Frowning, ovvero il progetto solista del musicista tedesco Val Atra Niteris, alle prese con la prima prova su lunga distanza.

Dopo aver ottenuto un deal prestigioso con quella che è ormai la casa madre del doom europeo, la label russa Solitude Productions, ed aver testato il responso degli appassionati con l’uscita in coabitazione con la band inglese autrice del recente “When Death Comes”, c’erano tutte le condizioni favorevoli perché questa opera prima potesse rivelarsi un nuovo importante tassello in ambito funeral.
Ebbene, si può affermare con certezza che le premesse sono state abbondantemente mantenute, visto che Funeral Impressions si dimostra una prova di grande spessore qualitativo nel corso della quale Val sciorina un’ora abbondante di suoni dolenti ma arricchiti da una connotazione melodica sempre in bella evidenza.
Se la traccia strumentale Day In Black é un episodio meraviglioso quanto parzialmente atipico, nel corso del quale il musicista tedesco esibisce le proprie pregevoli doti di chitarrista, il resto del lavoro si snoda sui ritmi rallentati allo spasimo che il genere impone, raccogliendo svariate influenze, quali soprattutto Mournful Congregation ed Evoken tra quelle dichiarate, oltre ad Ea e Eye Of Solitude per quanto concerne la ricerca della melodia all’interno di partiture gonfie di una malinconica oppressione.
Emblematico in tal senso un brano come Sleep Eternally, che brilla per una parte centrale realmente da brividi, con una chitarra che esprime un dolore quasi lancinante nel suo splendido sviluppo melodico.
E, in effetti, il lavoro prende ulteriormente quota da questo brano fino alla sua conclusione, con le più lunghe ed altrettanto valide Murdered by Grief e A Way into Relief, evidenziando una piacevole progressione che consente al’ascoltatore di mantenere sempre viva l’attenzione.
Frowning si conferma così un altro nome certo sul quale contare negli anni a venire: alla creatura di Val Atra Niteris non manca proprio nessuna delle peculiarità che rendono il funeral doom una delle più efficaci rappresentazioni artistiche del dolore e dell’angoscia destinate ad attanagliare, prima o poi, ogni essere umano.

Tracklist:
1. Intro
2. Obsessed
3. Receive my Tears
4. Day in Black
5. Sleep Eternally
6. Murdered by Grief
7. A Way into Relief

Line-up:
Val Atra Niteris Everything

FROWNING – Facebook

Abysmal Growls of Despair / In Lacrimaes Et Dolor / Until My Funerals Began – In Memoriam

Molto interessante questo split album, che vede all’opera tre diverse realtà dedite al funeral doom, unitesi con l’intento di dedicare la loro musica alle vittime del conflitto che sta lacerando da mesi l’Ucraina.

Molto interessante questo split album, che vede all’opera tre diverse realtà dedite al funeral doom, unitesi con l’intento di dedicare la loro musica alle vittime del conflitto che sta lacerando da mesi l’Ucraina.

Abysmal Growls Of Despair, In Lacrimaes Et Dolor e Until My Funerals Began sono tre progetti solisti rispettivamente provenienti da Francia, Italia e Ucraina e l’opera di assemblaggio è avvenuta grazie all’operato dell’attiva label russa GS Productions, che abbiamo imparato a conoscere grazie ad altri split album con protagonisti di livello quali, tra gli altri Aphonic Threnody, Ennui e Frowning.
La peculiarità di questo lavoro è, intanto, quella di mostrare tre maniere differenti di approcciarsi alla materia, anche se, ovviamente. per saper cogliere tali sfumature è necessario avere una certa dimestichezza con il genere.
L’apertura è affidata alle due tracce degli Abysmal Growls Of Despair, progetto dell’iperattivo musicista di Tolosa, Hangvart: ben quattro, infatti, sono gli album pubblicati negli ultimi due anni, tre dei quali solo nel 2014.
Rispetto ai compagni di split, il transalpino è quello che propone una versione decisamente meno accessibile del funeral, nonostante il primo dei due brani a sua disposizione, Nimis Sero, sia in effetti la pregevole rilettura di un tema arcinoto come quello della marcia funebre di Chopin: le atmosfere restano quasi sempre opprimenti, complici un growl che è soprattutto un rantolo e una scrittura pressoché priva di particolari aperture, benché in Quiet Moments faccia capolino una minima parvenza di melodia che attenua solo parzialmente il senso di soffocamento, sintomo di un dolore che implode letteralmente piuttosto che trovare uno sbocco verso l’esterno.
Superata questa fase di non facile decrittazione, le due tracce affidate agli In Lacrimaes Et Dolor di Dany Noctis, musicista residente a Macerata ma originario dell’est europeo, spostano gli scenari su terreni parzialmente più accessibili.
Dolor Aeternum e On Death’s Row sono le nuove testimonianze di un talento musicale al quale non manca davvero nulla per raggiungere i vertici qualitativi del genere: il suo funeral è decisamente melodico e atmosferico ma rifugge ogni banalità, arricchito com’è da una sensibilità artistica e personale che va a riversarsi in toto nelle composizioni. Se Dolor Aeternum è un bel brano, con l’uso delle clean vocals che ricorda parzialmente i Pantheist più recenti, On Death’s Row è una traccia magnifica che sfoggia una linea portante dal grande potenziale evocativo.
Ritroveremo tra breve gli In Lacrimaes et Dolor alle prese con un altro split, questa volta a quattro, con la presenza tra gli altri degli Aphonic Threnody, il cui cantante Roberto Mura (anche Arcana Coelestia e Urna) ha curato assieme a Dany stesso la parte grafica di In Memoriam, non facendo nulla per nascondere gli orrori della guerra e la stupida caducità del genere umano, anche attraverso immagini piuttosto crude.
Il compito di chiudere l’album è affidato agli Until My Funerals Began di Rumit, che è proprio di Donetsk, ovvero la città all’interno dei confini ucraini che più di altre è stata funestata da morti di civili derivanti dal conflitto. Luctus è un brano già edito, per l’esattezza nell’Ep “May 2, 2014”, ed è costituito principalmente da una musica carica di tensione emotiva che funge da accompagnamento a voci campionate connesse alla guerra in atto, mentre Burn My Flesh è un’altra traccia dall’elevato tasso di drammaticità che conferma quanto di buono era già emerso dal precedente full-length “False Horizon”.
E’ indubbio il fatto che Rumit, toccato molto da vicino dagli eventi che vengono trattati in questo lavoro, sia riuscito ad imprimere nelle proprie composizioni quel qualcosa in più in grado di far risaltare in maniera quasi fisica rabbia, dolore e disperazione.
Uno split album decisamente riuscito, quindi: per qualcuno magari potrebbe costituire lo spunto per informarsi meglio riguardo ad avvenimenti che superficialmente si tendono a sottovalutare in quanto lontani geograficamente ma che, in realtà, sono molto più vicini a noi di quanto vogliamo ammettere.
L’album può essere acquistato presso la GS Productions oppure contattando direttamente le band.

Tracklist:
1.Abysmal Growls Of Despair – Nimis Sero
2.Abysmal Growls Of Despair – Quiet Moments
3.In Lacrimaes Et Dolor – Dolor Aeternum
4.In Lacrimaes Et Dolor – On Death’s Row
5.Until My Funerals Began – Burn My Flesh
6.Until My Funerals Began – Luctus

GS PRODUCTIONS
ABYSMAL GROWLS OF DESPAIR – Facebook
IN LACRIMAES ET DOLOR – Facebook
UNTIL MY FUNERALS BEGAN – Facebook

Aphonic Threnody – When Death Comes

Dopo un Ep e due split album gli Aphonic Threnody giungono al full-length d’esordio non tradendo le attese che i lavori in coabitazione con gli Ennui prima, e con i Frowning poi, avevano indubbiamente creato.

Dopo un Ep e due split album gli Aphonic Threnody giungono al full-length d’esordio non tradendo le attese che i lavori in coabitazione con gli Ennui prima, e con i Frowning poi, avevano indubbiamente creato.

Nell’occasione avevo benevolmente bacchettato il combo di Riccardo Veronese affermando che, mettendo assieme le tracce presenti nei due split, ne sarebbe venuto fuori un album eccellente invece di disperdere tale potenziale in uscite diverse.
Non ho certo cambiato idea al riguardo, ma per fortuna il musicista inglese ha messo sul piatto un’altra ora abbondante di funeral death-doom di grande spessore, dimostrando una vena compositiva decisamente molto fertile.
Veronese, che ritroviamo anche con altre due ottime band come Gallow God e Dea Marica, negli Aphonic Threnody si avvale della collaborazione di nostri due connazionali, i sardi Roberto M. alla voce (Dea Marica, Arcana Coelestia, Urna) e Marco Z. (Arcana Coelestia, Urna), del belga Kostas P. alle tastiere (Pantheist, Clouds), il quale, con questo disco, ha concluso la sua collaborazione con la band, e dell’ungherese Abel L. al violoncello.
Il ricorso a line-up dalle nazionalità variegate pare essere una costante per le band dedite al doom di base a Londra, basti pensare anche agli Eye Of Solitude: probabilmente è un caso, visto che spesso il peso compositivo ricade su un solo componente, ma verrebbe da pensare che questi autentici mix culturali siano in grado di far scoccare la scintilla in grado di accendere la creatività di tutti i musicisti coinvolti.
When Death Comes è, infatti, un lavoro magnifico, che rappresenta esattamente ciò che un appassionato di questo genere vorrebbe sempre ascoltare: linee chitarristiche struggenti, tastiere avvolgenti, capaci di evocare atmosfere solenni e drammatiche allo stesso tempo, un growl di rara efficacia, una base ritmica dinamica nonostante l’andamento sia inevitabilmente compassato, ed il violoncello che, in diversi frangenti assesta ai brani un’ulteriore pennellata di tinte oscure e malinconiche.
Indubbiamente la prima mezz’ora del disco è stupefacente per la bellezza delle linee melodiche proposte da Riccardo, capaci di far piombare l’ascoltatore in un’ovattata sensazione di ineluttabile dolore, facendo sì che la lunghissima Death Obsession finisca per essere un ideale prolungamento portato alle estreme conseguenze della già splendida traccia d’apertura The Ghost’s Song.
Dementia non è certo un brano trascurabile, ed è forse quello più vario all’interno della tracklist, ma risente parzialmente della sua collocazione immediatamente dopo questi due dolenti monoliti sonori, rispetto ai quali risulta meno evocativo.
The Children’s Sleep riporta le coordinate sonore verso vette emotive non comuni , grazie anche al contributo di ospiti illustri quali sua maestà Greg Chandler (Esoteric) alla chitarra e David Unsaved (Ennui) alle backing vocals.
Due minuti di delicati tratteggi pianistici introducono la nuova straziante esibizione di angoscia e sofferenza rappresentata da Our Way To The Ground, un altro brano, l’ultimo, che ci consegna una band capace di collocarsi al primo colpo ai piani nobili del funeral death-doom melodico, divenendo così un nuovo punto di riferimento per gli adoratori di Saturnus, Officium Triste e, ovviamente, My Dying Bride.

P.S. : l’ascolto di “When Death Comes” in funzione della scrittura della recensione è coinciso con un evento tragico che ha colpito persone alle quali sono molto legato: questo, indubbiamente, mi ha fatto trovare privo di difese di fronte alla sofferenza evocata dagli Aphonic Threnody, costringendomi a versare infine quelle lacrime liberatorie che, fino ad un certo punto, ero riuscito a trattenere.
Queste righe sono dedicate ad Ale, che un destino atroce ha sottratto a genitori ed amici troncando bruscamente quello che sarebbe dovuto essere il suo lungo cammino su questa terra …

Tracklist:
1. The Ghost’s Song
2. Death Obsession
3. Dementia
4. The Children’s Sleep
5. Our Way to the Ground

Line-up:
Riccardo V. – Guitars, Bass
Roberto M. – Vocals
Abel L. – Cello
Marco Z. – Drums
Kostas P. – Keyboards, Piano

Guests :
Greg Chandler – Guitars on “The Children’s Sleep”
Josh Moran – Guitars on “Dementia”
David Unsaved – Backing Vocals on “The Children’s Sleep”

APHONIC THRENODY – Facebook

My Shameful – Hollow

I My Shameful sciorinano oltre un’ora di dolorose litanie prive di sbocchi atmosferici ma intrise di un mood opprimente.

Per essere una band dedita al funeral-death doom, i finlandesi My Shameful sono senz’altro piuttosto prolifici, visto che Hollow è il loro sesto album in poco più di un decennio (dal 2003, anno della pubblicazione di “Of All the Wrong Things”), alla luce anche della pausa di 5 anni intercorsa tra il quarto ed il quinto full-length.

Il ritorno con “Penance”, avvenuto lo scorso anno, era stato buono ma non eccezionale, anche se nel sound della creatura di Sami Rautio emergeva quale tratto distintivo un umore molto più cupo che non malinconico, finendo per rendere decisamente più impegnativo l’ascolto.
Tratti distintivi, questi, che non subiscono mutamenti particolari in Hollow, dove vengono semmai accentuati e focalizzati tali aspetti, sciorinando oltre un’ora di dolorose litanie prive di sbocchi atmosferici ma intrise di un mood opprimente ai limiti dell’asfissia.
Pregio e limite, questo, per un disco la cui lunghezza certo costituisce un parziale ostacolo ad una fruizione agevole e, del resto, il genere non è fatto per essere cantato sotto la doccia ma, semmai, per essere assimilato con calma e pazienza pari alla lentezza dei tempi dilatati lungo i quali i musicisti che vi si dedicano srotolano le loro lunghe composizioni.
Il lavoro pare comunque vivere di due fasi piuttosto distinte: infatti, se i primi quattro brani mostrano un passo decisamente più lento, salvo le accelerazioni presenti nell’opener Nothing Left At All, culminante nel soffocante funeral di Hour Of Atonement, da The Six in poi il sound prende a lambire sonorità dai tratti meno claustrofobici; in questa traccia, in particolare, la migliore del disco a mio avviso, i My Shameful si muovono come se fossero una versione più dinamica degli Worship, anche se, nel complesso, la scuola funeral finlandese è quella che imprime il proprio marchio indelebile nel sound di Sami, partendo dagli imprescindibili Thergothon, passando per i Colosseum senza dimenticare Shape Of Despair e Skepticism, pur se depurati dall’uso delle tatsiere.
Sprazzi chitarristici di matrice gothic si affacciano nella successiva Murdered Them All ma è un apparizione fugace, visto che No Greater Purpose ci fa ripiombare una disperazione composta ma terribilmente plumbea, per un altro degli episodi chiave dell’album.
Now And Forever, titolo che non fa presagire certo una chiusura rivolta ad un futuro roseo, con il suo finale magnifico e leggermente più ritmato mette la pietra tombale sul quello che è il miglior album che potessero pubblicare oggi i My Shameful, con suoni essenziali ma sorretti da una buona produzione, e una prestazione vocale davvero efficace per la cruda negatività che Sami Rautio riesce ad evocare.
Con la dipartita, ahimè forzata, dei Colosseum e l’ormai (troppo) lungo silenzio di Skepticism e Shape Of Despair, i My Shameful, meritatamente, si dividono oggi con i Profetus lo scettro del funeral doom nordeuropeo.

Tracklist:
1. Nothing left at all
2. Hollow
3. And I will be worse
4. Hour of atonement
5. The Six
6. Murdered them all
7. No greater purpose
8. Now and forever

Line-up:
Sami Rautio – vocals, guitars
Twist – bass
Jürgen Fröhling – drums

MY SHAMEFUL – Facebook

Profetus – As All Seasons Die

Un disco splendido che se, da una parte, può soffrire del confronto con un nome pesante come quello degli Skepticism, dall’altra si dimostra ben più di un semplice lenitivo per il lungo protrarsi del silenzio discografico di questi maestri della scena funeral.

Per una serie di circostanze ti ritrovi, a sera inoltrata, a rimirare un nero specchio d’acqua, avendo dinnanzi le luci di lontane cittadine turistiche, alle spalle i rumori cacofonici dello pseudo-divertimento, e avvolto dall’umore di chi, a tratti, dubita di riuscire a sistemare un solo tassello della propria intricata esistenza, il tutto con in cuffia l’ultimo disco dei Profetus.

Chi non conosce o sottovaluta l’enorme potenza del doom, penserà istintivamente che questa combinazione di fattori sfavorevoli sarebbe potuta risultare decisiva per annullare quel metro e mezzo di distanza dall’acqua lasciando che l’oblio giungesse provvidenzialmente a risolvere ogni problema. Al contrario, l’effetto catartico del funeral, quando viene espresso in maniera alta come nel caso dei Profetus, è in grado di fornire impulsi diametralmente opposti in chi tende a lasciarsi andare all’autocommiserazione, alla faccia di chi considera questo genere noioso o, ancor peggio, il parto di menti depresse per individui che si trovano in analoghe condizioni. As All Seasons Die è il terzo album per i finlandesi, per i quali inevitabilmente il primo termine di paragone che viene in mente sono i connazionali Skepticism, non fosse altro che per l’uso frequente dell’organo, anche se il suono qui appare ancor più dilatato e minimale, con variazioni spesso impercettibili che portano ugualmente verso un lento ed avvolgente e crescendo emotivo; di fatto, lo stile dei nostri si colloca a metà strada tra la seminale band di Riihimäki ed i meno noti Tyranny (nei quali non a caso una delle menti musicali è il qui presente Matti Mäkelä), autori di un solo monumentale disco, “Tides Of Awakening”, e ciò si avverte proprio in questa esasperata dilatazione e nella ripetitività talvolta ossessiva dei temi. Peraltro i Profetus escono abilmente da questi schemi compositivi regalandoci un brano, Dead Are Our Leaves of Autumn, nel quale la chitarra solista prende per una volta in mano le redini delle operazioni tessendo melodie evocative poggiate sulla consueta base ritmica bradicardica. Probabile mattonata sui denti per chi non apprezza il genere (lecito, per carità, ma io per onestà intellettuale non scriverei mai una riga di commento a proposito un disco di street metal o aor, generi che non sono nelle mie corde, proprio perché nutro il massimo rispetto per chi li suona e per chi li ascolta), As All Seasons Die è in realtà un vero godimento per chi di queste sonorità si nutre e non ne ha mai abbastanza. Un disco splendido, in definitiva, che se, da una parte, può soffrire del confronto con un nome pesante come quello degli Skepticism, dall’altra si dimostra ben più di un semplice lenitivo per il lungo protrarsi del silenzio discografico di questi maestri della scena funeral.

Tracklist:
1. The Rebirth of Sorrow
2. A Reverie (Midsummer’s Dying)
3. Dead Are Our Leaves of Autumn
4. The Dire Womb of Winter

Line-up:
V. Kujansuu – Drums
A. Mäkinen – Guitars, Vocals (lead)
M. Nieminen – Keyboards
D. Lowndes – Guitars
M. Mäkelä – Guitars, Vocals (backing)

PROFETUS – Facebook

Monolithe – Monolithe Zero

Gradita riedizione in un unico formato dei due EP pubblicati in passato dai Monolithe.

“Monolithe III” e “IV”, usciti ad un anno di distanza tra loro, hanno ribadito l’ingresso in pianta stabile della band parigina nel gotha del funeral doom.

Rispetto ai pur buoni lavori precedenti, gli ultimi due album evidenziano un’evoluzione del sound in senso lato, facendo sì che, mantenendo i tratti distintivi del genere, venisse scongiurato un suo eccessivo ripiegamento su sé stesso. Monolithe Zero del quale parleremo in questo frangente, non è invece un album di inediti (come si evince dalla numerazione), bensì racchiude i due EP “Interlude Premier” e “Interlude Second”, usciti a distanza di 5 anni l’uno dall’altro e che, in qualche modo, sono emblematici delle due fasi della carriera dei doomsters francesi. Se “Interlude Premier” era infatti ancora legato alle sonorità di “II”, risalente a due anni prima, “Interlude Second” anticipava di qualche mese la pubblicazione di “III” che, a mio avviso, è il punto più alto finora raggiunto dai Monolithe (superiore, sia pure a livello di sfumature, anche all’ottimo “IV”). Aperto dalla rivisitazione del tema Also Sprach Zarathustra, i due EP si susseguono mettendo in luce le peculiarità di un sound ostico, spesso ossessivo nel suo insistere su pochi accordi eppure dannatamente efficace, almeno per chi apprezza queste sonorità. Indubbiamente la parte del leone la fa un brano terrificante come Harmony of Null Matter, che originariamente appariva nel secondo EP suddiviso in due parti,vero monumento all’incomunicabilità ed autentica prova del nove alla quale sottoporre chi si considera a parole un fan del funeral. Da notare anche la presenza in tracklist della riuscita cover di Edges, brano tratto da un album monumentale come “Lead And Aether” degli Skepticism, band che sicuramente ha fornito più di uno spunto a Sylvain Bégot e soci, per quanto costoro oggi possano vantare una cifra stilistica del tutto personale. Evidentemente questo lavoro nulla aggiunge allo status raggiunto dai Monolithe ma, oltre a rivelarsi un utile indicatore di quanto il sound dei nostri si sia evoluto nel corso del tempo, costituisce la ghiotta occasione di far propri i due EP in un sol colpo. Peraltro, quasi in contemporanea, la Debemur Morti pubblica anche la riedizione rimasterizzata di “Monolithe II”: ecco, che nessuno si sogni di parlare di operazioni commerciali in relazione a band che suonano funeral doom, potrei riderne fino a rischiare di morire …

Tracklist:
1. Also Sprach Zarathustra
2. Monolithic Pillars
3. Edges
4. Harmony of Null Matter

Line-up:
Benoît Blin – Bass, Guitars
Sébastien Latour – Keyboards, Programming
Sylvain Bégot – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals

MONOLITHE – Facebook

Mournful Congregation – Concrescence of the Sophia

“Concrescence of the Sophia” è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

A quasi tre anni dall’uscita di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation si rifanno vivi con del materiale inedito grazie a questo EP nel quale propongono, è quasi superfluo dirlo, mezz’ora di magnifico funeral doom.

La vena compositiva mostrata nell’ultimo full-length è ampiamente confermata in quest’occasione, del resto lo stile della band australiana non prevede ampie concessioni melodiche ma neppure una totale chiusura o spunti sperimentali portati alle estreme conseguenze: come avevo avuto occasione di scrivere, parlando proprio di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation appartengono al filone dei discepoli più credibili nonché legittimi dei Thergothon, pur affinandone le ruvidezze alla luce di capacità tecniche di altissimo livello. Concrescence of the Sophia consta di due soli brani: la title-track, splendida dimostrazione di classe, capace di protrarsi per oltre venti minuti senza cali di tensione grazie ad un lavoro chitarristico esemplare per pulizia e contemporanea capacità evocativa, mentre la più breve Silence of the Passed appare come un ideale prosecuzione della traccia precedente pur non eguagliandola, probabilmente, in quanto a coinvolgimento emotivo. Ammesso che ne esista per qualcuno una simile versione, il funeral dei Mournful Congregation non può essere considerato di facile ascolto e si colloca quale perfetta sintesi tra la corrente orientata verso tonalità più malinconiche ed immediate e quella nella quale si fa più esplicito il senso di incomunicabilità e di estraniamento dalla vita reale. A chi magari si attendeva un nuovo album, resta sicuramente la consapevolezza che una delle band simbolo del movimento non ha perso un’oncia della propria dolente vena compositiva, il che rende questo lavoro molto più di una momentanea panacea od un semplice assaggio di qualcosa ancora di là da venire: Concrescence of the Sophia è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

Tracklist:
1. Concrescence of the Sophia
2. Silence of the Passed

Line-up:
Damon Good – Vocals, Bass, Guitars
Justin Hartwig – Guitars
Ben Newsome – Bass

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook

Luna – Ashes to Ashes

Sicuramente valido dal punto di vista musicale, “Ashes to Ashes” lascia qualche perplessità per la sua adesione pressochè totale ai canoni stilistici già esibiti da Ea e Monolithe

Parlare di questo disco presenta diversi trabocchetti, non ultimo quello di rischiare di contraddirsi più volte nel corso della stessa recensione.

Il problema è che questo Ashes to Ashes, album d’esordio della one-man band ucraina Luna, in pratica fonde senza mezzi termini gli ultimi lavori di Ea e Monolithe, attingendo a piene mani dalla formula che ha reso peculiari queste due grandi realtà del funeral-death doom, a partire dalla presenza nella tracklist di una sola, lunghissima, traccia. Le affinità non finiscono certamente qui, infatti lo stile compositivo esibito da DeMort, il musicista che sta dietro quest’operazione, non si discosta di un millimetro da quello espresso dalle due band citate, grazie alla sovrabbondanza di atmosfere evocative guidate per lo più da un solenne lavoro di tastiera, sovente dal tocco orchestrale, oppure da un uso minimale del pianoforte che va a tracciare linee melodiche semplici ma coinvolgenti, appoggiate su uno schema basato su un’alternanza quasi matematica tra riff e interventi delle batteria. Insomma, messa così ce ne sarebbe abbastanza per scagliare indignati le cuffie urlando al plagio (o giù di lì), se non fosse che Ashes to Ashes, nonostante la lunghezza e un’innegabile ripetitività di fondo, si rivela un ascolto assolutamente gradevole, in particolare per chi ama sia i misteriosi figuri privi di un nome ed un volto, sia i più riconoscibili ma altrettanto schivi transalpini. L’unica differenza, non da poco ai fini delle sua resa finale, è la matrice strumentale dell’album, il che ne rende inevitabilmente più faticoso l’ascolto, oltre a farlo sembrare, di fatto, un sorta di disco ambient sul quale siano stati innestati abilmente pesanti riff di chitarra e le percussioni. Per il resto nulla da dire sull’abilità di DeMort nel costruire quasi un’ora di musica credibile, riuscendo nel contempo a tenersi sufficientemente alla larga da quella stucchevolezza che, in simili circostanze, rischia di prendere in ogni attimo il sopravvento; positivo anche il fatto che, tutto sommato, Ashes To Ashes prenda quota nel suo quarto d’ora finale, quando però gli Ea diventano decisamente qualcosa in più di una semplice influenza. Insomma, prendendo questo lavoro così com’è, fingendo d’aver perso temporaneamente la memoria, potremmo godercelo senza alcuna remora; purtroppo non è così e, pur non essendo un maniaco dell’originalità a tutti i costi, non posso fare a meno di proporre un paragone alpinistico: c’è colui che apre una nuova via e c’è invece quello che, successivamente, la utilizza faticando indubbiamente molto meno; poi si potrà dire che entrambi sono arrivati comunque in vetta, ma nessuno dovrà mai dimenticare che ciò è avvenuto con tempi e modalità ben differenti.

Tracklist:
1. Ashes to Ashes

Line-up:
DeMort – Everything

Aphonic Threnody & Frowning – Of Graves, of Worms, and Epitaphs

Questo split conferma il momento di grazia degli Aphonic Threnody, dai quali invochiamo a gran voce al più presto un nuovo album, e ci offre un nuova realtà come Frowning che attendiamo con curiosità all’esordio su lunga distanza.

Tempo di split album per gli Aphonic Threnody, i quali, dopo l’ottimo “Immortal In Death”, in coppia con i georgiani Ennui, sempre sotto l’egida della GS Production ci regalano altre due splendide tracce, questa volta condividendo gli spazi con la meno conosciuta one man band tedesca Frowning.

Rispetto a “Ruins”, contenuta nella predente uscita, spicca l’assenza di Kostas sicchè anche le tastiere vengono curate da Riccardo Veronese, il che rende il sound decisamente molto più guitar oriented e, a mio avviso, ancor più efficace rispetto alla già rimarchevole precedente uscita.
Scorched Earth è un brano dall’elevato tasso drammatico, nel quale la band, supportata dall’illustre ospite Jarno Salomaa (Shape Of Despair) rallenta ulteriormente il passo creando atmosfere avvolgenti grazie a riff che combinano impatto e melodia, il tutto esaltato da una magnifica prestazione vocale di Roberto Mura.
La successiva The Last Stand Against the Gloom non si rivela affatto inferiore, esaltando ancor più se possibile l’ispirato trademark classico del death-doom d’oltemanica, tanto che viene spontaneo chiedersi come mai gli Aphonic Threnody non abbiano fatto uscire un intero lavoro a proprio nome, mettendo assieme questi tre eccellenti brani per un minutaggio complessivo di quasi tre quarti d’ora, invece di spalmarli su due split album.
Poco male, comunque, quando la musica è di questo livello, la maniera scelta per veicolarla passa necessariamente in secondo piano.
Come detto, la seconda parte dello split è affidata ad un nome nuovo, Frowning, progetto solista funeral di Val Atra Niteris, musicista tedesco di estrazione black che ha all’attivo un album con gli Heimleiden.
Portandosi inevitabilmente appresso alcune delle caratteristiche tipiche delle one man band, il suono in questo caso è più minimale rispetto a quello di una band vera e propria come gli Aphonic Threnody, ma il risultato non è affatto disprezzabile, anzi: Funeral March è un brano decisamente in linea con gli standard del genere, esibendo una struttura compositiva capace di evocare il giusto pathos, mentre più composita appare In Solitude, dotata com’è di una toccante intro pianistica, e mostrando nel complesso il lato più riflessivo di Val.
Due brani piuttosto convincenti che costituiscono la maniera ottimale per presentarsi agli appassionati in attesa del full-length di prossima uscita .
In definitiva, questo split conferma il momento di grazia degli Aphonic Threnody, dai i quali invochiamo a gran voce al più presto un nuovo album, e ci offre un nuova realtà come Frowning che attendiamo con curiosità all’esordio su lunga distanza.

Tracklist:
1. Aphonic Threnody – Scorched Earth
2. Aphonic Threnody – The Last Stand Against the Gloom
3. Frowning – In Solitude
4. Frowning – Funeral March

Line-up :
Aphonic Threnody
Riccardo – Guitars, Bass, Keyboards
Roberto – Vocals, Lyrics
Abel – Cello
Marco – Drums

Frowning
Val Atra Niteris – Everything

APHONIC THRENODY – Facebook

Bosque – Nowhere

Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.

Quattro anni dopo il disco d’esordio, riappare con un nuovo full-length la one-man portoghese Bosque.

Non che nei quasi dieci anni di esistenza della sua creatura musicale DM si sia limitato a questi soli due album, visto che la produzione a nome Bosque è disseminata di demo ed ep, ma è normale che la dimensione su lunga distanza sia sempre la più probante, specie per chi si cimenta in ambito funeral doom.
I quaranta minuti di Nowhere ci trascinano di peso, appunto, in un non luogo, nel quale la sofferenza è il sentimento prevalente, capace di soffocare ogni accenno di melodia imprigionandolo in un sound disturbante, pregno di rumorismi collocati in sottofondo.
Lo straziato canto gregoriano che cerca di farsi largo tra strutture dissonanti e strumenti distorti ai limiti del parossismo potrebbe essere l’ideale rappresentazione dell’autoflagellazione, di un dolore auto inferto andato in loop, metafora di un’esistenza costretta a trascinarsi penosamente e confinata all’interno di schemi univoci e ripetitivi.
Un accenno melodico si fa largo pietosamente grazie a una chitarra acustica che traccia linee consolatorie prima che il martirio della carne e dello spirito riprenda, culminando nell’ossessiva reiterazione dei riff in Metamorphosis, ipotetico quanto illusorio punto di svolta oltre il quale ad attenderci c’è il nulla, ben rappresentato dal titolo della traccia conclusiva e dalla ricomparsa dei cori a conferire al disco un andamento circolare, quasi a dimostrare che l’inizio e la fine sono solo effimere definizioni.
DM non mostra alcun segno di empatia verso l’ascoltatore, la sofferenza si manifesta attraverso un dolore diffuso e straziante, senza alcuna soluzione di continuità; Nowhere mostra una forma di funeral agli antipodi del versante più melodico del genere, ma non per questo va sottovalutato: è piuttosto evidente, peraltro, che la fruizione di un lavoro di queste caratteristiche è impresa per quei pochi che possiedono la pazienza e quel pizzico di masochismo necessario per lasciarsi avvolgere da suoni che fanno ben poco per rendersi gradevoli al primo impatto; un aspetto, questo, che a seconda dei punti di vista può apparire sia un pregio sia un un limite invalicabile.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.

Tracklist:
1. Lethargy
2. Crawling
3. Metamorphosis
4. Nothing

Line-up :
DM – all instruments

Ea – A Etilla

Gli Ea si confermano una garanzia in ambito funeral melodico, anche se “A Etilla” si rivela leggermente inferiore al suo predecessore.

Dopo otto anni di attività e cinque album all’attivo (compreso quest’ultimo A Etilla) gli Ea sono riusciti a conquistarsi meritatamente uno spazio nella scena funeral doom nonchè l’attenzione degli appassionati.

Il fatto di suonare un genere che per sua natura non attira masse di fan urlanti ha di molto facilitato la loro scelta di mantenere un totale anonimato, circondando di assoluto mistero tutto ciò che esula dalla pura proposta musicale.
In tal modo, per chi si trova a dover parlare dei lavori della band russa (ma neppure la nazionalità dei musicisti coinvolti pare essere  certa), la sola base di partenza sono le lunghe tracce capaci di trasportare l’ascoltatore attraverso scenari cupi ma non disperati, nei quali la malinconia è l’autentico fattor comune.
Nel corso degli anni la proposta degli Ea è rimasta piuttosto fedele agli schemi degli esordi: lunghe litanie nelle quali chitarra e tastiere si alternano nel condurre melodie sicuramente più fruibili rispetto a gran parte delle band operanti nel settore, con un growl piuttosto canonico che recita testi in una lingua inventata, un particolare che tutto sommato può avere un suo relativo fascino ma nulla più.
La forza della band risiede piuttosto nella sua apparente semplicità, ma sottolinerei la parola “apparente” proprio perché, in un genere come il funeral doom, non vengono certo richieste acrobazie strumentali o dirompenti capacità innovative: l’ascoltatore va alla ricerca di emozioni veicolate da sonorità che manifestano il lento oblio e la caducità dell’esistenza e gli Ea in questo senso sono un’autentica garanzia.
Nonostante la loro produzione goda di una certa uniformità, sia a livello qualitativo che stilistico, non tutti gli album pubblicati sono di uguale valore: personalmente adoro “Ea II” e l’autintitolato Ea, mentre ho sempre ritenuto leggermente inferiori sia l’esordio “Ea Taesse” che “Au Ellai”; mantenendo l’alternanza tra buoni album, nel caso dei dispari, e di lavori vicini alla perfezione nei pari, A Etilla appare quindi come una versione lievemente meno ispirata del suo predecessore, con il quale ha però molto in comune, a partire dalla tracklist costituita da una sola suite della durata di circa tre quart’ora e di un alternanza piuttosto simile per distribuzione tra le parti strumentali più struggenti e i momenti nei quali i riff tendono ad irrobustirsi, mai però in maniera eccessiva.
Dopo diversi ascolti, questo lungo viaggio in un dolore soffuso e nello struggimento consolatorio prodotto dalle melodie lineari ma avvincenti dei misteriosi doomsters, riesce a conquistare definitivamente anche se, come detto, le splendide linee armoniche che venivano sciorinate nell’album omonimo si palesano solo a tratti producendo un risultato assolutamente gradevole ma non abbastanza per eguagliarne in toto la bellezza.
Detto questo, l’ascolto di A Etilla è doverosamente consigliato a tutti coloro che amano il funeral melodico, ma è certo che la recente uscita del capolavoro degli Eye OF Solitude, Canto III, ha alzato di molto l’asticella per chiunque si cimenti nel genere, incluse le band storiche o di culto come gli Ea.
Tracklist:
1. A Etilla

Slow – III Gaia

Un disco nel quale vengono sviluppate armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione.

Quando un musicista decide di chiamare la sua band Slow  difficilmente il genere che proporrà sarà speed o power metal, mentre è molto più probabile che un monicker simile si adatti alla perfezione al doom, meglio ancora se funeral, come avviene in questo caso.

Dietro al nome Slow in realtà troviamo il solo Dehà, musicista belga nel quale ci siamo già imbattuti qualche mese fa nel recensire il lavoro dei Deos; la sua avventura solista, pur restando nell’ambito dell’area death-funeral, si discosta parzialmente da quanto fatto in coabitazione con Daniel N., soprattutto perché il lavoro ha delle caratteristiche meno orientate verso il death e molto più spinte verso l’ambient-drone. III-Gaia consta di due soli brani, il primo dei quali dura ben quaranta minuti mentre il secondo si esaurisce in “solo” mezz’ora; già da questo appare piuttosto evidente quanto Dehà se ne possa infischiare di rendere più fruibile il proprio sound, e lo conferma il fatto che Gaia – Part 1 viene introdotta da oltre dieci minuti di suoni dronici, prima che la componente melodica si impadronisca del sound conducendolo con la dovuta lentezza ad un finale oggettivamente splendido. La Part 2 di fatto pare un ideale proseguimento della traccia precedente, sviluppando armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione, sulla falsariga degli Ea che, in questo momento, rappresentano decisamente un punto di riferimento condiviso per il funeral più melodico. III-Gaia è un album splendido che, purtroppo, come gran parte delle uscite relative a quest’ambito stilistico, finirà per essere ignorato dai più restando ugualmente e doverosamente consigliato a tutti coloro che, avendo dimestichezza con il genere proposto, ne sapranno trarre le dovute gratificazioni.

Tracklist:
1. Gaia – Part 1
2. Gaia – Part 2

Line-up:
Dehà – all instruments, vocals

SLOW – Facebook

Monolithe – IV

Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena.

Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena funeral doom, risalente ormai ad un decennio fa, con “I”.

La carriera della band transalpina può esser suddivisa a grandi linee in due fasi disinte: la prima con “I”, “II” e l’Ep “Interlude Premiere”, usciti tra il 2003 e il 2007, e quella attuale, con “Interlude Second” e III pubblicati l’anno scorso ed l’ultimo IV. I Monolithe del primo periodo, benché non fossero del tutto assimilabili al funeral tradizionale, operavano comunque in un ambito ad esso contiguo segnalandosi particolarmente per il ricorso ad un unico brano, normalmente tarato sui cinquanta minuti di durata, nel corso del quale venivano diluite le cupe partiture; “III”, in questo senso, ha segnato una svolta portando la band di Sylvain Begot ad avventurarsi in uno stile contrassegnato da un maggiore dinamismo, staccandosi in parte dagli stilemi tipici del funeral e mostrando apprezzabili variazioni all’interno della consueta lunghissima suite. Alla luce di questo, anche se era lecito pensare che nell’immaginario musicale della band parigina quel barlume di luce che si iniziava a scorgere stesse per trasformarsi in qualcosa in più di un’incerta fiammella, IV riporta nuovamente il suono ad immergersi nella più totale oscurità e non basta qualche sporadico coro femminile o alcuni passaggi dal tono quasi solenne a risollevare l’ascoltatore dall’abisso nel quale i nostri lo hanno fatto nuovamente sprofondare. I Monolithe in quest’occasione abbattono il primato personale di durata, spingendosi fino a ben cinquantasette minuti, contraddistinti da un’ossessivo quanto affascinante tema che, in pratica, si dipana tra l’adeguato growl di Richard Loudin e chitarre distorte e diluite fino all’inverosimile, in un quadro che talvolta assume toni apocalittici ma capace di stemperarsi in passaggi dal grande coinvolgimento emotivo. Se “III” non era certo un lavoro di agevole ascolto, IV si spinge anche oltre fino a lambire i confini dell’incomunicabilità: penetrarne l’essenza è una prova che, se superata, regala come ambito premio un’ora di rara intensità emotiva. Con questi ultimi due lavori, i Monolithe hanno di fatto creato un sound del tutto riconoscibile e mai come in questo momento il loro monicker si sposa alla perfezione con la sensazione di una musica di rara compattezza, sviluppata da una band giunta probabilmente al punto più elevato della propria parabola artistica.

Tracklist:
1. Monolithe IV

Line-up:
Benoît Blin: Bass, Guitars
Sébastien Latour: Keyboards, Programming
Sylvain Bégot: Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin : Vocals

MONOLITHE – Facebook

Deos – Fortitude, Pain, Suffering

Con questo loro riuscito esordio, i Deos si vanno ad aggiungere alla lista delle band da seguire per quel manipolo di appassionati in grado di apprezzare la dolorosa bellezza del funeral doom.

Ascoltare funeral doom è qualcosa che va oltre la semplice fruizione di un genere musicale ma rappresenta l’appartenenza a una ristretta cerchia di persone le quali, tra note volte a tratteggiare la caducità e l’ineluttabile approssimarsi della fine dell’esistenza, trovano paradossalmente l’impulso per vivere in maniera più serena e consapevole il tempo che il fato ha deciso di concedere loro, poco o tanto che sia.

Per lo stesso motivo, ha un che di miracoloso scoprire che, periodicamente, emergono nuovi musicisti dediti ad un genere dagli sbocchi commerciali pressoché nulli e difficilmente esportabile in sede live. I Deos sono una band di stanza a Londra ma costituita dal rumeno Daniel N. e dal belga Dehà; entrambi hanno avuto esperienze all’interno di gruppi alle prese con diversi generi ma, nonostante questo, a giudicare dall’esito di Fortitude, Pain, Suffering, sembra proprio che il funeral sia parte integrante del loro DNA, tanto questo lavoro si avvicina alla perfezione. Al di là della traccia introduttiva (che, a scanso di equivoci sulle tematiche trattate, si intitola Introducing Suffering … ) i quattro lunghi brani che compongono il disco d’esordio dei Deos sono altrettante dolenti peregrinazioni verso un luogo imprecisato ad di fuori dei confini del tempo e dello spazio. Il sound dei nostri trae linfa dagli imprescindibili Thergothon per avvicinarsi poi, a livello di struttura dei brani, a realtà più recenti come i Comatose Vigil e gli Ea, con le tastiere a svolgere un ruolo predominante rispetto alle chitarre. Se, come da copione, un disco di questo tipo non sbriga certo le pratiche in una mezz’oretta o poco più, a maggior ragione il suo ascolto necessita di una particolare dedizione oltre che familiarità con il genere, visto che il suo apice emotivo viene raggiunto proprio nei due brani conclusivi: Neverending Grief, soffusa marcia funebre esclusivamente strumentale e il capolavoro The Corruption Of Virtue, autentica quintessenza del funeral con i suoi riff sospesi sull’abisso mentre una tastiera dai toni tragici e solenni accompagna la gorgogliante sofferenza di una voce che ha perso ogni sembianza umana. Con questo loro riuscito esordio, i Deos si vanno ad aggiungere alla lista delle band da seguire per quel manipolo di appassionati in grado di apprezzare la dolorosa bellezza del funeral doom.

Tracklist:
1. Introducing Suffering
2. Abandoned
3. Embalmed in Tears of Sorrow
4. Neverending Grief
5. The Corruption of Virtue

Line-up :
Daniel N. – All instruments
Déhà – All instruments, Vocals

DEOS – Facebook