Heroes è un lavoro relativamente breve che gode di un’elegante levità nel suo scorrere dai tratti quasi cinematografici: l’operato del duo toscano si rivela in ogni frangente fresco ed evocativo, grazie anche ad una notevole scorrevolezza che compensa l’assenza, di fatto, di una forma canzone vera e propria.
Gli Inner Shrine sono stati una delle prime band che in Italia negli anni novanta fu in grado di accogliere le tendenze gothic doom provenienti dall’Inghilterra, per poi cercare di rielaborarle in senso operistico con l’utilizzo di più voci femminili.
In tal senso, pur nel suo apparire piuttosto acerbo al momento dell’uscita, Nocturnal Rhymes Entangled in Silence, datato 1997, è tutt’oggi da considerarsi uno degli album più importanti del genere pubblicato dalle nostre parti.
La carriera del gruppo fiorentino è stata un po’ frammentaria ma Luca Lotti, assieme al compagno della prima ora Luca Moretti, nel nuovo decennio ha ridato slancio all’attività degli Inner Shrine, prima con l’uscita di Mediceo (2010) e Pulsar (2013) e poi di questo Heroes.
Rispetto a vent’anni fa il sound ha perso oggi parte della sua asprezza per evolversi in un bellissimo metal atmosferico dalla natura per lo più strumentale dato che, salvo sporadici interventi vocali maschili, c’è un ricorso molto efficace a vocalizzi femminili di stampo operistico che in pratica assumono il ruolo di un vero e proprio strumento.
Le ariose aperture melodiche e le solenni partiture che delineano il lavoro, più che assomigliare ai modelli del gothic doom più noti, si avvicinano maggiormente ad entità particolari dello scorso secolo come gli Elend o Malleus, il tutto in una versione molto meno classica da un lato e meno intrisa di elementi dark esoterici dall’altro. Heroes è un lavoro relativamente breve che gode di un’elegante levità nel suo scorrere dai tratti quasi cinematografici: l’operato del duo toscano si rivela in ogni frangente fresco ed evocativo, grazie anche ad una notevole scorrevolezza che compensa l’assenza, di fatto, di una forma canzone vera e propria, l’unico aspetto del lavoro che potrebbe lasciare perplesso qualcuno (penso ben pochi, però).
La rielaborazione posta in chiusura del brano Cum Gloria, originariamente presente in Mediceum, vale a rendere piuttosto evidente come il sound degli Inner Shrine si sia evoluto in qualcosa di più etereo ma pur sempre affascinante, perché l’apoteosi sinfonico atmosferica di tracce come Ode of Heroes o Gaugamela o l’incedere più dolente e malinconico di Doom e Sakura, producono un carico emotivo a tratti esaltante e così diretto che già al primo ascolto si viene avvolti in maniera inevitabile da questo magnifico lavoro, ennesima dimostrazione di come in Italia non si è secondi a nessuno quando si tratta di proporre sonorità che fondono la tradizione classica con il metal.
Un’opera da ascoltare con il cuore, lasciandosi trasportare dalle note di canzoni malinconiche, colme di dolcezza e nostalgia: “love is stronger than death”.
Difficile approcciarsi e spiegare a parole un’opera cosi pregna di significati per l’autore, Juha Raivio, da sempre leader dei finlandesi Swallow the Sun, giunti con When a Shadow Is Forced into the Light al loro settimo full length, a quattro anni di distanza dal monumentale Songs from the North.
Gli ultimi tre anni sono stati molto difficili per Juha, colpito negli affetti più profondi, con la morte della compagna Aleah: per un artista di tale sensibilità è impossibile non cercare di elaborare questa tragedia attraverso la musica, da sempre capace di veicolare sentimenti profondi come vita e morte. Nel 2016 il testamento sonoro dei Trees of Eternity fu incantevole con il suo atmosferico doom e le sue melodie soavemente cantate da Aleah, mentre le laceranti tensioni nel 2017 di Hallatar, con il growl di Tomi Joutsen a incendiare l’animo, hanno rappresentato il tributo per Aleah e il grido di dolore di Juha. Dopo aver pubblicato a fine 2018 l’EP Lumina Aurea, atmosferico e rarefatto funeral/drone doom che, come afferma Raivio, rappresenta qualcosa (a black bleeding wound) che non avrebbe mai pensato di scrivere, il nuovo anno ci porta l’ultimo viaggio sonoro della band madre con il quale l’artista vuole dimostrare che l’amore è sempre più forte della morte. Il lavoro non rappresenta un’evoluzione compositiva nella storia della band, ma piuttosto un amalgama tra le sonorità presenti nei primi due dischi di Songs from the North, l’anima melodica di Gloom e la dolcezza acustica di Beauty, per un risultato che deve essere ascoltato con il cuore, tralasciando valutazioni cerebrali o ricerche evolutive che forse ora all’artista non interessano particolarmente. Otto brani meditativi, quasi intimisti, con melodie cristalline nell’incipit di ogni brano, che si increspano e si inaspriscono durante lo svolgimento; atmosfere estremamente malinconiche, ombrose, profondamente nostalgiche, impregnano ogni nota, mantenendo sempre un grande gusto e un perfetto equilibrio, laddove clean vocals tenere ed espressive sono il veicolo ideale per esprimere i malinconici testi mantenendo il growl sullo sfondo. La title track ha una toccante maestosità e il violino lacera l’anima, Kotamaki dal canto suo canta con toni caldi e appassionati prima di esplodere in un growl violento e doloroso; la forte presenza di archi dona calore atmosferico, portandoci in un mondo desolato e dolente. When a Shadow Is Forced into the Lightè un’ opera molto sentita ed emotivamente profonda: l’amore muove le corde dell’artista e prestando ad ogni passaggio la giusta attenzione, senza fretta, si è inebriati di sensazioni estremamente nostalgiche e malinconiche. E’ necessario infatti ascoltare l’album nella sua interezza, trovando il giusto tempo per lasciarsi trascinare in un viaggio che nessuno vorrebbe mai intraprendere, ma che ci intrappola in un abisso di dolore. Difficile dare una valutazione con un semplice ed arido voto ad un’opera cosi intensa, e neppure sarà importante ricordarla a fine anno tra i migliori dischi: è significativo, invece, viverla come un grande atto di amore verso la compagna di un’artista che nel brano finale ci ricorda che “it’s too late to dream again of tomorrow without the dark that will remain within me“.
Tracklist
1. When a Shadow Is Forced into the Light
2. The Crimson Crown
3. Firelights
4. Upon the Water
5. Stone Wings
6. Clouds on Your Side
7. Here on the Black Earth
8. Never Left
Line-up
Juha Raivio – Guitars, Keyboards, Songwriting, Lyrics
Matti Honkonen- Bass
Mikko Kotamäki – Vocals, Songwriting, Lyrics (track 6)
Juuso Raatikainen – Drums
Juho Räihä – Guitars
Jaani Peuhu – Keyboards, Vocals (backing)
I Ghostheart Nebula riescono a far proprie le diverse sfumature del genere convogliandole in un sound che mette sempre in primo piano l’impatto emotivo, e questo è esattamente ciò che chiede chi si approccia a queste sonorità.
I Ghostheart Nebula son il più gradito quanto inatteso regalo per gli appassionati del death doom melodico italiano.
Come ho già avuto occasione di affermare più volte, mentre per quanto riguarda il doom nella sua veste più classica nel nostro paese la scena è decisamente fiorente, le band di assoluto livello appartenenti al versante più estremo del genere (funeral o death doom che sia) sono decisamente di meno.
L’ep Reveries ci consegna quindi una nuova entusiasmante realtà nata dall’incontro tra tre musicisti lombardi (Nick Magister, Maurizio Caverzan e Bolthorn) le cui band di provenienza non rimandano in maniera scontata all’ambito doom; forse anche per questo l’approccio al genere del trio è quanto di più fresco ed emozionante ci sia stato dato modo di ascoltare ultimamente.
Pur immettendo nel tutto alcune sfumature riconducibili al post metal, i Ghostheart Nebula non si perdono in divagazioni di sorta ed esibiscono, senza particolari mediazioni, un carico di emotività travolgente dalla prima all’ultima nota del lavoro; eventuali dubbi sull’esito dell’opera vengono fatti svanire dall’opener Dissolved che, dopo una delicata introduzione, esplode letteralmente con tutto il suo fardello di malinconia e disperazione, con un Maurizio Carverzan che non indugia in clean vocals ma esibisce un growl lacerante. Elegy Of The Fall ha un impatto meno immediato ma è pervasa da un diffuso senso melodico, con reminiscenze dei Valkiria, una delle band che nell’ambito del genere nel nostro paese possono essere definite storiche: qui si possono apprezzare le doti di Nick Magister come chitarrista e quelle di Bolthorn, il cui basso è tutt’altro che un semplice elemento di contorno nell’economia del sound. A.R.T.E. (Always Remember Those Eyes) è invece, a mio avviso, il picco emozionale del lavoro, con le sue sonorità struggenti che occupano il proscenio in alternanza a rarefatti passaggi pianistici e morbide linee di chitarra, trovando un possibile termine di paragone con i recenti lavori dei Clouds; si parla quindi di assoluta eccellenza in campo melodic death doom, e ogni minimo dubbio viene spazzato via dall’ultima gemma intitolata Denialist, nella quale trova spazio la limpida voce dell’ospite Therese Tofting, la cui apparizione equivale ad un barlume di soffusa speranza incastonato nel drammatico incedere di un’altra canzona stupenda.
I Ghostheart Nebula riescono a far proprie le diverse sfumature del genere convogliandole in un sound che mette sempre in primo piano l’impatto emotivo, e questo è esattamente ciò che chiede chi si approccia a queste sonorità: Reveries è un’opera che al primo colpo si mette in scia delle migliori band del settore e ci si augura, a questo punto, che non resti l’abbagliante manifestazione di un progetto estemporaneo ma che costituisca, semmai, il primo passo di una band di grande spessore in grado anche di portare anche dal vivo la propria splendida musica.
Tracklist:
1. Dissolved
2. Elegy Of The Fall
3. A.R.T.E. (Always Remember Those Eyes)
4. Denialist (feat. Therese Tofting)
Non era facile riuscire a fare un ulteriore passo avanti rispetto ad un disco già splendido come Compassion Forlorn, ma gli Helevorn si sono letteralmente superati pubblicando un’opera con la quale si dovrà confrontare da oggi in poi chiunque voglia cimentarsi con il gothic doom.
Gli Helevorn appartengono a quella categoria di band che tipicamente, in ambito doom, si prendono tutto il tempo necessario tra un disco e l’altro decidendo di proporre nuovo materiale solo quando hanno realmente qualcosa da dire.
E da dire c’è davvero molto in questi tempi, specialmente per chi non accetta di restare indifferente di fronte alle tragedie umane che la maggior parte di noi preferirebbe nascondere sotto al tappeto, facendo finta di niente per non essere costretto a fare i conti con la propria coscienza.
Gli Helevorn, essendo maiorchini, come tutti gli isolani hanno un rapporto speciale con quel Mare Nostrum che negli ultimi anni si e trasformato nell’estrema dimora di migliaia di esseri umani, costretti a rischiose e spesso fatali traversate per sfuggire alle guerre o semplicemente alla povertà, e spinti virtualmente sott’acqua da una politica volta solo ad ottenere facile consenso da parte di popoli colpevoli, a loro volta, di una ributtante ignavia.
L’aver dedicato un intero album al dramma dei migranti, in un momento in cui chi solleva il problema viene visto quasi sospetto, fa onore alla sensibilità di una band che d’altra parte anche in passato non ha mai rinunciato a prendere posizioni ben definite in ambito sociale o politico.
A livello musicale quella degli Helevorn è stata una crescita lenta ma costante e se già Compassion Forlorn aveva sancito l’ingresso del gruppo iberico tra i nomi di punta della scena gothic death doom europea, Aamamata rafforza questa posizione con il valore aggiunto, come detto, di contenuti lirici importanti.
Per capire appieno la potenziale levatura dell’album basta godersi la visione di un’opera che unisce magistralmente musica, filmati e grafica come è il video di Blackened Waves, brano commovente per intensità e drammatica evocatività: Josep Brunet riesce a lacerare l’anima dell’ascoltatore utilizzando praticamente la sola voce pulita, in virtù di una profondità interpretativa che non lascia dubbi alcuni sulla sincerità del suo sentire, e il growl che affiora solo nell’ultimissima parte del brano è strettamente funzionale a rimarcare con forza il dolore, la rabbia e l’impotenza di chi vuole avere ancora occhi per vedere.
Il valore dell’intero lavoro emerge poi con prepotenza ascolto dopo ascolto, facendo sì che ad ogni passaggio un brano sempre diverso si manifesti di volta in volta in tutto il suo splendore: così, se il singolo appena citato appare difficilmente superabile, successivamente la stessa impressione verrà fornita dalle ritmiche coinvolgenti e dalle aperture melodiche di A Sail to Sanity e Forgotten Fields, dalla paradiselostiana Once upon a War o dalla superba Aurora, il cui incedere nel finale riporta inevitabilmente alla più grande metal band iberica (in questo caso lusitana) di sempre.
E ancora la struggente Goodbye Hope, dall’enorme potenziale evocativo tra passaggi più soffusi e sussulti drammatici, appare quale picco qualitativo insuperabile, ma successivamente lo stesso può valere per la cangiante The Path to Puya, che dal doom più cupo passa senza alcun contraccolpo alla cristallina voce di Heike Langhans (Draconian), per arrivare al dolente e controllato finale dell’album affidato a La Sibil·la, canzone dal testo interamente in catalano.
Una citazione a parte la merita Nostrum Mare, traccia che è di fatto il manifesto lirico dell’album, con la quale gli Helevorn hanno voluto coinvolgere idealmente gran parte delle le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo affidando parti del testo a voci recitanti nelle diverse lingue (è una grande soddisfazione scoprire che per quella italiana sia stato scelto un caro amico come Pablo Ferrarese dei Tenebrae); “Et deixo un pont d’esperança i el far antic del nostre demà perquè servis el nord en el teu navegar / Et deixo l’aigua i la set, el somni encès i el record / Et deixo un pont de mar blava / El blau del nostre silenci d’on sempre neix la cançó”: ecco, chi avesse voglia di tradursi questi versi avrà ben chiaro quale sia lo spessore dell’intero lavoro anche sul piano strettamente poetico.
La produzione affidata ad un fuoriclasse come Jens Bogren rende Aamamata inattaccabile anche dal punto di vista della resa sonora e il resto lo fa la band, capace di tessere melodie assimilabili rapidamente ma destinate a fissarsi per sempre nella memoria, sulle quali poi si staglia la prestazione vocale di un Josep Brunet che, oggi, nella speciale classifica combinata tra clean vocals e growl, si può considerare a buon diritto uno dei migliori cantanti in circolazione.
Non era facile riuscire a fare un ulteriore passo avanti rispetto ad un disco già splendido come Compassion Forlorn, ma gli Helevorn si sono letteralmente superati pubblicando un’opera con la quale si dovrà confrontare da oggi in poi chiunque voglia cimentarsi con il gothic doom.; senza dimenticare, infine, che per le sue caratteristiche Aamamata potrebbe risultare gradito non solo ai doomsters più incalliti aprendo agli Helevorn la possibilità di raggiungere un’audience più vasta, visto che, pur inducendo con costanza alla commozione, il sound non mostra quasi mai le caratteristiche più opprimenti e depressive del genere lasciando spazio solo ad una malinconia che, come un indolente moto ondoso, si infrange sulla nostra anima erodendola poco alla volta.
May the waves remind us of our shame and misery, forever
Tracklist:
1. A Sail to Sanity
2. Goodbye, Hope
3. Blackened Waves
4. Aurora
5. Forgotten Fields
6. Nostrum Mare (Et deixo un pont de mar blava)
7. Once upon a War
8. The Path to Puya
9. La Sibil·la
Line-up:
Josep Brunet – Voices
Samuel Morales – Guitars
Guillem Morey – Bass
Sandro Vizcaino – Guitars
Enrique Sierra – Keys
Xavi Gil – Drums
Il ritorno degli A Pale Horse Named Death è bellissimo ed assolutamente imperdibile per gli amanti del sound nato tra le vie di Brooklyn una trentina d’anni fa.
Quello che nel 2010 sembrava un progetto estemporaneo, nel corso degli anni è diventato uno dei gruppi più interessanti del panorama doom/gothic statunitense, dal sangue di tipo 0 negativo.
Sal Abruscato, ex tra gli altri di Type 0’Negative e Life Of Agony, ha continuato a percorrere la strada aperta dal guru del genere Peter Steele con i A Pale Horse Named Death, arrivati con questo ottimo When the World Becomes Undone al terzo full length in meno di dieci anni.
Masterizzato da Maor Appelbaum (Faith No More,Yes, Sepultura, Halford) questo nuovo mastodontico lavoro del gruppo newyorkese risulta l’ennesimo grattacielo eretto sopra piani di musica metal/rock dalla struttura doom, tra i quali si aggirano anime grunge, hardcore e metal che non trovano pace.
Un’ora di metallo si trascina tra i resti di un mondo messo a nudo e ormai allo sfascio, con un lento incedere che a tratti lascia che la rabbia prenda il sopravvento, con schizzi di oscuro hardcore che sferrano colpi mortali all’atmosfera gotica e disillusa dell’album.
Quei muri sonori, che sono la firma del doom metal suonato nella grande mela, tornano a far tremare le membrane di casse lasciate nella polvere del tempo prima che il nuovo millennio vedesse la luce, cimiteri dimenticati tra i quartieri di una metropoli oscurata dal male e che portano sulle lapidi i titoli di brani come la title track, Feel In My Hole, Lay With The Wicked, Splinters e che vedono girare tra la terra smossa velate forme sonore dalle somiglianze con Type 0 Negative, Life Of Agony, Alice In Chains e Danzig.
Il ritorno degli A Pale Horse Named Death è bellissimo ed assolutamente imperdibile per gli amanti del sound nato tra le vie di Brooklyn una trentina d’anni fa.
Tracklist
1.As It Begins
2.When the World Becomes Undone
3.Love The Ones You Hate
4.Fell in My Hole
5.Succumbing to the Event Horizon
6.Vultures
7.End of Days
8.The Woods
9.We All Break Down
10.Lay with the Wicked
11.Splinters
12.Dreams of the End
13.Closure
Line-up
Sal Abruscato – Vocals, Guitars
Eddie Heedles – Guitars
Eric Morgan – Bass
Joe taylor – Guitars
Johnny Kelly – Drums
Never Pretend è un disco che trova una sua ragione d’essere nei passaggi più atmosferici, delineati da un buon lavoro chitarristico, ma ciò avviene in maniera troppo sporadica e frammentaria per spingere quest’album dei Locus Titanic Funus oltre una sufficienza di stima.
Secondo full length dei russi Locus Titanic Funus, band guidata da Alexey Mikhaylov, musicista molto attivo in passato all’interno di band minori del panorama metallico moscovita.
Questo nuovo lavoro, che arriva a cinque anni di distanza dall’esordio, di per sé non sarebbe affatto deprecabile, perché il gothic doom offerto presenta momenti dal buon impatto emotivo inseriti, però, all’interno di un contesto eccessivamente corposo e dalle pecche rinvenibili nell’uso della voce e in una produzione non al passo con i tempi.
In sede di presentazione vengono citate diverse band di riferimento, tra le quali i Saturnus, in maniera quanto meno azzardata, e i Desire, storica band portoghese autrice di due magnifiche opere alla fine dello scorso millennio, con i quali invece qualche tratto comune è rintracciabile.
Ma se il growl sgraziato e la produzione un po’ piatta erano accettabili ai tempi, specie se i dischi in questione erano i magnifici Infinity e Locus Horrendus, tali aspetti diventano un boomerang vent’anni dopo se il songwriting non raggiunge o almeno avvicina quei livelli.
A tratti sembra che i Locus Titanic Funus assemblino tutte le loro influenze senza però amalgamarle fino in fondo, per cui si ha l’ impressione di ascoltare band diverse all’opera, talvolta addirittura all’interno del stesso brano. La voce femminile, che di solito non è una soluzione che mi faccia impazzire, qui si sarebbe potuta rivelare invece una buona panacea ma la brava Mila Ionova (anche al violino) viene utilizzata con il contagocce offrendole uno spazio più ampio solo in The Flowertale, traccia di chiusura all’insegna di un folk che con il resto del lavoro c’entra ben poco.
Un’ora e dieci di gothic doom privo di una direzione precisa e, soprattutto, di spunti rimarchevoli è troppo anche per l’appassionato più fedele ed accanito del genere: Never Pretendè un disco che trova una sua ragione d’essere nei passaggi più atmosferici, delineati da un buon lavoro chitarristico, ma ciò avviene in maniera troppo sporadica e frammentaria per spingere quest’album dei Locus Titanic Funus oltre una sufficienza di stima.
Tracklist:
1. Deadly Sun Wretched Skies
2. Sweet Embrace of Cowardice
3. When the Robins Fall
4. Asphalt
5. Piper
6. You Are My Despair
7. Eornion… My Dear Phantasm
8. The Flowertale
9. Forgive Us
Per i Krypta un inizio incoraggiante, ovviamente con tutte le riserve e le incognite derivanti da una proposta dal minutaggio così ridotto.
Primo passo discografico per questa band ucraina formata da ben sette elementi.
Il frutto di questo spiegamento di forze è un demo composto da due brani, intitolati The Name e Omerta.
Bisogna dire che il gusto melodico esibito dai nostri è davvero notevole e, pur senza inventare chissà che cosa, le due canzoni si fanno ascoltare piacevolmente, grazie anche al contrasto tra il growl sgraziato e la voce stentorea (anche troppo, specie in The Name), ma non stucchevolmente lirica della brava violinista Tetyana.
Il gothic doom dei Krypta si dimostra all’altezza della situazione in virtù di un songwriting che non dimentica il fine ultimo del genere, che è ovviamente il suo essere di grande impatto emotivo.
Le due tracce sono piuttosto omologhe, anche se The Name appare più sognante e meglio delineata a livello melodico, mentre Omerta è un po’ più ruvida ma non meno efficace, grazie al bel lavoro violinistico nella fase centrale.
Da rivedere il growl di Roma e la voce di Tetyana, perché entrambi, quando forzano in maniera eccessiva, rischiano di andare fuori giri, e la chitarra solista, non sempre impeccabile nel tessere le buone armonie messe in campo dalla band.
Per i Krypta un inizio incoraggiante, ovviamente con tutte le riserve e le incognite derivanti da una proposta dal minutaggio così ridotto.
Line-Up:
Eugene Balitsky – guitar
Alexander Melnikov – bass
Igor – drums
Tetyana Tugolikova – vocals / violin
Vlad Surnin – keys
Dmytro Omelechko – guitar
Roma Kostyuchenko – vocals
Nel complesso l’ep finisce per incidere meno del dovuto: gli otto brevi brani faticano a farsi ricordare dando l’impressione d’essere al cospetto di un lavoro interlocutorio, che arriva dopo quattro anni nel corso dei quali gli Adfail non sembrano aver fatto quei progressi che sarebbe stato lecito attendersi.
I russi Adfail, dopo due discreti lavori si lunga distanza, si ripresentano con questo ep di otto brani intitolato Poetry Of Ruins.
Il gothic doom della band di Kaliningrad è apprezzabile, per quanto nella media, ma si porta dietro diverse zavorre tra le quali un apporto vocale femminile che spezza in maniera irrimediabile il buon pathos creato dal connubio tra il growl maschile e le melodiche atmosfere, spesso punteggiante da un ottimo lavoro degli strumenti ad archi.
L’opener Ode evidenzia subito questo aspetto, rivelandosi un brano notevole nel quale il forzato inserimento di una voce da soprano (neppure eccelsa) ha, appunto, l’effetto di rompere il ritmo inficiando il buon incedere del brano.
Il genere, nell’interpretazione degli Adfail, è piuttosto orecchiabile e ricco di buone intuizioni, ma come tanti altri anche questi ragazzi russi non riescono a sottrarsi a quello che, a mio avviso, è più un pedissequo tentativo di seguire una moda che non una reale necessità; detto ciò, Poetry Of Ruins si snoda non senza intoppi, specialmente quando la band prova dei cambi di ritmo dei quali, anche in questo caso, non si sentiva affatto la mancanza.
Il gothic doom, in fondo, non è neppure una materia così difficile da interpretare, a patto di non complicarla eccessivamente: quando si trova una buona chiave melodica non c’è bisogno di avvitarsi in soluzioni volte solo a far perdere il filo conduttore a chi ascolta.
Emblematico è il caso di un brano come Escape, che parte abbastanza bene ed è più grintoso di altri, ma viene inopinatamente trasformato in un pastrocchio di difficile decrittazione, con tanto di improbabile finale arabeggiante.
Nel complesso l’ep finisce per incidere meno del dovuto: gli otto brevi brani faticano a farsi ricordare (tranne appunto la già citata Ode) dando l’impressione d’essere al cospetto di un lavoro interlocutorio, che arriva dopo quattro anni nel corso dei quali gli Adfail non sembrano aver fatto quei progressi che sarebbe stato lecito attendersi.
Tracklist:
1. Ode
2. After Apostasy
3. Beautiful Dawn
4. Escape
5. I Am the Sun
6. Fairytale
7. Snow
Line-up:
Alexander Popovich – guitar, vocals, lyrics, music
Miron Kosciukow – viola, arrangements
Alexander Konshen – bass
Dmitry Belunkin – keyboards
Nikolay Utkin – drums
Vladislav Nikolaenko – guitars
Yulia Alymova – vocals, keyboards
In questo mondo ovattato le regole della nostra dimensione vengono cambiate e si entra in un qualcosa di profondamente diverso. Un disco suonato e composto con cura e dedizione, e che non lascia nulla al caso, una splendida fuga.
Gli Omit suonano un doom metal con forti influenze funeral e gothic, con la splendida ed eterea voce femminile di Cecilie Langlie.
I norvegesi sono qui alla loro terza prova, e questo è il seguito di Medusa Truth Part One del 2014. Il loro intento è di illustrare con ogni disco un determinato periodo della vita di ciascun uomo, esplorando ciò che si vede e soprattutto ciò che non si vede. Le canzoni degli Omit durano molto e sono tutte composte come se fossero piccole opere, molto ben strutturate ed epiche. Questo secondo disco della serie Medusa Truth prende le mosse da questa frase di Jack London che possiamo trovare nel libro L’Ammutinamento della Elsinore del 1914 : “The profoundest instinct in man is to war against the truth; that is, against the Real. He shuns facts from his infancy. His life is a perpetual evasion. Miracle, chimera and to-morrow keep him alive. He lives on fiction and myth. It is the Lie that makes him free. Animals alone are given the privilege of lifting the veil of Isis; men dare not. The animal, awake, has no fictional escape from the Real because he has no imagination. Man, awake, is compelled to seek a perpetual escape into Hope, Belief, Fable, Art, God, Socialism, Immortality, Alcohol, Love. From Medusa-Truth he makes an appeal to Maya-Lie.”
Insomma come dare torto a Jack… la nostra vita è una continua fuga, e anche l’ascolto di questo bell’album, decadente e dolce, è una fuga da ciò che viviamo o da ciò che siamo. E questo disco è una bella fuga, essendo gli Omit un buon gruppo di doom metal melodico, con parti funeral, ma soprattutto un gran substrato gotico che permea il tutto, dando un’accezione romantica al loro lavoro. Il loro incedere è lento, ma possente, dolce ma tagliente, la musica è l’ancella della splendida voce di Cecilie, ma non è affatto un semplice ornamento, ma una parte importante del tutto. In questo mondo ovattato le regole della nostra dimensione vengono cambiate e si entra in un qualcosa di profondamente diverso. Un disco suonato e composto con cura e dedizione, e che non lascia nulla al caso, una splendida fuga.
Tracklist
01. Passage
02. Veil Of Isis
03. Medusa Truth
Line-up
Cecilie Langlie – Vocals
Kjetil Ottersen – Keyboards
Tom Simonsen – Guitars, keyboards, bass, drums and programming.
Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità.
I belgi Fading Bliss arrivano con Journeys in Solitude al loro secondo full length in circa un decennio di attività.
Il precedente From Illusion to Despair, risalente al 2013, era stato un buon esordio che attingeva a piene mani dalla tradizione del gothic doom novantiano, con tanto di voce femminile a sostenere un growl profondo, entrambi adagiati su un tappeto melodicamente malinconico.
Nonostante siano trascorsi cinque anni non c’era da attendersi che le coordinate sonore potessero subire una variazione, visto che alla fine il genere, così come lo amiamo, è questo, prendere o lasciare; quello che viene richiesto alle band che vi si cimentano è produrre emozioni e metterci comunque qualcosa di proprio per evitare di apparire delle copie, seppur ben riuscite, delle band che hanno fatto la storia.
Ecco, se devo trovare un difetto ai Fading Bliss è proprio la mancanza di una maggiore personalità, che è poi l’ingrediente che rende irrinunciabile l’ascolto di un album: a tratti, infatti, sembra d’essere al cospetto di un gruppo abile nell’assemblare tutte le istanze provenienti dal passato senza però riuscire, se non a tratti, nell’intento di far scaturire quella scintilla capace di scuotere emotivamente l’ascoltatore. Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità: indubbiamente l’opener Ocean è il brano migliore dei quattro con le sue notevoli intuizioni melodiche, mentre alla successiva Mountain manca il cambio di passo necessario per dare continuità all’evocativa chiusura della traccia precedente.
La cover di A Forest dei Cure è coraggiosa nel suo intento (cimentarsi con brani iconici come questo è sempre un’arma a doppio taglio), ma se è vero che è inutile proporre composizioni altrui in maniera eccessivamente fedele, qui i Fading Bliss eccedono in senso opposto, visto che in comune con il capolavoro di Robert Smith ci sono fondamentalmente solo il titolo ed il testo (apprezzabile comunque il lavoro della chitarra solista, come del resto avviene un po’ in tutto il disco).
I diciassette minuti di Desert, che regalano nuovamente un bellissimo assolo nella sua parte finale, chiudono un album gradevole e ben costruito ma che, al di là dei notevoli ma non sempre adeguatamente sfruttati guizzi chitarristici, fatica ad imprimersi con forza nella memoria: la dicotomia tra voce maschile e femminile funziona sulla carta ma, all’atto pratico, è troppo netto lo scostamento dei livelli di tensione percepibili allorché entra in scena l’una o l’altra voce.
Parlando di una band di Liegi mi si consenta il paragone ciclistico: con Journeys in Solitude i Fading Bliss dimostrano di reggere agevolmente l’andatura sostenuta del gruppo in pianura ma, allo stato attuale, manca loro quello spunto per restare con i migliori allo scollinamento della di Côte de Saint-Nicolas; questo almeno oggi, ma non è detto che non ci possano riuscire in futuro, visti i buonissimi mezzi a loro disposizione.
Tracklist:
1. Ocean
2. Mountain
3. A Forest
4. Desert
Nuovo lavoro da parte dello storico gruppo toscano, interprete di un incantevole hard prog gotico, dalle inflessioni ora più folk ora più doomeggianti. Puro romanticismo dark in musica, malinconico e melodico insieme.
In pista ormai dal lontano 1983, i fiorentini Goad confermano con questo loro nuovo lavoro tutta la propria creatività artistica, forti di un’identità che li vede pressoché unici nel panorama musicale di casa nostra.
La persistenza della tradizione: forse solo così si potrebbe definire la loro musica, erede del prog (King Crimson, Pink Floyd, VDGG), dell’hard rock anni Settanta (Led Zeppelin, Triumph, Rush, primi Uriah Heep) e del dark più occulto (High Tide, Atomic Rooster, Goblin, Devil Doll). In questa nuova opera – la dicitura non è casuale, in quanto Landor è una sorta di mono-traccia d’oltre cinquanta minuti suddivisa in tredici parti (o movimenti, se si vuole) – l’amore dei quattro toscani, a cui si aggiunto in veste di pianista e ingegnere del suono il lucchese Freddy Delirio (tastierista già con i Death SS e solista notevolissimo), per tematiche romantiche e decadenti trova una ulteriore e nuova declinazione, sonora e canora: progressive tastieristico, doom e impasti folk (con la passione per il gotico a fare, ogni volta, da collante) intersecano i loro piani, in quello che è un concept dalla struggente bellezza, letteraria, oltre che musicale. Non a caso, il secondo CD di questo doppio è un omaggio a Edgar Allan Poe, registrato dal vivo, al Parterre di Firenze, nel luglio dell’oramai lontano 1995: un documento davvero storico, quindi, inciso da una formazione della quale è rimasto solo il vocalist, che arricchisce ulteriormente questa pubblicazione. Alchimisti e teatrali interpreti dell’hard prog, non senza una profonda consistenza materica (si veda l’uso della doppia batteria in Landor), i Goad allora come oggi erano e restano da apprezzare senza riserve, coraggiosi e coerenti.
Tracklist
1- Written on the First Leaf of My Album
2- On Music
3- To One Grave
4- Bolero
5- Goodbye, Adieu
6- Life’s Best
7- Where Are Sights
8- Decline of Life
9- An Old Philosopher
10- The Rocks of Life
11- Defiance
12- Brevities
13- Evocation
14- I’ll Celebrate You
15- Fairyland
16- Dream Within a Dream
17- The Sleeper
18- To One in Paradise
19- Dreamland
20- Alone
21- The Haunted Palace
22- The City in the City
23- The End
Line up
Alessandro Bruno – Guitars, Reeds, Violin
Maurilio Rossi – Vocals, Bass, Guitar, Keyboards
Paolo Carniani – Drums
Enrico Ponte – Drums
Gli otto brani che vanno a comporre il lavoro sono tutti decisamente validi, ognuno equilibrato nel suo oscillare tra un’anima più pesantemente metallica e quella più malinconica e gotica.
I portoghesi The Chapter sono una delle non poche band formatesi nello scorso decennio che, dopo un’uscita d’assaggio, hanno atteso molto tempo prima di dare alla luce un primo full length.
La band di Lisbona prova ad inserirsi nel filone gothic dark, immettendo nel proprio sound la robustezza del doom, e lo fa con un buon risultato tenendo fede alla consolidata traduzione lusitana che prende vita dai Moonspell ma passa anche da nomi meno famosi ma ugualmente rilevanti come Heavenwood,Painted Black e A Dream Of Poe.
Il vocalist Pedro Rodrigues si disimpegna ottimamente piazzando nelle parti più ruvide un pregevole growl, mentre le clean ricordano quelle di Jonas Renkse dei Katatonia e anche certe aperture melodiche riportano al periodo (secondo me) d’oro di Tonight’s Decision e Discouraged Ones.
Se poi aggiungiamo che, quando il sound si sposta su lidi gothic doom, il piacevole riferimento a tratti sembrano diventare i migliori Evereve, il quadro che si presenta è quello di una band che cerca di trovare soluzioni in qualche modo meno prevedibili, proprio in quanto pare attingere da fonti meno scontate rispetto a quanto fatti da altri gruppi.
Gli otto brani che vanno a comporre il lavoro sono tutti decisamente validi, ognuno equilibrato nel suo oscillare tra un’anima più pesantemente metallica e quella più malinconica e gotica: sicuramente le due canzoni iniziali, la title track dalle molte sfaccettature e Shattered Emotions, più rarefatta e vicina al melodic death doom d’autore, squarciano il velo sul potenziale dei The Chapter, il cui operato si rivela convincente e sempre intriso di un buon grado di emotività, sia quando sono i Moonspell a fungere da faro (Aenima Vipera) sia sempre i Katatonia (For A Ghost, To Live For) proprio per la bravura della band di Setubal nello svincolarsi da un’interpretazione calligrafica inserendo frequenti variazioni di ritmo.
Una bella prova che ha la sola controindicazione di un connubio tra monicker (The Chapter) e titolo dell’album (Angels And Demons) che, dalla ricerca su Google, restituisce praticamente solo informazioni sul best seller di Dan Brown o sul film che ne fu tratto, e questo non giova certo ad una divulgazione efficace delle informazioni riguardanti la band; quando è però la musica a parlare, i lusitani mettono sul piatto una padronanza del genere non scontata, tale da far presupporre e sperare che questo sia solo il nuovo inizio un di un percorso musicale ripartito con il piede giusto.
Tracklist:
1. Angels And Demons
2. Shattered Emotions
3. Aenima Vipera
4. For a Ghost
5. This Scar
6. To Live For
7. The Past is Dead
8. The Librarian
Line up:
Eurico Mealha – Bass
João Gomes – Guitar
Pedro Almeida – Guitar
Pedro Antunes – Drums
Pedro Rodrigues – Vocals
Il gruppo milanese fa un disco che commuove e che, come accadeva in alcuni concept prog degli anni settanta, porta l’ascoltatore lontanissimo, ponendo la maggiore distanza possibile fra lui e la Terra, luogo di eterno dolore.
Disco esoterico di gothic prog metal, una magia per ricordarci che non apparteniamo a questa terra, e che questa terra non è la nostra casa, ma siamo fatti per andare oltre, molto oltre, forse verso Marte che è il protagonista di questa terza prova dei milanesi Labyrinthus Noctis, un gruppo che difficilmente sbaglia un disco.
La novità più grossa è l’entrata in formazione della dotatissima cantante Ivy che porta la band ad un livello superiore. Il disco è un viaggio esoterico oltre il nostro pianeta ospitante, verso il pianeta rosso, e ovviamente ciò vale anche per ciò che sta dentro di noi. Il concept è diviso in tre diversi movimenti, e tutti assieme concorrono a descrivere un viaggio cosmico verso e dentro Marte. Quest’ultimo pianeta è una delle mete più anelate dalla razza umana, una delle ultime Thule, un confine anche angusto per le dimensioni dell’universo, ma un passo enorme e forse impossibile per noi umani. Il gruppo milanese ha sempre fuso nel suo stile musicale diversi generi con grande sapienza e gusto, ma qui si supera. Opting For The Quasi-Steady State Cosmology è un disco di gothic prog doom, uno spartito terrestre per musica celestiale, e l’andamento è praticamente cinematografico, come se la musica descrivesse i fotogrammi di un film inquietante ed inquieto, dove tutto si muove, e il moderno si sfasa per copulare con l’estremamente antico, in una fusione che genera diversi multiversi, descritti mirabilmente dai Labyrinthus Noctis. Il gruppo milanese fa un disco che commuove e che, come accadeva in alcuni concept prog degli anni settanta, porta l’ascoltatore lontanissimo, ponendo la maggiore distanza possibile fra lui e la Terra, luogo di eterno dolore. Un gran bel disco che assicura tanti ascolti e molti sospiri di cuore. Il disco si conclude con la cover di Padre Davvero di Mia Martini, una canzone che parla davvero al cuore, che si lega a Marte e che qui è interpretata magistralmente.
Tracklist
Chapter One: DISCUSSION AND CONTROVERSIES IN THE LIGHT OF FURTHER X-RAY
OBSERVATIONS
1. Reaching The Last Scattering Surface
2. Cygnus X-1 (con Chiara Tricarico alla voce)
3. Melancholia
4. Negentropy
Chapter Two: DARK ENERGY EQUATION-OF-STATE (EOS) AND ITS APPLICATIONS
5. Lament Of Melusine
6. Linear A
7. Kosmonaut Vladimir Komarov
8. Amborella Trichopoda
Chapter Three : FROM HYPERSPACE TO MULTI MESSENGER ASTRONOMY
9. Noctis Labyrinthus
10. Hydrocarbon Lakes
11. Kiss The Scorpion, or The Ballad Of Lilith And Mars
12. Wings Of Honneamise
13. Padre Davvero
Per chi ha apprezzato in passato band come The Third And The Mortal, Stream Of Passion e, ovviamente, The Gathering era Anneke, The Dawning potrebbe rivelarsi una gradita sorpresa.
I Paragon Collapse sono una band rumena proveniente da Iasi, città che si trova vicino al confine con la Moldavia e piuttosto lontana geograficamente dalle zone più tradizionalmente foriere di band di un certo spessore come lo sono la capitale e la vicina Brasov, o Timisoara.
Forse anche per questo il sound del gruppo fondato dal chitarrista Alex Lefter si stacca parzialmente dalle forme di metal che, abitualmente, provengono dalla Romania, optando per un sound gothic doom dai tratti piuttosto pacati e che, pur non brillando per originalità, si fa apprezzare non poco per la propria limpidezza.
Aiuta senza dubbio in tal senso la voce cristallina di Veronica Lefter, vocalist e violinista che utilizza al meglio le proprie doti fornendo una prova misurata che ben si confa ad un sound per lo più soffuso, nel quale le accelerazioni sono rade così come i passaggi più robusti.
Nonostante siano al debutto, i Paragon Collapse hanno alle spalle una storia piuttosto lunga, per cui di sicuro non si ha a che fare con musicisti alle prime armi, cosa che si evince chiaramente dalla competenza nel trattare la materia, grazie alla quale riescono ad evitare certe stucchevolezze a rischio nel genere e rendere tutto sommato digeribile un lavoro della durata di quasi un ‘ora.
Volendo trovare qualche difetto alla proposta, non si può fare a meno di notare che la lunghezza dei brani, in certi casi oltre i dieci minuti, non agevola di sicuro la fruizione, così come una certa uniformità stilistica e la mancanza di un brano trainante impediscono a The Dawning di raggiungere un livello di assoluta eccellenza.
Detto ciò, l’operato deiParagon Collapse è decisamente piacevole e trova i suoi momenti migliori in due brani che in qualche modo mostrano i migliori aspetti della band: quello più rarefatto ed evocativo, con l’opener The Endless Dream, e quello più progressivo e robusto della conclusiva Deliverance.
Per chi ha apprezzato in passato band come The Third And The Mortal, Stream Of Passion e, ovviamente, The Gathering era Anneke, The Dawning potrebbe rivelarsi comunque una gradita sorpresa.
Tracklist:
1. The Endless Dream
2. The Stream
3. A Whisper of Destiny
4. Nirvana
5. Climbing the Abyss
6. A Winter Life
7. Deliverance
Un album frizzante e dal grande charme: l’ascolto che ne risulta è incredibilmente piacevole e di assoluto trasporto.
La musica dei Visionoir non è sicuramente di quella che trovi da tutte le parti. Il progetto nasce da un’idea di Alessandro Sicur, che fonda il progetto nel 1998 e lavora duramente a The Waving Flame of Oblivion, quest’album che esce solamente a fine 2017 dopo anni di rielaborazioni e nuovi contenuti.
Attesa lunga in stile (ormai) Tool, ma possiamo piangere da un solo occhio ascoltando i grandi risultati prodotti dal musicista friulano: il suo è un sound non inquadrabile in nessun genere preciso, e nemmeno identificabile da un singolo aggettivo. Questo è certamente il punto di forza del progetto, che propone uno sperimentalismo musicale variegato al 100% , prendendo elementi di post rock, avvertibile in pezzi come Coldwaves e A Few More Steps, progressive e space rock, ma non solo. Il sintetizzatore collabora nella creazione di tutto un universo musicale che schizza in mille direzioni e non è inquadrabile solamente nella categoria rock, per quanto già vastissima: basti ascoltare brani emblematici in tal senso come Shadowplay e Distant Karma.
L’artista esplora tutte le atmosfere possibili provocando nell’ascoltatore qualsiasi emozione meno che la noia. C’è sempre da aguzzare le orecchie durante l’ascolto, per cogliere ogni nuova sonorità introdotta nel viaggio musicale. L’unica band più rinomata, il cui sound è avvicinabile a ciò che il musicista italiano ha fatto, sono gli Arcane Alchemists, accompagnati da altri meno noti al grande pubblico.
Per il momento il nome Visionoir si trova tra questi ultimi ma siamo solo al primo vero e proprio album. Ci auguriamo solo che questo sia l’inizio una produzione più frequente negli anni a venire ma, ovviamente, senza mai cadere nell’errore opposto di sfornare album a raffica, come talvolta vediamo accadere ad altre one-man band.
Tracklist
1. Distant Karma
2. The Hollow Men
3. 7even
4. The Discouraging Doctrine of Chances
5. Shadowplay
6. Electro-Choc
7. Coldwaves
8. A Few More Steps
9. Godspeed Radio Galaxy
L’album viene eseguito con tale competenza e credibilità da renderlo un ascolto tutt’altro che superfluo, non solo per gli appassionati più attenti alle produzioni provenienti dall’est europeo.
Gradito ritorno per i Polynove Pole (Полинове Поле), band che tiene fede ad una ormai consolidata tradizione ucraina in ambito gothic death doom.
Il gruppo di Lviv ha iniziato la propria carriera nello scorso decennio ma, aver pubblicato due ep ed un full length tra il 2008 ed il 2009, è rimasta a lungo in silenzio prima di rifarsi viva con questo nuovo ep, On the Edge of the Abyss, sul quale in teoria non ci sarebbe moltissimo da dire, nel bene e nel male, trattandosi della riproposizione di un modello oramai consolidato da quasi due decenni.
In realtà l’unico dato relativamente negativo è proprio quello legato ad una inevitabile prevedibilità del sound, che non si sposta di una virgola dagli stilemi del genere, incluso il ricorso alla doppia voce (in growl maschile e operistica femminile); in compenso, però, il tutto viene eseguito con tale competenza e credibilità da rendere l’album un ascolto tutt’altro che superfluo, non solo per gli appassionati più attenti alle produzioni provenienti dall’est europeo.
I Polynove Pole, infatti, sciorinano cinque brani molto belli nei quali la fa da padrona la bravissima Marianna Laba, con la sua impeccabile impostazione da soprano operistico, un elemento determinante che va ad inserirsi all’interno di un contesto nel quale le quattro canzoni (la quinta è un beve interludio strumentale) sono sapientemente costruite attorno alla dicotomia tra le due voci, rimarcando il pregevole doppio lavoro di Yurii Krupiak alle prese con la chitarra ed il growl.
Valga come esempio e spinta ad approfondire la conoscenza della band, per l’ipotetico ascoltatore, la conclusiva title track, brano sognante, a tratti epico e capace di toccare le giuste corde emotive senza scadere nella stucchevolezza di certe proposte similari.
I Polynove Pole esibiscono nel migliore dei modi le coordinate di un genere nel quale lo spazio per particolari variazioni sul tema è piuttosto ridotto, per cui non resta, per chi lo propone, che focalizzarsi sulla scrittura e sulla concretezza della forma canzone, aspetti riguardo ai quali il gruppo ucraino dimostra ampiamente di sapere il fatto proprio.
Tracklist:
1. Сивий ангел (Grey Angel)
2. Каїнові діти (Cain’s Children)
3. Вогні в тумані (Lights in the Fog)
4. Нічні птахи (The Nightbirds) – Remake 2017
5. On the Edge of the Abyss
Gli Aeonian Sorrow si rivelano il veicolo ideale per portare definitivamente alla luce il dirompente potenziale di un’artista a 360 gradi come Gogo Melone.
Uno dei rischi che si corrono nell’approcciarsi superficialmente ad un’opera di questo tipo è quello di derubricarla ad un normale album di gothic death doom con voce femminile, sulla falsariga di Draconian e band similari.
Commettere un errore del genere significherebbe non solo non rendere giustizia ad un disco meraviglioso come Into The Eternity A Moment We Are ma anche privarsi, per pigrizia o ignavia, di uno dei rari esempi di arte musicale in grado di toccare le giuste corde emozionali lungo l’intero scorrere dei brani.
Gli Aeonian Sorrow sono la creatura musicale di Gogo Melone, musicista greca che gli ascoltatori più addentro al genere avranno già avuto modo di conoscere in virtù della sua partecipazione a Destin, l’ultimo ep dei Clouds di Daniel Neagoe, offrendo nello specifico il suo magnifico contributo vocale nel brano In This Empty Room.
Gogo si è occupata in prima persona sia dell’aspetto compositivo, sia di quello lirico ed infine anche dell’aspetto grafico, essendo anche in quest’ultimo campo una delle più rinomate esponenti in circolazione: insomma, qui parliamo di un’artista a 360 gradi il cui talento viene finalmente svelato in tutto il suo dirompente potenziale grazie a Into The Eternity A Moment We Are.
Contribuiscono in maniera fondamentale alla riuscita del lavoro, accompagnando la musicista ellenica e collaborando fattivamente anche nell’arrangiamento dei brani, alcuni esponenti di comprovata esperienza della scena, partendo dal vocalist colombiano Alejandro Lotero (negli Exgenesis di Jari Lindholm) per arrivare al trio finnico composto da Saku Moilanen (batteria, Red Moon Architect), Taneli Jämsä (chitarre, Ghost Voyage) e Pyry Hanski (basso, ex Before The Dawn e live con Red Moon Architect): in particolare Lotero, con il suo profondo growl è l’ideale contraltare delle evoluzioni della cantante che, attenzione, non è la classica sirena dalla bella voce che parte con una tonalità e con quella finisce; Gogo Melone è “semplicemente” una vocalist formidabile, in grado di passare da timbriche cristalline e suadenti a lampi che riportano inevitabilmente a due giganti legati alla sua stessa terra come Diamanda Galas, naturale riferimento in quanto voce femminile, ed il mai abbastanza rimpianto Demetrio Stratos, che ben conosciamo per aver sviluppato la propria carriera in Italia, prima con i seminali Area e poi come vero e proprio sperimentatore e studioso dell’uso della voce umana.
Chi pensa che certi paragoni possano essere eccessivi deve solo ascoltare l’opener Forever Misery, finora l’unico brano reperibile in rete, che già di per sé sarebbe una canzone stupenda ma che, nella sua seconda metà, viene letteralmente segnata dai vocalizzi di Gogo poggiati su un tappeto sonoro drammatico; come prova del nove poi, chi verrà in possesso dell’intero album (che uscirà ad aprile), potrà pure passare alla conclusiva Ave End, uno dei pezzi più belli che abbia mai avuto la fortuna di ascoltare, con Alejandro a dominare la prima parte prima di lasciare spazio al canto drammatico e trasfigurato della vocalist, destinato infine a ricongiungersi al growl per un risultato d’assieme che conduce inevitabilmente alle lacrime.
Tutto ciò a livello esemplificativo, perché ovviamente resta tutto da godersi un corpo centrale dell’album che non è affatto da meno, oscillando da atmosfere più aspre (Thanatos Kyrie) ad altre più intimiste (Memory Of Love) per finire con tracce strutturate in maniera più canonica (Shadows Mourn, Under The Light, Insendia) ma dotate sempre di un’intensità superiore alla media grazie ad una scrittura di rara sensibilità.
E’ un delicato interludio pianistico (The Wind Of Silence) a condurre al capolavoro assoluto Ave End, che chiude l’album portando il coinvolgimento emotivo ad un livello tale da lasciare un tangibile senso di vuoto quando la musica cessa, invero in maniera quasi repentina: si tratta di pochi secondi, sufficienti però a realizzare che sì, la vita è un attimo rispetto all’eternità, come suggerisce il titolo del disco, ma spetta a noi darle un senso sviluppando al massimo un potenziale empatico che ci consenta di immedesimarci nella gioia e nel dolore altrui, marcando in maniera netta ed inequivocabile la differenza tra una minoranza fatta di persone senzienti e tutte le altre.
Dovendo per forza di cose fornire un riferimento musicale a chi legge, appare evidente, come già detto in fase introduttiva, che i Draconian dei primi album costituiscono un termine di paragone piuttosto attendibile, anche se gli Aoenian Sorrow possiedono un approccio più funereo, atmosferico e con una minore predominanza della chitarra, specialmente in veste solista, ma a fare la differenza con gran parte delle uscite del genere negli ultimi anni è una capacità innata di raggiungere il climax dei brani partendo sovente da passaggi più pacati ed intimisti.
Con un’opera di tale spessore gli Aoenian Sorrow vanno a collocarsi sullo stesso piano delle band citate nel corso dell’articolo, il che significa il raggiungimento dell’eccellenza assoluta, ottenuta anche e soprattutto tramite l’epifania di un talento artistico prezioso come quello di Gogo Melone.
Tracklist:
1.Forever Misery
2.Shadows Mourn
3.Under The Light
4.Memory Of Love
5.Thanatos Kyrie
6.Insendia
7.The Wind Of Silence
8.Ave End
Tra le trame di The Last Dream Arms si torna a respirare l’eleganza tragica e poetica del gothic/doom, con brani che si colorano di un arcobaleno dalle tinte scure che dal nero portano al grigio, creando una spessa coltre di nebbia che nasconde romantici giochi di luci ed ombre.
E’ un piacere notare come, dopo anni di predominio della parte più sinfonica e power del gothic metal, ultimamente si tornino a percorrere le strade tracciate dai gruppi storici che, nei primi anni novanta, presero a spallate il mercato con una serie di oscuri e melanconici lavori che univano atmosfere dark/gothic con la pesantezza del doom/death metal.
Dal Regno Unito ai Paesi Bassi, con qualche passaggio ancora più a nord, ma ancora lontani dal boom dei gruppi scandinavi trainati dal successo dei Nightwish, la scena di allora ha influenzato una moltitudine di band in ogni parte del mondo, tornando in questo periodo con nuove realtà e lavori bellissimi come The Last Dream Arms, debutto dei nostrani Deeper Down (monicker che ricorda l’ep dei My Dying Bride uscito nel 2006).
Il quartetto proveniente da Campobasso arriva a pubblicare il suo primo lavoro dopo qualche anno dalla nascita, alcuni assestamenti nella line up e la firma per Hellbones Records, che licenzia questo intenso tributo alla sposa morente: non c’è niente di male se il gruppo molisano guarda alla band britannica come sua primaria fonte di ispirazione, aggiungendovi l’eterea voce di Elisa e proponendoci sei brani di malinconico gothic metal, mantenendo la presenza della voce maschile, del piano ed del violino che rimembrano le trame dark di Stainthorpe e soci così come, in parte, dei primi Katatonia.
Tra le note di The Last Dream Arms si torna a respirare l’eleganza tragica e poetica del gothic/doom, con brani che si colorano di un arcobaleno dalle tinte scure che dal nero portano al grigio, creando una spessa coltre di nebbia che nasconde romantici giochi di luci ed ombre, mentre The Night Descends ci accompagna sulle vie disseminate atmosfere soffuse, oppure tormentate dalla potenza sofferta del doom metal in The Time Road e nella title track. The Persistence Of Memory, strumentale che avvolge l’ascoltatore nelle ombre di Anathema e Katatonia, chiude questo ottimo lavoro consigliato ai fans dei gruppi citati e agli amanti del gothic meno sinfonico e molto più raffinato e sofferto.
Tracklist
1.The Night Descends
2.The Time Road
3.The Last Dream Arms
4.Silence Kills
5.The Game of Shadows
6.The Persistence of Memory
Line-up
Giuseppe – Vocals, electric and acoustic guitar, piano, synt, drums, all music and lyrics
Luca – Rhythm & clean guitar
Alessandro – Violin
Elisa – Vocals
Roberto – Bass
I Lorelei ripropongono un gothic doom di matrice fortemente “draconiana” e con un notevole gusto melodico, il che consente loro di offrire con buona continuità brani intensi, intrisi di un sentore malinconico e marchiati con forza dall’imprinting di quella che, ormai, si può definire una scuola vera a propria in ambito doom come quella russa.
I russi Lorelei avevano dato alle stampe una delle opere migliori in ambito gothic doom del 2013 con Ugrjumye Volny Studenogo Morja, e dopo oltre quattro anni ritornano finalmente con il suo successore intitolato Teni Oktyabrya (Shadows Of October).
Anche se quattro anni non sono pochi, tutto sommato le coordinate del sound sono rimaste le stesse, il che non è poi un male, vista l’alta qualità esibita in passato: le variazioni fondamentali riguardano l’ingresso in pianta stabile di un vocalist dedito al growl, nella persona di Alexey Kuznetsov (Locus Titanic Funus), quando invece nel precedente lavoro queste parti erano state affidate in qualità di ospite ad uno dei personaggi più influenti della scena doom moscovita quale è Evander Sinque, e la quasi totale rinuncia all’apporto della voce femminile, relegata ad uno sporadico ruolo di mero accompagnamento.
Nello scambio i Lorelei non ci rimettono e non ci guadagnano, perché tutto sommato Kuznetsov si rivela un ottimo interprete, mentre il venir meno del consueto fraseggio tra la bella e la bestia rende per certi versi meno scontato il tutto, rendendo il tutto però leggermente meno vario.
La band guidata da Alex Ignatovich ripropone un gothic comunque di matrice fortemente “draconiana” e con un notevole gusto melodico, il che consente di offrire con buona continuità brani intensi, intrisi di un sentore malinconico e marchiati con forza dall’imprinting di quella che, ormai, si può definire una scuola vera a propria in ambito doom come quella russa.
Come per il suo predecessore, ai fini di un potenziale sbocco commerciale al di fuori dei confini dell’ex-Urss, Teni Oktyabryapotrebbe soffrire la scelta dei Lorelei di proseguire con la loro autarchia lirica, continuando a sciorinare il tutto in lingua madre, cosa che inevitabilmente qualcosina lascia per strada a livello di immediata fruibilità.
Personalmente ritengo la cosa men che veniale, per cui invito caldamente ogni appassionato ad ascoltare questo bellissimo lavoro, che a mio avviso è un autentico esempio di come debba essere trattata la materia, andando dritti all’obiettivo senza divagazioni di sorta, mantenendo quell’aura tragicamente romantica che magari non sarà una novità ma che, nel contempo, non ci stanca mai di ascoltare: i Lorelei gratificano l’ascoltatore con una serie di brani fluidi e convincenti come Ya – Severniy Veter, la title track, Temnaya Voda e la superba e conclusiva Canticum Angelorum, suggello di un lavoro di notevole qualità.
Tracklist:
1. Into…
2. Ya – Severniy Veter
3. Morskaya
4. Sentyabr
5. I Tiho Vetly Shelestyat
6. Teni Oktyabrya
7. Severniy Bereg
8. Temnaya Voda
9. Noyabr
10. Canticum Angelorum
Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i The Father Of Serpents riescono senza dubbio nella non facile impresa e, laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta, si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.
Gothic death doom di buona fattura è quello che ci arriva da Belgrado grazie ai The Father Of Serpents.
Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da giganti del genere come Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i nostri riescono senza dubbio nella non facile impresa e laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.
In effetti, l’unica critica attribuibile alla band serba è proprio quella di sembrare ogni tanto una congrega di bravissimi assemblatori delle intuizioni altrui, sensazione che prende piede, per esempio, fin dal secondo brano The Flesh Altar, con il suo riff portante simile a quello di Lesbian Show dei Nightfall, e che si protrae sino al termine, con l’appassionato più esperto che si diletterà nel rinvenire passaggi che rievocano, in maniera comunque mai troppo marcata, il meglio offerto dal genere negli ultimi vent’anni.
Detto ciò, veniamo ai lati positivi, che poi sono nettamente prevalenti su qualsiasi altra considerazione: i The Father Of Serpents, con Age Of Damnation mettono assieme un’opera dal notevole spessore qualitativo, con una decina di brani caratterizzati da un invidiabile equilibrio tra ruvidezza e melodia, esprimendo un gothic doom spesso elegante nel quale l’utilizzo appropriato del violino (ad opera di Pavle Sovilj, che si occupa anche delle clean vocals) conferisce in più di un frangente un decisivo tocco malinconico.
Il sestetto slavo fornisce una prova priva di sbavature, i suoni sono ottimi così come gli arrangiamenti, l’uso della doppia voce risulta inattaccabile (l’ottimo growl è opera di Tamerlan, il quale però ha da poco abbandonato la band) e si fatica davvero a trovare un brano che non sia all’altezza della situazione, con menzione d’obbligo per la notevole Tainted Blood e non solo per la citazione dantesca (“lasciate ogni speranza voi che entrate”, declamata con una dizione invero rivedibile).
Questo quadro complessivo ci suggerisce che Age Of Damnation è un album rimarchevole, prodotto da una band dal sicuro potenziale che deve fare, però, solo un piccolo sforzo per imprimere un marchio personale alla propria musica, pena la permanenza nel confortevole limbo delle realtà di buon livello ma nulla più.
Tracklist:
1. The Walls of No Salvation
2. The Flesh Altar
3. Tale of Prophet
4. The Grave for Universe
5. Tainted Blood
6. The Afterlife Symphony
7. The Quiet Ones
8. The God Will Weep for You
9. The Last Encore
10. Viral
Line-up:
Tamerlan – Vocals (growls/screams/narrations)
Pavle Sovilj – Vocals (clean) & Violin
Igor Lončar – Guitars
Željko Zec – Guitars
Milan Šuput – Bass
Aleksandar Maksimović – Drums