No Stars Upon The Bridge è un disco emozionante e coinvolgente, caldo e allo stesso tempo ghiacciato, dove si riafferma una delle più importanti caratteristiche dell’uomo, ovvero la capacità creativa di rielaborare il lutto, poiché il genere umano continua ad andare avanti, il fiume scorre inarrestabile e bisogna trovare il modo per ricordare chi è caduto, e questa è una maniera fantastica.
La musica è un mezzo perfetto per esprimere un dolore, anche per superarlo e riuscire ad andare avanti grazie alla creazione di qualcosa di bello.
Questo è stato ciò che ha mosso Juha Ravio nella scrittura di questo disco, che viene concepito in seguito alla morte della sua amata compagna Aleah Starbridge nel 2016. Juha è il chitarrista dei Swallow The Sun e dei Trees Of Eternity, dei quali gli Hallatar sono un’emanazione diretta. Juha ha vissuto questa tremenda perdita con disperazione, ed ad un certo punto per reagire si è convinto di dover creare qualcosa di nuovo, partendo dai poemi e dai testi della sua amata defunta. Tanto era il bisogno e l’urgenza che la musica del disco è stata concepita in una settimana, al che Juha ha chiamato due musicisti a lui molto cari, oltreché suoi amici: Tomi Joutsen e Gas Lipstick, il primo cantante degli Amorphis, i quali avevano collaborato con Aleah, e il secondo ex batterista degli Him. Il risultato è un gran disco di doom con intasi gotici, un affresco che parla di morte ed assenza, dove ogni nota scuote una cellula sconvolta dal dolore e dalla perdita. L’incedere è lento e maestoso, l’epicità è tangibile, la nobiltà del dolore messo in musica arriva qui a toccare vette altissime, anche grazie alle parole lasciateci da Aleah Starbridge. Ci sono momenti in cui la musica si alza di tono e sembra che sia un mostro che viene ad attaccarci, ma è solo un grido di dolore che viene dal nostro interno. Il valore musicale e poetico di questo disco è notevolissimo, anche se lo stile essenzialmente non si discosta molto dal discorso stilistico dei lavori di Ravio, che si conferma straordinario compositore, coadiuvato da due ottimi compagni di avventura. No Stars Upon The Bridge è un disco emozionante e coinvolgente, caldo e allo stesso tempo ghiacciato, dove si riafferma una delle più importanti caratteristiche dell’uomo, ovvero la capacità creativa di rielaborare il lutto, poiché il genere umano continua ad andare avanti, il fiume scorre inarrestabile e bisogna trovare il modo per ricordare chi è caduto, e questa è una maniera fantastica.
Tracklist
1. Mirrors
2. Raven’s Song
3. Melt
4. My Mistake (feat. Heike Langhans)
5. Pieces
6. Severed Eyes
7. The Maze
8. Spiral Gate
9. Dreams Burn Down (feat. Aleah Starbridge)
Line-up
Tomi Joutsen – vocals
Gas Lipstick – drums
Juha Raivio – guitar, bass, keys
L’operato degli Abyssphere possiede un suo intrinseco valore che dovrebbe spingere gli appassionati di gothic doom a dare una possibilità a На пути к забвению, un album che consente di passare un’ora abbondante in compagnia di musica moderatamente malinconica e di buona fruibilità.
Quarto full length per i russi Abyssphere, band che in poco più di un decennio di attività ha all’attivo anche diverse uscite di minutaggio ridotto, tra ep e singoli assortiti.
Quest’ultima opera della band di San Pietroburgo non lesina certo sulla durata dei contenuti, andando a superare l’ora e mezza di durata anche grazie all’inserimento nella tracklist di una cover (Only for the Weak degli In Flames) e di due versioni rielaborate di brani già editi.
Resta comunque notevole lo sforzo compositivo degli Abyssphere, i quali, con На пути к забвению si confermano eleganti ed efficaci esponenti di un gothic doom melodico inattaccabile per forma e valido anche per contenuti, anche se forse al tutto manca quel picco emotivo costituito da uno o più brani capaci di segnare in maniera più decisa il lavoro.
Infatti, l’album scorre via molto bene, senza tediare affatto l’ascoltatore in quanto impeccabile negli arrangiamenti e sempre arricchito di una vena melodica di qualità, ma se si fa eccezione per l’ottimo trittico centrale Carthago Delenda Est, Сияние e Марафон, i momenti in grado di fornire un autentico trasporto emotivo non sono moltissimi.
Per di più, il ricorso alla lingua madre mostra inevitabilmente la corda nei passaggi in clean, dove la musicalità dell’idioma e la sua comprensione sono ben più importanti rispetto a quanto non avvenga con il growl, nonostante la rimarchevole prestazione del bravo Konstantin Tsygankov, in alternanza al più corrosivo incedere del suo contraltare Alexander Yakovlev .
Per il resto, morbidi assoli chitarristici ed un’atmosfera complessivamente avvolgente rendono На пути к забвениюun buonissimo disco che, purtroppo, anche a causa delle suddette caratteristiche, potrebbe faticare non poco nel trovare sbocchi importanti al di fuori dei territori dell ex-URSS.
L’operato degli Abyssphere, in particolare nella persona di un valido compositore come il già citato Tsygankov, possiede un suo intrinseco valore che dovrebbe spingere gli appassionati di gothic doom a dare una possibilità a На пути к забвению, un album che consente di passare senz’altro un’ora abbondante in compagnia di musica moderatamente malinconica e di buona fruibilità.
Tracklist:
1. Двери
2. Прозрение
3. Один во тьме
4. Carthago Delenda Est
5. Сияние
6. Марафон
7. Пыль
8. К забвению
9. Вирус
10. Горизонт
11. Меридиан
12. Конец долгой ночи
13. У врат забвения
14. Only for the Weak (In Flames cover)
15. Чёрный океан 2.0
16. Солнце 2.0
Line-up:
Alexander Mikhailov – Guitars, Songwriting (track 8)
Konstantin Tsygankov – Vocals (clean), Guitars, Keyboards, Bass, Songwriting
Alexander Yakovlev – Vocals (harsh), Programming, Lyrics
Evgeniy Nosov – Drums
The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.
Primo full length per questa band francese che ha mosso i sui primi passi alla fine dello scorso decennio e che, oggi, dà finalmente un seguito consistente agli accenni di ottimo death doom fornito con un demo ed un ep rilasciati qualche anno fa.
The Abstract Escape si rivela infatti un’opera di notevole spessore, anche perché il gruppo di Nancy spicca per un approccio alla materia leggermente diverso, senza tralasciare di immettere nelle proprie composizioni passaggi riconducibili al gothic più depressivo, sfumatura quest’ultima che ben si sposa a tematiche legate a disagi psichici ed esistenziali.
Dei Lying Figures colpisce la capacità di toccare notevoli vette evocative subito dopo averne preparato il terreno con passaggi più rarefatti e solo apparentemente interlocutori, il tutto in qualche modo aderendo all’andamento schizofrenico di una mente malata che prova, invano, a riemergere dagli abissi nella quale è sprofondata.
In circa 50 minuti la creatura fondata dai due chitarristi Mehdi Rouyer e Matthieu Burgaud offre questi otto brani di ottima fattura, dimostrando la padronanza tipica di chi si è preso tutto il tempo necessario (come non sempre avviene) prima di imbarcarsi in un’avventura tutt’altro che scontata come il primo passo su lunga distanza: anche grazie a questo The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.
La voce di Thibault Robardey interpreta tutto ciò con la giusta enfasi e, anche se magari certi passaggi possono risultare un po’ forzati, l’effetto desiderato viene raggiunto ampiamente: tutto ciò contribuisce a rendere diversi brani delle opalescenti e dolorose perle, il cui afflato melodico è sempre in primo piano e capace di illuminare il disco con improvvise aperture. Tormented Soul e There was a hole here, it’s gone now sono due trace magnifiche per intensità, aderendo alle caratteristiche appena descritte, ma sono di poco superiori, probabilmente solo per gusto personale, al resto di una tracklist che vede anche la disperata Monologue of a sick brain, la gothicheggiante e più ritmata Remove the black e la conclusiva Zero, all’insegna invece di un sound più rallentato, quali altri punti di spicco di un disco bellissimo. The Abstract Escape, come molte altre opere simili, va lavorato con pazienza perché non entra nelle corde dell’ascoltatore con particolare agio, ma quando ciò avviene rilascia quelle sensazioni che ogni amante del doom che si rispetti ricerca con doverosa e tenace pazienza.
Tracklist:
1. Hospital of 1000 deaths
2. Tormented souls
3. Monologue of a sick brain
4. The Mirror
5. There was a hole here, it’s gone now
6. My Special place
7. Remove the black
8. Zero
Line-up:
Thibault Robardey – vocals
Matthieu Burgaud – guitars
Mehdi Rouyer – guitars
Frédéric Simon – bass
Charles Pierron – drums
Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte dei Red Moon Archiect, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del funeral death doom melodico.
Se può essere inutile rimarcare come la Finlandia sia, per distacco, la patria delle sonorità più oscure e melanconiche, non lo è affatto continuare ad esaltare la qualità che le diverse band provenienti dalla terra dei mille laghi, alle prese con la materia funeral death doom, offrono ad ogni uscita.
In questo caso il lavoro preso in esame è il terzo dei Red Moon Architect, nati nel 2011 come progetto solista del talentuoso Saku Moilanen e poi trasformatisi nel tempo in una band a tutti gli effetti: Concealed Silence (2012), infatti, vedeva accreditato il solo musicista di Koivolua con l’ausilio di diversi ospiti, tra i quali la sola vocalist Anni Viljanen è rimasta a costituire il tratto d’unione tra quel lavoro e quelli successivi della band, ovviamente assieme al suo mastermind.
Se Fail, uscito nel 2015, consolidava il valore e lo status dei Red Moon Architect, questo nuovo Return of the Black Butterflies ha tutte le carte i regola per innalzare ulteriormente il livello della band finlandese e portarla a riempire un certo vuoto lasciato dai Draconian, dopo la svolta verso sonorità più morbide attuata da questi ultimi nell’ultimo decennio.
Certo, rispetto alla band svedese i nostri si spingono con più frequenza verso lidi prossimi al funeral, ma il connubio tra la voce femminile della Viljanen ed il growl del nuovo arrivato Ville Rutanen riporta automaticamente in quell’ambito, avendo in comune lo stesso senso drammatico ed evocativo che contraddistingueva le prime opere della creatura di Johan Ericsson.
Saku Moilanen si conferma compositore di grande spessore, offrendo una cinquantina di minuti di sonorità plumbee ma intrise di melodie dolenti che, come da copione, assumono sembianze drammatiche in coincidenza con il growl per poi aprirsi malinconicamente con l’entrata in scena della voce femminile.
Questo fa capire che non c’è da aspettarsi proprio nulla di nuovo ma, paradossalmente, tale aspetto si rivela la pietra angolare sul quale i Red Moon Architect erigono il loro magnifico monumento al dolore che, comunque, non assume mai un aspetto monocorde perché, pur tra gli scostamenti ridotti consentiti dal genere, il funeral opprimente esibito in maniera magistrale in End of Days è, per esempio, ben diverso sia dal gothic di Tormented sia dall’atmospheric doom di NDE. Return of the Black Butterfliessegna un’altra prova magistrale da parte della band finlandese, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del genere.
Tracklist:
1. The Haunt
2. Tormented
3. Return of the Black Butterflies
4. Journey
5. End of Days
6. NDE
Line up:
Saku Moilanen – Schlagzeug & Keyboard
Ville Rutanen – Gesang
Matias Moilanen – Gitarre
Anni Viljanen – Gesang
Jukka Jauhiainen – Bass
Una riedizione utile e curata di Damnatio Memoriae, album che con la sua uscita ha sicuramente consolidato lo status acquisito dai My Silent Wake in virtù di una carriera lunga, produttiva e, a tratti, piacevolmente imprevedibile.
Non essendoci stata l’occasione di parlare di Damnatio Memoriae, ottavo album in studio degli inglesi My Silent Wake, all’epoca della sua uscita nel 2015, ne approfittiamo per farlo brevemente grazie alla riedizione in vinile appena licenziata dalla Minotauro Records.
La band fondata da Ian Arkley nel 2005 è una tra le più prolifiche in assoluto tra quelle dedite al death doom, genere dal quale hanno anche derogato più volte, andando ad esplorare lidi acustici o ambient, così come è avvenuto, del resto, nella loro recente release Invitation To Imperfection. Damnatio Memoriae resta, quindi, in ordine temporale, l’ultima testimonianza del genere principalmente trattato con buoni risultati dai My Silent Wake; rispetto ai lavori del passato, l’album esibisce partiture più robuste e diversi brani nei quali, specie nella parte iniziale, il sound appare decisamente pesante e meno votato alla ricerca di melodie malinconiche e dolenti: quando ciò avviene, ne scaturisce una traccia magnifica come And So It Comes To An End, ma non è che le cose vadano male neppure allorché la spinta propulsiva pare giungere dai primi Paradise Lost e Anathema (con The Innocent a lambire gli suoni che furono di The Silent Enigma).
Ottima anche la lunga The Empty Unknown, che mostra coordinate più canonicamente doom, mentre si vira nuovamente su un gothic piuttosto andante con Chaos Enfolds Me, traccia che chiudeva la prima stesura del disco e che, invece, nella nuova, è seguita dalla riproposizione di And So It Comes To An End, Now It Destroys e Of Fury arricchite dalle tastiere di Simon Bibby: i brani in questione non cambiano volto più di tanto ma, specialmente gli ultimi due, vengono gradevolmente ammorbiditi in questa versione.
Una riedizione utile e curata di Damnatio Memoriae, album che con la sua uscita ha sicuramente consolidato lo status acquisito dai My Silent Wake in virtù di una carriera lunga, produttiva e, a tratti, piacevolmente imprevedibile.
Tracklist:
1. Of Fury
2. Highwire
3. Now it Destroys
4. Black Oil
5. And so it Comes to an End
6. The Innocent
7. The Empty Unknown
8. Chaos Enfolds Me
Bonus tracks on 2017 release:
9. And so it Comes to an End (with keys)
10. Of Fury (with keys)
11. Now it Destroys (with keys)
Line up:
Ian Arkley – vocals and guitar
Addam Westlake – bass
Gareth Arlett – drums
Mike Hitchen – live rhythm guitar
Guests:
Simon Bibby – keys
Greg Chandler – additional keys, vocals
Martin Bowes – synth
Il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il genere con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre convince meno il tentativo di rendere il sound più catchy nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic.
Degli spagnoli Graveyard Of Souls ci eravamo già occupati qualche anno fa, in occasione del loro primo full length Shadows Of Lifes.
Autori di un buon gothic death doom, all’epoca i nostri non erano apparsi in grado di elevarsi oltre un livello medio, comunque apprezzabile, e non è che l’impressione vada a modificarsi più di tanto con questo nuovo Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado, album che arriva dopo altre due opere su lunga distanza, Infinitum Nihil e Todos los caminos llevan a ninguna parte.
L’interpretazione del genere da parte di Raul e Angel non lascia spazio a particolari critiche né dal punto di vista esecutivo né da quello della produzione (anche se quest’ultimo aspetto è senz’altro migliorabile), perché in questo genere li ritengo elementi marginali rispetto al potenziale emotivo di un’opera: il problema è che, in buona sostanza, vengono meno quei guizzi capaci di rendere identificabile il sound.
Va detto, ad onore dei Graveyard Of Souls, che alcuni brani si dimostrano senz’altro all’altezza della situazione, specie quando questi possiedono un maggiore respiro atmosferico: non mancano così spunti melodici di buona fattura, come nelle buone Entre fragmentos de locura, Cementerio de ilusiones e Al atardecer, che contribuiscono a mantenere l’album al di sopra della linea di galleggiamento senza però che l’attenzione dell’ascoltatore venga catturata con la necessaria continuità.
Sicuramente il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il death doom con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre le fasi contraddistinte dal tentativo di rendere il sound più catchy, nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic, non convincono anche per l’apparente discrasia stilistica che si manifesta in alcuni momenti dell’album (piuttosto superfluo, per esempio, lo strumentale Across the Cygnus Loop).
Come per l’album d’esordio, non resta così che derubricare l’operato dei Graveyard Of Souls ad un’interpretazione gradevolmente retrò di queste sonorità, senza però che lo scorrere del tempo abbia portato all’auspicato salto di qualità.
Tracklist:
1. Todo se desvanece lentamente
2. Entre fragmentos de locura
3. Beyond the Black Rainbow
4. Cementerio de ilusiones
5. As Lightday Yields (Lake of Tears cover)
6. Al atardecer
7. Across the Cygnus Loop
8. Kristallnacht
Line-up:
Angel Chicote: Music & Lyrics
Raúl Weaver: Vocals
Like Crows For The Earth è, un album magnifico, che porta di diritto i Tethra al livello delle band di punta del doom tricolore
Sono passati quattro anni dall’ottimo full length Drown In The Sea Of Life ed oggi ritroviamo i Tethra alle prese con un nuovo album intitolato Like Crows For The Earth.
Come spesso accade a troppe band, il vocalist Clode, unico membro originale rimasto, nel frattempo ha dovuto rivoluzionare la line-up approdando ad una formazione a cinque che, rispetto al passato, si avvale dell’apporto di due chitarristi.
Troviamo così, ad affiancare il musicista novarese, Luca Mellana e Gabriele Monti alle sei corde, Salvatore Duca al basso e Lorenzo Giudici alla batteria, a comporre un organico che, a giudicare dall’esito finale, si rivela del tutto all’altezza della situazione, con l’auspicio che ciò possa garantire a lungo termine una certa stabilità.
Come per il suo predecessore la produzione è stata affidata alle mani esperte di Mat Stancioiu, mentre anche il mastering, eseguito da parte dell’eminenza grigia del doom Greg Chandler (Esoteric), e l’artwork, curato da Marco Castagnetto, sono indicatori netti della volontà di non trascurare il benché minimo particolare, in modo da consegnare al pubblico un prodotto impeccabile sotto tutti gli aspetti.
L’obiettivo viene ampiamente raggiunto in virtù di un scrittura varia, che porta i Tethra a spaziare tra le diverse anime del doom, partendo dal gothic, passando a quello di matrice più classica per giungere, infine, a quello dai toni dolenti ed animato da pulsioni death: il tutto viene sviluppato con la massima consapevolezza e maturità, riuscendo nella non facile impresa di mantenere un’impronta ed un’identità precisa, nonostante la tracklist sia composta da una serie di brani dotati ciascuno della propria peculiarità.
L’album si apre con la breve intro acustica Resilience che prepara il terreno a Transcending Thanatos, episodio già sufficientemente indicativo di una maggiore propensione gotica: in particolare lo splendido e trascinante refrain ha riesumato nella mia memoria di vecchio appassionato i misconosciuti olandesi Whispering Gallery, autori di tre oscuri gioelli di death doom melodico all’inizio del secolo. Prelude to Sadness, altro strumentale, introduce Springtime Melancholy, canzone che, pur restando nei canoni del doom tradizionale, mostra una volta di più una maggiore propensione melodica che trova sfogo nell’ottimo assolo conclusivo di Luca Mellana.
E’ il sitar ad aprire Deserted, traccia che, nonostante l’incipit di tutt’altro tenore, si rivela il brano più trascinante ed immediato del lotto, in virtù di un riffing micidiale, un chorus di grande presa ed un break centrale contrassegnato da un altro azzeccato assolo: insomma, qui si trovano tutti gli ingredienti necessari per imprimere la traccia nella memoria, mantenendo intatta la profondità del genere proposto.
L’interludio Subterranean mette in mostra le doti vocali di Clode, che se già prima era lecito considerare un vocalist di indubbio valore, con questo lavoro innalza ulteriormente il proprio livello, spiccando per versatilità e spaziando da tonalità estreme (growl con qualche sconfinamento nello screaming) a profonde ed evocative clean vocals che non possono che rimandare a quelle di Fernando Ribeiro, uno dei modelli di riferimento per chiunque si cimenti in questo genere musicale.
Subito dopo si palesa il momento in cui l’album trova la sua ideale sublimazione con un brano magnifico come The Groundfeeder, che si può considerare idealmente il manifesto musicale dei nuovi Tethra, unendo alla perfezione le diverse anime del sound ed andando a lambire, in certi passaggi strumentali, l’emozionalità dei migliori The Foreshadowing. Entropy è l’ultimo dei frammenti acustici, preparatorio al trittico finale aperto dalle belle melodie chitarristiche di Synchronicity Of Life And Decay, traccia che si sviluppa poi in maniera piuttosto ritmata e chiusa ancora una volta da un assolo brillante che riporta, infine, al punto di partenza, mentre Earthless spinge ancor più sul versante gothic grazie a linee melodiche irresistibili che si alternano a passaggi più rarefatti, esaltati da una prestazione superlative di Clode dietro al microfono: ancora un brano magnifico per intensità e attrattività.
A chiudere il lavoro ci pensa la title track, ultima delle gemme offerte da un album di qualità a tratti sorprendente, il cui suggello non può che essere il brano più malinconico ed oscuro del lotto, esempio magistrale di come il doom possa offrire quel turbinio di sensazioni che ad altri generi non sempre è concesso fare. Like Crows For The Earthè, semplicemente, un disco magnifico, che porta di diritto i Tethra al livello delle band di punta del doom tricolore, grazie all’approdo ad una forma capace di veicolare in maniera più diretta ed efficace quei toni dolenti e malinconici che sono la componente imprescindibile del genere.
Tracklist:
1.Resilience (intro)
2.Transcending Thanatos
3.Prelude To Sadness
4.Springtime Melancholy
5.Deserted
6.Subterranean
7.The Groundfeeder
8.Entropy
9.Synchronicity Of Life And Decay
10.Earthless
11.Like Crows For The Earth
Ristampa in vinile, a cura della Minotauro Records, di questo splendido album dei cechi Et Moriemur, risalente al 2014.
Con il loro secondo album, uscito nel 2014, i cechi Et Moriemur si sono dimostrati una tra le più interessanti realtà europee in ambito gothic-death doom; la riedizione dell’opera in vinile, curata dalla storica label italiana Minotauro Records, ci fornisce l’occasione per riproporre la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes.
Sea Of Trees, traccia inaugurale di Ex Nihilo in Nihilum, mostra subito di che (buona) pasta sono fatti i nostri, trattandosi di un brano che si avvale di un refrain piuttosto orecchiabile e che, per certi versi, potrebbe rivelarsi fuorviante in quanto il resto del disco, pur restando sempre piuttosto godibile, risulta senz’altro meno immediato.
La band praghese si abbevera a fonti comuni a chiunque si cimenti in questo genere, quindi My Dying Bride e Saturnus sono i due riferimenti principali che, però, gli Et Moriemur non scimmiottano bensì utilizzano quale punto di partenza per innestarvi la loro vena decadente, poetica e fornita della sufficiente dose di personalità.
Dai maestri danesi vengono attinti, oltre alle struggenti melodie chitarristiche, anche e soprattutto i passaggi recitati poggiati su base acustica o pianistica, mentre l’influsso della band di Stainthorpe risiede in particolare nell’attitudine romanticamente accorata, che prevale su ciò che, da altri, viene espresso tramite sonorità gonfie di dolore e disperazione. Ex Nihilo in Nihilum non perde mai, quindi, la sua forte connotazione melodica ed è un lavoro che cresce ad ogni ascolto, sintomo questo di un’indubbia profondità compositiva, ben sorretta peraltro dal lavoro eccellente dei singoli.
Oltre alla magnifica Liebeslied, sono soprattutto i due brani più lunghi del lotto, Nihil e Black Mountain, che forniscono la reale misura del valore della band ceca, brava ad introdurre diversi cambi di passo e di umore in grado di rendere avvincenti anche tracce come queste di durata consistente, pur sempre muovendosi nell’ambito di un gothic-death plumbeo e dai ritmi pacati.
Una prova eccellente questa degli Et Moriemur, band che possiede, a mio avviso, ulteriori margini di miglioramento: in particolare, un graduale affrancamento dai propri modelli stilistici, potrebbe portarli in un futuro prossimo a livelli molto vicini ai vertici del genere; già così, comunque, possiamo parlare a buon titolo di una realtà consolidata e di assoluto rilievo.
Tracklist:
1. Sea of Trees
2. Dissolving
3. Norwegian Mist
4. Liebeslied
5. Angst
6. Nihil
7. Le Choix
8. Black Mountain
9. Below
Line-up:
Zdeněk Nevělík – Vocals
Aleš Vilingr – Guitars
Honza Vaněk – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums
The Grand Wall gode di una compattezza invidiabile e non c’è davvero nulla che non vada: ogni episodio scorre con buona fluidità, andando a costruire un insieme sonoro che verrà apprezzato non poco dagli appassionati del genere.
I finlandesi Ordog sono una band già abbastanza longeva e capace di pubblicare, nel 2011, un magnifico disco come Remorse, autentico monumento al funeral doom.
Sembra passato molto più tempo da allora, forse anche perché la band di Tornio ha dato seguito a quel lavoro con una prova ben più opaca nel 2014 (Trail for the Broken).
In effetti è difficile pensare di passare, senza subire contraccolpi, da una proposta basata su un sound granitico e rallentato all’inverosimile ad un gothic senz’altro più orecchiabile ma fondamentalmente inoffensivo, anche per le caratteristiche stesse della band che vede un vocalist perfettamente a suo agio con il growl ma piuttosto zoppicante quando so trova alle prese con le clean vocals.
Il nuovo The Grand Wall non riporta ai fasti di Remorse, il cui feeling unico pare non essere definitivamente più nelle corde degli Ordog, ma dimostra un raddrizzamento della barra verso una direzione stilistica più confacente alla band.
L’album, infatti offre una buona serie di brani in cui il substrato gothic è molto ben accompagnato da una robusta componente death doom, e il ritorno, seppure parziale, ad una materia che calza a pennello al gruppo finnico fa il resto, fornendo così un risultato del tutto soddisfacente.
Proprio una traccia che maggiormente riporta alla componente death, come In the Looming Bitterness, mostra una certa appaiono le più peculiarità, laddove, ad un avvio che lascia poco spazio alla melodia per offrire libero sfogo ad una certa veemenza, segue un addolcimento del sound con l’apparizione, a tratti, anche di quell’hammond che fu in grado di fare la differenza in un brano epocale come la title track di Remorse. The Grand Wall gode di una compattezza invidiabile e non c’è davvero nulla che non vada: ogni episodio scorre con buona fluidità, con i picchi rinvenibili in brani melodici e malinconici come Open the Doorsto Red e The Perfect Cut, andando a costruire un insieme sonoro che verrà apprezzato non poco dagli appassionati del genere ma, d’altro canto, per riuscirci appieno è necessario utilizzare quale termine di paragone Trail for the Broken e non sicuramente Remorse o ancor più Life Is Too Short for Learning to Live.
Del resto, quella degli Ordog e stata un’evoluzione stilistica naturale e simile a quella di molte altre band del settore: è possibile che chi ama il funeral nelle sue forme più esasperate possa non esserne del tutto convinto, ma alla fine si tratta solo di valutare l’operato in base a quanto prodotto nel presente, lasciando per quanto possibile da parte il passato.
Tracklist:
1. Open the Doors to Red
2. Sundered
3. In the Looming Bitterness
4. The Perfect Cut
5. Wings in Water
6. The Grand Wall
Line-up:
Valtteri Isometsä – Guitars
Aleksi Martikainen – Vocals (lead)
Jussi Harju – Keyboards
Opie – Bass, Vocals (backing)
Tapio Hautalampi – Drums
Una raccolta irrinunciabile per i fans degli Abysmal Grief, nonché una maniera ideale di approcciarsi alla loro funerea arte per chi ancora colpevolmente non li conoscesse.
Sono già passati vent’anni da quando, in qualche anfratto di Genova, qualcuno decideva di mettere in musica la rappresentazione della morte, rendendo la materia doom un qualcosa di profondamente liturgico e sviscerando tutto quanto sia connesso con il momento del trapasso, senza lasciare da parte, però, una sottile vena di humor nero.
Gli Abysmal Grief sarebbero diventati in seguito i veri sacerdoti dell’horror/occult metal tricolore nel nuovo millennio, acquisendo uno status di culto riconosciuto anche fuori dai confini, in virtù di un sound peculiare che unisce il gothic alla Fields of the Nephilim alle ritmiche cadenzate del doom, con la decisiva immissione di quella gustosa componente horror che in Italia non ha eguali grazie a nomi quali Death SS e Antonius Rex, tra gli altri.
La ricorrenza viene così festeggiata con la pubblicazione (il 2 novembre …) di un box a forma di bara, contenente il cd Reveal Nothing…e la cassetta Mors Te Audit, contenente il secondo demo realizzato all’epoca in versione limitata di 13 copie.
L’operazione si rivela quanto mai esaustiva, in quanto il cd contiene di fatto tutti i brani incisi dagli Abysmal Grief che non sono mai stati inseriti in un loro full length: troviamo, quindi, una spettacolare sequela di tracce riconducibili alla miriade di singoli e split album che i nostri non hanno mai lesinato in tutti questi anni.
Un vero godimento per chi ama questa particolare forma musicale ed è irresistibilmente attratto da quanto, normalmente, nelle persone comuni provoca terrore o repulsione; e, in fondo, il trucco sta tutto qui: giocare con la morte per esorcizzarne il naturale timore e in qualche modo rendere più accettabile il suo incombere.
Detto questo, non resta che rendere onore a questa band facendo proprio questo prezioso prodotto che, oltre all’originale confezione, consente di godere dell’ascolto di una serie di brani magnifici, a partire dall’inedito Cursed Be The Rite, perfettamente in linea con la produzione recente, dai ritmi più incalzanti e meno doom nella sua impronta, una differenza che si coglie peraltro, in maniera evidente, ascoltando subito dopo Exsequia Occulta, alla superba traccia risalente al 2000, passando per il climax orrorifico corrispondente a Creatures Fron The Grave (tratta dallo split del 2004 con Tony Tears).
Insomma, una raccolta irrinunciabile per i fans degli Abysmal Grief, nonché una maniera ideale di approcciarsi alla loro funerea arte per chi ancora colpevolmente non li conoscesse.
Tracklist:
1. Cursed Be The Rite (Bonus Track – recorded in 2016)
2. Exsequia Occulta (2000 – Exsequia Occulta MCD)
3. Sepulchre Of Misfotune(2000 – Exsequia Occulta MCD)
4. Hearse (2002 – Hearse 7”EP)
5. Borgo Pass (2002 – Hearse 7”EP)
6. Creatures From The Grave (2004 – Split W/Tony Tears 7”EP)
7. Brides Of The Goat (2009 – Split W/Denial Of God 7”EP)
8. The Samhain Feast (2009 – The Smhain Feast 7”EP)
9. Grimorium Verum (2009 – The Smhain Feast 7”EP)
10. Celebrate What They Fear (2012 – Celebrate What They Fear 7”EP)
11. Chains Of Death (2012 – Celebrate What They Fear 7”EP)
Tape
1. Intro
2. Open Sepulchre
3. Ignis Fatuus
4. Hearse
5. Grimorium Verum
Line-up:
Lord Alastair – Bass
Lord of Fog – Drums
Regen Graves – Guitars
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals
Derivativi ma talentuosi, i The Eyes Of Desolation convincono e sorprendono per la qualità esibita in questo ep.
Se, all’ascolto delle prime note di Awake in Dead, viene da pensare istintivamente all’operato di una band nordeuropea, alle prese con un gothic rock/metal d’autore, è notevole la sorpresa nel constatare che gli autori del lavoro, i The Eyes Of Desolation, provengono dalle ben più assolate lande costaricensi.
Di certo gli influssi centroamericani non fanno mai capolino in questo breve lavoro, che segue l’esordio sulla lunga distanza del 2013, Songs for Desolated Hearts: i quattro brani proposti, infatti, si muovono nel solco della tradizione europea del genere, tra rimandi a Sentenced e NFD, oltre ad attingere agli imprescindibili Type O Negative.
Se il sound sviluppato dai The Eyes Of Desolation non apporta certo chissà quali novità ad un genere che, in fondo, neppure ne ha bisogno, potendo vivere tranquillamente di schemi ben definiti e sempre graditi agli appassionati, convince e sorprende non poco, invece, la qualità esibita in questi venticinque minuti scarsi offerti dall’ep.
Le quattro tracce sono tutte ugualmente godibili (con preferenza personale per la conclusiva Fighting for Your Cause), sufficientemente diversificate tra loro, e si fissano nella mente con un certo agio, riportandoci alla mente i ben tempi andati, quando alcune delle band citate erano ancora attive e capaci di dare alla luce grandi album. Il vocalist Carlomagno Varela prende le mosse da una timbrica alla McCoy/White, arricchendola con un utilizzo vario e sapiente delle sue sfumature più estreme, ben assecondato da una band preparata e conscia del proprio notevole potenziale.
Derivativi ma talentuosi, i costaricensi meritano il massimo supporto da parte di chi ama questo genere, attendendoli alla prova di un nuovo full length che, dopo aver posto queste solide basi, potrebbe espandere la loro fama al di là dell’Atlantico.
Tracklist:
1. Waking Death
2. Crimson Sky
3. I Found My Place
4. Fighting for Your Cause
Line-up:
Javier Murillo – Bass
Chus Mora – Guitars
Carlomagno Varela – Vocals
Mario Vega – Drums
Carlos Carazo – Keyboards
Si sogna con la musica dei Lanthanein, e mai come di questi tempi ne sentiamo il bisogno.
Se si segue con attenzione la scena underground mondiale ci si accorge che mai come in questi anni la musica rock/metal abbia definitivamente cancellato dalla sua mappa stucchevoli e quanto mai inutili confini, muovendosi controcorrente alla società odierna sempre più costruita su muri razziali e religiosi.
Paesi asiatici, Australia, Sudafrica sono entrati prepotentemente sul mercato, regalando realtà assolutamente valide in ogni genere di cui si compone il mondo metallico.
In Sudamerica, per esempio, la tradizione metallica, specialmente in Brasile, è consolidata da decenni, con il metal classico e quello estremo a fare da traino a tutto il movimento.
I Lanthanein provengono invece dall’Argentina e ve ne avevamo parlato in occasione del primo ep Nocturnálgica, un ottimo esempio di symphonic gothic metal che però, voltava le spalle ai suoni bombastici cari alle band odierne per solcare lidi gothic/doom, eterei, melanconici ed atmosfericamente eleganti. Làgrimasè il debutto sulla lunga distanza che racchiude tutte i brani apparsi sull’ep e, nella sua interezza, conferma la bontà della proposta del duo argentino.
Marilí Portorrico, bravissima soprano e raffinata interprete delle bellissime impressioni gotiche che compongono il sound del gruppo, e A.N.XIIIU.X musicista e parte metallica della musica di Lágrimas, aiutati da una manciata di vocalist classici, interpretano quest’opera gotica, pregna di umori malinconici, ancora una volta cantata usando il più internazionale inglese e la lingua madre, attraversata da orchestrazioni raffinate e metallicamente vicino alle sonorità gotiche delle fine dello scorso millennio.
Il genere non si discosta infatti dal gothic/doom dei primi anni novanta, la scena olandese è madrina del sound di Lágrimas, ma dalla loro i Lanthanein hanno quel tocco passionale innato per chi proviene dalle terre sudamericane che riscaldano di emozionalità i vari brani.
Violini, piano, orchestrazioni a tratti strutturate su ritmiche black, accompagnano Marilí Portorrico in questo passeggiare nel crepuscolo, uno spazio temporale dove il tempo immobile, regala suadenti atmosfere di drammatiche sfumature dark, operistiche ma non invadenti, sfumate su paesaggi dai colori tenui, impresse su tele antiche ed in bianco e nero.
I brani tratti dal primo ep confermano tutta la loro bellezza, ma Lux Pepetua, la stupenda delicatezza di Auraluna e Ceremoniadel Alma Dormida non sono da meno, andando a completare un opera dark/gotica affascinante.
Non perdetevi questo album, specialmente se siete amanti di tali sonorità, si sogna con la musica dei Lanthanein e mai come di questi tempi ne sentiamo il bisogno.
TRACKLIST
1. Lacrimosa et Gementem
2. Vestigios (Vestiges)
3. Lanthanein
4. Lágrimas de luna (Moontears)
5. Epifanía (Epiphany)
6. A orillas del silencio (At the Shores of Silence)
7. Auraluna
8. Nocturnálgica (Nocturnalgic)
9. Lux Perpetua
10. Ceremonia del alma dormida (Ceremony of the Soul Asleep)
11. A orillas del silencio (At the Shores of Silence) [acoustic version]
Il secondo lavoro dei Lightless Moor non può che meritarsi l’etichetta di opera riuscita, costituendo un enorme passo avanti per il gruppo
Vero è che alla nostrana WormHoleDeath non si può negare un fiuto incredibile nel pescare, nel metal estremo in giro per il mondo, talenti che impreziosiscono l’underground e non sono neppure pochi i generi che la label colma di opere davvero interessanti, sempre con un orecchio attento ai suoni più violenti ma anche madrina di un ormai folto numero di gothic metal band sopra le righe.
In questo anno solare l’etichetta di Carlo Bellotti ci ha deliziato con una manciata di lavori bellissimi e soprattutto mai banali, a conferma di ciò arriva questo ottimo Hymn For The Fallen, seconda prova sulla lunga distanza per gli italiani Lightless Moor.
Ormai attiva da più di dieci anni, la band sarda esordì nel 2006 con l’ep Renewal, che li portò alla firma con Worm e al primo lavoro (The Poem – Crying My Grief to a Feeble Dawn), recensito su queste pagine tre anni fa e che faceva intravedere le ottime potenzialità del gruppo capitanato dalla sublime Ilaria Falchi.
Preciso che il sottoscritto predilige le sonorità che guardano ai maestri dei primi anni novanta, diciamo old school, lasciando in disparte le patinate e bombastiche parti sinfoniche care alle band di oggi, a favore di un approccio più gotico e doom, proprio come nelle corde dei primi The Gathering, Celestial Season e Within Temptation e come molti dei gruppi sotto l’ala della label fiorentina. Hymn For The Fallen continua l’ascesa della band, migliorata di molto dal primo lavoro e sapiente nel proporre il proprio sound, non dimenticando qualche spunto e sfumatura ruffiana che aumenta l’appeal di alcuni brani, pur mantenendo le caratteristiche del genere proposto.
La Falchi è splendida nel proporre con la sua voce, ripulita in parte dalla verve operistica, tutte le atmosfere decadenti di Hymn For The Fallen, duettando con la “bestia” Federico Mura, dal growl profondo e feroce, creando un contrasto dall’alto tasso emozionale e incantando quando il gruppo concede sprazzi di gothic sinfonico.
L’album procede in linea con queste caratteristiche, più di un’ora di musica immersi nel mondo decadente e raffinato dei Lightless Moor dove non mancano songs oscure e contornate da lucida disperazione, altre dove un lieve mood sinfonico alleggerisce il pesante fardello ritmico, altre dove sfumature elettroniche e moderne avvicinano il gruppo a sonorità care ai Lacuna Coil, ma sempre rimanendo nei confini del gothic doom di storica memoria.
Le asce non mancano di graffiare, valorizzate dal gran lavoro di Federico Mura e Alberto Mannucci Pacini, le sezione ritmica a tratti forma un muro sonoro che lentamente ma inesorabilmente avanza e travolge (Giuseppe Siddi al basso e Stefano Spanu alle pelli) mentre i tasti d’avorio legano e avvolgono il sound con ricami melanconici e suadenti.
L’opener Fairytales of Lies, The Rain that Clears My Sins Away, When My Mind Sleeps e The Cascade and the Shadow possono essere certamente considerate come le canzoni più significative dell’album, anche se Hymn For The Fallen va assaporato in tutta la sua oscura e melanconica bellezza.
Il secondo lavoro dei Lightless Moor non può che meritarsi l’etichetta di opera riuscita, costituendo un enorme passo avanti per il gruppo: non lasciatevelo sfuggire.
TRACKLIST
1. Fairytales of Lies
2. Deadly Sin
3. The Unlocked Door to the Other World
4. The Rain that Clears My Sins Away
5. Qualcosa Vive Attraverso
6. The Greatest Lie
7. When My Mind Sleeps
8. King with the Sulphur Crown
9. In Death She Comes
10. A Dream Written in the Sand
11. The Cascade and the Shadow
12. Deviances
Anche se l’ombra dei Type O Negative aleggia in maniera percepibile, se c’è un qualcosa che non fa difetto ai Wormfood è proprio la personalità, che è ben delineata dalla prima all’ultima nota di un lavoro che va in crescendo dopo ogni ascolto.
I francesi Wormfood agitano la scena musicale del loro paese fin all’inizio del millennio è hanno già all’attivo cinque album sulla lunga distanza, incluso quest’ultimo parto intitolato L’Envers.
Nati con basi estreme, come molte altre realtà transalpine si sono poi evoluti lentamente verso forme avanguardiste ma, rispetto ad altri, i Wormfood riescono a focalizzare meglio le loro pulsioni innovative senza mostrarsi mai troppo cervellotici.
Questo avviene anche grazie ad una particolare assonanze sonora ai grandi Type O Negative: tale vicinanza alla storica band statunitense non deriva soltanto dal il tono di voce profondo che il leader Emmanuel Lévy ha in comune con il compianto Peter Steele, ma anche per un sound che si sposta sovente verso quella particolare forma di gothic doom capace di ammantare i brani di un’oscurità soffusa ed inquieta.
Del resto, la presenza in qualità di ospite di Paul Bento, già sodale di Steele ai tempi dei Carnivore e capace di valorizzare con il suo sitar un capolavoro come Bloody Kisses e non solo, fornisce una sorta di imprimatur alla band francese in qualità di degna e credibile portatrice del verbo dei TON.
Infine, ad accomunare ulteriormente le due band c’è anche la presenza di un leader dalla personalità geniale quanto tormentata, al netto delle differenze costituite dal differente background culturale: un aspetto questo, che nei Wormfood caratterizza in maniera decisiva il sound, enfatizzandone la teatralità attraverso l’interpretazione istrionica di Lévy .
Un teatro che, alla fine, è il tema conduttore dell’album, anche se qui si parla di una rappresentazione artistica macabra e grottesca, in ossequio all’umore sardonico che alleggia sull’intero lavoro: tutto ciò che ne scaturisce potrebbe anche risultare indigesto a chi non apprezza più di tanto né tali sfumature né, soprattutto, l’idioma francese che, d’altronde, è assolutamente funzionale alla resa finale costituendo, nel contempo, un fondamentale fattore distintivo
In L’Enverssi susseguono brani di ottimo livello: al netto della lunga introduzione recitata, si procede in maniera sempre efficace tra sonorità avanguardiste e magnifiche aperture melodiche nelle quali, spesso, sono le tastiere a tenere banco assieme, ovviamente, all’eclettica e profonda vocalità di Lévy .
Il riferimento alla band newyorchese diviene esplicito in quello che pare quasi un esperimento medianico, ovvero l’unico brano cantato in inglese, Gone On The Hoist (G.O.T.H.), nel quale Steele viene riportato letteralmente in vita dal singer francese, con il contributo decisivo del sitar di Bento e dell’hammond “silveriano” suonato produttore dell’album Axel Wursthorn.
Mi redo conto che questi costanti riferimenti potrebbero far pensare di primo acchito ad un derivativo lavoro di scopiazzatura, ma vorrei spazzare il possibile equivoco in maniera netta: se c’è un qualcosa che non fa difetto ai Wormfood è proprio la personalità, che è ben delineata dalla prima all’ultima nota di un lavoro che va, peraltro, in crescendo dopo ogni ascolto, riservando nel finale le cose migliori benché la sua prima parte sia già notevole. Gehenna, per esempio, è una canzone formidabile, ricca di enfasi drammatica e di repentine aperture melodiche, ovvero il tratto comune di un intero disco da godersi sedendosi in poltrona ed immaginando di trovarsi al cospetto di un palcoscenico sul quale attori inusuali esibiscono la loro arte putrida e perversa. L’Envers è l’ennesima prova della vitalità di una scena francese fatta di band che prediligono muoversi in maniera obliqua rispetto ai vari generi, e l’atavica rivalità che ci contrappone da sempre ai vicini d’oltralpe non deve mai farci perdere di vista la necessaria obiettività nel giudicarne l’operato, specie in un campo come quello artistico in cui il tifo o lo sciovinismo non hanno alcuna ragion d’essere.
Tracklist:
1. Prologue
2. Serviteur du Roi
3. Ordre de Mobilisation Générale
4. Mangevers
5. Gone On The Hoist (G.O.T.H.)
6. Collectionneur de Poupées
7. Géhenne
8. Poisonne
Line-up:
Emmanuel Lévy : Vocals, guitars, lyrics
Renaud Fauconnier : Guitars
Pierre Le Pape : Keyboards
Vincent Liard : Bass
Thomas Jacquelin : Drums
Guests:
Paul Bento – Sitar on Gone On The Hoist (G.O.T.H.)
Axel Wursthorn – Hammond on Gone On The Hoist (G.O.T.H.)
I quasi settanta minuti di musica riversata in Blood. Stone. Sun. Down. non stancano affatto, dimostrando l’assoluta bontà della proposta e la brillantezza compositiva dei Vuolla
Dalla sempre prolifica Finlandia arrivano i Vuolla, band che dopo diversi anni di attività arriva al full length d’esordio intitolato Blood. Stone. Sun. Down.
Particolare non da poco, i nostri preovengono da Jyväskylä, città situata a circa 300 km a nord di Helsinki, dalla quale sono partiti anche i Swallow The Sun, il che costituisce un indizio piuttosto forte sul tipo di sound che bisogna attenderci da questo lavoro.
In effetti, i Vuolla si cimentano con un death doom melodico che prende spunto più dai primi lavori dei concittadini che non dagli ultimi, anche se viene connotato dalla voce di Kati Kalinen, che si alterna al growl di Kalle Korhonen.
Diciamo subito che la voce della tastierista (nonché moglie del chitarrista Ilari Kallinen ) non è proprio il punto di forza della band, anche se il suo timbro quasi adolescenziale si integra bene con un sound che fa di un mood malinconico la sua ragion d’essere, sviluppandosi lungo coordinate che spesso toccano le giuste corde, con spunti notevoli e tutt’altro che scontati.
I quasi settanta minuti di musica riversata in Blood. Stone. Sun. Down. non stancano affatto, dimostrando l’assoluta bontà della proposta e la brillantezza compositiva dei Vuolla, i quali si lasciano andare talvolta a digressioni di matrice post metal all’interno di qualche brano senza perdere mai di vista l’obiettivo finale, quello di comporre brani emozionanti e dall’andamento dolente.
Peraltro, l’album gode di un livello qualitativo medio elevato, senza tracce che spicchino in maniera decisa rispetto ad una tracklist omogenea in cui, forse si fanno preferire la swallowiana Emperor e, in generale, i momenti in cui le due voci si alternano creando quella contrapposizione di atmosfere che è il sale del genere.
L’esordio dei Vuolla è, quindi, un ulteriore tassello che si va ad aggiungere ad un mosaico nel quale il movimento finnico la fa sempre da padrona, fin dai tempi dei Thergothon, per restare sui versanti più funerei del doom, e dei Decoryah, band che illuminò con due dischi magnifici la scena dei primi ’90 e alla quale riportano talvolta passaggi ed umori contenuti in Blood. Stone. Sun. Down.
Tracklist:
1. Death Incredible
2. Emperor
3. Chambers To Fill With Longing
4. Rain Garden
5. Shadow Layer
6. Rivers In Me
7. Film
8. Quiet Cold
Line-Up:
Kati Kallinen – vocals and keyboards
Mika Laine – bass
Ilari Kallinen – guitars
Kalle Korhonen – growls
Timo Ruunaniemi – drums
Un album intenso, oscuro e melanconico il giusto per piacere a tutte le anime inquiete che si aggirano in notti buie ed intrise di disperata decadenza.
Un’altra band di spessore nell’immenso panorama del symphonic gothic metal, questa volta però con più di un richiamo al doom/dark ed alle band storiche che portarono all’attenzione le atmosfere eleganti ed oscure del metallo gotico con voce femminile.
Gli Ex Animo sono un quintetto ucraino attivo dall’inizio del nuovo millennio e Neverdayè il secondo lavoro sulla lunga distanza, dopo la firma con Metal Scrap, label che ci ha visto giusto, perché il nuovo album è molto emozionale, aggressivo e splendidamente colmo di atmosfere doom/dark.
Le ritmiche aggressive, il suono delle sei corde che richiamano a più riprese i primi lavori di Anathema e Paradise Lost e la voce di Julia Orwell, molto vicina a quella di Cristina Scabbia, formano un sound fuori dalle solite debordanti atmosfere bombastiche che caratterizzano i suoni dell’ultima generazione dei gruppi di genere, incontrando invece i suoni oscuri e maturi del doom e del death, specialmente quando il vocione brutale di Andrew Lunko si impossessa della scena o accompagna l’elegante musa.
Non sono i primi gli Ex Animo a ripercorrere il cammino oscuro dei gruppi del decennio novantiano, un buon numero di realtà, specialmente nell’underground sta tornando ai suoni più dommy e meno bombastici di questi anni e la scena non può che giovarsene.
L’atmosfera di cui si nutre Neverday, rimane per tutta la sua durata piacevolmente malinconica e struggente, il growl dona quel tocco di disperata drammaticità che rende il lavoro più estremo, mentre la vocalist si erge ad eroina, sirena solitaria nel mezzo a tempeste di metallo massiccio, cadenzato e potentissimo.
Non mancano songs pregne di delicato mood dark/gotico (Spring Covered with Snow e Scream of Silence) e potenti tsunami death/doom come Aeons Of Sadness, la splendida Shattered Universe e l’irruenza sinfonica di The Memories of a Broken Man.
Un album intenso, oscuro e melanconico il giusto per piacere a tutte le anime inquiete che si aggirano in notti buie ed intrise di disperata decadenza.
TRACKLIST
1. Neverday
2. Aeons of Sadness
3. Soulglass
4. Spring Covered with Snow
5. Shattered Universe
6. The Memories of a Broken Man
7. Scream of Silence
8. Just Tired (outro)
LINE-UP
Andrew Lunko – guitars, vocals
Victor Kotlyarov – guitars
Julia Orwell – vocals
Evgeniy Pavlov – bass
Aleksey Semenyakin – drums
Ritorno coi fiocchi per le streghe capitoline, Deadlights continua a mantenere il gruppo sul podio delle migliori realtà del genere uscite dal nostro underground negli ultimi anni: un’opera ed una band da amare senza riserve.
A distanza di un paio d’anni tornano i Witches Of Doom, eccellente band nostrana che tanto aveva impressionato con il primo lavoro, quell’Obey che raccoglieva tra i propri solchi quarant’anni di musica oscura, partendo dall’hard rock settantiano dei Black Sabbath, passando per il dark ottantiano e finendo nel doom/stoner di fine millennio.
Un album che finì nella mia playlist di fine anno e non poteva essere altrimenti, vista l’alta qualità del songwriting e le influenze del gruppo che, come spiriti, passavano tra i solchi delle canzoni, senza mettere in secondo piano una personalità debordante, confermata in questo Deadlights, licenziato dalla label americana Sliptrick Records e pronto a conquistare le anime oscure che vagano nel mondo dell’underground metal/rock.
Ancora una volta a prenderci per mano ed accompagnarci nel nuovo sabba delle streghe romane è il singer Danilo Piludu, senza esagerare uno dei migliori cantanti in circolazione nel genere, eclettico, passionale e dotato di una forza interpretativa devastante, un’ugola dark che nelle sue corde vocali racchiude quel tanto che basta di Danzig, Jyrki69, Andrew Eldritch, conferendogli un mood settantiano che rende la sua voce tremendamente efficace ed ipnotica.
I suoi compari non mancano di costruire una cattedrale musicale gotica che si erge nella notte buia e che appare come d’incanto tra la nebbia, con questa volta e specialmente nella prima parte del disco una componente elettronica più accentuata.
Difficile parlare di un lavoro che non lascia un punto di riferimento, alternando con sagacia atmosfere new wave e dark, a molte parti gothic rock, pur avendo sempre presente la componente stoner, che rende le songs ossianiche e liturgiche, litanie oscure destabilizzanti, incantesimi a base di musica rock nera come la pece.
Dopo il bellissimo debutto non era così facile ripetersi, ma già dall’opener e singolo Lizard Tongue si intuisce che la qualità mostrata in passato è rimasta inalterata, ed il brano esplode tra elettronica, stoner con un Piludu sontuoso, in versione Glenn Danzig.
Gli accordi orientaleggianti che compaiono in Run With The Wolf, fanno da preludio ad una delle molte top songs del lavoro: il basso pulsa come i battiti di un cuore nero, spettrale e lasciva ma non pregna di esplosioni elettriche devastanti, Deface risulta un brano capolavoro così come la metallica Homeless, granitica ed emozionale, geniale nel proporre accordi dal sapore western (Fields Of The Nephilim) su una devastante base elettro/stoner.
Si continua a viaggiare sulle ali dei corvi posati sui campanili della famigerata cattedrale e sul piccolo cimitero gotico antistante, mentre Black Voodoo Girl, la superba Mater Mortis ( brano strumentale dove il doom metal incontra lampi e scariche elettroniche per tre minuti circa di geniale musica oscura) e Gospel Of War ci invitano al finale doorsiano con I Don’t Want To Be A Star, brano che chiude l’album con magnifiche atmosfere settantiane deviate da sfumature dark psichedeliche e conferma la totale genialità di questa fantastica band nostrana.
Ritorno coi fiocchi per le streghe capitoline, Deadlightscontinua a mantenere il gruppo sul podio delle migliori realtà del genere uscite dal nostro underground negli ultimi anni: un’opera ed una band da amare senza riserve.
TRACKLIST
01. Lizard Tongue
02. Run With The Wolf
03. Deface (The Things That Made Me A Man)
04. Winter Coming
05. Homeless
06. Black Voodoo Girl
07. Mater Mortis
08. Gospel For War
09. I Don’t Want To Be A Star
Con queste premesse il prossimo full length, previsto in uscita all’inizio di giugno, dovrebbe mantenere le attese e gli standard ai quali i The Vision Bleak ci hanno abituati fin dai loro primi passi
In attesa dell’uscita del loro sesto lavoro su lunga distanza, che tiene puntualmente fede alla cadenza triennale assunta nell’ultimo decennio, i The Vision Bleak concedono un gustoso antipasto con questo Ep contenente quattro brani.
I primi due, The Kindred of the Sunset e The Whine of the Cemetery Hound, andranno a far parte del prossimo The Unknown e sono ovviamente quelli sui quali va focalizzata maggiormente l’attenzione.
La prima traccia, che dà anche il nome all’Ep, è il perfetto singolo dagli umori gotici e si palesa come una delle canzoni più catchy nonché azzeccate mai composte dalla coppia Schwadorf – Konstanz; la seconda mostra, invece, un lato più introspettivo e dalle forti venature doom, risultando meno immediato ma ugualmente convincente.
Esaurito il compito di introdurre il nuovo lavoro, il duo tedesco si diletta nel coverizzare la cult song The Sleeping Beauty dei Tiamat (tratta da Clouds), asservendola al proprio particolare stile senza però stravolgerla, mentre la breve Purification Afterglow è uno strumentale di matrice ambient atmosferica che chiude un Ep gradevolissimo.
Con queste premesse il prossimo full length, previsto in uscita all’inizio di giugno, dovrebbe mantenere le attese e gli standard ai quali i The Vision Bleak ci hanno abituati fin dai loro primi passi, senza magari dare alla luce capolavori epocali ma sciorinando una serie di album di elevato spessore medio e dal sound indubbiamente peculiare.
Tracklist:
1. The Kindred of the Sunset
2. The Whine of the Cemetery Hound
3. The Sleeping Beauty
4. Purification Afterglow
I The Foreshadowing consolidano la recente fama acquisita con un altro splendido disco.
Per una band che ha raggiunto il picco qualitativo della propria carriera il difficile viene proprio nel momento in cui bisogna dare seguito a quanto di buono fatto in precedenza, con l’obiettivo di migliorare ulteriormente o, in subordine, quello di mantenersi su uno standard quanto meno simile.
Per i The Foreshadowing la missione appariva ancor più complessa, visto che il valore assoluto di un disco come Second World ne aveva esteso la fama oltre i confini nazionali, portandoli anche ad intraprendere un tour americano in compagnia di nomi pesanti quali Marduk e Moonspell.
Nonostante il primissimo approccio con Seven Heads Ten Horns mi avesse lasciato più di una perplessità, la percezione dei contenuti dell’album è progressivamente lievitata, ascolto dopo ascolto, fino a svelarne inesorabilmente la vera natura, quella di degno successore di una pietra miliare come Second World.
I The Foreshadowing confermano così il loro valore uscendo vincenti da questa ardua prova, anche se il particolare stile esibito non rappresenta più una sorpresa, essendosi consolidato nel corso degli anni; la band capitolina in questo caso ha optato per un percepibile ammorbidimento del sound, puntando allo sviluppo di chorus dal grande impatto, di quelli che si imprimono subdolamente nella memoria e ci si ritrova a cantare quasi in maniera inconsapevole: una scelta, questa, che offre risultati eccellenti anche se viene sacrificato un pizzico di quella energia esibita nei lavori precedenti.
Del resto i nostri possiedono quella peculiarità tipica dei campioni che è l’esibizione di una cifra stilistica riconoscibile, non solo per il timbro vocale di Marco Benevento, ma anche per un gusto melodico innato che li porta ad essere, volendo un po’ forzare la mano nei paragoni, un ideale punto di incontro tra Paradise Lost, Moonspell e Depeche Mode.
Azzardato ? No, perché un brano di una bellezza stordente come Until We Fail avrebbe trovato una naturale collocazione all’interno di quel capolavoro intitolato Songs of Faith and Devotion; no, perché il background doom attinto dai maestri di Halifax si fonde mirabilmente, in canzoni come Two Horizons e Lost Soldiers, con la malinconia gotica dei lusitani.
I brani citati sono quelli che maggiormente spiccano in una tracklist priva di passaggi a vuoto, prima che la conclusiva Nimrod, traccia di quasi un quarto d’ora composta da quattro movimenti (The Eerie Tower, Omelia, Collapse e Inno al Dolore) si snodi in un magnifico crescendo emotivo, trovando la propria sublimazione in un drammatico ed emozionante finale. Seven Heads Ten Horns è incentrato, dal punto di vista lirico, sul declino della civiltà europea, delineandone un parallelismo tutt’altro che fuori luogo con quella dell’antica Bababilonia, con tanto di metaforico crollo della torre posto come funesto epilogo di un lavoro curato sotto tutti gli aspetti, incluso quello grafico, grazie all’ennesimo visionario artwork creato dal frontman dei Septicflesh, Seth Siro Anton.
I The Foreshadowing consolidano la recente fama acquisita con un altro disco impeccabile e, francamente, alla luce dello status raggiunto e del livello espresso, si auspicano per loro ben altri palcoscenici rispetto a quelli offerti in un’italietta dalla ristretta cultura musicale.
Tracklist:
1. Ishtar
2. Fall of Heroes
3. Two Horizons
4. New Babylon
5. Lost Soldiers
6. 17
7. Until We Fail
8. Martyrdom
9. Nimrod (The Eerie Tower / Omelia / Collapse / Inno al Dolore)
Line-up:
Alessandro Pace – Guitars
Andrea Chiodetti – Guitars
Francesco Sosto – Keyboards
Marco Benevento – Vocals
Francesco Giulianelli – Bass
Giuseppe Orlando – Drums
I Lanthanein conquistano per l’approccio sinfonico, ma dalle ritmiche chi si allontanano dalle sonorità più in voga ultimamente, per esplorare lidi più dark oriented e doom.
Poche informazioni ma grande musica gli argentini Lanthanein, duo che con un po’ di ritardo giunge a noi con questo ep dal titolo Nocturnalgica.
Marili Portorrico (voce, arrangiamenti e programming) e Juan Mansilla (voce, chitarre, basso e programming) licenziano questi oscuri ed affascinanti venti minuti circa di musica gotica, sinfonica, operistica e dalle reminiscenze doom/dark, giocando con l’anima malinconica e decadente del metal con eleganza e talento.
Alternando l’idioma inglese alla lingua madre, il gruppo sudamericano conquista subito per l’approccio sinfonico, ma dalle ritmiche chi si allontanano dalle sonorità piu in voga ultimamente, per esplorare lidi più dark oriented e doom.
Molto raffinato, il songwriting è valorizzato da un’ottima interpretazione vocale, classica ma molto suggestiva, specialmente nei brani (A Orillas Del Silencio) dove la vocalist fa sfoggio della sua lingua, il che regala raffinatezza alle già eleganti trame orchestrali, oscure e pregne di un’elegante melanconia.
Un accenno metallico di stampo black rimane confinato al solo inizio della pur ottima title track, mentre Marili Portorrico ammalia e affascina non poco con la sua bellissima voce.
Siamo nei dintorni del doom gotico di metà anni novanta, la pesantezza dei ritmi lenti e cadenzati vanno a braccetto con orchestrazioni raffinate, delicate ed oscure.
L’atmosfera è magicamente dark, il piano disegna accordi classici, le sinfonie non sono mai troppo invadenti e la voce maschile, quando accompagna la sontuosa prova della singer, lo fa senza estremizzare troppo l’aura gotico orchestrale delle songs (Lacrimosa Et Gementem).
Quattro brani da ascoltare per una band da seguire nei suoi prossimi passi che potrebbero regalare grosse soddisfazioni, sia ai Lanthanein, sia alle anime notturne sempre alla ricerca di nuove colonne sonore per paesaggi crepuscolari.
TRACKLIST
01.Lágrimas De Luna
02.Nocturnálgica
03.A Orillas Del Silencio
04.Lacrimosa Et Gementem