Un album da ascoltare senza pregiudizi, anche se l’operazione nostalgia è dietro l’angolo ma, a difesa del gruppo inglese, c’è una grande conoscenza della materia ed uno spirito vintage che accomuna tutti i generi.
La macchina del tempo metallica che da un po’ mi porta in giro per i vari decenni ora che i suoni vintage e classici sono tornati all’attenzione dei fans mi spinge indietro fino al 1981 quando il bassista Kevin Riddles, lascia gli storici Angel Witch per formare i Tytan.
Del gruppo però, dopo il primo ep (Blind Man And Fools) licenziato nel 1982 ed il full lenght Rough Justice del 1985, se ne perdono le tracce fino al 2012 ed alla partecipazione dei riformati Tytan al Keep It True Festival.
Con nuovi musicisti e un ritrovato entusiasmo il gruppo londinese arriva oggi a licenziare il secondo lavoro dopo ben trentadue anni, dall’esordio sulla lunga distanza tramite la High Roller. Justice Served risulta così un ritorno alle sonorità classiche nate all’alba degli anni ottanta e conosciute come new wave of british heavy metal.
Ritmiche alla Saxon e melodie di scuola Praying Mantis compongono la struttura portante del suono Tytan, che avvalendosi di una produzione in linea con la musica suonata porta l’ascoltatore nella Londra dei primi anni ottanta, quando l’heavy metal capitanato dagli Iron Maiden e dai loro colonnelli sul campo (Saxon, Praying Mantis, Angel Witch, Tygers Of Pan Tang, Def Leppard) stava rimpiazzando nei gusti il successo veloce e distruttivo del punk.
Kevin Riddles torna con i suoi Tytan e lo fa alla grande, con un album piacevole, puro heavy metal britannico, dove la melodia ha un’importanza primaria nel creare atmosfere che si fanno talvolta settantiane, con l’hard rock che a tratti prende il sopravvento.
Un album da ascoltare senza pregiudizi, anche se l’operazione nostalgia è dietro l’angolo ma, a difesa del gruppo inglese, c’è una grande conoscenza della materia ed uno spirito vintage che accomuna tutti i generi.
TRACKLIST
1. Intro
2. Love You To Death
3. Fight The Fight
4. Spitfire
5. Reap The Whirlwind
6. Midnight Sun
7. Forever Gone
8. Billy Who
9. Hells Breath
10. One Last Detai
11. Worthy Of Honour
12. The Cradle
LINE-UP
Tom Barna – Vocals & Rythmn Guitar
Dave Strange – Vocals & Lead Guitar
Kevin Riddles – Bass, Vocals & Keyboards
James Wise – Drums
Andy Thompson – Keyboards
Last Day Of Light risulta davvero un ottimo esempio di metallo proveniente dal nuovo mondo, teatrale e drammatico, epico e a tratti progressivo, mettendo subito in chiaro che qui siamo al cospetto di una band da non sottovalutare.
Le vie del power metal sono infinite e arrivano a Cagliari, in una delle nostre due isole maggiori, portando nobile metallo oscuro e drammatico come da tradizione americana.
La band in questione, all’esordio discografico tramite la Minotauro Records, si chiama Burning Ground, è attiva dal 2002 ma solo ora arriva a fermare la propria musica su disco e, come una foto o un’immagine, lasciare finalmente qualcosa di sé a chi la segue.
E bene ha fatto la Minotauro a non lasciarsi sfuggire il quintetto sardo, all’opera su un lavoro notevole, heavy power che non disdegna passaggi al limite del thrash, atmosfere epiche ed oscure, ed un’eleganza insita nel songwriting del gruppo ed assolutamente di scuola americana. Last Day Of Light risulta davvero un ottimo esempio di metallo proveniente dal nuovo mondo, teatrale e drammatico, epico e a tratti progressivo, mettendo subito in chiaro che qui siamo al cospetto di una band da non sottovalutare, con un singer di razza (Maurizio Meloni) ad interpretare i brani con grinta e pathos, una chitarra solista che sciorina solos forgiati nel sacro fuoco del metal (Andrea Alvito), accompagnata dalle ritmiche del buon Alberto Bandino.
Il basso di Alessio Melis pompa sangue power, le pelli bruciano sotto i colpi inferti da Angelo Melis, mentre Dark Ages è l’intro che ci dà il benvenuto in questo piccolo gioiellino di metal classico.
Non ci si muove dal territorio americano, The Killing Hand conferma la totale devozione del gruppo all’heavy power classico, le atmosfere sono da subito aggressive ed oscure, ma elegantemente impreziosite da un grande lavoro melodico della sei corde. Darkened Desire è uno splendido brano dove le ritmiche la fanno da padrone così come la cura nei chorus, e Facing The Shame è un bombardamento metallico, così come Before I See.
Primi Savatage, Metal Church e Sanctuary, ma pure Nevermore ed Iced Earth, nella musica del gruppo passa una buona fetta del metal classico statunitense, proveniente dagli anni ottanta , ma senza dimenticare i più giovani interpreti della musica dura, ormai da anni nel cuore dei true metallers, messo a dura prova dal The Burning Ground e dalla title track.
Una gradita sorpresa, un album ed una band da non lasciarsi sfuggire, specialmente se vi nutrite di pane ed U.S. power metal.
Tracklist
1.Dark Ages
2.The Killing Hand
3.Darkened Desire
4.Facing the Shame
5.Before I See
6.The Burning Ground
7.Last Day of Light
8.Dawn of Hope
Ennesimo ottimo lavoro per la band pugliese che, fuori dai comuni schemi, regala musica per chi sa ascoltare.
Tornano con un nuovo lavoro (il quarto di una storia nata nel lontano 1993) i leccesi Essenza dei fratelli fratelli Rizzello (Carlo, voce e chitarra, ed Alessandro, basso, accompagnati da Paolo Colazzo alla batteria), che danno un seguito al precedente “Devil’s Breath” del 2009.
Il nuovo album propone una mezzora abbondante di hard rock adulto, oscillante tra l’heavy ottantiano, uno spirito rock anni settanta, squisite divagazioni prog ed ottime parti ritmiche: tecnicamente impeccabile, mai ordinario, Blind Gods And Revolution accentua la peculiarità del trio nel non fornire all’ascoltatore troppi punti di riferimento, grazie a suoni ed atmosfere che mutano ad ogni passaggio inglobando il meglio di questi generi in un unico lavoro.
Rimane preponderante, a mio parere, una forte impronta settantiana, iniziando dalla produzione e dal cantato di Carlo Rizzello, il che ne fa un album imperdibile per gli amanti del rock più attempati; originale ed imprevedibile, il sound della band acquista valore col passare degli ascolti, permettendo all’ascoltatore di assimilarne le mille sfaccettature.
Album di non facilissimo ascolto, dunque, e sicuramente non un lavoro usa e getta come ormai siamo abituati a consumare in questi anni in cui tutto corre, bensì ottima musica che va curata, lavorata e fatta propria, lasciando che la moltitudine di note racchiuse nei brani del cd entrino dentro di noi, assaporandone ogni sfumatura, che sia essa rivolta all’heavy o al prog, o addirittura al folk come nella meravigliosa Seagulls In The Night.
I brani si susseguono tra ritmiche martellanti e trame complicate e avvincenti, i generi che di volta in volta ci appaiono tra le pieghe del disco rendono l’ascolto vario, anche se la concentrazione è d’uopo per seguire le molteplici strade prese dalla band e non perdersi all’ennesimo incrocio: i tre musicisti ci stupiscono per la scelta di vie talvolta a noi sconosciute ma affascinanti, giocando pericolosamente con la musica, come un incantatore di serpenti davanti ad un velenosissimo rettile.
Ennesimo ottimo lavoro per la band pugliese che, fuori dai comuni schemi, regala musica per chi sa ascoltare, confermandosi come realtà rock di altissima qualità.
Tracklist:
1. Plastic God (An Autumn Dream)
2. Bloody Spring
3. The Song Inside
4. The Fury of the Ancient Witch
5. Lost and Blind
6. Fight for Change
7. Seagulls in the Night
8. Time (Keep My Memories Alive)
Line-up:
Alessandro S. Rizzello – Bass
Paolo Colazzo – Drums
Carlo G. Rizzello – Vocals, Guitars
Up the hammers, down the nails ! …anche dopo 40 anni risuona fiera la “chiamata alle armi” da parte di Mark “the Shark” Shelton.
In un mondo musicale sempre affannato nel ricercare nuove sensazioni, sempre frenetico nell’accendere e spegnere nuovi generi musicali, è veramente un piacere potersi soffermare e assaporare l’arte di una band attiva da quarant’anni (40!!!).
I Manilla Road del leader Mark “the Shark” Shelton hanno creato un loro suono nel nome del più puro metallo epico di stampo americano, ricco di pathos, oscurità, mai ridondante e purtroppo dallo scarso appeal commerciale.
Strana storia quella dei Manilla Road, sempre sostenuti dai loro fans ma poco considerati a livello commerciale e boicottati da molti ascoltatori ricercanti, forse, un epic metal di più facile impatto; particolare la loro proposta modulata in 17 album ,con alcune vere gemme nel triennio 85-87 (Open the Gates,The Deluge, Mystification), ma con una buona produzione media, varia nel ricercare attraverso il guitar work sempre appassionato, intricato, epicamente melodico e la voce nasale di Mark l’oscura essenza di un suono che non ha trovato moderni epigoni. Le critiche mosse negli anni al leader sono state quelle di non essersi modernizzato con il suo suono, proponendo sempre, con poche variazioni, le stesse atmosfere; sinceramente mi sembra che siano critiche sterili: quando si trova una band che si è creata un proprio sound e rimane coerente con esso, suonando con competenza, passione e sudando “sangue” sui propri strumenti, bisogna solo ammirare e ascoltare con il cuore e non con il cervello. Anche la nuova opera, illustrata da una bella copertina di Paolo Girardi, offrendo dieci nuovi brani per un’ora di durata, ci dimostra come la “penna” dello Squalo, autore di tutti i brani, sia ancora intrisa di particolari idee melodiche intricate ed oscure, con soluzioni atmosferiche intriganti e coinvolgenti; la lunga title track, più introspettiva che classicamente epica, posta in apertura, ha una sentore antico e si conclude con un lungo assolo fluido, ispirato e molto sentito. Fragranze psichedeliche si ritrovano sparse per tutta l’opera (Never Again) mentre i brani più tirati (Conqueror e The Arena) ricordano una volta di più come si deve suonare heavy metal di classe. Dato non scontato, quando si parla dei Manilla Road, anche la produzione è buona, mentre alcune prove recenti ne erano state mortificate (vedi Playground of the Damned del 2011); per rincarare la dose ricordo a chi non si sazia mai di queste sonorità l’uscita del secondo disco del progetto parallelo, gli Hellwell, accreditato all’amico E. C. Hellwell, dove Mark scrive i testi e la musica suonando un heavy più duro, ancora più cupo e orrorifico.
In conclusione, “chapeau” a un artista che alla tenera età di sessant’anni è in grado di emozionare con la sua incontaminata arte!
Tracklist
1. To Kill a King
2. Conqueror
3. Never Again
4. The Arena
5. In the Wake
6. The Talisman
7. The Other Side
8. Castle of the Devil
9. Ghost Warriors
10. Blood Island
Line-up
Mark Shelton – Guitars, Vocals
Bryan “Hellroadie” Patrick – Vocals
Andreas Neuderth – Drums
Phil Ross – Bass
La qualità altissima delle composizioni mi porterebbe a comporre un track by track oltremodo antipatico, quindi sappiate che, dall’opener The Dead Of Night fino alla conclusiva title track, è un susseguirsi di emozionanti avventure nel mondo dell’heavy metal classico.
Collaborare con MetalEyes significa sguazzare nell’underground, aiutati nella ricerca di chicche metalliche da presentare ai lettori grazie ad una serie di label che ci invitano all’ascolto di perle altrimenti a forte rischio di passare inosservate ai più.
Twisted Tower Dire è un nome che a molti non non dice nulla, ma per chi è attento al sottobosco musicale si tratta una band americana di culto, attiva da più di vent’anni nell’heavy power metal con una serie di album uno più bello dell’altro, con l’ultimo uscito ormai sei anni fa (Make It Dark).
Tre quinti di questa splendida realtà dell’ underground metallico classico statunitense li ritroviamo negli altrettanto spettacolari Walpyrgus: Jonny Aune, grande vocalist (ex Widow), Scott Waldrop ad una delle due chitarre (l’altra è lasciata nelle mani di Charley Shackelford) ed il bassista Jim Hunter a formare la sezione ritmica con il drummer Carlos Denogean.
Il quintetto del North Carolina arriva così a questo bellissimo debutto dopo che, in più o meno tre anni, ha rilasciato una serie di singoli e live all’insegna di uno splendido esempio di heavy metal old school, dalle tematiche horror, ma assolutamente melodico, ricco di solos maideniani, chorus magnifici ed un talento spropositato nel creare brani sparati direttamente nell’olimpo dell genere, tra tradizione britannica e power americano, un sodalizio perfetto per far perdere la testa ai defenders di tutte le età.
Io non so quanti avranno la fortuna di ascoltare Walpyrgus Nights e le sue otto irresistibili composizioni, ma credetemi se vi dico che qui siamo nella perfezione nel campo dell’heavy metal di ispirazione e attitudine vecchia scuola, non superando di fatto il 1985 come ispirazioni, ma arrivando sul tetto del metal underground (a livello qualitativo) in questo 2017 che sta dando grosse soddisfazione in campo classico.
La qualità altissima delle composizioni mi porterebbe a comporre un track by track oltremodo antipatico, quindi sappiate che, dall’opener The Dead Of Night fino alla conclusiva title track, è un susseguirsi di emozionanti avventure nel mondo dell’heavy metal classico.
TRACKLIST
1. The Dead Of Night
2. Somewhere Under Summerwind
3. Dead Girls
4. Lauralone
5. Palmystry
6. She Lives
7. Light Of A Torch (Witch Cross cover)
8. Walpyrgus Nights
LINE-UP
Jonny Aune – Vocals
Scott Waldrop – Guitars
Charley Shackelford – Guitars
Jim Hunter – Bass
Peter Lemieux – Drums
Tom Phillips – Keyboards, Guitars
Album da incorniciare e appendere al muro come un quadro che nasconde un incantesimo, Burning Witches è consigliato a chi vuole ascoltare heavy metal classico, duro come l’acciaio e diabolicamente melodico.
Debutto omonimo per le cinque streghe svizzere, al secolo Burning Witches, che non mancherà di infiammare cuori ed orecchie dei metallari dai gusti classici.
Prodotto da V.O. Pulver e Marcel Schmier (Destruction) l’album è un tuono seguito dal un lampo di devastante heavy metal tutto grinta, attitudine e bravura; si perché Seraina, Romana, Alea, Jay e Lala oltre ad essere davvero belle, sono bravissime, ipnotizzando, esaltando e piazzando incantesimi diabolici a colpi di metallo che sputa lingue di fuoco.
Le Burning Witches sono attive da un paio d’anni, fondate in quel di Brugg dalla chitarrista Romana Kalkuhl, raggiunta in poco tempo dalle altre ragazze per dare inizio al sabba metallico, prima con un singolo uscito lo scorso anno e composto dai brani Black Widow e Burning Witches, che ritroviamo su questo full length fatto di un heavy metal graffiante, suonato e cantato ottimamente e composto da un lotto di canzoni eccellenti, per quarantacinque minuti di delirio metallico, tra riff taglienti, refrain irresistibili e melodie sopra la media, che vanno a comporre uno dei dischi classici più belli dell’anno.
Non cercate di resistere a questo violento e rabbioso incantesimo, le cinque spose del diavolo vi strapperanno l’anima con una serie di hit heavy metal che seguono i binari infernali dei Judas Priest, l’oscurità che pervade l’U.S.Metal e avvicinano il loro album al bellissimo esordio dei Benedictum di Veronica Freeman, anche se Burning Witchesrisulta più legato al metal classico ottantiano rispetto alle bordate heavy hhrash di Uncreation.
Non una nota fuori posto, non un brano che sia sotto l’eccellenza, Burning Witchesè addirittura troppo bello per essere vero, proprio come una fattura, dove la parola magica va ricercata tra le note di questa raccolta di spettacolari pezzi di granito heavy metal come le già citatate Black Widow e Burning Witches, il mid tempo in crescendo di The Dark Companion, la bellissima ballad Save Me, o la devastante e sanguinosa Creator Of Hell.
Album da incorniciare e appendere al muro come un quadro che nasconde un incantesimo, Burning Witches è consigliato a chi vuole ascoltare heavy metal classico, duro come l’acciaio e diabolicamente melodico.
TRACKLIST
1.Black Widow
2.Burning Witches
3.Bloody Rose
4.Dark Companion
5.Metal Demons
6.Save Me
7.Creatures of the Night
8.We Eat Your Children
9.Creator of Hell
10.The Deathlist
11.Jawbreaker
In Principio è un ottimo lavoro di prog rock/metal cantato in italiano, nel quale i testi sono perfettamente inglobati in un personale ed elegante, in grado di soddisfare gli amanti del progressive e quelli del metal.
L’heavy metal classico e di matrice ottantiana si allea con il progressive, conquistando i cuori di entrambe le sponde con l’aiuto dei Monnalisa.
Il quartetto veneto, attivo dal 2009 e con un passato nelle vesti di cover band dei grandi classici da cui traggono ispirazione per comporre il loro materiale, ha raggiunto una stabilità nella line up nel 2013 ed il primo frutto è questo album, licenziato dalla Andromeda Relix, label che di buona musica se ne intende. In Principio è un ottimo lavoro di prog rock/metal cantato in italiano, nel quale i testi sono perfettamente inglobati in un personale ed elegante, in grado di soddisfare gli amanti del progressive e quelli del metal.
Fin dall”opener Specchio si nota subito come il gruppo si affida ai tasti d’avorio di Giovanni Olivieri (anche cantante) per ricamare arabeschi di musica con raffinati scambi tra le tastiere e la chitarra di Filippo Romeo, accompagnati da una sezione ritmica efficace ma mai invadente composta da Manuele ed Edoardo Pavoni (rispettivamente basso e batteria).
La cosa straordinaria di questo lavoro è che, chiunque abbia un minimo di cultura musicale, potrà trovare una nota o una sfumatura che lo portera a riconoscere non solo le influenze del gruppo, ma le proprie preferenze tra il rock progressivo settantiano , l’hard rock ed il metal del decennio successivo, tutti elementi perfettamente inseriti nello spartito sontuoso di In Principio.
L’intro purpleiano di Il segreto dell’alchimista, la metallica epicità di Infinite Possibilità, il prog metal della spettacolare Oltre e la raffinate melodie di Viaggio Di Un Sognatore vanno a comporre la gran parte di questo bellissimo debutto, prodotto negli Opal Arts di Fabio Serra, leader dei Røsenkreütz.
Un album che sembra arrivare da un’altra epoca, ma che per magia è perfettamente a suo agio in questo inizio millennio, con le sue ispirazioni e la voglia di far sognare almeno per una quarantina di minuti, giusto il tempo per vivere le atmosfere di questa bellissima raccolta di canzoni che smette di regalare emozioni solo alla fine della splendida Ricordi.
TRACKLIST
1.Specchio
2.Il Segreto Dell’Alchimista
3.Catene Invisibili
4.Infinite Possibilità
5.Oltre
6.Viaggio Di Un Sognatore
7.Ricordi
LINE UP
Manuele Pavoni – Bass
Edoardo Pavoni – Drums
Filippo Romeo – Guitars
Giò Olivieri – Vocals, Keys
Old school metal in the modern world, si legge sulle informazioni della loro pagina Facebook, frase che calza a pennello per il quartetto statunitense che viaggia a mille con una serie di brani che fanno impallidire le ultime generazioni.
Sembra facile scrivere un album fresco, potente e spettacolarmente heavy, ma non è così.
Il mercato, specialmente quello underground, è colmo di gruppi più o meno bravi che sfornano a getto continuo opere metalliche che si rivelano delle buone proposte, con almeno due o tre canzoni ottime ed un livello generale che garantisce il supporto di fans e addetti ai lavori, ma per diventare una cult band, per proporre musica di alto livello c’è bisogno di più fattori, tra cui uno stato di grazia che dà all’artista una marcia in più. Sacred Oath è un nome che a molti dice poco, ma per chi ama il metal underground di stampo classico è sinonimo di ottima musica metallica, in arrivo dagli States, precisamente dal Connecticut; vecchi metallari (il gruppo è attivo dal 1984) che non ne vogliono sapere di mollare la presa sui nostri bassifondi e nell’anno di grazia 2017 se ne escono con Twelve Bells, ultimo e ottavo album di una carriera che ebbe uno stop tra il 1987 ed il 2005 ma che ha trovato negli ultimi anni qualità e continuità.
Licenziato in Europa dalla eOne e registrato nello studio del cantante/chitarrista Rob Thorne, l’album è un bellissimo, potente e melodico esempio di heavy/power americano, spettacolarizzato da ritmiche ed atmosfere che della classica oscurità tutta yankee si nutrono, valorizzato da un songwriting elevato che permette al gruppo di fare il bello e cattivo tempo in tutta l’ora a sua disposizione.
Old school metal in the modern world, si legge sulle informazioni della loro pagina Facebook, frase che calza a pennello per il quartetto statunitense che viaggia a mille con una serie di brani che fanno impallidire le ultime generazioni.
Canzoni con riff, ritmiche e chorus perfetti, solos che arrivano solo nel momento opportuno, ballad in crescendo che lasciano trasparire un amore neanche troppo velato per il metal del vecchio continente (Never And Forevermore), song che ricordano i primi passi dei fratelli Oliva (Bionic) e tanto power oscuro e a tratti progressivo (Well Of Souls e la conclusiva The Last Word) dove echi di Fates Warning e Queensryche, rendono raffinato il tiro metallico alla Metal Church che il gruppo a più riprese fa proprio.
In conclusione, un album perfetto, nel genere uno dei migliiori usciti nell’ultimo periodo, fidatevi e cercatelo, non ve ne pentirete.
TRACKLIST
1.New Religion
2.Twelve Bells
3.Fighter’s Heart
4.Bionic
5.Never and Forevermore
6.Demon Ize
7.Well of Souls
8.Eat the Young
9.No Man’s Land
10.The Last Word
LINE-UP
Brendan Kelleher – Bass
Kenny Evans – Drums
Bill Smith – Guitars
Rob Thorne – Vocals, Guitars
Gli White Skull continuano la loro missione metallica con maestria, ed arrivati al decimo album possono sicuramente essere soddisfatti del cammino intrapreso, non perdetevi dunque un altro splendido esempio di power metal made in Italy, c’è da esserne fieri.
Sotto il simbolo del teschio bianco agisce una delle più importanti metal band italiane, magari leggermente sottovalutata per importanza rispetto ad altre, ma sicuramente tra le migliori a livello qualitativo nell’ambito della propria proposta.
I vicentini White Skull arrivano alle soglie del ventesimo anni di attività con un nuovo album di power metal, appunto alla “White Skull”, il che tradotto significa ritmiche potenti, un’attenzione maniacale per le melodie, ottime orchestrazioni e brani vincenti, epici e metallici.
Il decimo lavoro è un traguardo di tutto rispetto, specialmente in Italia, dove sono tante ed anche valide le band che mollano, magari per attendere tempi migliori, mentre il gruppo veneto ha mantenuto una costanza commovente, anche in periodi in cui il genere era praticamente ignorato dagli addetti ai lavori. Will Of The Strong arriva dunque a festeggiare la doppia cifra, in un periodo buono per i suoni classici, quando anche nella scena tricolore veniamo travolti da reunion più o meno azzeccate e non mancano nuove leve a rimpolpare le truppe dell’esercito metallico.
Con un Alexandros Muscio in più ai tasti d’avorio (Highlord ed Opera IX), bravissimo nell’orchestrare i brani di questo Will Of The Strong lasciando la componente power ben in evidenza, ed una raccolta di brani che si mantiene su ottimi livelli per tutta la durata, gli White Skull ci regalano l’ennesimo ottimo lavoro, maturo e curato in ogni dettaglio, nel quale sette delle dodici canzoni parlano di donne che hanno avuto un peso nella storia tra cui Evita Peron, Giovanna d’Arco, l’apache Lozen, la ribelle cinese Wang Cong’er e Matilda di Canossa, ed in generale un tributo al coraggio ed al sacrificio.
Musicalmente parlando, Will Of The Strong non deluderà sicuramente i fans del gruppo e del genere: epicità, melodie, cori, fughe ritmiche, intricate parti chitarristiche ed un gran lavoro nelle orchestrazioni ci parlano di un album riuscito, intrigante, da far proprio godendo del talento di questi musicisti nostrani, garanzia di ottimo metal.
Detto di una prestazione sugli scudi della storica cantante Federica “Sister” De Boni, Will Of The Strong ha in Holy Warrior, nella doppietta composta dalla title track e Lady Of Hope, nella splendida ballata Sacrifice e nell’epica Lay Over i brani che fanno la differenza in un contesto che non mostra cadute di tono o riempitivi.
Gli White Skull continuano la loro missione metallica con maestria, ed arrivati al decimo album possono sicuramente essere soddisfatti del cammino intrapreso, non perdetevi dunque un altro splendido esempio di power metal made in Italy, c’è da esserne fieri.
TRACKLIST
1.Endless Rage
2.Holy Warrior
3.Grace O’ Malley
4.Will of the Strong
5.Lady of Hope
6.I Am Your Queen
7.Hope Has Wings
8.Metal Indian
9.Shieldmaiden
10.Sacrifice
11.Lay Over
12.Warrior Spirit
LINE UP
Alexandros Muscio – Keyboards
Alex Mantiero – Drums
Tony “Mad” Fontò – Guitars
Federica “Sister” De Boni – Vocals
Danilo “Man” Bar – Guitars
Jo Raddi – Bass
Da sparare a tutto volume come rivalsa al vicino dai gusti romantico pop da estate al mare, con Follow Me la Jagrell ci invita a seguirla nel suo mondo metallico, piacevolmente grezzo, senza compromessi, ma assolutamente perfetto per fare male senza pietà
I Sister Sin non esistono più: la band svedese diventata famosa per l’eccentrica singer Liv Jagrell, dopo tredici di onorata carriera e cinque album, tra cui l’ultimo (Black Lotus) che aveva aperto definitivamente una breccia nella scena metallica, ha dato forfait.
Ma come una perversa e schizzata araba fenice la Jagrell rinasce dalle proprie ceneri , trasformandosi in Liv Sin, di fatto il suo progetto, aiutata da Tommy Winther al basso, da Patrick Ankermark e Christoffer Bertzell alle chitarre e Per Bjelovuk alla batteria.
Il primo lavoro si intitola Follow Me, licenziato dalla Despotz Records, prodotto da Stefan Kaufmann e Fitty Wienhold, suonato a meraviglia, duro come l’acciaio, perverso come la sua diabolica musa e letteralmente folgorante: hard & heavy potente e cristallino, una raccolta di brani da applausi e un paio di duetti che Liv si concede con Schmier dei Destruction (Killing Ourselves To Live) e Jirky 69, vampiro al microfono dei The 69 Eyes (Immortal Sin, cover dei Fight di Rob Halford). Follow Me non deluderà i fans della Jagrell, tornata a scandalizzare con questa sua creatura che musicalmente non lascia indifferenti, regalando momenti di metal sopra le righe (The Fall,Godless Utopia), thrashy e groovy come i Machine Head più classici, pesanti come i Benedictum di Veronica Freeman era Uncreation, diabolicamente estremi e senza freni come la sua leader.
Da sparare a tutto volume come rivalsa al vicino dai gusti romantico pop da estate al mare, con Follow Me la Jagrell ci invita a seguirla nel suo mondo metallico, piacevolmente grezzo, senza compromessi, ma assolutamente perfetto per fare male senza pietà.
TRACKLIST
1.The Fall
2.Hypocrite
3.Let Me Out
4.Black Souls
5.Godless Utopia
6.Endless Roads
7.Killing Ourselves to Live
8.I’m Your Sin
9.Emperor of Chaos
10.Immortal Sin (Fight cover)
11.The Beast Inside
LINE-UP
Tommie Winther – Bass
Per Bjelovuk – Drums
Patrick Ankermark – Guitars
Christoffer Bertzell
Guitars – Liv Jagrell – Vocals
The Second Fall si presenta come un’opera che senza tanti fronzoli ci investe dal primo minuto, travolgendo con il suo sound che esplode in riff potentissimi, brani influenzati dall’heavy metal classico e lenti rituali doom.
Religione e mitologia, oscure credenza ed altari musicali innalzati al doom metal classico: l’heavy metal continua malgrado le molte influenze ed ispirazioni moderniste ad essere la musica malvagia, epica e declamatoria per eccellenza.
Nella scena metal greca non sono poche le band devote alla musica del destino e gli ateniesi Mahakala sono una delle migliori proposte: il loro heavy doom metal, oltre ad essere pregno di atmosfere sabbathiane, porta in sé una forte componente heavy, così da creare un sound monolitico, epico e a tratti sconvolto da cavalcate devastanti.
Attivo dal 2005, il quartetto porta in dote un ep, un demo, la partecipazione ad un tributo agli Iron Maiden ed il primo full length uscito nel 2013 ed intitolato Devil’s Music. The Second Fall si presenta come un’opera che, senza tanti fronzoli ci investe dal primo minuto, travolgendo con il suo sound che esplode in riff potentissimi, brani influenzati dall’heavy metal classico e lenti rituali doom, con lente discese nel metal liturgico di Black Sabbath e Candlemass.
Lo zio Ozzy a suo tempo si è impossessato dell’anima di Jim Kotsis, bassista e cantante a tratti dalla tonalità vocale molto vicino al sacerdote sabbathiano, mentre la musica si riempie di malvagia epicità.
Non lontano (anche se il concept è molto diverso) dai Grand Magus, il gruppo è riuscito a creare un album fresco, godibilissimo nella sua potenza, mentre oltre al gran lavoro del singer, non mancano appalusi per le due chitarre (Chris Vlachos e John T.), puro acciaio fuso sull’altare del metal.
Da segnalare Sakis Tolis dei Rotting Christ ospite sulla granitica Wrath Of Lucifer (Infidels) e le bellissime Redemption Denied e Better to Reign in Hell (Than Serve in Heaven), doom metal song tra Candlemass e Trouble e picco qualitativo dell’album. The Second Fallrisulta così un altro gioiellino in arrivo dalla scena metal greca, consigliato agli amanti delle bands citate.
TRACKLIST
1. Army of the Flies
2. Redemption Denied
3. Purgatorium
4. Better to Reign in Hell (Than Serve in Heaven)
5. Darkness in Their Eyes
6. Wrath of Lucifer (Infidels) [feat. Sakis Tolis of Rotting Christ]
7. Unholy Fight
8. Blessed Are the Dead
9. War Against Mankind
LINE-UP
Jim Kotsis – bass, vocals
John Tsiakopoulos – guitars
Mikko Chris Vlachos – guitars
hector.d – drums
Hard rock, progressive metal, power e tanta raffinata attitudine neoclassica fanno di Bleeding Hands un album perfettamente in grado di ritagliarsi il proprio spazio tra le migliori uscite di questo periodo.
Di questi tempi, se nel power metal cercate qualche spunto più personale rispetto al “palla lunga e pedalare” di molte realtà d’oltreconfine, la scena nostrana regala piccoli gioiellini classici, magari poco considerati dal solito fan noiosamente esterofilo, anche se negli ultimi tempi sembra che il vento piano piano stia cambiando direzione.
Andiamo prima in terra greca, perché è qui che la Sleaszy Rider Records ha la sua base, una label che sta riscuotendo sempre più consensi licenziando album uno più bello dell’altro e molti di questi cercandoli nella nostra penisola.
Torniamo da noi, in quel di Milano per presentarvi i Perpetual Fire, quintetto capitanato da Steve Volta, chitarrista bravissimo e per molti anni al servizio di Pino Scotto, ed il loro terzo album Bleeding Hands, un lavoro italiano al 100% per bravura strumentale ed eleganza nel songwriting, un talento innato per le melodie e quel tocco progressivo diventato marchio di fabbrica della scuola nazionale.
Diciamolo una volta per tutte, ormai Vision Divine, Labyrinth e Secret Sphere sono a capo di una scena che nell’hard & heavy non ha nulla da invidiare a quelle straniere, con i loro emuli a sfornare opere di spessore ed affiancando i maggiori act che fanno faville nei generi che compongono l’universo metallico.
Tutto questo ben di Dio non sarà supportato dai numeri per quanto riguarda il versante live, ma rimane indubbio che in Italia si fa da anni grande musica metal, ed ogni uscita conferma questa tendenza con buona pace dei detrattori.
Hard rock, progressive metal, power e tanta raffinata attitudine neoclassica fanno di Bleeding Hands un album perfettamente in grado di ritagliarsi il proprio spazio tra le migliori uscite di questo periodo: Volta ha fatto tesoro delle sue esperienze e i brani escono vari, travolgenti, mai banali nelle ritmiche o nei solos, con un singer (Roby Beccalli) che adatta la sua voce alle varie atmosfere, passando da tonalità rock a quelle power per sfornare un’aggressività da leone in passaggi che si fanno estremi, con una sezione ritmica da infarto (Mark Zampetti al basso e Cisco Lombardi alle pelli) e le tastiere che ricamano tappeti di metal neoclassico o sanguigni passaggi rock blues (Tush, splendida cover degli ZZ Top).
Volta è fenomenale pur senza dare l’impressione di esagerare e rimanendo saldo nella forma canzone, con solos dinamitardi e vari, così come varie sono le sfumature di questo lavoro che non ha battute d’arresto ma almeno un trittico di brani a fare traino e differenza: Queen Of Honor, Bloody Apple e Crimson Twilight, le più progressive del lotto e vicine al sound dei gruppi citati in precedenza. Bleeding Hands risulta così un album riuscito ed appagante per ogni fans del genere, giocando le sue carte alla pari con le ultime notevoli uscite in campo power/prog metal, non perdetevelo.
TRACKLIST
01 – Psycho Cancer
02 – Scrambled
03 – Queen Of Honor
04 – Bloody Apple
05 – Tush
06 – Look Beyond The Night
07 – When You’re Dead
08 – Crimson Twilight
09 – Let The Snow
10 – A New World Begins
LINE-UP
Roby Beccalli – Vocals
Steve Volta – Guitars
Mark Zampetti – Bass
Mauro Maffioli – Keyboards
Cisco Lombardi – Drums
Tornano i Dream Evil e lo fanno con un lavoro che segue la strada dell’heavy power scandinavo, cpn suoni pieni e cristallini, una buona alternanza di ritmiche hard & heavy/power metal ed un amore sconfinato per le band che hanni visto all’opera Ronnie James Dio.
Premessa: un album come Six, sesto full length dei Dream Evil, può piacere o meno, non porterà nessuna novità nel mondo del metal classico, ma è indubbio il suo valore come album di genere, anche perchè valorizzato da suoni eccellenti.
Detto questo, presentiamo questo lavoro per il gruppo del famoso produttore Fredrick Nordstrom, qui in veste di chitarrista, ed accompagnato da quattro musicisti tecnicamente inattaccabili ed in forma smagliante.
La band svedese ha avuto il suo momento di gloria specialmente con l’arrivo del nuovo millennio e l’ entrata sul mercato con i primi due lavori (Dragonslayer ed Evilized): una popolarità che cresce e si stabilizza con The Book Of Heavy Metal, l’album più famoso, uscito nel 2004.
Il ritorno avviene con un lavoro che segue la strada dell’heavy power scandinavo, con suoni pieni e cristallini, una buona alternanza di ritmiche hard & heavy /power metal ed un amore sconfinato per le band nelle quali Ronnie James Dio ha militato nella sua leggendaria carrera (Rainbow, Black Sabbath, passando per i suoi Dio), il tutto chiaramente reso appetibile ed esaltante da suoni che esplodono letteralmente dalle casse, da chorus epico melodici, e chitarre che passano dalla pesantezza cimiteriale di Tony Iommi, ai solos melodici suonati cavalcando l’arcobaleno di Ritchie Blackmore.
Fine della storia, di lavori del genere ne avrete sentiti tanti e ne sentirete ancora (fortunatamente), rimane solo da farvi partecipi di un lotto di brani bellissimi che si mantengono su una qualità mediamente alta, con Dream Evil (il brano), Sin City e le fenomenali Hellride e Too Loud a fare di Six un album imperdibile per chiunque ami il metal di stampo classico, suonato di questi tempi anche da Astral Doors e Jorn che, con i Dream Evil, sono gli esempi più convincenti.
TRACKLIST
1. Dream Evil
2. Antidote
3. Sin City
4. Creature Of The Night
5. Hellride
6. Six Hundred And 66
7. How To Start A War
8. The Murdered Mind
9. Too Loud
10. 44 Riders
11. Broken Wings
12. We Are Forever
LINE-UP
Niklas Isfeldt – Lead vocals
Fredrik Nordström – Lead rhythm guitars
Mark U Black – Lead lead guitars
Peter Stålfors – Lead bass
Patrik Jerksten – Lead drums
Gli Iced Earth sono tornati con uno dei lavori più intensi e riusciti degli ultimi anni, un album imperdibile per chi ama il power/thrash americano.
I continui saliscendi tra le preferenze dei fans (anche per colpa di album non completamente riusciti), i cambi di line up, specialmente dietro al microfono e i problemi di salute del leader indiscusso Jon Schaffer (operato ultimamente e per la seconda volta al collo), avrebbero disintegrato la stabilità artistica di qualsiasi band, non degli incorruttibili (come suggerisce il titolo) Iced Earth, autentico patrimonio metallico per chi li ha seguiti fin dagli esordi.
Burnt Offerings, The Dark Saga, Something Wicked This Way Comes rimane un trittico di lavori che sono e rimarranno nella storia del metal classico mondiale, uno dei picchi qualitativi più alti del power/thrash americano, nel loro essere devastanti, melodici ed oscuri come vuole la tradizione a stelle e strisce, almeno quando si parla di heavy metal.
Jon Schaffer si è guadagnato in veste di songwriter, prima ancora che in quella di chitarrista, un posto tra i grandi interpreti della nostra musica preferita, anche se in tanti anni di onorata ed “incorruttibile” carriera non sono mancate le battute d’arresto, specialmente negli ultimi anni.
Destino ha voluto che da Dystopia, album del 2011, dietro al microfono si sia posizionato Stu Block, ex singer dei notevoli Into Eternity, unico ed autorevole erede di quel Matt Barlow che fece risplendere con la sua drammatica, teatrale e personalissima voce gli album storici del gruppo americano, richiamato più volte nel regno della terra ghiacciata ma non più convincente e convinto come in passato. Incorruptible può iniziare ad essere descritto da questa verità, Block è posseduto dal demone che tanti anni fa fece fuoco e fiamme dentro al corpo di Barlow e l’opera, oscura, spettacolare, drammatica e devastante se ne giova non poco.
Jon Schaffer ne ha passate di tutti i colori, nel frattempo ha quasi finito di costruire il suo studio personale dove è stato registrato l’album e la sua musica ne ha risentito, questa volta positivamente: non siamo ai livelli dei capolavori che incendiarono gli anni novanta, ma è indubbio che la band sia tornata a suonare grande power/thrash.
E allora fatevi travolgere dalle atmosfere dannatamente oscure e teatrali di questo ancora una volta emozionante lavoro: il marchio di fabbrica stampato in evidenza su queste nuove dieci composizioni è Iced Earth in tutto e per tutto, trattandosi di una delle poche band che al giorno d’oggi possano vantarsi d’aver creato e portato avanti negli anni uno stile inconfondibile, rimanendo sempre legati ad una ifedeltà metallica che ha del commovente.
Basta menzionare la splendida The Relic (part 1), con un Block su livelli emozionali che toccano le vette del suo storico predecessore, o lo strumentale Ghost Dance (Awaken The Ancestors) e l’immancabile ed epico brano dedicato ad un fatto storico, questa volta riguardante l’Irish Brigade e la battaglia di Fredericksburg con la clamorosa Clear The Way (December 13th, 1862).
Non mi dilungherò oltre, se non per ribadire che gli Iced Earth sono tornati con uno dei loro lavori più intensi e riusciti degli ultimi anni, imperdibile per chi ama il power/thrash americano.
TRACKLIST
1. Great Heathen Army
2. Black Flag
3. Raven Wing
4. The Veil
5. Seven Headed Whore
6. The Relic (Part 1)
7. Ghost Dance (Awaken The Ancestors)
8. Brothers
9. Defiance
10. Clear The Way (December 13th, 1862)
LINE-UP
Jon Schaffer – Rhythm, lead and acoustic guitars, Keyboards/MIDI, Vocals
Stu Block – Lead Vocals
Brent Smedley – Drums
Luke Appleton – Bass Guitar, Vocals
Jake Dreyer – Lead Guitar
Ristampa curata dalla Minotauro per Uncover The Truth, primo ed unico album per i Resurrect The Machine.
Il ritorno dei suoni classici, nell’hard rock come in tutto il mondo metallico, ha portato nuovo interesse per le varie scene sparse per il mondo e, come sempre gli States sono l’ago della bilancia, specialmente come ritorno commerciale ma anche per saggiare i gusti dei consumatori di musica.
Ebbene, i suoni vintage ed old school non mancano di fare ancora una volta proseliti così da riportare l’hard & heavy classico almeno a confrontarsi, con armi tornate cariche, nel bel mezzo della mischia nel panorama attuale.
Nascono così nuove realtà ovviamente (oltre ai gruppi storici) come questo quartetto di Los Angeles, i Resurrect The Machine, usciti tre anni fa con questo debutto ora ristampato dalla Minotauro. Uncover The Truth è un lavoro che ripercorre la strada solcata dai miti dell’hard & heavy dagli anni ottanta agli anni novanta, una raccolta di brani tra la tradizione heavy metal losangelina ed un sound più moderno, mantenendo però una forte impronta old school.
Ritmiche a tratti vicine all’hard rock si scontrano con chitarre dal retrogusto heavy, i solos ed i riff della sei corde strizzano l’occhio al metal classico, mentre brani più orientati al mid tempo di stampo rock sono interpretati con grinta e spavalderia metallica dal buon Dean Ortega.
Una virtù di questo lavoro è anche la durata che supera di poco la mezzora, che consente di godersi i nove brani senza che scemi l’attenzione.
Intuizioni buone non ne mancano, così come una sana dose di melodia ed Uncover The Truth ne esce bene, valorizzato da una buona tecnica e da brani trascinanti come l’opener Rush,Meet Your Maker e la groovy Headed For The Sun.
Per darvi un’idea faccio tre nomi, Ozzy Osbourne, Metallica e Soundgarden, miscelati e lavorati quel tanto che basta per ottenere il sound che domina i brani raccolti in Uncover The Truth.
TRACKLIST
1.Rush
2.Kaos
3.Meet Your Maker
4.Creeper
5.No Reason, Pt. 1
6.No Reason, Pt. 2
7.Cannnibal
8.Headed for the Sun
9.Resurrect the Machine
LINE-UP
Dean Ortega – Vocals
Andre Makina – Guitars
Joey Cotero – Drums, percussion and backing vocals
Kurt Barabas – Bass and Backing Vocals
Giudizio positivo per un album piacevolmente tradizionale fino al midollo quanto onesto: per gli amanti dell’ heavy metal classico un ascolto consigliato.
Heavy metal old school e tradizione rispettata per i veterani Black Hawk, band tedesca che la Pure Steel, per mezzo di una delle sue anime (Pure Underground Records), supporta licenziando il nuovo album in questa primavera 2017, tempo di vacche grasse per certe sonorità
E i Black Hawk possono sicuramente considerarsi come una di quelle realtà che, passati gli anni novanta, hanno trovato nel nuovo millennio gli stimoli per proseguire una carriera iniziata alla fine degli anni ottanta e appunto ripresa nel 2005, con cinque album di metal classico prima di questo nuovo The End Of The World.
L’esperto quintetto prosegue nella strada forgiata nell’acciaio dagli Accept, dagli UDO, ed intelligentemente potenzia il tutto con scariche di potentissimo bombardamento di scuola Sinner/Primal Fear, cercando così di piacere anche ai più giovani.
Direi che i Black Hawk ci sono riusciti: il loro nuovo lavoro piace, in tempi in cui l’heavy metal classico è tornato, come molti altri generi, a guardare al passato, in questo caso epico, glorioso, potente e melodico.
Hard & heavy che sputa fuoco e fiamme, semiballad fiere come la title track e tanta melodia, sono le caratteristiche principali di questo lotto di brani, onesti e duri, classicamente graffianti e a tratti commoventi nel seguire i tratti distintivi del genere con brani che strapperanno più di un sorriso alle vecchie leve, ma riuscendo ad esaltare anche chi può ancora contare su una folta chioma da sfoggiare ai concerti. Street Of Terror è una bomba e saluta la compagnia, veloce e tagliente, mentre Ruler Of The Dark è heavy metal ottantiano doc ; l’accoppiata Scream In The Night – Legacy Of Rock mette tutti d’accordo, con la prima graffiante e dai rimandi Primal Fear, mentre in chiusura con Just Like Paradise e Dragonride’17 il gruppo si concede un passo nel power metal.
Giudizio positivo per un album piacevolmente tradizionale fino al midollo quanto onesto: per gli amanti dell’ heavy metal classico un ascolto consigliato.
TRACKLIST
1. Return Of The Dragon (Intro)
2. Streets Of Terror
3. Killing For Religion
4. What A World
5. Ruler Of The Dark
6. The End Of The World
7. Scream In The Night
8. Legacy Of Rock
9. Just Like In Paradise
10. Dancing With My demons
11. Dragonride’17
LINE-UP
Udo Bethke – lead vocals
Wolfgang Tewes – guitars
Günny Kruse – guitars
Michael “Zottel” Wiekenberg – bass
Matthias Meßfeldt – drums
guest musicians:
Hanjo Gehrke – acustic guitars, guitarsolo on “Dancing with my Demons”, keyboards & backing vocals
Conny Bethke – backing vocals
Stefan Weise – backing vocals
I Bretus con questo disco si confermano un ottimo gruppo doom che non sbaglia un disco.
Ritornano i calabresi Bretus, una delle migliori band italiane in ambito doom.
La loro proposta musicale è un doom classico, cantato con timbro chiaro e possente, e poche distorsioni strumentali, seguendo la lezione di St.Vitus e Pentagram.
Per fare questo genere minimale e renderlo interessante devi avere delle specifiche caratteristiche che non sono alla portata di tutti. I Bretus tengono incollato l’ascoltatore alla poltrona dall’inizio alla fine, non lasciando mai scendere la tensione, come nelle storie horror che loro adorano. Ispirati nella loro opera dal sommo vate di Providence, per questo nuovo disco esplorano i territori di …From The Twilight Zone, una serie televisiva americana del 1959 che esplorava in maniera incredibile la fantascienza e l’orrore, tenendosi sempre vicina alla sottile linea che divide il nostro mondo da altri mondi e multiversi. Il doom dei Bretus in questo disco si addolcisce leggermente e va a bagnare gli strumenti nei fiumi ottantiani del doom americano ed inglese, trovando una formula vincente, perché ogni canzone è interessante e godibile. Il disco è oscuro ma non è una tenebra fine a se stessa, bensì è una luce diversa per capire la realtà in un’altra maniera, o per cominciare a scorgere le altre che ci circondano. Ascoltare dischi come …From The Twilight Zonesmuove qualcosa nel cuore di chi ama il doom e più in generale la musica oscura ma fatta bene. In alcuni momenti ritornano all’orecchio reminiscenze dei grandi del doom, come i Candlemass ad esempio, ma ascoltando il disco si comprende la via personale adottata dai Bretus, un modo originale di fare doom. Il disco può anche essere goduto come un film, poiché c’è un filo conduttore nella narrazione. I Bretus con questo disco si confermano un ottimo gruppo doom che non sbaglia un disco.
TRACKLIST
01. Terror behind the mirror
02. In the vault
03. Old dark house
04. Danza Macabra
05. The murder
06. The creeping flash
07. Lizard woman
LINE-UP
Ghenes – High/Low Guitars and Fx
Zagarus – Vox and Harmonica
Azog – Bass
Striges – Drum
Si torna a parlare di metal opera con il quarto album dei brasiliani Soulspell, creatura del batterista Heleno Vale, qui a dirigere la crema dell’heavy power mondiale nel suo nuovo e bellissimo lavoro, The Second Big Bang.
Le metal opera ormai fanno storia a sé nella discografia di una band, molte volte sono episodi che non trovano repliche, altre invece diventano il leit motiv di un’intera discografia o quasi.
Inutile ricordare l’importanza della seconda parte della discografia dei Savatage e, in seguito, delle opere di Ayreon e Avantasia in quello che ormai è un genere parallelo al metal di estrazione classica, ispirato dall’heavy e dal power a seconda della provenienza dei musicisti e pregno di sinfonie operistiche (da qui il nome metal opera).
Concept più o meno riusciti spesso trovano nella quantità e qualità degli ospiti intervenuti il loro maggiore interesse, molte volte superando quello per la musica vera e propria.
Si torna dunque a parlare di metal opera con il quarto album dei brasiliani Soulspell, creatura del batterista Heleno Vale, qui a dirigere la crema dell’heavy power mondiale nel suo nuovo e bellissimo lavoro, The Second Big Bang.
Prodotto da Tito Falaschi, masterizzato e mixato da Dennis Ward, si tratta di un monumentale lavoro in cui gli ospiti che si danno il cambio nelle varie parti sono il fiore all’occhiello di un album inattaccabile, perfettamente in grado di funzionare nella sua interezza, ma con brani che potrebbero tranquillamente viaggiare per conto proprio, mentre le cavalcate power tra Helloween ed Avantasia splendono tra le orchestrazioni ed epiche sinfonie, e a tratti ci si spellano le mani tra atmosfere hard rock e fughe metal prog.
Fin qui niente di nuovo, e ci mancherebbe, ma come il genere impone le sfumature cangianti di brano in brano mantengono altissima l’attenzione, anche perché le sorprese, specialmente al microfono, sono tante e di altissima qualità.
Infatti, tra gli altri, alla voce troverete Andre Matos, Arjen Lucassen, Blaze Bayley, Fabio Lione, Oliver Hartmann, Ralf Scheepers, Tim Ripper Owens, Timo Kotipelto, tutti a farvi tornare la voglia di power metal, melodico, epico e sinfonico, con i nomi di spessore che non si fermano ai soli cantanti ma proseguono con quelli alle prese con i vari strumenti, a partire da un Lucassen nei panni di tuttofare (oltre al canto, il menestrello olandese si cimenta con chitarra e tastiere), Jani Liimatainen e Kiko Loureiro alle sei corde, Frank Tischer (Avantasia) alle tastiere, Markus Grösskopf al basso, più un buon numero di musicisti della scena brasiliana.
Angra, Avantasia e Ayreon sono le influenze che escono prepotentemente dalle note di The Second Big Bang, album che merita l’attenzione degli amanti del genere, per un songwriting molto ispirato di cui si giovano brani intensi ed emozionanti come Sound Of Rain, Horus’s Eye, il singolo Dungeons And Dragons con il nostro Fabio Lione in pieno delirio rhapsodyano, e Game Of Hours.
Amanti delle metal opera fatevi sotto, questo lavoro sazierà la vostra fame di storie raccontate in musica e vi fornirà grandi soddisfazioni.
TRACKLIST
01 – Time To Set You Free
02 – The Second Big Bang
03 – The End You’ll Only Know At The End
04 – Dungeons And Dragons
05 – Horus’s Eye
06 – Father And Son
07 – White Lion Of Goldah
08 – Game Of Hours
09 – Super Black Hole
10 – Sound of Rain
11 – Soulspell (Apocalypse Version)
12 – Alexandria (Apocalypse Version)
LINE-UP
Vocals :
Andre Matos (The White Lion Of Goldah), Arjen Lucassen (Space And Time), Blaze Bayley (Banneth, the Keeper of the Tree), Daísa Munhoz (The Princess Judith), Dani Nolden (The Shadows), Fabio Lione (The Dungeon Master), Jefferson Albert (Padyal, the Worshipful Master), Oliver Hartmann (The Space Agency Director), Pedro Campos (Timo’s Mystical Body), Ralf Scheepers (The Clairvoyant), Tim Ripper Owens (The Holy Dead Tree), Timo Kotipelto (Greibach, The Mathematician) e Victor Emeka (Adrian, the Apprentice).
Bass :
Daniel Guirado, Markus Grösskopf (Helloween) e Tito Falaschi
Welcome To My Dark Side scorre via senza particolari intoppi consegnandoci una decina di brani concisi, efficaci e vari.
Dall’unione di tre questi musicisti scaturisce, oltre ad un monicker (Eli Van Pike) originato dai rispettivi cognomi, una forma di gothic industrial che dovrebbe, secondo gli intenti dichiarati, attrarre i fans di Rammstein, Eisbrecher e in generale di un sound di tipica matrice tedesca.
Messa così, la questione potrebbe rivelarsi ingannevole perché in effetti il trio dimostra una certa versatilità, derivante anche da un’indubbia maestria strumentale che rende Welcome To My Dark Side un album tutt’altro che monotematico o ancor peggio noioso.
Quello che è il pregio dell’album si rivela però anche il suo principale difetto, perché l’idea di fondere sonorità industrial con altre di stampo più classico non è affatto male, ma finisce per far viaggiare il tutto a due velocità, con i brani più ritmati che si rivelano a mio avviso superiori a quelli di natura più melodica.
Sarà forse perché, da estimatore dei Rammstein fin dalla prima ora, l’ormai lunga vacanza compositiva presa da Lindemann e soci mi rende ancor più gradito tutto ciò che vi assomiglia, ma non c’è dubbio che a livello attitudinale gli Eli Van Pike si fanno preferire di gran lunga in questi frangenti.
Sono così le cosi le corpose Herzschlag e Tears Of War, con i lori classici riff squadrati, a spiccare in un album comunque divertente e piuttosto scorrevole, con un trio di musicisti che interpreta la materia con sapienza, disinvoltura ed un pizzico di gradita leggerezza dal punto di vista dell’approccio (Made In Germany), che spesso porta il sound dalle parti dei Mono Inc. in versione irrobustita (la title track, Amen).
L’alternanza vocale tra l’impostazione power dello statunitense Ken Pike e quella gothic del tastierista Thorsten Eligehausen funziona abbastanza bene, anche se entrambi non sempre appaiono a proprio agio, l’uno quando si spinge su tonalità troppo alte e l’altro quando tende a forzare ribassandole ulteriormente.
Poco male, tutto sommato, perché Welcome To My Dark Side scorre via senza particolari intoppi consegnandoci una decina di brani concisi, efficaci, vari e contraddistinti dal notevole lavoro chitarristico di Marc Vanderberg: nulla di imprescindibile, ma un qualcosa che si lascia ascoltare sempre con estremo piacere.
Tracklist:
01. Made in Germany
02. Herzschlag
03. 1-2 frei
04. World on Fire
05. Tears of War
06. One last Rose
07. Peter, 41
08. Welcome to my Dark Side
09. Amen
10. Valentine´s Day
Line-up:
Marc Vanderberg – Guitars, Drum & Bass Programming
Ken Pike – Lead Vocals
Thorsten Eligehausen – Lead Vocals, Keyboards
Black Heavy Metal ! Questa e’ la pozione magica creata con grande competenza da questi artisti danesi…
Una brillante prova da parte dei Slægt, quartetto di Copenhagen che, a partire dal 2012, ha elaborato un proprio suono passando dalla prima prova Ildsvanger, prettamente black metal, all’EP Beautiful and Damned in cui qualcosa si stava modificando per poi culminare in Domus Mysterium dove il loro black heavy metal rifulge splendidamente.
La band sapientemente e con grande gusto ha miscelato sensibilità black metal, gocce di trash, aromi psichedelici e un grande suono heavy anni 80, componendo otto brani per una durata di circa 55 minuti; le canzoni sono realmente evocative, la produzione decisamente buona evidenzia un guitar sound molto nitido e fluido, la cover raffigurante il loro “the eye of the devil” e le vocals che alternano uno espressivo scream mai esasperato con un grintoso clean, danno vita a una piccola opera d’ arte del tutto inattesa.
Lunghi intermezzi strumentali nella loro inventiva profumano del migliore heavy anni 80 accompagnati da intarsi acustici di madrigalesca memoria (vengono in mente in alcuni momenti i Dissection); l’eclettismo e la competenza della band si esplicano in brani medio-lunghi, ricchi di idee a partire dall iniziale Succumb, con un inizio screziato della migliore psichedelia, per poi essere travolti da I Smell Blood, di cui esiste anche un video, con eccitanti intrecci di chitarre.
La struggente e sinistra melodia di The Tower può ricordare il miglior horror sound dei bei tempi, il breve intermezzo pianistico di Burning Feathers, dalla cristallina e antica melodia, apre la strada agli ultimi due lunghi brani: Remember It’s a Nightmare e la title track, nelle quali la capacità della band di scrivere splendide ed epiche songs viene fuori in tutta la sua limpidezza; chiaramente non si inventa niente di nuovo, ma il caleidoscopico blend creato e suonato con grande passione dai danesi appare sempre fresco e non può non essere apprezzato da attenti ascoltatori open-minded… “rise up in the Tower, climb high as they cower, ascend into glory with passionate fury…”
TRACKLIST
1. Succumb
2. I Smell Blood
3. Egovore
4. In the Eye of the Devil
5. The Tower
6. Burning Feathers
7. Remember It’s a Nightmare
8. Domus Mysterium