Aborym – Shifting.Negative

Shifting.Negative è quello che, senza alcuna remora, si può definire lo stato dell’arte di un certo modo di rimodellare la materia metal, rendendola moderna e sperimentale senza farla apparire nel contempo plastificata o cervellotica.

Accostare oggi gli Aborym ai Nine Inch Nails, per quanto possa essere accettabile, rischia d’essere riduttivo nei confronti della band di Fabban, anche se immagino che per lui l’essere avvicinato ad uno dei personaggi più influenti della musica contemporanea, come è Trent Reznor, non credo sia affatto sminuente.

Del resto gli Aborym non sono giunti alla forma espressa in questo nuovo Shifting.Negative da un giorno all’altro, bensì attraverso un percorso lungo oltre un ventennio ed in costante progressione, raggiungendo infine un risultato che va anche ben oltre quelli ottenuti in tempi recenti da chi, a torto o ragione, viene considerato il loro più naturale punto di riferimento (assieme ai NIN non è peccato aggiungervi anche i Ministry).
Mi azzardo ad affermare ciò, visto che né Reznor né Jourgensen si sono mai spinti così avanti, in un non luogo dove la forma canzone riesce misteriosamente a sopravvivere, nonostante la sua essenza sia costantemente messa a repentaglio da una sorta di “schizofrenia illuminata”, esasperata da un’instabilità che ben rappresenta gli umori cupi e poco rassicuranti dei quali l’album è pervaso ed esaltata, infine, da una produzione capace di rendere essenziale qualsiasi battito o rumore in sottofondo; la scelta di affidare il lavoro alle mani esperte di professionisti del calibro di Guido Elmi e Marc Urselli lucida al meglio l’ineccepibile prestazione d’assieme di tutti musicisti, tra i quali non si può fare a meno di citare il contributo chitarristico di Davide Tiso , senza per questo dimenticare i fondamentali Dan V, RG Narchost e Stefano Angiulli.
In buona sostanza, più ascolto Shifting.Negative e più mi rendo conto d’essere al cospetto di un’opera in grado di lasciare il segno, collocandosi temporalmente molto più avanti di gran parte della musica oggi in circolazione; non è neppure facile descrivere in maniera esauriente un lavoro di questa natura, con il rischio concreto di scrivere delle solenni fesserie o, peggio ancora, delle banalità, cercherò quindi di esprimere alcune delle impressioni derivanti da molteplici ascolti.
Partirei, quindi, da Precarious, singolo/video che ha anticipato l’uscita del disco e che ne ha rappresentato il mio primo approccio: tanto per far capire quanto la nostra mente sia condizionata da schemi precostituiti, ho trascorso circa sei minuti ad attendere quell’esplosione fragorosa che invece non sarebbe mai arrivata, percependo solo dopo diversi passaggi che quei momenti apparentemente interlocutori altro non erano che il naturale sviluppo di un brano intimo, intenso e disturbante allo stesso tempo, e tutto questo senza fare nemmeno ricorso a particolari artifici.
Già questo era il segno premonitore di un album che avrebbe in qualche modo scombinato i piani di chi si sarebbe aspettato, magari, un altro passo in direzione di quella relativa fruibilità che aveva mostrato a tratti il precedente Dirty: Shifting.Negative non stravolge il marchio di fabbrica degli Aborym, bensì lo consolida rendendolo ancor più peculiare ed imprevedibile, facendo apparire anche il passaggio più ostico quale inevitabile approdo di una creatività artistica segnata dall’inquietudine.
Concludo citando altri momenti chiave quali Unpleasantness, traccia che apre magistralmente l’album risultando probabilmente anche quella più orecchiabile (prendendo con tutte le cautele del caso questo aggettivo applicato alla musica degli Aborym) in virtù di un chorus piuttosto arioso, pure se inserito in un contesto aspro e disturbato da incursioni elettroniche, e l’accoppiata centrale formata da Slipping throught the cracks e You can’t handle the truth, in cui le già citate band icona del genere vengono omaggiate e non saccheggiate.
Shifting.Negative è quello che, senza alcuna remora, si può definire lo stato dell’arte di un certo modo di rimodellare la materia metal, rendendola moderna e sperimentale senza farla apparire nel contempo plastificata o cervellotica: un disco fondamentale per chiunque abbia voglia di osare qualcosa in più, spingendosi oltre schemi prestabiliti ed ascolti rassicuranti.

Tracklist:
1. Unpleasantness
2. Precarious
3. Decadence in a nutshell
4. 10050 cielo drive
5. Slipping throught the cracks
6. You can’t handle the truth
7. For a better past
8. Tragedies for sales
9. Going new places
10. Big h

Line-up:
Fabban: programming, modulars, synth and vocals
Dan V: guitars and bass
Davide Tiso: guitars
Stefano Angiulli: synths and keyboard
RG Narchost: additional guitars

ABORYM – Facebook

Sonus Mortis – Hail The Tragedies Of Man

Ogni ascoltatore preparato ed attento proverà il giusto piacere addentrandosi con pazienza e curiosità nella musica creata da Kevin Byrne, ideale soundtrack delle sue visioni apocalittiche.

Il progetto solista del dublinese Kevin Byrne, denominato Sonus Mortis, era stato nel 2014 una di quelle piacevoli scoperte capaci di cambiare in meglio l’umore di ogni appassionati di musica a 360 gradi.

Propaganda Dream Sequence aveva evidenziato un approccio fresco e personale alla materia estrema nel suo abbinare elementi sinfonici, pulsioni industriali e una base death doom, anche se, ovviamente, per sua natura il sound dei Sonus Mortis risultava rallentato solo a tratti, prediligendo spesso ritmi più martellanti.

Il successivo War Prophecy ha poi consolidato il livello raggiunto con il full length d’esordio e, mantenendo la cadenza di in un’uscita all’anno, Kevin nel 2016 ha puntualmente offerto ai propri estimatori questo Hail The Tragedies Of Man.
Se vogliamo, l’unico aspetto negativo del fare centro al primo colpo con un lavori di livello superiore alla media, rende più complessa la progressione con i lavori successivi, ma non è neppure facile mantenere comunque uno standard ugualmente elevato: il musicista irlandese ci riesce anche stavolta in virtù di una capacità di scrittura sempre efficace e in grado di integrare un sound aspro con notevoli spunti melodici.
Non resta che ribadire, ad uso e consumo di chi si volesse avvicinare all’operato del bravo Byrne, gli accostamenti naturali con gli ultimi Samael e soprattutto con i Mechina (e di conseguenza Fear Factory): in particolare il parallelismo con la creatura di Joe Tiberi (che puntualmente ha pubblicato il suo probabile nuovo capolavoro nel primo giorno dell’anno) appare il più interessante proprio per un percorso simile ma che diverge in maniera sostanziale per il diverso background musicale dei musicisti counvolti.
Se dall’altra parte dell’oceano quella che giunge fino a noi è una tempesta di suoni futuristici, solenni e spaziali, nel senso più autentico del temine, i Sonus Mortis mettono in scena il lato più atmosferico e, non a caso, gran parte dei brani si avvalgono di incipit rallentati che preludono a altrettante esplosioni sonore, alternate a brillanti aperture atmosferiche; inoltre, va segnalato un più ampio ricorso a clean vocals che si rivelano del tutto efficaci nella sua alternanza al più consueto screaming growl filtrato, pur non possendo il buon Kevin un estensione vocale particolarmente ampia.
Hail The Tragedies Of Man mostra una serie di variazioni sul tema che rendono interessante il lavoro in ogni frangente, in barba alla sua ora e passa di durata: a tale riguardo, basti l’ascolto di due brani contigui per collocazione in scaletta ma ben diversi per approccio, come The Great Catholic Collapse, dalle magnifiche progressioni chitarrstiche ed un andamento più rallentato, e I See Humans But No Humanity, furiosa per la prima metà nel suo snodarsi per oltre otto minuti (seconda per durata solo all’opener Chant Demigod) per poi adagiarsi su un assolo prolungato e vibrante.
Non è parlando di ogni brano che si rende il servizio migliore ai Sonus Mortis: l’ascoltatore preparato ed attento proverà il giusto piacere addentrandosi con pazienza e curiosità nella musica creata da Kevin Byrne, ideale soundtrack delle sue visioni apocalittiche.
Come per i già citati Mechina, continuo a meravigliarmi del fatto che nessuna label di spessore internazionale non abbia ancora gettato il suo sguardo sui Sonus Mortis: un peccato, soprattutto perché la conoscenza di realtà di tale spessore meriterebbe d’essere estesa ad un’audience infinitamente più ampia di quanto possa produrre un volenteroso passaparola sul web.

Tracklist:
1.Chant Demigod
2.Null And Void
3.Subproject 54
4.No Escape
5.And So We Became Slaves Forever
6.End Of Days
7.The Great Catholic Collapse
8.I See Humans But No Humanity
9.Chaos Reigns
10.Wretched Flesh, I Embrace
11.Hail The Tragedies Of Man

Line-up:
Kevin Byrne

SONUS MORTIS – Facebook

The Ruins Of Beverast – Takitum Tootem!

Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

The Ruins Of Beverast è un progetto solista di Alexander Von Meilenwald, il quale agita i sonni degli appassionati di metal estremo da quasi una quindicina d’anni.

Il black doom del musicista tedesco è sempre stato caratterizzato dalla sua non omologazione ai canoni dei generi di riferimento, collocandosi costantemente un passo avanti rispetto alle posizioni consolidate.
Non fa eccezione questo Ep intitolato Takitum Tootem!, con il quale il nostro si concede un’esplorazione più approfondita di territori ancor più sperimentali, lasciando che la propria musica si faccia avvolgere da un flusso rituale e psichedelico.
Il primo dei due brani raffigura, come il titolo stesso fa intuire, una sorta di rito sciamanico che si protrae nella fase iniziale per poi sfociare in una traccia che presenta sfumatura industrial, in virtù di un mood ossessivo (che potrebbe ricordare alla lontana certe cose dei migliori Ministry), ideale prosecuzione dell’invocazione/preghiera ascoltata in precedenza: questi otto minuti abbondanti costituiscono un’espressione musicale di grande spessore e profondità, tanto che quando il flusso sonoro improvvisamente si arresta provoca una sorta di scompenso alla mente oramai assuefatta a quell’insidioso martellamento.
Il vuoto viene ben presto riempito dalla magistrale cover di una pietra miliare della psichedelia, la pinkfloydiana Set The Controls For The Heart Of The Sun, che viene resa in maniera in maniera del tutto personale pur mantenendone l’impronta di base, ma conferendole ovviamente una struttura maggiormente aspra e, se, possibile, ancor più ossessiva; l’idea di farla sfumare nella stessa invocazione rituale che costituiva l’incipit del primo brano conferisce al tutto un‘andamento circolare, creando così una sorta di loop se si imposta il lettore in modalità “repeat all”.
Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

Tracklist:
1. Takitum Tootem (Wardance)
2. Set The Controls For The Heart Of The Sun

Line-up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=vbvvbokHtaw

Dark Awake – Anunnaki

Impressionano non poco le soluzioni adottate da Shelmerdine, specie quando riesce a far convivere partiture di stampo classico con spunti industrial ambient.

Dark Awake è un progetto dark ambient attivo da circa un decennio per volontà del musicista greco Shelmerdine VI°, e Anunnaki è il quarto full length, uscito originariamente nel 2014 e riedito in vinile, alla fine del 2016, dalla label ellenica Sleaszy Records in edizione limitata a 500 copie.

Il disco in questione mostra un approccio piuttosto lontano dalla più consueta riproposizione ad oltranza di limitati spunti sonori o rumoristici: per una volta, la dichiarazione di intenti di un’artista corrisponde pienamente alla realtà e così, quando sul bandcamp dei Dark Awake ne leggiamo la definizione di progetto dedito a musica neoclassica, marziale, dark ambient e neo folk, non si può che essere del tutto d’accordo.
Impressionano non poco le soluzioni adottate da Shelmerdine, specie quando riesce a far convivere partiture di stampo classico con spunti industrial ambient, come avviene magistralmente in Die Nibelungen, ma l’effetto straniante non è da meno nella greve litania con voce femminile Decay o nelle pulsioni liturgiche di Towards The Nine Angles, deviate da un percussionismo ritmato e da rumorismi assortiti.
Euphoria (Of The Flesh) è un esempio di musica classica dai tratti inquietanti e malevoli, mentre la dark ambient più riconoscibile della title track schiude la strada alla notevole Sacrarium, traccia che riporta alla già battuta strada classico-liturgica.
Chiaramente si tratta di un lavoro per intenditori audaci e pervasi anche da una discreta dose di masochismo: va detto però, ad onor del vero, che la forma di ambient perseguita dai Dark Awake è più movimentata, grazie alle numerose variazioni sul tema e ad una parvenza melodica presente in quasi tutti i brani, benché qui venga meno ogni effetto cullante e rassicurante, catapultando invece l’ascoltatore in un’atmosfera sovente da incubo.
Un album molto convincente, che il formato in vinile dovrebbe ancor più valorizzare rendendolo appetibile agli estimatori del genere, oltre a costituire una buona base di partenza per esplorare il resto della discografia firmata Dark Awake.

Tracklist:
1. Blut Ist Feuer
2. Die Nibelungen
3. Decay
4. Towards The Nine Angles
5. Virgo Lucifera
6. Euphoria (Of The Flesh)
7. Thy Satyr
8. Anunnaki
9. Sacrorum

Line-up:
Shelmerdine VI° – All Instrumentats, Orchestration
Sekte – Vocals

DARK AWAKE – Facebook

Golden Rusk – What Will Become Of Us?

Molti cambi di tempo e di atmosfere sonore rendono questo disco una piccola perla da scoprire canzone dopo canzone, addentrandosi nei territori sconosciuti che Maher ha approntato per noi.

La musica ha moltissime facce, tante quante le infinite sfaccettature dell’animo e del cervello umano.

Può essere una fuga, o un ristabilire pienamente ciò che siamo per davvero. Per Maher, musicista siracusano potrebbe essere entrambe le cose. Come molti di noi, non moltissimi vista l’attuale livello di disoccupazione, Maher lavora in un ufficio, spendendo ore per qualcun altro, ma poi con la musica riesce ad esprimere quello che porta dentro: Golden Rusk è un progetto death metal in cui lui compone e suona tutto. In verità definirlo death metal è alquanto riduttivo, poiché si va ben oltre, con ritmiche ed atmosfere industrial e sfuriate black metal.
Molti cambi di tempo e di atmosfere sonore rendono questo disco una piccola perla da scoprire canzone dopo canzone, addentrandosi nei territori sconosciuti che Maher ha approntato per noi: pensate ad un sound in cui il death metal degli Obituary incontra la pazzia industrial dei Ministry e la ferocia black dei Mayhem, ed avrete più o meno un’idea di cosà possano contenere brani come No Blame No Gain, As It Should Be e Life No More.
Dietro e dentro questo esordio vi è un gran lavoro, una fortissima passione ed una non comune capacità di fare musica che offre quale risultato un album dalla natura estrema, vario e perfettamente in grado di soddisfare più palati. Il metal underground si conferma ancora una volta una scoperta continua di musicisti incredibili e molto dotati, e soprattutto di metal al cento per cento.

TRACKLIST
1. Grave of Dawn
2. What Will Become of Us?
3. No Blame No Gain
4. Painful Demise
5. As It Should Be
6. Show Me Your Hate
7. Black Aura
8. Life No More
9. Take off the Mask (Alternative Mix)
10. No Blame No Gain (Demo Version)

LINE-UP
Maher – All instruments, vocals and sampling

GOLDEN RUSK – Facebook

Atonismen – Wise Wise Man

Un oscuro scrigno musicale che, alla sua apertura, esplode in un caleidoscopio di note industrial gothic death metal.

La tanto bistrattata rete nel corso degli ultimi decenni ha dato la possibilità a molte realtà di farsi conoscere, specialmente quelle nate in paesi ai confini del mondo musicale e, in questo caso, metallico.

I paesi dell’Europa dell’est per esempio, solo pochi anni fa praticamente sconosciuti a livello musicale, hanno trovato nel web la possibilità di far conoscere le loro scene, qualitativamente notevoli come in Russia, dove la musica è storicamente una parte importante della crescita culturale e non un fastidioso ripiego come per esempio nel nostro paese.
Noi fin dai tempi di Iyezine, abbiamo sempre dato il giusto spazio alle varie scene mondiali, missione che portiamo avanti con entusiasmo anche sulla nuova testata metallica a nome MetalEyes e le soprese non mancano di certo, cominciando dagli Atonismen e dal loro bellissimo primo album, Wise Wise Man.
Il trio di San Pietroburgo è un gruppo nuovo di zecca formato dal polistrumentista e cantante Alexander Orso e dai due chitrarristi Alexander Senyushin e Child Catherine.
Il loro nuovo lavoro è quanto mai riuscito, visto che nel proprio sound ingloba vari suoni ed influenze, per un mix letale ed estremo di gothic, dark, elettronica e death metal molto affascinate.
Atmosfere horror, sadiche parti elettroniche, una voce personalissima e teatrale, ritmi marziali, orchestrazioni sinfoniche, ed accelerazioni estreme, fanno parte di questo oscuro scrigno musicale che alla sua apertura esplode in un caleidoscopio di note industrial gothic death metal.
Pensate ad una jam tra i primi Crematory, i Rammstein, e le sinfonie dark di una tra le miriadi di gothic metal band sparse per il globo, ed avrete un’idea del sound malato, destabilizzante e molto estremo del gruppo russo, che dà il meglio di sé quando l’elettronica diventa padrona del sound, con parti industrial dark malatissime e destabilizzanti.
Si passa così da brani potentissimi di oscuro ed orchestrale gothic metal (la title track e la stupenda Sorry), devastanti esempi di musica estrema moderna, maligna e terrorizzante come i due remix e la splendida Almagest.
Album affascinate, molto curato e maligno il giusto per farvi attraversare da voglie strane di bondage, frustini e torture assortite.

TRACKLIST
1.Almagest
2.Sorry
3.My Tale
4.Wise Wise Man
5.Wiegenlied
6.In Timeless Clamor
7.Wise Wise Man (dark-mix)
8.Wise Wise Man (industrial-mix)

LINE-UP
Alexander Orso – All instruments, Vocals
Alexander Senyushin – Guitars
Child Catherine – Guitars

ATONISMEN

Fabiano Andreacchio & The Atomic Factory – Living Dead Groove

Un sound non da tutti, specialmente se si è ancorati ai soliti cliché.

Esce sotto l’ala della Sliptrick Records il nuovo lavoro del bassista Fabiano Andreacchio dopo le fatica strumentale dello scorso anno intitolata Bass R-Evolution.

Il nuovo progetto si chiama Fabiano Andreacchio & The Atomic Factory, dove il musicista è dedito, insieme a Mikahel Shen Raiden (chitarra e voce) e Nicola De Micheli (batteria), ad una sorta di industrial metal dalla forte impronta techno, valorizzato da scorribande progressive con sempre in evidenza il gran lavoro della sezione ritmica condotta dal basso, usato dal protagonista non solo come strumento di accompagnamento ma vero propulsore del sound alquanto originale dell’album, intitolato Living Dead Groove.
Un sound non da tutti, specialmente per chi è ancorato ai soliti cliché, perché la musica spazia senza freni tra frenetiche ritmiche industrial, con toni vocali che richiamano la musica elettronica in stile Kraftwerk, e metal che ha tanto di estremo, moderno, ma pur sempre convogliato in un’espressione sonora che richiama i Cynic ed i gruppi totalmente slegati dalle briglie dettate dai generi.
Quattordici brani in quasi cinquanta minuti di musica senza freni, dove l’elettronica ha comunque la maggior parte dei pregi nel rendere l’ascolto molto vario ed assolutamente appagante, grazie anche ai suoni che escono potenti e cristallini, in overdose industriale e con il progressive a spezzare la tensione con atmosfere dilatate e ariose.
Geniale la cover di Smell Like Teen Spirit dei Nirvana, qui intitolata Smell Like a Corpse, da bass heroes le neanche troppe divagazioni strumentali, dove tutto il talento di Andreacchio è ben in evidenza, mentre sono da applausi un paio di tracce che mettono in risalto l’anima death prog del lavoro (Hypocrsy e Cangrene).
Non mancano gli ospiti che vanno a valorizzare molti dei brani dell’album, come Jeff Hughell (Six Feet Under), Brian Maillard (Dominici, Solid Vision), Dino “Bass Shred” Fiorenza (Y. Malmsteen, E. Falaschi), Gabriels, Francesco Dall’O’ e altri.
Un album che dividerà critica e pubblico,ma che ha nella sua anima crossover il vero punto di forza: dategli un ascolto.

RACKLIST
1.Zombie’s Breakfast
2.Not Dead Yet
3.Corpse’s Hill
4.Splatter Head feat. Gabriels
5.S.o.S. feat. Dino Fiorenza
6.Hypocrisy
7.Cangrene feat. Brian Maillard
8.X-Cape feat. Francesco Dall’O’
9.End of Abomination feat. Jeff Hughell
10.Smell Like a Corpse
11.Creepy Groove feat. G. Tomassucci
12.Hypocrisy Francesco Zeta Rmx
13.Corpses Hill Smoke DJ Rmx
14.End of Abomination Acoustic

LINE-UP
Fabiano Andreacchio-Bass and Vocals
Mikahel Shen Raiden-Guitar and Backing Vocals
Nicola De Micheli-Drums

ATOMIC FACTORY – Facebook

Styxian Industries – Zero.Void.Nullified {Of Apathy and Armageddon}

Zero.Void.Nullified è un lavoro valido, ma il potenziale della band sembra superiore al risultato ottenuto sul campo: una serie di riff azzeccati uniti ad una prestazione tecnicamente valida non valgono per ora qualcosa in più di un’abbondante sufficienza.

L’esordio su lunga distanza per gli olandesi Styxian Industries arriva finalmente sotto l’egida della tentacolare Satanath Records, dopo diversi anni ed una serie di lavori di minutaggio ridotto.

Zero.Void.Nullified è un’opera devota al black di matrice industrial, una materia che viene trattata in maniera piuttosto efficace dal trio dei Paesi Bassi, anche se la tendenza oscilla tra un’adesione alle sfuriate canoniche del genere e l’approdo a ritmiche elettroniche, senza che si vada quasi mai a sconfinare nella danzabilità dei primi The Kovenant.
Il disco si dipana in maniera interessante, anche se talvolta affiora nei nostri un’indole un po’ troppo ondivaga, poiché nel complesso viene a mancare per continuità sia la martellante pesantezza dell’industrial sia la ferocia nichilista del black: il risultato è un compromesso tra queste due componenti che offre buoni risultati, come la notevole We Took the World, la cangiante Zero Void Nullified e la parossistica Salvation (con clean vocals rivedibili, però) accompagnati ad una serie di brani che, alla lunga, lasciano un po’ di stanchezza, essendo ricchi di potenziale corrosivo ma poveri di riff e spunti capaci di imprimersi a lungo nella mente.
L’operato dei Styxian Industries è tutt’altro che riprovevole, ma la sensazione è che, allo scopo di mantenere un certo equilibrio tra le due componenti, si scelga una via di mezzo che frena uno sviluppo più deciso, e probabilmente costruttivo, in un senso o nell’altro.
Zero.Void.Nullified è un lavoro valido, ma il potenziale della band orange mi sembra superiore al risultato ottenuto sul campo: l’impalcatura è solida, ma i contenuti sono senz’altro migliorabili, e una serie di riff azzeccati uniti ad una prestazione tecnicamente valida non valgono per ora qualcosa in più di un’abbondante sufficienza.

Tracklist:
1. Feed Us
2. You
3. Salvation
4. Revelation
5. Whiskey Vodka Blood
6. Zero Void Nullified
7. Bastard God
8. Wasted World
9. We Took the World
10. Execute Planet Earth

Line-up:
Ms. M – Guitars
Mr F. – Percussion, Drums
Ir T. – Vocals

STYXIAN INDUSTRIES – Facebook

Cypecore – Identity

La musica dei Cypecore pesca dal melodic death metal scandinavo dal thrash/groove americano fusi con dosi letali di ritmi ed atmosfere industrial.

La label svedese Adulruna records licenzia il terzo parto di questa creatura nata in Germania che di nome fa Cypecore.

Una band che senza tanti fronzoli ha dato alla luce tre lavori sulla lunga distanza, serza perdersi con lavori minori, da quando nel 2008 uscì Innocent, seguito da Take the Consequence due anni dopo.
Sono passati dunque sei anni dall’ultimo lavoro e Identity conferma la buona proposta del gruppo, un death metal melodico violentato da ritmiche thrash, tanto groove ed una vena industriale che riempe di atmosfera apocalittica e moderna il sound.
Undici tracce comprese di intro ed outro più una bonus track finale, completano questo lavoro che risulta una mazzata niente male, non dimenticando l’importanza della melodia, inserita a valanga nell’uso della doppia voce e nei molti solos e che rendono i Cypecore un buon ascolto anche per gli amanti del classico death metal melodico.
Identity funziona, i colpi mortali e distruttivi inferti da brani come Saint Of Zion, My Confession, Drive e The Void non risparmiano nessuna delle vittime cadute sotto il bombardamento cyber/thrash che la band scatena, l’aura moderna ed estrema rimane intatta anche quando la voce pulita e le melodie chitarristiche smorzano l’effetto devastante che la band riesce ad emanare amalgamando le sue principali influenze concentrandosi, magari troppo, su ritmiche decisamente sostenute.
L’outro strumentale che rivendica l’anima cyber del gruppo, potrebbe essere l’inizio di una virata decisa verso l’industrial, magari sempre sostenuto dalle varie correnti musicali in seno della band; si sente ancora forte l’odore di Soilwork tra le trame di Identity, non un male, semmai un dettaglio, ma la propensione industrial è quella che a mio parere va assolutamente curata da parte del quintetto tedesco.
Identity comunque rimane un buon lavoro, l’impatto è terremotante, così come di livello la produzione, le idee non mancano ed il gruppo ne esce compatto ed estremo il giusto per non deludere gli amanti del metal più moderno.

TRACKLIST
1. Intro
2. Saint of Zion
3. Where the World Makes Sense
4. My Confession
5. Hollow Peace
6. Identity
7. Drive
8. A New Dawn
9. The Abyss
10. The Void
11. Outro
12. The Hills Have Eyes

LINE-UP
Christoph “Chris” Heckel – Bass
Tobias Derer – Drums
Nils “Nelson” Lesser – Guitars
Christoph “Greek” Rogdakis – Guitars, Keyboards
Dominic Christoph – Vocals

CYPECORE – Facebook

Minenwerfer / 1914 – Ich Hatt Einen Kameraden

Uno split unico e magnifico, che raggiunge perfettamente lo scopo che si era preposto, quello di ricordare quei caduti, persone prima vive e con una storia, amori ed errori, ora solo un fiore in un campo lontano.

Concept split tra due grandi gruppi, per una pubblicazione di altissimo valore.

Il disco è un concept album sulla prima guerra mondiale, focalizzato sugli stati d’animo e le durissime situazione che hanno dovuto affrontare i soldati di entrambi gli schieramenti. A prima vista questo split potrebbe sembrare politicizzato, ma non lo è affatto, anzi ha un valore documentale molto alto. La musica di questi due gruppi ci porta con il cuore prima e con il cervello poi sul campo di battaglia, e possiamo vedere i soldati vivere, ma soprattutto morire, cadere come mosche in un’immensa carneficina, dono degli umani al nero signore. I due gruppi protagonisti dello split vengono da due paesi che erano su opposti schieramenti durante la Prima Guerra Mondiale, i Minenwerfer vengono dal nuovo mondo, più precisamente da Sacramento, California, mentre i 1914 sono ucraini di L’Viv. I Minenwerfen, che era il nome di un mortaio a corta gittata che montava proiettili da 7,58, molto usato dall’esercito tedesco, poiché serviva a bombardare piccole fortificazione e trincee, come quel mortaio aggrediscono con il loro war black metal, devoto al classic black, ma con grandi inserti delle nuove tendenze, ed il tutto è molto distruttivo e potente, perfettamente inquadrato nel quadro del concept album.
La seconda parte dello split vede gli ucraini 1914 compiere un gran lavoro di documentazione storica e sonora, proponendo un suono industrial black, al quale questa definizione sta davvero stretta. Il loro incedere è davvero estremo ed unico, poiché fondono insieme diverse istanze, dal death al black ed un tocco industrial, come nel pezzo Gas Mask, dove la claustrofobia raggiunge davvero livelli estremi, e fa persino capolino l’ 8 bit, dando un grandissimo valore aggiunto al disco.
Uno split unico e magnifico, che raggiunge perfettamente lo scopo che si era preposto, quello di ricordare quei caduti, persone prima vive e con una storia, amori ed errori, ora solo un fiore in un campo lontano. Ed il black metal continua ad essere una guerra.

TRACKLIST
1.Minenwerfer – First Battle of the Masurian Lakes
2.Minenwerfer- Battle of Bolimów (Weisskreuz)
3.Minenwerfer – Iron Cross (Ostfront 1915 Version)
4.Minenwerfer – Second Battle of the Masurian Lakes
5.1914 – An Meine Völker!
6.1914 – Karpathenschlacht (Dezember 1914 – März 1915)
7.1914 – 8 × 50 mm. Repetiergewehr M.95
8.1914 – Gas mask (Eastern front rmx)

ARCHAIC SOUND – Facebook

Colosso – Obnoxious

I Colosso non rappresentano il futuro del death più tecnico e sperimentale, ne sono già il presente …

I portoghesi Colosso, con un monicker simile, non potevano che dedicarsi ad un metal pesante oltre misura, e così è in effetti, anche se la strada percorsa per triturare i padiglioni auricolari degli ascoltatori è molto meno scontata di quella intrapresa da biechi mazzuolatori senza arte né parte.

La band di Oporto, guidata dal fondatore Max Tomé , ha intrapreso solo all’inizio di questo decennio il proprio percorso di progressivo annichilimento, e Obnoxious è la seconda prova su lunga distanza che ci mette di fronte ad una realtà di assoluto spessore.
Un death metal tecnico, che ogni tanti sconfina nel djent, ma in misura non stucchevole, con una pesante componente industrial che lascia spazio a passaggi più riflessivi, andando a formare una mistura accattivante ma soprattutto convincente per la fluidità con cui la materia viene manipolata.
Furra, sperimentazione ed un pizzico di melodia: ecco la miscela che rende vincente Obnoxious nei suoi quaranta minuti di intensità a tratti parossistica, segnati da una prestazione d’assieme impeccabile per esecuzione ed esaltata da una produzione adeguata.
I Colosso offrono una prestazione, appunto, “colossale”, e anche quando alcuni riferimenti si fanno un po’ più scoperti (gli imprescindibili Fear Factory nella magnifica A Noxious Reflection) il tutto viene reso in maniera talmente efficace da far passare qualsiasi altra considerazione in secondo piano.
Obnoxious è emblematico di quella che dovrebbe essere la via maestra da seguire per chi si cimenta con un metal estremo ma dalle sembianze più moderne: lontani dal tecnicismo fine a sé stesso di certo djent o dalla freddezza chirurgica dell’industrial di maniera, i ragazzi lusitani portano una violenta sferzata di aria fresca in un ambito che ultimamente ha proposto più di una prova asfittica, anche da parte di nomi già affermati.
I Colosso non rappresentano il futuro del death più tecnico e sperimentale, ne sono già il presente …

Tracklist:
1. In Memoriam
2. The Unrepentant
3. Of Hollow Judgements
4. As Resonance
5. Soaring Waters
6. Seven Space Collisions
7. To Purify
8. Sentience
9. A Noxious Reflection

Line-up:
Max Tomé – Guitars, Vocals
André Lourenço – Bass
Marcelo Aires – Drums
António Carvalho – Guitars
André Macedo – Vocals

COLOSSO – Facebook

Dan Deagh Wealcan – Fragmented Consciousness

Meno diretto rispetto al suo predecessore, Fragments Consciousness conferma le ottime impressioni suscitate dal duo russo.

Torna a distanza di qualche mese dal precedente Who Cares What Music Is Playing In My Headphones? il duo industrial/alternative moscovita Dan Deagh Wealcan, una macchina perfettamente oliata in cui si abbracciano, su un tappeto di suoni sintetici, una varietà di generi ed influenze, in un variopinto e quanto mai riuscito caleidoscopio musicale.

Mikhail A. Repp e Eugene “Iowa” Zoidze-Mishchenko continuano ad imperversare con questo ibrido che accoglie metal, alternative, industrial e suoni progressivi.
Il nuovo lavoro non si discosta dal precedente, se non per una più marcata vena estrema: ne consegue un sound più industriale, l’uso più marcato di vocals ruvide e ritmiche sincopate che avvicinano il duo alle band industrial metal tout court.
Non mancano digressioni alternative, marchio di fabbrica del gruppo ucraino, ma in generale Fragments Consciousness è leggermente meno progressivo e più marcatamente estremo rispetto al suo ottimo predecessore.
Cinquanta minuti secchi immersi nei suoni elettronici del gruppo, l’album risulta un monolito industriale dove sfumature alternative, sfuriate metalliche ed elettronica di chiara ispirazione new wave, riempono i nostri padiglioni auricolari di musica moderna, tra chiaro e scuro, violenza ed attimi di lascive atmosfere sintetiche, con un Eugene “Iowa” Zoidze-Mishchenko sontuoso nel proporre una larga varietà di toni e sfumature con la sua voce, ma sempre vicino al suo principale maestro, Trent Reznor.
E tra le varie songs che compongono l’album e di cui In5tasis, bleedThrough: e Memory+Mngmnt sono sicuramente le più riuscite, i Nine Inch Nails continuano ad essere la massima ispirazione, così come i Ministry, Devin Townsend, ed i Tool, insomma, il meglio che il rock alternativo mondiale ha regalato ai fans negli ultimi vent’anni.
Meno diretto rispetto al suo predecessore, Fragments Consciousness conferma le ottime impressioni suscitate dal duo russo, una band magari poco conosciuta nel music biz, ma sicuramente meritevole d’attenzione, specialmente se siete amanti di questo tipo di suoni.
Non dimentichiamo che, se sulle loro carte d’identità ci fosse il timbro U.S.A., una band del genere sarebbe probabilmente sulle pagine dei maggiori magazine specializzati.

TRACKLIST
1. theArt?Of:Login
2. Neednothing
3. Number*Nine
4. [Stuck.in.This]
5. I’am=Confused
6. GreatAttractor
7. In5tasis
8. strangeWAR
9. bleedThrough:
10. Private_asylum.
11. Broken)Cluster
12. A-Void
13. Memory+Mngmnt
14. De.Fragmentation
15. Enou8h…
16. Dissolution:176

LINE-UP
Mikhail A. Repp – Sound.
Eugene “Iowa” Zoidze-Mishchenko – Voice

DAN DEAGH WEALCAN – Facebook

Blackwood – As the world rots away

Elettronica e noise, rumori e silenzi in negativo, riverberi maledetti e tanto altro, quello dei Blackwood è un disco importante, intimo e allo stesso tempo catartico e malevolo dannatore.

Odio, fastidio, dolore, paura, non adatto, inabile, coltelli sulla gola, fitte dietro il cuore.

Suoni e rumori instabili, graffianti e pesantemente e diversamente vivi, ecco a voi anime belle il debutto dei Blackwood su Subsound Records . Tutto ciò è opera del cervello e del corpo di un uomo solo, Eraldo Bernocchi, sperimentatore ed agitatore sonoro da tanto tempo in corsa verso le nostre orecchie. Dal drone, all’industrial, da cose in quota Sunn O))) ad altre prettamente ansiogene, questo disco ha un raggio d’azione ampissimo ma è claustrofobico come una panic room economica. Si rimane rasenti al suolo, per evitare i demoni interiori che Bernocchi ci e si scatena contro. Il suono è pesante, intermittente e curatissimo, una presa di posizione geometrica contro il nulla che ci avviluppa, la colonna sonora dei nostri fallimenti e dei nostri ancora più miseri tentativi. Elettronica e noise, rumori e silenzi in negativo, riverberi maledetti e tanto altro, As the world rots away è un disco importante, intimo e allo stesso tempo catartico e malevole dannatore. Davvero un debutto incredibile per una nuova avventura di un musicista che ha tanto da dire.

TRACKLIST
1.Breaking God’ Spine
2.Santissima Muerte
3.Sodom
4.Purtridarium
5.Vulture
6.Unrecoverable Mistakes

LINE-UP
Eraldo Bernocchi: electronics, guitars.
Jacopo Pierazzuoli: live drummer.

BLACKWOOD – Facebook

Spektr – The Art To Disappear

The Art To Disappear costituisce un bel passo avanti e merita l’apprezzamento e l’attenzione di chi è più propenso ad ascolti anticonvenzionali.

Ritroviamo i francesi Spektr, a tre anni da Cypher, alle prese con il loro apocalittico mix tra industrial, ambient e black metal.

A livello di sonorità poco è cambiato: The Art To Disappear è decisamente, come il suo predecessore, un lavoro di ardua decrittazione, ma la sensazione è quella che il duo composto da kl.K. e Hth sia riuscito a focalizzare meglio la propria vis sperimentale.
L’album mostra sempre una qualche dispersività, che è connaturata all’indole avanguardistica dei suoi autori, ma nel contempo i vari tasselli paiono essere meglio collocati al loro posto: i passaggi più contorti sono maggiormente funzionali e connessi alle sfuriate tipicamente black e, cosa fondamentale, The Art To Disappear riesce a non annoiare nonostante i nostri poco o nulla facciano per risultare più ammiccanti.
Indubbiamente, i due musicisti transalpini centrano il bersaglio quando si lasciano andare alle sfuriate black/industrial, con micidiali ordigni quali From the Terrifying to the Fascinating e Your Flesh Is a Relic, per esempio, o con la summa della loro musica costituita dalla conclusiva title track, che tra il terzo e il quinto minuto regala persino una spaventosa accelerazione di matrice black’n’roll.
Se Cypher in più di una circostanza non convinceva del tutto, questa nuova fatica degli Spektr sgombra molte di quelle nubi in virtù di una sintesi raggiunta grazie al maggior equilibrio e coesione tra le parti ambient-rumoriste e quelle di matrice black metal.
The Art To Disappear costituisce, quindi, un bel passo avanti e merita l’apprezzamento e l’attenzione di chi è più propenso ad ascolti anticonvenzionali.

Tracklist:
1. Again
2. Through the Darkness of Future Past
3. Kill Again
4. From the Terrifying to the Fascinating
5. That Day Will Definitely Come
6. Soror Mystica
7. Your Flesh Is a Relic
8. The Only One Here
9. The Art to Disappear

Line-up:
kl.K. – Vocals, Drums, Samples, Programming
Hth – Vocals, Guitars, Bass, Samples, Programming

Prong – X – No Absolutes

Il nuovo lavoro non lascia dubbi sul talentodi Victor che, accompagnato da Jason Christopher al basso e Art Cruz alla batteria, sfodera una prova che riconcilia con il genere

Ci sono gruppi che, grazie alla padronanza del genere suonato, a distanza di anni, dopo glorie e cadute, gioie e dolori, arrivano ad incidere album straordinari proprio come nel momento di massimo splendore e successo.

Tommy Victor ed i suoi Prong sono una di queste: grandi interpreti del metal moderno, con un talento unico  per le ritmiche industrial, magari non estremi come nei primi anni novanta (con i seminali Beg To Differ e Prove You Wrong) ma ugualmente spettacolari come nel capolavoro Cleansing, album che portò il gruppo di New York City alla notorietà.
Quasi trent’anni sono passati dal primo album e Tommy Victor non molla, circondato da una marea di musicisti che hanno gravitato nel gruppo e che, di album in album, hanno contribuito a fare della band del chitarrista americano, un punto di riferimento per chiunque si voglia confrontare con il thrash industriale.
Il nuovo lavoro non lascia dubbi sul talento di questo musicista che, accompagnato da Jason Christopher al basso e Art Cruz alla batteria, sfodera una prova che riconcilia con il genere: duro, marziale, molto thrash oriented ma ricamato da chorus catchy da fare tremare le gambe, metal moderno che molte delle giovani band di grido in questi tempi dovrebbero studiare in ogni dettaglio e venerare, prima di rientrare in sala d’incisione.
E X-No Absolutes non delude i fans dello storico gruppo, in stato di grazia in quanto a qualità del songwriting, già ampiamente dimostrato dal ritorno sulle scene con Carved In Stone, album del 2012 che ha dato il via ad una ritrovata enfasi nello scrivere musica da parte del genio newyorkese, con altri due lavori a distanza di pochi anni: Ruining Lives (2014) e Songs from the Black Hole dello scorso anno.
Il nuovo album è melodicissimo, arrembante, colmo di potenziali hits, veloce e thrashy fino al midollo, la chitarra di Victor si destreggia tra i famosi ritmi marziali e sfuriate metalliche da far impallidire mezza Bay Area, la voce del leader negli anni è migliorata, tanto da raggiungere un appeal che solo pochi anni fa era impensabile (la semiballad Belief System), mentre raggiungere la fine è un attimo, esaltati dallo strapotere delle varie Sense Of Ease, il metallone classico di Worth Pursuing, la thrashy Cut And Dry o l’arrembate metal industriale di Soul Sickness.
Rimane un lotto di tracce dall’impatto melodico esagerato, senza perdere un grammo dell’impatto groove/industrial metal di cui il gruppo è portatore sano, contaminando il nostro sangue con scorie di moderno sound esplosivo e devastante come un’atomica.
I Prong, come per esempio gli Anthrax, non si accontentano di riproporre lo stesso materiale, ma cercano di donare ai loro fans nuovi modi per assaporarne la musica e, di fatto, hanno trovato un ottimo compromesso tra la devastante marzialità dei primi lavori e l’aspetto più melodico del metal moderno: il tempo per loro non è passato invano…

TRACKLIST
1. Ultimate Authority
2. Sense of Ease
3. Without Words
4. Cut and Dry
5. No Absolutes
6. Do Nothing
7. Belief System
8. Soul Sickness
9. In Spite of Hindrances
10. Ice Runs Through My Veins
11. Worth Pursuing
12. With Dignity
13. Universal Law

LINE-UP
Tommy Victor Vocals, Guitar
Jason Christopher Bass
Arturo “Art” Cruz Drums

PRONG – Facebook

An Argency – Through Existence

I già ottimi An Argency hanno naturalmente ancora degli enormi margini di miglioramento, specie se dovessero spostare maggiormente gli equilibri a favore della componente sinfonica rispetto a quella djent-core.

Se c’è qualcosa che mi mette di buon umore è la constatazione che, in ogni parte del mondo, ci sono sempre dei ragazzi che hanno voglia di esprimersi attraverso un veicolo meraviglioso come la musica.

Se poi questa racchiude la rabbia, l’urgenza, la freschezza e, perché no, anche l’ingenuità di un gruppo di imberbi giovanotti di Minsk, beh, tanto meglio.
Gli An Argency ti spiazzano fin dalle foto promozionali: se ascolti il loro disco senza conoscerne le sembianze pensi di imbatterti in rudi e cattivissimi esseri barbuti e capelluti, pronti a sfasciare qualsiasi locale in cui abbiano suonato per vendicarsi della scarsa quantità di birre messe a loro disposizione.
Ma, come ben sappiamo, l’abito non fa il monaco, ed il volto pulito dei nostri è ingannevole quanto mai, infatti Through Existence è una mazzata assestata tra capo e collo dalla quale ci si riprende a fatica: collocabile da qualche parte a cavallo tra Fear Factory e Meshuggah, volendo citare i nomi più noti, senza dimenticare il lato più estremo di band geniali quanto misconosciute come Xanthochroid e Mechina, il sound degli An Argency non fa sconti ed in mezz’ora rielabora e scarica tutto ciò che di spiacevole i ragazzi bielorussi hanno evidentemente già fatto tempo ad assimilare nella loro ancor breve esistenza.
Una durata giusta, anche se apparentemente breve, perché le tracce sono tutte intense quanto “piene” e l’ascolto di sicuro non rivela agevole; si diceva delle poche ingenuità, che possiamo individuare in qualche passaggio leggermente manieristico a base di metalcore tout court o qualcun altro in cui una certa anima djent prende il sopravvento, facendo calare un’intensità che, nella stragrande maggioranza della durata del lavoro, si mantiene a livelli spasmodici, con picchi rinvenibili nel singolo An Empty Shell, nella eccellente Condemned e nella conclusiva Torturer.
Sorpresa tra le più belle degli ultimi tempi, gli An Argency hanno naturalmente ancora degli enormi margini di miglioramento, specie se dovessero spostare maggiormente gli equilibri a favore della componente sinfonica rispetto a quella djent-core.
L’album è reperibile per ora sulle più note piattaforme digitali, ma direi che la band bielorussa è già ampiamente pronta per finire sotto l’egida di qualche label che abbia voglia di puntare ad occhi chiusi su gioventù, freschezza e talento da vendere.

Tracklist:
1.Above The Ashes
2.Torturer
3.An Empty Shell
4.False Recognitions
5.Condemned
6.Sheltered
7.A Place To Rest
8.My Solace
9.The Final Conclusion
10.Torturer

Line-up:
Vitaut Kashkurevich – Guitar
Ilya Miroshnichenko – Vocals
Zhenya Buyak – Guitar
Dmitry Romanenko – Drum
Roman Voronkevich – Bass

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Phobonoid – Phobonoid

Una tempesta perfetta di metal cosmico, drammatico ed apocalittico.

Poco meno di due anni fa mi ero imbattuti nell’ep d’esordio di questa intrigante one man band denominata Phobonoid.

Quei 20 minuti di black metal dai connotati industrial facevano intuire ma non ancora esplodere del tutto il potenziale che il musicista trentino Lord Phobos dimostrava di possedere.
Questo primo full length autointitolato, invece, scardina definitivamente ogni dubbio investendoci con una tempesta perfetta di metal cosmico, drammatico ed apocalittico.
Se il concept resta sempre incentrato su storie che vedono come scenario la più grande delle due lune di Marte, il sound si è evoluto, come personalmente avevo auspicato, sulle coordinate che erano state già evidenziate nella parte finale dell’ep Orbita.
Se all’epoca mi ero lanciato in un accostamento con una band avanguardista come i Blut Aus Nord, in quest’occasione il respiro cosmico ed il senso di tregenda che scaturiscono dai suoni dell’album mantengono sempre oltralpe eventuali termini paragone, anche se, stavolta, il nome da citare sono i Monolithe: è chiaro, qui la base non è il funeral doom ma uguale è il senso di smarrimento di fronte ad avvenimenti che vedono come teatro uno spazio i cui limiti sono ben al di là della nostra umana comprensione.
Fuga nel vuoto, La risonanza della sonda, Kairos, la conclusiva title track e la clamorosa Frammenti di luce sono gli episodi più significativi di un insieme che annichilisce nel suo incedere più rallentato e che non lascia spazio a spunti melodici che poco si addirrebbero agli eventi apocalittici che ci vengono descritti in musica.
Come nell’opera precedente, la voce resta in sottofondo, quasi strumento tra gli strumenti, accentuando l’impatto straniante di suoni che non lasciano scampo.
Phobonoid è un ottimo album, magari non proprio alla portata di tutte le orecchie, ma che sicuramente chi apprezza sonorità come quelle citate dovrebbe far proprio senza particolari esitazioni.

Tracklist
1.Crono
2.Alpha Centauri
3.La sonda di Phobos
4.Fuga nel vuoto
5.Eris
6.Vento stellare
7.La risonanza della sonda
8.Kairos
9.Pulse
10.Frammenti di luce
11.Tachyon
12.Phobonoid

Line-up:
Lord Phobos

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