La musica degli Sleep Of Monsters è bella come una sirena e ha la stessa carica di ipnosi, è una mutazione pop di un metal lussurioso e volontariamente oscuro.
I Sleep Of Monsters, dovessero subire un processo della Santa Inquisizione, sarebbero accusati di adorazione del Demonio, stregoneria e di diffusione di musica demoniaca.
Purtroppo, per alcuni e meglio per altri, Lucifero ha sempre ispirato musica molto migliore della controparte, e questo disco ne è la prova. Questi finlandesi fanno un bellissimo e seducente incrocio di metal, pop e musica gotica. La loro seconda prova è ancora più bella e convincente della prima, Producers Reason del 2013, poi ristampato dalla Svart nel 2014, e che era tranquillamente entrato nella top 50 finlandese. La musica degli Sleep Of Monsters è bella come una sirena, e ha la stessa carica di ipnosi, è una mutazione pop di un metal lussurioso e volontariamente oscuro. I magnifici cori femminili delle Furies sottolineano grandi momenti quasi come negli anni ottanta dei Pink Floyd, con la voce di Vil già nei magnifici Babylon Whores, che comanda la nera carovana.
Tutto è lento e tristemente bello, con il dipanarsi delle nostre più recondite paure , e l’emergere della nostra parte oscura e più profonda. I recessi della nostra anima gioiranno per questa epifania finlandese, un disco che è alla pari con Meliora dei Ghost, anzi l’occulto qui è ancora più presente. Tutte le componenti degli Sleep Of Monsters portano qualcosa nell’insieme che è davvero notevole ed unico. Per la cronaca nel gennaio 2015 durante un concerto ad Helsinki, mentre il gruppo eseguiva The Lesser Banishing Ritual Of The Pentagram, prese fuoco il centro commerciale dall’altra parte della via.
Siete stati avvertiti.
TRACKLIST
01. Poison King
02. The Golden Bough
03. Art of Passau
04. Babes in the Abyss
05. Beyond the Fields We Know
06. As It Is, So Be It
07. The Devil and All His Works
08. Our Dark Mother
09. Foreign Armies East
10. Land of Nod
11. Poison Garden
LINE-UP
Ike Vil – Vocals
Sami Hassinen – Guitar
Janne Immonen – Keyboard.
Pätkä Rantala – Drums
Mäihä – Bass
Uula Korhonen – Guitar
The Furies: Hanna Wendelin, Nelli Saarikoski, Tarja Leskinen
Mettete il volume al massimo e fatevi travolgere dal sound di Black Tracks, trasformerete la vostra stanza in una pista di qualche club perso tra le vie di Praga.
Anche l’industrial metal dalle tinte dark, dopo l’exploit di qualche anno fa con il successo di Rammstein e Deathstars, ha trovato in questi ultimi anni qualche ostacolo, più che altro in termini commerciali, mentre nei locali di mezza Europa si continua a ballare sui ritmi sincopati del genere.
I cechi Liveevil non sono certo gli ultimi arrivati, attivi da ormai tredici anni, arrivano al traguardo del quarto album dopo che il loro cyber metal dall’ottimo appeal ha fatto scintille su Arctangel del 2007, Unique Constellation del 2009 e 3 Altering uscito un paio di anni fa.
Nel frattempo il gruppo di Ostrava è rimasto un trio composto da Colossen, Spinach e Angel formando la line up che ha firmato il nuovo Black Tracks.
E di tracce elettro/gothic/metal/dark è composto questo lavoro, nove brani che in poco più di mezz’ora sparano bombe sincopate, ipermelodiche, colme di riffoni metallici, ritmi marziali, e liquide divagazioni elettroniche che scateneranno più di una gothgirl nelle piste di oscuri e ambigui locali darkrock.
Niente che non sia il sound portato al successo dalle band di riferimento, con il gruppo che alterna brani più lineari alla Deathstars ed altri più irruenti, sincopati e marziali come i maestri tedeschi insegnano.
Non un brano che non abbia un’appeal sopra la media, Black Tracks prodotto da Kärtsy Hatakka e registrato tra Praga ed Helsinki, concentra nello stesso sound una buona fetta dei generi di cui si nutre il dark rock, l’elettronica (elemento predominante nel sound) rende il tutto trascinante ed atmosfericamente modernissimo, andando incontro ai gusti degli amanti del gothic rock, mai troppo metallico, ma a tratti grintoso quanto basta per piacere ai fans dell’industrial tout court.
Tra le songs spicca Tomorrow’s Call, posta in dirittura d’arrivo e che ricorda non poco il sound dei tedeschi Secret Discovery, band da rivalutare se siete amanti del genere.
Mettete il volume al massimo e fatevi travolgere dal sound di Black Tracks, trasformerete la vostra stanza in una pista di qualche club perso tra le vie di Praga …
TRACKLIST
1. Ended Run
2. Amper
3. Devilation
4. Vibes
5. Midnight Bay
6. Encounter
7. Hypercharger
8. Tomorrow’s Call
9. We Stand Alone
Con queste premesse il prossimo full length, previsto in uscita all’inizio di giugno, dovrebbe mantenere le attese e gli standard ai quali i The Vision Bleak ci hanno abituati fin dai loro primi passi
In attesa dell’uscita del loro sesto lavoro su lunga distanza, che tiene puntualmente fede alla cadenza triennale assunta nell’ultimo decennio, i The Vision Bleak concedono un gustoso antipasto con questo Ep contenente quattro brani.
I primi due, The Kindred of the Sunset e The Whine of the Cemetery Hound, andranno a far parte del prossimo The Unknown e sono ovviamente quelli sui quali va focalizzata maggiormente l’attenzione.
La prima traccia, che dà anche il nome all’Ep, è il perfetto singolo dagli umori gotici e si palesa come una delle canzoni più catchy nonché azzeccate mai composte dalla coppia Schwadorf – Konstanz; la seconda mostra, invece, un lato più introspettivo e dalle forti venature doom, risultando meno immediato ma ugualmente convincente.
Esaurito il compito di introdurre il nuovo lavoro, il duo tedesco si diletta nel coverizzare la cult song The Sleeping Beauty dei Tiamat (tratta da Clouds), asservendola al proprio particolare stile senza però stravolgerla, mentre la breve Purification Afterglow è uno strumentale di matrice ambient atmosferica che chiude un Ep gradevolissimo.
Con queste premesse il prossimo full length, previsto in uscita all’inizio di giugno, dovrebbe mantenere le attese e gli standard ai quali i The Vision Bleak ci hanno abituati fin dai loro primi passi, senza magari dare alla luce capolavori epocali ma sciorinando una serie di album di elevato spessore medio e dal sound indubbiamente peculiare.
Tracklist:
1. The Kindred of the Sunset
2. The Whine of the Cemetery Hound
3. The Sleeping Beauty
4. Purification Afterglow
I norvegesi Blodsmak hanno compiuto un piccolo miracolo sonoro, poichè sono riusciti a fare un qualcosa che si può avvicinare alla strana definizione di metal pop.
I norvegesi Blodsmak hanno compiuto un piccolo miracolo sonoro, poichè sono riusciti a fare un qualcosa che si può avvicinare alla strana definizione di metal pop.
Dimenticate i Volbeat, che sono maggiormente hard rock, qui abbiamo l’uso del metal come mezzo per ottenere grandi melodie pop. A parte i miei goffi tentativi di catalogazione, questo è un gran bel disco, molto melodico ma con dei bei momenti di durezza. Per non facilitarci il compito il disco è in norvegese, anzi in nynorsk, poichè il norvegese ha due versioni ufficiali, quello vecchio e quello nuovo. Non vi starò a tediare sul perché, ma invece vorrei portare la vostra attenzione su questo bel disco pieno di ottime idee. Ci sono tanti generi in Gjennom Marg Og Bein, dal metal, all’hard rock, al folk, qualche striatura di prog e tanto altro. L’elemento più forte e preponderante è la melodia, che riesce a portare ad un ottimo livello di pathos e partecipazione diventando quasi goticamente epic. Questo disco ha sonorità diverse, molto originali, unicamente Blodsmak. Da sentire per meravigliarsi un po’.
TRACKLIST
01. Fåfengt
02. Heimsøkt
03. Under Mørke Tyrirot
04. Daud Manns Bøn
05. Finn Kvila
06. Bang Bang
07. Framandkar
08. Giljotin
09. Mørkemann
10. Høyrde Me Skål
LINE-UP
Tom Ostad: Voice, Guitar
Åsgeir Størdal: Guitar
Magnus Tveiten: Guitar
Steinar Evant: Bass
Geir Johansen: Drums
Le tre tracce più l’intro sono un esordio notevole, per un gruppo che si sta evolvendo nella tensione di fare sempre meglio, riuscendo in pieno nell’intento.
I finlandesi Cemetery Fog passano da duo a trio, cambiano nome diventando Asphodelus ed esordiscono su Iron Bonehead con questo dodici pollici.
L’evoluzione musicale dal precedente periodo è evidente, dato che si passa dal doom death puro a qualcosa di ora più vicino alla scena inglese dei primi anni novanta, che è un po’ la colonna del genere. C’è molto classicismo goticheggiante nelle loro canzoni, che sono ben composte e di ampio respiro, drammatiche ed immanenti. Le tre tracce più l’intro sono un esordio notevole, per un gruppo che si sta evolvendo nella tensione di fare sempre meglio, riuscendo in pieno nell’intento.In questo disco ci sono molti echi, soprattutto di una cultura metallara estesa e competente, che si sublima in questa splendida musica triste.
TRACKLIST
1.Intro
2.Illusion Of Life
3.Dying Beauty And The Silent Sky
4.Nemo Ante Mortem Beatus
LINE-UP
J. Filppu – Guitar, Vocals.
J. Väyrynen – Guitar.
V. Kettunen – Drums.
I Rotting Christ si confermano con Rituals tra i leader della scena estrema del nostro continente, in virtù di un sound peculiare che ha contributo a consolidarne una fama meritatamente acquisita nel corso di una lunga storia.
Un nuovo disco dei Rotting Christ non può che rivestire il carattere dell’evento.
Chiaramente qui stiamo parlando di una delle band più importanti e più longeve della scena estrema europea, se pensiamo che è prossimo il traguardo del trentesimo anno di attività e questo dovrebbe già essere sufficiente per spiegare l’importanza del gruppo fondato dai fratelli Tolis. Rituals è il dodicesimo full-length e non fa calare la qualità media delle uscite della band ateniese: come si può intuire dal titolo, a prevalere è l’aspetto prettamente rituale dei brani, che spesso risultano vere e proprie invocazioni corali; già l’opener In Nomine Dei Nostri esibisce senza mediazioni le sue sembianze di preghiera blasfema che tiene perfettamente fede alla ragione sociale, ma tutto ciò nei Rotting Christ non avviene con le modalità adolescenziali di certe band che pensano sia sufficiente esibire il face panting per apparire minacciose, bensì con la maturità di musicisti completi e soprattutto credibili.
In una carriera così lunga diversi sono stati gli indirizzi stilistici intrapresi da Sakis, dal grind dei primi demo al black metal peculiare dei primi quatto lavori (con i picchi di Non Serviam e Triarchy Of The Lost Lovers), poi con la svolta gothic di A Dead Poem e Sleep Of The Angels, per tornare successivamente sui propri prassi con Kronos fino a Theogonia ed approdare infine, in questo decennio, ad uscite dall’impronta più epica, talvolta anche folk, e se possibile maggiormente radicate a livello di ispirazione nella storia della nazione ellenica.
Se è vero che l’ultimo album fondamentale pubblicato dai nostri è stato Theogonia, datato 2007, va detto che una minore brillantezza del songwriting rinvenibile negli ultimi lavori è stata ben compensata da una sempre maggiore cura dei particolari, a partire dalla produzione per arrivare al contributo dei diversi ospiti che, da Aealo in in poi, si rivela una piacevole costante. Se allora brillava la presenza di una stella assoluta come Diamanda Galas (senza tralasciare un certo Alan Averill), in Rituals spicca la partecipazione di Vorph dei Samael, sorta di corrispettivi elvetici dei Rotting Christ, e di Nick Holmes dei seminali Paradise Lost.
Detto dell’ottima traccia d’apertura (con il contributo di un’altra icona della scena greca come Magus) e della bontà degli episodi che vedono all’opera i due illustri ospiti (Les Litanies de Satan con Vorph e For a Voice like Thunder con Holmes), il brano che maggiormente colpisce per intensità è Elthe Kyrie, sorta di rappresentazione musicale della tragedia greca, con tanto di recitato da parte di un’attrice del Teatro Nazionale (Danai Katsameni): qui ritroviamo anche le classiche progressioni chitarristiche che, se da una parte, possono apparire una forma di autocitazionismo, dall’altra costituiscono un vero e proprio riconoscibile marchio di fabbrica per i Rotting Christ.
Al contrario, un po’ debole e leggermente furi contesto è Devadevam, con Kathir dei singaporiani Rudra a fornire un’impronta fin troppo particolare al brano, mentre qualche ripetitività di troppo (Apage Satana) appesantisce solo parzialmente un lavoro che nel suo complesso non delude, anche perché, come detto, se l’ispirazione che pervadeva dischi come Non Serviam e Theogonia si manifesta ormai solo a sprazzi, tale mancanza viene compensata ampiamente dal mestiere e dal carisma di una band in grado di legare con disinvoltura i diversi spunti che vengono fatti confluire nell’opera.
In definitiva, i Rotting Christ si confermano con Rituals tra i leader della scena estrema del nostro continente, in virtù di un sound peculiare che, tra alti (molti) e bassi (rari) , ha contributo a consolidarne una fama meritatamente acquisita nel corso di una storia lunga ma che pare ancora ben lungi dall’essere al suo epilogo.
Tracklist
1. In Nomine Dei Nostri
2. זה נגמר (Ze Nigmar)
3. Ἐλθὲ κύριε (Elthe Kyrie)
4. Les Litanies de Satan (Les Fleurs du Mal)
5. Ἄπαγε Σατανά (Apage Satana)
6. Του θάνατου (Tou Thanatou) (Nikos Xylouris cover)
7. For a Voice like Thunder
8. Konx om Pax
9. देवदेवं (Devadevam)
10. The Four Horsemen
Per chi segue con attenzione la floridissima scena metal finlandese questo disco è molto importante, e pieno di grandi nomi.
Per chi segue con attenzione la floridissima scena metal finlandese questo disco è molto importante, e pieno di grandi nomi.
La nuova etichetta italiana Goatmancer ristampa questo gran disco del 2010. Gli Evemaster sono stati fondati nell’autunno del 1996 da Tomi Mykkanen dei Battlelore e da Jarno Taskula, dalle ceneri dei Mortal God. La musica degli Evemaster è un black death composto molto al di sopra della media dei soliti gruppi, con un’orchestrazione generale davvero notevole. Questo disco, come dice il titolo, è la loro terza prova, e ne segna il percorso, poiché il discorso musicale è portato ben la di là dei consueti canoni del black e del death, come i testi che sono di uno spessore superiore, ed hanno un valore letterario. Tanto per dare una caratura dei personaggi coinvolti il missaggio e la masterizzazione sono stati svolti da Dan Swano, un personaggio che ha sempre firmato cose ottime. IIIè l’opera fin qui più matura del gruppo e oltre che dare piacere agli ascoltatori del black e del death, darà molte gioie anche a chi apprezza cose più gothic. Questa ristampa precederà il nuovo album del gruppo che dovrebbe vedere la luce nel 2016, e mette sulla mappa la nuova etichetta italiana The Goatmancer che inizia con un’opera notevoel e dalle mille sfaccettature, che lascia soddisfatti ad ascolti ripetuti e continuati.
TRACKLIST
1.Enter
2.New Age Dawns
3.Humanimals
4.Losing Ground
5.The Great Unrest
6.The Sweet Poison
7.Harvester of Souls
8.Fevered Dreams
9.Absolution
LINE-UP
Jarno Taskula – vocals
Tomi Mykkänen – music
I DVD celebrativi sarebbe bene lasciarli fare a chi ha alle spalle una carriera un po’ più lunga e con all’attivo come minimo 4-5 album di buona qualità.
I Miss My Death è l’ennesima band ucraina dedita al gothic doom con tanto di voce femminile: niente che così descritto possa far strabuzzare gli occhi per la sorpresa, senonché il gruppo di Kiev ha pensato di pubblicare in formato dvd il concerto tenuto nella capitale nel 2013, in occasione della presentazione dell’album In Memories, che sarebbe stato pubblicato l’anno successivo.
La curiosità non è solo cronologica, in quanto fa pensare sicuramente il fatto che una band pensi di filmare un concerto prima di dare alle stampe l’album d’esordio: grande fiducia nei propri mezzi, budget ricco grazie a qualche munifico benefattore o buoni agganci nell’ambiente ?
Ai posteri l’ardua sentenza, di sicuro i dati che saltano all’occhio sono sostanzialmente due:
1) gli I Miss My Death sono una band dal buon potenziale ma, per ora, nulla di più 2) registrare un concerto utilizzando le solite due o tre inquadrature, tra l’altro riprendendo una band statica sul palco come poche, è una scelta che francamente lascia più di una perplessità.
Fare il passo più lungo della gamba è un’operazione che, se da una parte denota quell’ambizione che è ingrediente irrinunciabile per chi vuole provare a sfondare, dall’altra rischia di bruciare irrimediabilmente una band agli occhi degli appassionati.
Ora, può darsi che In Memories abbia riscosso un buon successo commerciale per cui, sfruttandone la scia, i nostri siano stati spinti a ripescare le immagini di un concerto che, magari, faceva parte di un progetto a più lunga scadenza, fatto sta che continuo a restare pervicacemente sulle mie posizioni, ovvero: gli I Miss My Death dovrebbero pensare prima di tutto a rendere più peculiare un sound che è gradevole quanto derivativo, quindi a limitare quelle sbavature che, oltretutto, proprio dal vivo emergono maggiormente.
Perché, oggi come oggi, questi volenterosi ragazzi ucraini rappresentano solo una delle innumerevoli band che propongono sonorità decadenti seguendo lo schema compositivo (inclusa l’alternanza growl maschile/voce lirica femminile) di Draconian e seguaci, senza però riuscire ad avvicinare per intensità certi livelli.
Ergo, i dvd celebrativi sarebbe bene lasciarli fare a chi ha alle spalle una carriera un po’ più lunga e con all’attivo come minimo 4-5 album di buona qualità.
P.S: il voto è riferito al contenuto musicale che di per sé non è poi così deprecabile, mentre sulla ridondanza del dvd mi sono già abbondantemente espresso …
Tracklist:
1. At the Dark Garden of the Vampire
2. Thirteen Autumns of My Solitude
3. The One (feat. Tatiana)
4. Silence Cries
5. Earl Pale
6. Silent Existence
7. In Memories
8. Lacrimosa (W. A. Mozart)
9. While You Remember Me
Gli Whyzdom confezionano un ottimo album di genere, prodotto benissimo e colmo di spettacolari orchestrazioni
Chiariamolo subito: l’album in questione e la band che l’ha creato fanno parte di un genere che, a livello di novità e originalità, ha già esibito fin dalla metà degli anni novanta tutta la sua potenzialità, diventando una delle espressioni in ambito metallico più seguite dai fan, specialmente in Europa.
Difficile perciò trovare album che stupiscano sotto questi aspetti, mentre molto più facile è imbattersi in realtà che, seguendo i soliti cliché del genere, confezionino delle ottime opere di metal gotico, sinfonico e dalle orchestrazioni cinematografiche di buon appeal, virtù sposate dagli amanti di queste sonorità.
A riprova di ciò ecco il nuovo lavoro della band transalpina Whyzdom, nata nel 2007 e al terzo lavoro dopo i due full lenght “From The Brink Of Infinity” del 2009 e “Blind?”, precedente album del 2012.
Preso atto del cambio di vocalist, con Marie Rouyer che prende il posto dietro il microfono della collega Elvyne Lorient, ci immergiamo tra i solchi di questa opera sinfonica dal titolo Symphony For A Hopeless Godche, se non fa gridare al miracolo per spunti innovativi, offre più di un’ora di dinamico ed alquanto metallico gothic metal.
Se, come dei novelli cavalieri della tavola rotonda, siete alla ricerca del santo graal dell’originalità, lasciate tranquillamente perdere questo album; se, invece, il genere continua a regalarvi emozioni, allora spegnete i cellulari e fatevi prendere per mano dalla band parigina, che vi accompagnerà tra le orchestrazioni e gli ottimi spunti dell’opera in questione, dove un buon impatto metal, riuscite parti orchestrali e l’ottima ugola della singer vi regaleranno una buona scusa per stare a casa e godervi lo spettacolo.
Settanta minuti (forse, leggermente troppi) di musica a tratti spettacolare, con qualche picco e qualche piccolo cedimento, che ci sta, proprio in conseguenza della lunga durata, tra funamboliche parti orchestrali e fughe metalliche aggressive, amalgamate con buon piglio dalla band, brava nel non perdersi troppo in parti atmosferiche, ma attaccando dalla prima all’ultima nota lasciando che tutta la sua musica arrivi a noi nella forma migliore (la produzione è al top).
Tra i brani, che raggiungono tutti la sufficienza, spiccano le ottime Asylum Of Eden (la più riuscita in virtù delle ottime orchestrazioni epico/cinematografiche), seguita dalla roboante Waking Up The Titans, dai cori magniloquenti che si avvicinano ai Therion, e Where Are The Angels, anch’essa impreziosita da una spettacolare aurea epica enfatizzata dall’ottima sinfonia classica.
Senza tediarvi con le solite band di riferimento, la band francese ha confezionato un ottimo album di genere, prodotto benissimo, colmo di spettacolari orchestrazioni, ed interpretato da una brava cantante, per gli amanti del genere virtù essenziali per amare un lavoro come Symphony For A Hopeless God.
Tracklist:
1. While the Witches Burn
2. Tears of a Hopeless God
3. Let’s Play with Fire
4. Eve’s Last Daughter
5. Don’t Try to Blind Me
6. The Mask
7. Asylum of Eden
8. Waking Up the Titans
9. Theory of Life
10. Where Are the Angels
11. Pandora’s Tears
Qualunque sia lo stile predominante di un loro disco o di un singolo brano, gli Ecnephias sono riconoscibili fin dalla prima nota, non la sola ma sicuramente una delle principali tra le caratteristiche che rendono una band di livello superiore alla media
Parlare del nuovo album di una band che si conosce molto bene e nei confronti della quale si nutrono inevitabilmente aspettative elevate non è mai facile.
Non fa eccezione sicuramente questo disco auto-intitolato degli Ecnephias, provenienti da due grandi prove quali “Inferno” e “Necrogod”; anche in questo caso, come accaduto in occasione del precedente lavoro, l’impatto non è stato dei più semplici, vista un’iniziale difficoltà ad entrare in sintonia con la nuova creazione della band lucana.
Infatti, così come “Necrogod” differiva sensibilmente da “Inferno”, lo stesso si può dire di Ecnephiasrispetto al suo predecessore: in entrambi i casi gli album hanno svelato il loro valore in maniera graduale, dopo diversi ascolti, una caratteristica che di norma è sinonimo di una certa profondità delle composizioni.
Mi sono chiesto come mai ciò non mi fosse capitato a suo tempo anche con “Inferno” che, al contrario, mi aveva folgorato fin dai primi ascolti, ma credo che la risposta risieda soprattutto nella collocazione dei brani in scaletta: infatti, se un anthem come “A Satana” spalancava subito all’ascoltatore le porte dell’album, “Necrogod” riservava i suoi momenti migliori nella propria parte discendente con le magnifiche “Kali Ma” e “Voodoo”.
La stessa cosa, tutto sommato, avviene qui, con i due brani più immediati e trascinanti, Nyctophilia e Vipra Negra, che arrivano dopo oltre tre quarti d’ora di musica che necessita d’essere lavorata con una certa pazienza. Tutto questo è paradossale, in fondo, se pensiamo che lo stesso Mancan ha dichiarato che questo lavoro sarebbe stato molto più melodico rispetto ai precedenti, a dimostrazione del fatto che ammorbidire il sound non significa automaticamente rendere la musica più immediata e meno profonda.
È innegabile che le sfuriate di “Necrogod” oggi vengano stemperate in una veste più vicina al gothic dark che al metal, andando a rivangare, di volta in volta, le forme più suadenti di band come Moonspell o Type 0 Negative, fermo restando il tratto originale che il gruppo potentino ha sempre esibito, sia pure mostrando le sue diverse anime.
Infatti, qualunque sia lo stile predominante di un loro disco o di un singolo brano, gli Ecnephias sono riconoscibili fin dalla prima nota, non la sola ma sicuramente una delle principali tra le caratteristiche che rendono una band di livello superiore alla media; il loro quinto album (il quarto a partire dal 2010) può e deve essere quello della definitiva consacrazione, in grado di rompere le catene che imprigionano nel nostro paese, tranne rarissime eccezioni, chiunque provi a proporre musica dalle radici ben piantate nel metal.
A un disco come questo, infatti, non manca davvero nulla, in quanto possiede sia la giusta dose di orecchiabilità capace di far breccia anche in chi è meno avvezzo a sonorità più robuste, sia un compatto scheletro metallico in grado di far oscillare spesso il capoccione durante l’ascolto, sia infine quel peculiare gusto melodico mediterraneo che oggi propende più verso i Moospell che non ai Rotting Christ, le due band che costituiscono le estremità del territorio in cui gli Ecnephias si sono mossi in tutti questi anni. La scelta stessa di non intitolare il lavoro è il segno di quanto questo sia considerato dai suoi autori la summa di una già brillante carriera; un punto d’arrivo, per un verso, e nel contempo una base dalla quale muoversi per cercare di ampliare ulteriormente la propria notorietà fuori e dentro i confini nazionali.
Si è detto di una seconda metà dell’album probabilmente superiore a quella iniziale, ma sottovalutare l’intensità di brani quali The Firewalker, A Field of Flowers e Chimera sarebbe delittuoso; certo è che, a partire dalla a tratti pacata Tonight, con il suo splendido lavoro chitarristico, il disco subisce un’ulteriore impennata, prima con Lord Of The Stars, dove riappaiono parzialmente le evocative liriche in italiano, assenti in “Necrogod”, che ben si sposano con le melodie che vengono tessute dalla chitarra di Nikko e dalle tastiere di Sicarius, poi con la vera canzone killer del lavoro, Nyctophilia, il classico capolavoro che da solo varrebbe un intero disco, grazie al suo refrain indimenticabile, ma che in questo caso è fortunatamente accompagnata da una serie di tracce degne del suo valore.
Detto di Vipra Negra, altro episodio simbolo che, volendo esemplificare al massimo, si può definire, almeno a livello di struttura musicale, la “A Satana” di Ecnephias, ho voluto lasciare per ultimo il brano che spicca sugli altri per la sua diversità, Nia Nia Nia, esperimento assolutamente riuscito nel suo intento di conferire al sound oscuro della band quegli elementi folk esaltati dall’utilizzo del dialetto lucano.
Ho già citato il pregevole lavoro di Nikko alla chitarra e di Sicarius alle tastiere, ma non va dimenticato il sobrio e preciso operato della coppia ritmica Miguel Josè Mastrizzi (basso) e Demil (Batteria), anche se, come è ovvio, i fari sono puntati su quello che degli Encephias è il leader storico, Mancan: il musicista potentino è indubbiamente uno dei vocalist più caratteristici dell’intero panorama metal, non solo tricolore, e continua a progredire in tal senso ad ogni album; le sue clean vocals sono ormai ben più che all’altezza di quelli che per timbrica e genere sono i suoi modelli di riferimento, e parlo di Fernando Ribeiro e del (mai abbastanza) compianto Peter Steele, mentre il suo growl è sempre corrosivo e di rara efficacia anche se, alla luce del mood meno estremo del disco, in alcuni passaggi il ricorso a questo stile vocale non appare più così necessario.
Gli Ecnephias del 2015 sono senza alcuna ombra di dubbio una di quelle band che all’estero ci invidiano e che da noi non trovano invece lo spazio che meriterebbero, un po’ per la difficoltà di chi si muove in questi ambiti nel divulgare la propria arte ad una cerchia più ampia di persone, ma soprattutto a causa del provincialismo che attanaglia l’intero movimento.
Sta agli appassionati (quelli veri) andare oltre questi limiti atavici per apprezzare, prima, e diffondere, poi, un altro grandissimo disco concepito e partorito all’interno della nostra feconda quanto contraddittoria penisola.
Tracklist:
1. Here Begins the Chaos
2. The Firewalker
3. A Field of Flowers
4. Born to Kill and Suffer
5. Chimera
6. The Criminal
7. Tonight
8. Lord of the Stars
9. Wind of Doom
10. Nyctophilia
11. Nia Nia Nia
12. Vipra Negra
13. Satiriasi
Line-up:
Mancan – Vocals, Guitars, Programming
Sicarius – Keyboards, Piano
Demil – Drums
Nikko – Guitars
Miguel José Mastrizzi – Bass
Al quinto album di una discografia che negli anni non ha accusato alcuna caduta di tono, Cadaveria con la sua band continua a regalare opere oscure con disarmante naturalezza.
Torna la regina del metal estremo, Cadaveria, con la sua band omonima.
Ormai lontani gli esordi con gli Opera IX, la vocalist dal 2002, anno dell’esordio (“The Shadow’s Madame”) con il progetto a suo nome, continua imperterrita a sfornare opere di metallo estremo dalle sfuriate black e fascino gotico di assoluta qualità, ed il nuovo parto dal titolo Silencenon tradisce le attese, confermando la band biellese come una delle realtà più floride del panorama nazionale nonché una tra le più conosciute anche fuori dai patri confini.
Al quinto full-length di una discografia che negli anni non ha accusato alcuna caduta di tono, il gruppo continua a regalare opere oscure con disarmante naturalezza, ormai modello per qualsiasi giovane band si avvicini al genere, capitanata dalla regina nera sempre in piena forma. Silence offre quanto di meglio la band poteva donare ai propri fan, rivelandosi un album sempre in bilico tra gotiche atmosfere, cavalcate death/black e sfuriate thrash, il tutto sostenuto da emozionanti ed oscuri passaggi, nei quali cala la violenza ma nel contempo l’aria si fa gelida e i brividi fanno tremare corpi e menti, tale è il clima orrorifico che si respira tra i solchi di queste nuove undici canzoni. Cadaveria è sempre qui, tra un growl da strega malefica ed ambigue parti nelle quali le nenie terrorizzano ancora di più: spettacolare nella sua teatralità, rende questo viaggio nel mondo oscuro un incubo dal quale, però, non ci si vuole svegliare, ammaliati, affascinati, ipnotizzati come in un incantesimo da tanto malefico rituale.
I musicisti che accompagnano la singer, formano come sempre un team ultravincente, con la sezione ritmica composta da Killer Bob al basso e Marcelo Santos (ovvero Flegias dei Necrodeath) alla batteria, perfetti dove le ritmiche accelerano vertiginosamente, e la coppia d’asce Frank Booth e Dick Laurent i quali, ispiratissimi, sono protagonisti di una prova spettacolare colmando di solos melodici e riffoni thrash il sound dell’album.
Ottimamente prodotto, Silenceregala perle di metallo oscuro come Carnival Of Doom e Free Spirit, e va in crescendo con il passare dei minuti, regalando il meglio di se nelle ultime tre tracce, Almost Ghostly, Loneliness e Strangled Idols, in un’orgia di suoni estremi ed atmosfere dark davvero da antologia.
Un album che conferma il talento di Cadaveria e dei suoi degni compari, tornati per riprendere il trono tra le band del genere ed il ruolo di guida ed influenza per qualsiasi realtà nostrana che voglia approcciarsi al metal più oscuro.
Tracklist:
1. Velo (The Other Side of Hate)
2. Carnival of Doom
3. Free Spirit
4. The Soul That Doesn’t Sleep
5. Existence
6. Out Loud
7. Death, Again
8. Exercise1
9. Almost Ghostly
10. Loneliness
11. Strangled Idols
Line-up:
Cadaveria – Vocals
Killer Bob – Bass
Marcelo Santos – Drums
Frank Booth – Guitars
Dick Laurent – Guitars
Musica oscura,adulta, i Necroart ci consegnano un album da ascoltare senza riserve, per i fans di Sadness,Samael e My Dying Bride.
Fautori di un metal estremo che negli anni novanta spopolava, i Necroart arrivano al terzo full-length di un percorso artistico iniziato all’alba del nuovo millennio, che li ha portati a licenziare tre demo nei primi quattro anni e due album, “The Opium Visions” nel 2005 e “The Suicidal Elite” nel 2010. Lamma Sabactani punta su un sound più diretto e aggressivo, pur mantenendo le coordinate stilistiche del combo lombardo, votate ad un dark metal doom, a tratti progressivo e dalle sfuriate black, oscuro e malato, una manna per i fan orfani di tali sonorità che, diciamolo, ridicolizzano tante gothic band di questi anni, con i loro suoni puliti e dalle belle fanciulle in copertina ma, in quanto ad attitudine, neanche paragonabili a gruppi come i Necroart.
Iniziando dalla copertina, di una semplicità pari ad un impatto blasfemo disarmante, la band vomita suoni oscuri e voci malate dall’impatto dark e scream di matrice black che si rincorrono su tutto l’album, le melodie toccano emozioni ormai sopite, travolte dai suoni bombastici di questi ultimi anni, come solo le grandi band di metà anni novanta sapevano regalare, ancora influenzate dal dark ottantiano e dal doom/death. E’ un piacere riscoprire tra i solchi della title-track, di Agnus Dei, di Redemption, echi dei Sadness di “Ames De Marbre” e “Danteferno”, il dark doom dei My Dying Bride e le sfuriate black dei primi Samael; teatrali e malvagiamente neri come la pece, i brani di questo album conquistano fin da subito, anche per una vena progressive che rende il tutto molto maturo. Con la loro musica oscura e adulta, i Necroart non scherzano e ci consegnano un lavoro da ascoltare e far vostro senza riserve, degni eredi di un modo di suonare musica estrema che continua ad affascinare, in barba alle mode dettate dalle regole del mainstream!
Tracklist:
1. Lamma Sabactani
2. Magma Flows
3. The Demiurge
4. Agnus Dei
5. Redemption
6. Joining the Maelstrom
7. Stabat mater
8. Of Ghouls, Maggots and Werewolves
9. Cyanide and Mephisto
Obey, primo album dei romani Witches of Doom, raccoglie il meglio del dark, doom, gothic mondiale e attraverso nove brani dal grande appeal.
Premessa: quest’album è di una bellezza straordinaria, almeno per chi, con un po’ di musica rock oscura sul groppone ed una mentalità abbastanza aperta per seguire la quarantina d’anni di evoluzione che il metal dalle tinte dark ha regalato a chi è affascinato da queste sonorità.
Obey, primo album dei romani Witches of Doom, raccoglie il meglio del dark, doom, gothic mondiale e attraverso nove brani dal grande appeal, a tratti violentato da pesanti scosse stoner, esplode in una cinquantina di minuti entusiasmanti, passando dal doom settantiano dei Black Sabbath ai maestri del dark ottantiano Sisters Of Mercy e Mission, da Jirki e i The 69 Eyes (quelli appena passati dal rock’n’roll delle origini al capolavoro “Wasting the Dawn”) ai Type 0 Negative del mai troppo compianto Peter Steele.
Band formatasi solo lo scorso anno, ma dotata di personalità da vendere, le “Streghe” ci deliziano di questo vademecum del dark/gothic che risulta vario proprio per la sua ecletticità, passando da brani più orientati al dark (sempre molto potenti), resi ipnotici da un riuscito vortice di suoni creati da una sezione ritmica devastante (Jacopo Cartelli al basso e Andrea Budicin alle pelli) e dal chitarrismo graffiante e dal forte impatto seventies del bravissimo Federico Venditti.
Senza nulla togliere agli ottimi musicisti, a cui si aggiungono le tastiere di Fabio Recchia e Graziano Corrado, entrato in pianta stabile nella band, il vero mattatore del disco è il cantante Danilo Piludu, un po’ Jirki 69, un po’ Jim Morrison, sempre sul pezzo nel dare alle songs la giusta tonalità, teatrale quando il songwriting si fa drammatico, superandosi nella lunghissima title-track posta in chiusura, una lunghissima jam dark/stoner da antologia, vero viaggio “acido” nel mondo degli Witches of Doom.
Non una nota fuori posto in questo debutto, dall’iniziale The Betrayal, con una slide guitars dai rimandi Fields of the Nephilim, devastata da massicci chitarroni stoner, alla gothic’n’roll Witches of Doom, bissata dalla trascinante To the Bone, dalla smiballad Crown of Thorns, improbabile ma efficacissimo mix tra Black Label Society e Sisters of Mercy. Dance of the Dead Flies e Rotten to the Core sono brani dall’andamento freak cadenzato, devastanti sotto l’aspetto dell’impatto, macigni metallici dove i generi descritti si incontrano in una danza sabbatica che avvolge, come un serpente che scivola sul corpo di una bellissima strega. It’s My Heart arriva giusto prima della fantastica Obey e, purtroppo, si arriva anche in fondo a questo bellissimo album che, a mio parere, eguaglia l’ultimo lavoro dei grandi Bloody Hammers, forse l’unica band che si avvicina alle streghe romane, anche se lo stoner settantiano prevale nel songwriting del gruppo americano, mentre qui l’alternanza di atmosfere e influenze è l’asso nella manica della band capitolina.
In conclusione, album fantastico.
Tracklist:
1. The Betrayal
2. Witches of Doom
3. To the Bone
4. Neeedless Needle
5. Crown of Thorns
6. Dance of the Dead Flies
7. Rotten to the Core
8. It’s My Heart (Where I Feel the Cold)
9. Obey
“The Attraction of Opposites” è un ottimo lavoro che conferma le enormi potenzialità dei Ravenscry.
Tornano alla ribalta con questo nuovo album i Ravenscry, band milanese salita alla ribalta con il precedente “One Way Out”, nel non troppo lontano 2011.
Registrato al Ravenstudio e mixato al Bohus Sound Recordings in Svezia da Roberto Laghi e Dragan Tanaskovic, il nuovo disco conferma le buone impressioni suscitate dal primo episodio della saga Ravenscry, rivelandosi un lavoro originalissimo nel quale viene manipolata la materia gothic con assoluta maturità, e dove viene impressa al sound un’impronta che si allontana dalle facili catalogazioni mostrando un approccio vario, dalle mille sfumature e sfruttando al meglio ogni opportunità per rilasciare un prodotto distinguibile, tra le tante uscite discografiche in questo ambito.
Protagonista assoluta è la cantante Giulia Stefani, dotata di una voce che, usata in modo originale (talvolta pare di essere al cospetto di una cantante jazz), travolge per bellezza e personalità.
Il gruppo, da par suo, non si fa pregare nel picchiare il giusto sui propri strumenti, mantenendo viva una forte impronta metallica, e lo ricorda agli ascoltatori con una sezione ritmica tosta che non risparmia soluzioni progressive e sviluppi sonori che ricordano generi lontani dal mondo propriamente metal e gothic, sempre alla costante ricerca di una soluzione originale e mai scontata. Luxury Of A Distraction apre il disco ed il mondo dei Ravenscry comincia a girare vorticosamente intorno a noi, con luci e ombre, tensione e pacatezza, esplosioni elettriche e divagazioni swing che ci sommergono dal primo all’ultimo minuto, all’inseguimento della sirena Giulia che, con la sua voce, ci sorprende ad ogni passaggio.
La band compatta sciorina riff e ritmiche tra gothic e metal moderno, inserendo armonie di fiati, dalla tromba (Living Today) al sax (Alive), alimentando atmosfere che passano dal progressive ai ritmi jazzati con facilità disarmante, non risparmiandosi e lasciando l’ascoltatore in attesa del prossimo, stupefacente, cambio di registro con il quale i Ravenscry andranno incontro a soluzioni più canoniche, oppure travolgeranno con soluzioni musicali e canore originalissime (The Big Trick).
Produzione ad altissimi livelli, artwork semplicemente fantastico e combo ai nastri di partenza per la definitiva consacrazione: difficile oggi trovare una band così peculiare nel genere e con questi elevati livelli di espressività.
Chapeau!
Tracklist:
01. Luxury Of A Distraction
02. The Witness
03. Missing Words (il video)
04. Alive
05. The Big Trick
06. Touching The Rain
07. Cynic
08. Living Today (il video)
09. Third Millennium Man
10. Noir Desire
11. Ink
12. Your Way
13. ReaLies
Continua la saga del Nigthstalker, concept atmospheric black metal ideato dai belgi Sercati.
Secondo capitolo della saga del Nightstalker ad opera dei belgi Sercati, trio black metal molto atmosferico, che esordì con due demo nel 2009 ed arrivò al primo capitolo intitolato “Tales Of the Fallen” nel 2011.
La storia fantasy raccontata in questa saga parla di un angelo e della sua discesa sulla terra per salvare se stesso e l’umanità, aiutato e protetto da un’entità, appunto il Nightstalker.
Il trio di Liegi, musicalmente, è molto vicino al dark/gothic più che al black: l’album, infatti, risulta molto melodico e solo lo screaming, peraltro punto debole del lavoro, avvicina l’album al black metal.
Le orchestrazioni sono ben congegnate, l’uso del piano e degli strumenti acustici, che in questo lavoro trovano molto spazio,rendono l’ascolto molto vario.
Anche nelle parti dove la band velocizza il suono, l’aura e’ sempre atmosferica e non si va oltre ad una ritmica cadenzata; peccato, ripeto, per lo screaming da folletto (sullo stile del primo Mortiis) che rovina un po’ l’eleganza mostrata dal songwriting.
Accenni al dark (Hunt Between Fallen) e poi tanta melodia per un lavoro, che potrebbe risultare appetibile a molti fan dai gusti diversi, ma anche spunti vicini al folk metal ed uno spirito prog che aleggia su gran parte di un disco oggettivamente ben suonato dai ragazzi belgi, peraltro ancora molto giovani.
Meritano un accenno Until My Last Breath, strutturata su un riff classico, l’appendice acustica di In Equilibrium, accompagnata da delicate tastiere, bissata da My Legacy, anch’essa di chiara ispirazione primo Mortiis e la conclusiva The Hero We Don’t Deserve, brano che racchiude tutte le atmosfere di un lavoro da ascoltare in completo relax per farsi accompagnare, sulle ali dell’angelo, dentro i meandri della musica dei Sercati.
Tracklist:
1. Rememberance
2. Hound from Hell
3. Until My Last Breath
4. Hunt Between Fallen
5. In Equilibrium
6. My Legacy
7. Face to Face
8. No More Fear
9. The Hero We Don’t Deserve
Line-up:
Steve “Serpent” Fabry – Bass, Vocals
Yannick Martin – Drums
Florian Hardy – Guitars
Lavoro dalle tinte decadenti e dal sound atmosferico, riflessivo ed elegante quello proposto, con ottimo piglio, dalla band calabrese dei Lenore S Fingers.
In copertina una camera stile anni trenta, una ragazza sdraiata sul letto, lo sguardo verso una finestra illuminata dai raggi del sole: fuori è già cominciata la primavera, la natura si risveglia, tutto dovrebbe essere più gioioso e la stagione che nasce dovrebbe portare via il malessere che inevitabilmente l’inverno porta con se; invece, qualcosa non va in lei: un primo amore perduto?
Lo scoprirete tra i solchi dell’esordio dei Lenore S Fingers, band calabrese accasatasi presso la My Kingdom Music (etichetta che, in quanto a band di talento se ne intende), protagonista di un lavoro intimista, delicato e di classe, impreziosito dalla voce suggestiva di Federica Lenore Catalano, anche alla chitarra e ai synth e indiscussa leader del combo.
Formatosi nel 2010, il gruppo arriva all’esordio con una personalità da band navigata, costruendo un songwriting che pesca in varie direzioni senza perdere una spiccata originalità di fondo, lasciando che la musica fluisca senza alcuna forzatura e rendendo l’ascolto estremamente piacevole.
The Gathering, Katatonia e e il dark ottanti ano sono nomi e genere che più si avvicinano alla musica della band calabrese che, quando serve, non rinuncia ad indurire il suono, come nella stupenda Victoria o nella sinfonica Doom, pur mantenendo un’eleganza non comune.
La buona produzione fa sì che gli strumenti non coprano la bellissima voce di Federica, che in certe circostanze si fa eterea e molto emozionale: esempio lampante è Cry Of Mankind, dove un alternarsi di momenti acustici ed elettrici sono supportati in egual modo dal tono sulfureo della cantante e, sul finire, la song è impreziosita da un bell’assolo di chitarra che metallizza l’atmosfera. Song To Eros è un bellissimo brano dalle coordinate stilistiche vicine al gruppo olandese che fu della divina Anneke van Giesbergen, mentre nella conclusiva An Aching Soul la chitarra acustica accompagna la voce di Federica pere l’episodio più intimista del lotto chiudendo il lavoro con atmosfere dai rimandi dark wave.
Inner tales è un lavoro che potrebbe piacere ad una vasta fetta di pubblico, rivelandosi adatto sia ai fan del gothic metal, sia a chi preferisce un approccio più dark rock ma, soprattutto è l’ennesima buona prova di una band tutta italiana.
Tracklist:
1. Inner Tales
2. The Last Dawn
3. Victoria
4. Cry of Mankind
5. To the Path of Loss
6. Song to Eros
7. Doom
8. The Calling Tree
9. An Aching Soul
Se il livello delle produzioni nostrane in campo symphonic-gothic continuerà a mantenersi su questi livelli, chissà che un giorno, quando si parlerà di questo genere, non si finisca per fare riferimento alla scena italiana invece che a quella nordeuropea.
Sirgaus, Poemisia, Elegy Of Madness (e non solo) ed ora i Teodasia: la scena symphonic/gothic metal italiana sta diventando una certezza in questo genere e ad ogni uscita è un piacere constatare come le band nostrane sappiano tutte essere, a modo loro, diverse l’una dall’altra puntando all’originalità pur evidenziando le proprie influenze, come è naturale che sia.
I veneti Teodasia dopo un demo eun full length datato 2012 dal titolo “Upwards”, sono usciti sul mercato nel 2013 con due mini, “Stay” e quest’ultimo Reflections, che vede un cambio di cantante,con Giulia Rubino a prendere il posto di Priscilla Fiazza, e soprattutto un sound esplosivo da portare in giro per i palchi, non solo della nostra penisola.
Ben nove brani, due de i quali sono delle intro ed uno è la cover di un pezzo dance di tale dj Sash, per mezzora di musica che mi ha letteralmente ammaliato.
La prima vera canzone, Where I Belong, suona molto hard rock nello stile chitarristico, con tanto di bellissimo assolo e ritornello orecchiabilissimo, in grado di entrare in testa già al primo ascolto.
Altro intermezzo strumentale e cambio di registro: il primo minuto e mezzo della title-track è folk oriented, per poi trasformarsi in un brano symphonic da antologia, dove sono le tastiere a prendere per mano il brano conducendolo in territori cari ai Sirenia. Land Of Memories, divisa in due parti, è il brano che si accosta di più ai Nightwish, e vede una grande prova della vocalist la quale, pur non essendo un soprano, possiede una gran bella voce. Infinity è uno strumentale dal sapore cinematografico, supportato dal pianoforte e da bellissimi arrangiamenti sinfonici.
La traccia conclusiva è una ballad, degna chiusura di un dischetto suonato, prodotto e arrangiato a meraviglia; continuando di questo passo chissà che un giorno, quando si parlerà di questo genere, non si finisca per fare riferimento alla scena italiana invece che a quella nordeuropea.
Un’altra grande band.
Tracklist:
1. Back to the Past
2. Where I Belong
3. Mirrors
4. Reflections
5. Land of Memories, Pt. 1
6. Land of Memories, Pt. 2
7. Stay (2013)
8. Infinity
9. Windy Night
“Renascentis” è il nuovo nato in casa Levania, album dalle mille idee e dalle altrettante contraddizioni.
“Parasynthesis” era il loro debutto, Renascentis è il nuovo nato in casa Levania, album dalle mille idee e dalle altrettante contraddizioni.
C’è tanto in questo disco, forse troppo, e l’ascolto non se ne giova anche per una produzione veramente sotto la media, che fa risultare il tutto un calderone dove a tratti sembra di ascoltare due pezzi diversi contemporaneamente. I ragazzi ferraresi hanno reso il loro lavoro molto più duro della media del genere e, come detto, le idee a livello di songwriting sono valide, ma la voce della cantante è troppo morbida e quasi sparisce, sommersa dal vortice strumentale dei pezzi, mentre la voce pulita, di impostazione rock, si rivela inadatta alle atmosfere del disco; si salva invece il cantato in growl, nonostante anche quello viaggi almeno due toni sotto la batteria e le tastiere, quest’ultima comunque piuttosto efficace come pure la chitarra ritmica. La tracklist mostra brani alcuni brani che si elevano sugli altri come Arcadia, dove Ligeia mostra d’essere più a suo agio nelle tonalità basse e probabilmente sarebbe più efficace in ambito dark rock piuttosto che nel gothic metal, mentre la chitarra disegna assoli ispirati rivelandosi come uno dei pregi del disco; un altro bel pezzo è Four Season, posto in chiusura di un album che, con una produzione nella media ed una diversa prestazione vocale, sarebbe risultato molto più interessante per i gothic fans.
Tracklist:
1.Proemium
2.Arcadia
3.Needles
4.Spiral
5.Seven times to forget
6.My writings of hope
7.An icy embrace
8.Metamorphosis
9.Drakarys
10.Onirica
11.Lucretia
12.Four seasons
Il lavoro risulta originalissimo e, dopo lo stupore del primo ascolto, emergono le sfumature dark e goth che non mancano in questa opera rock.
Ora immaginate se la Love imprestasse la propria voce ad un progetto gothic rock, sì perché l’album dei bellunesi Sirgaus ha la particolarità di miscelare gothic e grunge in un’alchimia perfetta e Sonja Da Col ricorda, specialmente nelle tonalità basse, la cantante americana.
La band nasce nel 2011,formata dalla vocalist e dal marito Mattia Gossetti, bassista e backing vocals; in un secondo tempo si unisce alla coppia il chitarrista Massimo Pin e, dopo il debutto live, la band aiutata da Lethien, violinista degli Elvenking, registra quest’opera rock che non mancherà di stupire chi avrà la fortuna di imbattersi in questo bellissimo lavoro.
Protagonista del disco è il violino di Lethien, che appare in tutti i brani, sia da solista che da accompagnamento alla voce di Sonja, assieme alla chitarra di Massimo Pin che disegna assoli rock con reminiscenze blues, assecondando l’ispirazione molto americana del disco.
Il lavoro risulta quindi,originalissimo e dopo lo stupore del primo ascolto, emergono le sfumature dark e goth che non mancano in questa opera rock. Le song hanno tutte una loro peculiarità e la loro importanza nel contesto dell’album, ma Sofia’s Forgotten Diary, Through The Creepers e Desert City le ho trovate fantastiche.
Discorso a parte per il trittico finale, composto da Sofia’s Return, Real Angel e Sofia’s Memories, dove l’album arriva alla resa dei conti e la band sforna quindici minuti di musica travolgente, dove tutto il loro credo musicale si fonde, per un finale da brividi.
Complimenti quindi ai Sirgaus ed al loro originalissimo lavoro.
Tracklist:
1.The orphan’s letter
2.Sofia’s forgotten diary
3.Through the creepers
4.Evening lessons
5.Escape from the mansion
6.Cellar
7.Desert sky
8.Believe in you
9.Sofia’s return
10.Real angel
11.Sofia’s memories
Line-up:
Sonja Da col-vocals
Mattia Gosetti-bass,vocals
Massimo Pin-guitars
Lethien-violin
La caratteristica di schiudersi lentamente e di concedersi all’ascoltatore solo dopo diversi passaggi nel lettore è una peculiarità dei grandi dischi.
A circa un anno e mezzo dalla pubblicazione di un lavoro magnifico come “Inferno”, gli Ecnephias si ripresentano con un nuovo disco per il quale le aspettative erano piuttosto elevate: lo stesso Mancan, nel presentare il nuovo lavoro, come è suo costume non si è certo nascosto dietro dichiarazioni di facciata, proclamando con convinzione che Necrogod sarebbe stato il miglior album mai inciso dalla sua band.
Se è vero che affermazioni di questo tenore sono all’ordine del giorno in occasione di nuove uscite in campo discografico, va detto subito che quanto affermato dal musicista lucano corrisponde in tutto e per tutto alla realtà.
Per gli Ecnephias, sulla spinta degli ottimi riscontri ricevuti nel recente passato, sarebbe stato facile riproporre una sorta di “Inferno 2” ma è sufficiente conoscere la loro storia per escludere subito questa possibilità: qui si parla di una band che, partita dal black dai tratti comunque evocativi degli esordi, si è evoluta nel corso degli anni verso una forma di heavy metal oscuro e malinconico, dalle ampie sfumature dark, in maniera analoga a quanto fatto, sia pure in un arco temporale più ampio, dai Moonspell (che, assieme a Rotting Christ e Septic Flesh, sono sempre stati per Mancan degli espliciti punti di riferimento).
Sarebbe un grave errore, però, attendersi una versione fedele ma sbiadita della band portoghese: gli Ecnephias rielaborano le svariate influenze musicali (dichiarate e non) assimilate nel corso degli anni dal proprio leader (nonché dal suo storico sodale Sicarius) dando vita a un prodotto che possiede, in tutto e per tutto, un marchio di fabbrica inconfutabilmente e immediatamente riconoscibile.
Se, in Inferno, il retaggio estremo faceva ancora capolino a tratti all’interno dei singoli brani, in Necrogod tutto ciò lascia posto a una forma di heavy metal dalle tinte fosche per atmosfere e attitudine, mentre ogni residua pulsione riconducibile al black sembra essere stata interamente convogliata da Mancan nel suo rinato progetto Abbas Taeter.
Dopo premesse di questo genere, sarebbe lecito attendersi un lavoro orecchiabile o di facile presa e, invece, dopo i primi ascolti accade esattamente l’opposto : Necrogod gode infatti di una profondità inattesa e, per questo motivo, potrebbe risultare ingannevole per chi inconsciamente vi si avvicinasse attendendosi episodi più immediati, sulla falsariga di “A Satana” o “Chiesa Nera”.
E’ possibile che la rinuncia totale all’uso dell’italiano abbia avuto un suo peso nel rendere maggiormente complessa l’assimilazione dei brani, ma non c’è dubbio che la caratteristica di schiudersi lentamente, di concedersi all’ascoltatore solo dopo diversi passaggi nel lettore, sia una peculiarità dei grandi dischi.
Chi riuscirà a non affrontare Necrogod in maniera superficiale, otterrà in cambio la possibilità di godersi un affascinante viaggio musicale incentrato, a livello lirico, sulle divinità conosciute ed adorate in epoca pre- cristiana: così, nei quasi cinquanta minuti di durata del disco, Mancan ci guida in un percorso storico-religioso che include le antiche divinità mediorientali (Baal, Ishtar, Inanna), il serpente piumato dei Maya (Kukulkan), la mitologia greco-egizia (Ade, Osiride, Anubi, Horus), la terribile dea indiana Kali, il mostruoso Leviatano di biblica memoria e la magica ritualità del Voodoo.
Ma passiamo ad eseminare in maniera più approfondita l’aspetto che più ci preme, ovvero la musica: il disco è inaugurato da una breve traccia strumentale che fa già presagire il nuovo corso degli Ecnephias: atmosfere sempre più evocative arricchite da elementi etnici e tribali, in ossequio alle tematiche trattate,
In occasione del primo impatto con Necrogod i due brani che sicuramente colpiscono di più sono The Temple of Baal-Seth, in possesso di un ritmo trascinante ed un chorus in portoghese condotto da Mancan in maniera esemplare, e Voodoo, dove l’evidente citazione dei Rotting Christ è in realtà volta ad omaggiare l’ospite Sakis, che presta la sua voce inconfondibile a una traccia entusiasmante, all’interno della quale la chitarra assume in certi frangenti accenti maideniani.
La title-track e Leviathan mostrano il volto più violento degli Ecnephias, anche se la componente melodica non viene certo messa in secondo piano, ma è evidente che il proprio meglio la band potentina lo offre negli episodi maggiormente coinvolgenti sul piano emotivo, quando la ritualità delle invocazioni alle divinità si amalgama naturalmente a fughe chitarristiche di grande intensità ad opera di Nikko, il tutto punteggiato dall’elegante lavoro alle tastiere di Sicarius e dalla possente e precisa base ritmica a cura di Miguel José Mastrizzi e Demil. Così, se Ishtar assume diverse sembianze musicali nel corso del suo dipanarsi, in ossequio alla mutevolezza di colei che per i sumero-babilonesi era allo stesso tempo dea del cielo, della terra e degli inferi, Kukulkan e Anubis si svelano progressivamente mostrando tutta la capacità di Mancan e soci nell’ideare canzoni dove il growl e i riff di matrice estrema si sposano naturalmente con clean vocals profonde e poggiate su melodie apparentemente suadenti, ma costantemente avvolte da un velo di oscurità.
L’esempio migliore di quanto appena affermato è Kali Ma, un brano che esplode in tutta la sua sfolgorante bellezza solo dopo diversi ascolti, quasi che la temibile divinità in esso rappresentata avesse voluto celare il più a lungo possibile il proprio conturbante fascino. Winds Of Horus è un’altra traccia strumentale, posta in chiusura, sulla quale scorrono idealmente i titoli di coda di un lavoro che merita di essere riascoltato più volte per assaporarne appieno le fragranze più nascoste. Necrogod non solo raggiunge ma supera il livello già altissimo raggiunto dagli Ecnephias con “Inferno”; sicuramente per la band lucana questo si può considerare il lavoro della definitiva maturità e rappresenta il raggiungimento di uno status che non va considerato, però, un punto d’arrivo, bensì una base consolidata dalla quale proseguire la costante progressione stilistica e compositiva.
Non è blasfemo affermare che, per il valore dei suoi ultimi due lavori, il combo lucano può collocarsi attualmente all’altezza della più volte citata triade ellenico-lusitana; la vera sfida ora, per Mancan, sarà piuttosto quella di eguagliarne o, quantomeno, avvicinarne la longevità artistica.
Tracklist :
1. Syrian Desert
2. The Temple of Baal-Seth
3. Kukulkan
4. Necrogod
5. Ishtar – Al-‘Uzza
6. Anubis – The Incense of Twilight
7. Kali Ma – The Mother of the Black Face
8. Leviathan – Seas of Fate
9. Voodoo – Daughter of Idols
10. Winds of Horus
Line-up :
Mancan – Guitars, Vocals, Programming
Sicarius – Keys and Piano
Demil – Drums
Nikko – Guitars
Miguel José Mastrizzi – Bass