Exile è un album intenso e ricco di una drammaticità di fondo che contribuisce a mantenere sempre alta la tensione e, quindi, l’intensità che si addice al genere.
I Regarde Les Hommes Tomber prendono il loro nome da un film francese del 1994 ma la loro genesi è molto più recente, visto che la prima uscita discografica risale al 2013 con la pubblicazione dell’album omonimo.
Exileè così il secondo lavoro su lunga distanza che ci mostra la band alle prese con uno sludge/post metal che, se non brilla per spunti innovativi, è senz’altro intenso e ricco di una drammaticità di fondo che contribuisce a mantenere sempre alta la tensione e, quindi, l’intensità che si addice ad un genere che di base è contraddistinto da tratti monolitici.
Volendo appunto cercare il lato debole della proposta dei Regarde Les Hommes Tomber, è proprio il suo esibire solo a tratti quei cambi di marcia necessari per inchiodare alla poltrona l’ascoltatore, nel senso che i brani si dipanano in maniera piuttosto simile anche se lo standard medio appare comunque elevato.
Ad ogni buon conto i ragazzi di Nantes si fanno apprezzare per un’esecuzione efficace sia nelle parti più cadenzate sia, soprattutto, nelle accelerazioni vorticose che, alternate ai bruschi rallentamenti, creano quel limaccioso vortice nel quale “guardiamo gli uomini cadere” … Embrace the Flames e …To Take Us sono le tracce in cui il pathos si fa più consistente, prima che la lunghissima The Incandescent March giunga a suggellare l’album rappresentando quasi una sorta di summa delle doti dei Regarde Les Hommes Tomber, band che fa trasparire un potenziale ancora parzialmente inespresso pur attestandosi già su un buonissimo livello.
Tracklist:
1. L’Exil
2. A Sheep Among the Wolves
3. Embrace the Flames
4. They Came…
5. …to Take Us
6. Thou Shall Lie Down
7. The Incandescent March
The Last Pier è un bellissimo disco, l’ennesimo gioiellino spinto fuori dai confini russi dall’apprezzabile operato della Nihil Art Records
Davvero gustoso, questo secondo album della one man band russa Lauxnos, progetto nato nel 2013 per volontà del polistrumentista Kataros.
Questo giovane musicista, coinvolto per anni in diverse band nelle quali doveva sopportare comunque il peso della composizione e dell’arrangiamento dei brani, ha pensato che tanto valeva far tutto da solo, rinunciando di fatto alla sola attività live. Lauxnos è un’entità che viene definita post-metal, in virtù del fatto che oggi si tende ad abusare di questa etichettatura salvifica, attribuibile a chiunque non segua un genere musicale ben definito: in realtà, in The Last Pier troviamo diverse sfumature che partono da una matrice black, per quanto non troppo marcata, passando per il depressive, il doom, il gothic, con un rivestimento progressive che valorizza senza attenuare il mood malinconico della proposta.
Kataros è un buon chitarrista, non tanto perché sia un virtuoso dello strumento, quanto per la sua capacità di tessere melodie toccanti che ben si confanno al concept dell’album, continuazione del precedente My Dead Ocean: The Last Pier è la seconda parte di un viaggio introspettivo che fa proprie tutte le metafore connesse alle immensità oceaniche.
Il factotum russo si avvale di un solo aiuto esterno, quello di Rain Prahlada, il quale fornisce un valido contributo alla riuscita dell’album con le proprie clean vocals in lingua madre; lo screaming di Kataros contrassegna le parti più aspre dell’album, in particolare la black oriented title track, oppure funge da contraltare alla più evocativa voce di Rain, come avviene in brani ottimi e pregni di pregevoli melodie chitarristiche come Dolphin’s Tale e Gale Force 9. The Last Pier è un bellissimo disco, l’ennesimo gioiellino spinto fuori dai confini russi dall’apprezzabile operato della Nihil Art Records: è chiaro che rispetto a noi che riceviamo (con molto piacere) questo materiale al fine di recensirlo, l’appassionato medio ha decisamente meno possibilità di imbattersi in questi lavori prodotti e composti con tutti i crismi da band pressochè sconosciute e una delle nostre “missioni”, alla fine, è proprio quella di favorire questo tipo di incontro.
Tracklist:
1. Morning at the Sea
2. Dolphin’s Tale
3. Winds of Hope I (The Ending Calm)
4. Winds of Hope II (Meeting the Fate)
5. The Oncoming Storm
6. Gale Force 9
7. In Prayer to the Gods
8. My Last Pier
9. The Last Contemplation of the Moon
10. The Secret of Three Corners (bonus track)
Line-up:
Katharos – all music, lyrics, instruments, extreme vocals
Change strabilia per un songwriting che penetra l’anima dell’ascoltatore senza remissioni, nonostante presenti più di una difficoltà per assimilarne la bellezza in maniera immediata, stante il suo incedere versatile ed articolato.
È un periodo nel quale mi trovo spesso a recensire diverse band provenienti dalla Grecia e devo dire che la cosa non mi dice affatto male.
Chiaro, come d’abitudine la musica che tratto ha a che fare con il doom, e le probabilità che ciò sia di mio gradimento aumentano esponenzialmente, ma non è così scontato dare alla luce lavori così efficaci ed ispirati, quasi che le vicissitudini che hanno afflitto di recente quello che, forse, è il popolo a noi più vicino per cultura e mentalità, abbiano fatto emergere il meglio in quanto a vis compositiva.
Gli Universe 217 non li conoscevo e devo fare ammenda, visto che sono già al loro quarto full length e che quello in questione, il recente Change, è una vera esibizione di musica evocativa e potente . L’elemento determinante è una vocalist eccezionale (per rimarcarlo mi verrebbe quasi da scriverlo con due zeta …) come Tanya Leontiou: questa ragazza fa della sua voce un vero e proprio strumento, e fatte le debite proporzioni, si rivela degna conterranea (di origine) di Diamanda Galas, anche se rispetto alla “serpenta” è molto più asservita al lavoro della band che la sorregge piuttosto che irrimediabilmente rapita da pulsioni sperimentali.
E poi il doom … Sarebbe riduttivo confinare la musica degli Universe 217 in un alveo ristretto: qui il doom è l’umore che costituisce le fondamenta per erigere suoni che vanno dall’hard rock al blues, sui quali Tanya troneggia con voce ora potente, ora suadente e talvolta aggressiva, sempre un passo avanti dal punto di vista comunicativo rispetto a chi fa sterile esibizione di pura tecnica vocale.
La spledida Undone, che apre il disco, è un episodio di enorme potenza evocativa, più coerente con la musica del destino (come la più cupa Rest Here) rispetto ad altri brani del disco, ma con momenti sorprendenti, tipo il finale che evoca per maestosità la zeppeliniana Kashmir; Counting Hours mostra umori più alternative mentre Here Comes è un crescendo emotivo irresistibile .
Se Burn giustifica ampiamente l’aggettivo sperimentale associato alla musica del quartetto ateniese, nella successiva Call vengono esibite tutte le gamme vocali di cui Tanya dispone, riversandole sul drammatico tappeto sonoro impeccabimente creato dai suoi ottimi compagni, mentre la lunghissima title track, infine, chiude in maniera altrettanto eclettica e sorprendente (blues, doom, post metal e una spruzzata di trip-hop) un lavoro che racchiude un caleidoscopio di emozioni raramente riscontrabili. Changestrabilia per un songwriting che penetra l’anima dell’ascoltatore senza remissioni, nonostante presenti più di una difficoltà per assimilarne la bellezza in maniera immediata, stante il suo incedere versatile ed articolato. Universe 217: come il mio caso specifico insegna, non è mai troppo tardi per scoprirli ed arricchirsi con la loro arte musicale.
Tracklist:
1. Undone
2. Counting Hours
3. Here Comes
4. Rest Here
5. Burn
6. Call
7. Change
Nell’ora abbondante in cui si sviluppa, URSA non mostra alcun cedimento qualitativo, a dimostrazione del fatto che i Novembre non sono tornati solo per uniformarsi alla moda delle reunion o della rievocazione di ciò che è stato
Trovarci tra le mani l’album che segna il ritorno, dopo molti anni, di una della band italiane più influenti degli ultimi vent’anni provoca sensazioni contrastanti: da una parte c’è il desiderio di ascoltare nuovo materiale inedito controbilanciato dal timore che una pausa così lunga possa averne, in qualche modo, annacquato la vis compositiva.
Australis, brano d’apertura di URSA(che, oltre al suo più immediato significato in latino è, soprattutto, l’acronimo di Union des Républiques Socialistes Animales, richiamando così l’orwelliana “La Fattoria degli Animali”), riparte da dove il discorso si era interrotto: i Novembre sono di nuovo tra noi, con il loro magistrale incontro tra doom, death, dark e post rock (sotto genere questo, dei quali i nostri sono degli antesignani suonandolo già quando nessuno si era ancora sognato di definirlo in tale maniera). Rispetto al passato forse l’elemento di discontinuità maggiore non è musicale bensì a livello di organico, perché non si può fare a meno di notare la “rumorosa” assenza di Giuseppe Orlando (ormai in pianta stabile nei The Foreshadowing): la band oggi è, quindi, più che mai nelle mani del solo Carmelo Orlando, appoggiato dalla stabile e fondamentale presenza di Massimiliano Pagliuso alla chitarra; a completare una line-up di tutto rispetto troviamo altri due ottimi musicisti della scena romana come Fabio Fraschini (Degenerhate) al basso e David Folchitto (Stormlord e Nerodia, tra le altre) alla batteria. URSAsciorina con una continuità impressionante brani fluidi, ispirati, nel quale il tipico incedere vocale, all’apparenza indolente, di Orlando si alterna con il growl, stile al quale i corrispettivi scandinavi hanno da tempo rinunciato: a mio parere, l’innesto di vocals più aspre, se dosato sapientemente come avviene in questo caso, aumenta non poco l’impatto del sound, fornendo un sbocco drammatico al senso di soffusa malinconia che viene invece evocato dalle clean vocals.
A livello lirico URSA fornisce uno spaccato dell’umanità che non lascia presagire nulla di buono per il futuro del pianeta, laddove la specie dominante piega alle proprie esigenze, sfruttandola, qualsiasi altra forma di vita senza farsi sfiorare da alcun dubbio di natura etica; il tema trova, peraltro, una sua magnifica rappresentazione grafica grazie alla copertina creata dal celeberrimo Travis Smith.
L’umore dell’album ne risente, pur senza toccare le vette tragiche del doom più estremo, scegliendo di comunicare tali sensazioni tramite un sound che, come da trademark dei nostri, si ammanta di tonalità per lo più autunnali, screziate però da frequenti accelerazioni.
Nell’ora abbondante in cui si sviluppa, URSAnon mostra alcun cedimento qualitativo, a dimostrazione del fatto che i Novembre non sono tornati solo per uniformarsi alla moda delle reunion o della rievocazione di ciò che è stato: Orlando in tutti questi anni ha continuato a comporre e, nel 2016, ha messo sul piatto l’album che chiarisce quali siano i ruoli di leader e followers della scena, non solo italiana; la scelta di affidare la produzione a Dan Swanö costituisce la consueta garanzia di successo, anche perché è ben difficile trovare un lavoro prodotto dal genio svedese che non sia all’altezza della situazione e, tutto sommato, sembra quasi che i Novembre, con il singolo Annoluce, intendano in qualche modo omaggiarlo, visto che il brano ricorda per umori gli Edge of Sanity di Crimson (da segnalare, qui, la partecipazione di Anders Nyström dei Katatonia). URSAsi muove come un flusso unico, nonostante ogni traccia possieda una sua peculiarità: ad esempio la citata Annoluce sfuma in Agathae , splendido e lunghissimo episodio pressoché strumentale di matrice folk, nel quale Pagliuso rievoca brillantemente gli umori e la tradizione di quella Sicilia che ai nostri ha dato i natali: il brano si trasforma via via in un caleidoscopio di emozioni e sfumature musicali, passando fluidamente per il progressive, il death ed il black, il tutto rivestito da un’eleganza e da un talento compositivo non comune.
Altre due canzoni che impressionano per il loro impatto melodico ed evocativo sono Umana, forse il momento maggiormente accostabile al death/doom dell’intero album, ed Oceans Of Afternoons, sei minuti di pathos in costante crescendo progressivo, sigillati dall’intervento finale di un sax.
Più melodici degli Opeth e meno algidi degli ultimi Katatonia, i Novembre dimostrano in maniera chiara quale sia la fonte alla quale si sono abbeverati molti dei più recenti campioni emersi all’interno di questo segmento stilistico; rispetto a questi, però, la seminale band italiana possiede quel background estremo che, pur se esplicitato in maniera ridotta, rappresenta l’ingrediente capace di donare ulteriore profondità al sound rendendolo, infine, qualcosa di unico.
Tracklist:
1. Australis
2. The Rose
3. Umana
4. Easter
5. URSA
6. Oceans of Afternoons
7. Annoluce
8. Agathae
9. Bremen
10. Fin
I riminesi Deadly Carnage celebrano i 10 anni di attività con la pubblicazione di questo ottimo 7” intitolato Chasm.
I riminesi Deadly Carnage celebrano i 10 anni di attività con la pubblicazione di questo 7” intitolato Chasm.
Ci eravamo già occupati di questa ottima band in occasione del loro ultimo full-length, Manthe, che fotografava in maniera nitida quello che ne era stata l’evoluzione artistica rispetto al black metal degli esordi.
Il post black, o come lo si preferisce chiamare, che il gruppo romagnolo ci sta offrendo in questi ultimi anni, è quanto di più prezioso ci sia dato ascoltare in questo particolare segmento stilistico, per lo meno dalle nostre parti, e i due brani contenuti nell’Ep non fanno che confermare questa sensazione. Night Was the End parte in maniera più delicata, evocando in qualche modo i colori autunnali esibiti dalla magnifica copertina, per poi evolversi in aperture che uniscono melodia ad asprezza, condotte sempre da uno screaming che comunica un costante senso di profonda inquietudine, appena attenuata dagli arpeggi chitarristici più gentili. Hole Of Mirrors accentua maggiormente la tensione drammatica del sound dei Deadly Carnage, i quali ci regalano una traccia invero splendida, accompagnata da un video capace di trasporre su immagine il disagio e il male di vivere evocato dalla musica e dai testi.
Specie in quest’ultima canzone sorge spontaneo un parallelismo con un’altra band evolutasi nel corso degli anni, partendo dal black metal fino a spingersi a forme espressive fortemente contaminate da altri generi, come i Secrets Of The Moon.
I Deadly Carnage privilegiano maggiormente gli umori post metal rispetto a quelli gotico/progressivi esibiti dai tedeschi, ma resta in comune quell’attitudine rappresentata efficacemente da un sound in costante evoluzione e, soprattutto, volto in ogni suo singolo frangente a trasmettere emozioni tangibili all’ascoltatore. Chasm è un’offerta alla quale chi ama l’arte e la buona musica non dovrebbe sottrarsi …
Tracklist:
Side A
1. Night Was the End
Side B
2. Hole of Mirrors
Line-up:
Adres – Bass
Marco Ceccarelli – Drums, Percussion
Marcello – Vocals
Dave – Guitars
Alexios Ciancio – Guitars, Synths
L’album è piuttosto lungo ma non conosce momenti di stasi, alla luce delle buone doti compositive esibite da Brock, il quale infonde alla sua musica un mood autunnale, rendendola appetibile anche a chi si nutre di sonorità oscure senza essere necessariamente un patito del black metal.
Echoes Of The Moon è il monicker scelto dal giovane Brock Tatich, musicista dell’Indiana, per proporre la sua personale visione musicale.
Visione che prefigura una forma di post black molto atmosferica e basata per lo più su un pregevole lavoro chitarristico, che spazia da liquide parti soliste ad arpeggi acustici fino ai più consueti, per il genere, passaggi in tremolo picking.
L’album è piuttosto lungo ma non conosce momenti di stasi, alla luce delle buone doti compositive esibite da Brock, il quale infonde alla sua musica un mood autunnale, rendendola appetibile anche a chi si nutre di sonorità oscure senza essere necessariamente un patito del black metal.
In effetti gli stilemi del genere sono rappresentati soprattutto nello screaming e in alcune accelerazioni, ma nel complesso Entropyè un lavoro che, per umori, oscilla dal depressive al post metal con buona fluidità. Rispetto a quanto esibito da un analogo progetto solista proveniente dagli States, recensito qualche giorno fa, qui siamo davvero su un altro pianeta: Brock brilla anche per la cura dei particolari, e le frequenti incursioni di chitarra solista sono valorizzate da un buonissimo suono che non ne vanifica in alcun modo l’eccellente esecuzione.
Come detto, l’album è piuttosto lungo, superando abbondantemente l’ora di durata e gli stessi brani talvolta si spingono oltre i dieci minuti, ma Entropyscorre bene, in virtù di una sufficiente varietà e di una scrittura per lo più rivolta ad esaltare i risvolti compositivi più melodici; peraltro, anche nelle parti più tirate, non viene mai meno quel substrato di tensione che è poi la discriminante tra chi fa un gran baccano e chi ha, invece, qualcosa di davvero interessante da dire. Echoes of The Moon è una creatura che trae linfa, a livello di base, dal black metal di matrice atmosferica, e inevitabilmente, vista la provenienza geografica, dalle sue derivazioni cascadiane, ma il ragazzo dell’Indiana rielabora il tutto immettendoci una sensibilità musicale derivante da uno spettro di ascolti e preferenze che spaziano dal doom al progressive settantiano.
Dovendo menzionare qualche brano in particolare, opto per la lunga The Tower Of Babel, che rappresenta un po’ la summa della musica contenuta all’interno del lavoro, e per la soffusa ed insidiosa Acceptance, con il suo lento crescendo disturbato da effetti elettronici che finisce per sfociare poi nella magnifica All Is Good. Entropyè una piacevolissima sorpresa e bene ha fatto la nostra Avantgarde Music ad immetterlo oggi sul mercato sotto la sua egida (l’album era uscito originariamente in free download nella scorsa estate) e, del resto, la sagacia musicale (e non solo) di Brock Tatich fa pensare concretamente che questi siano solo i prodromi di una carriera ancor più brillante.
Tracklist:
1.Entropy
2.Cognitive Dissonance
3.The Tower of Babel
4.Ideologue
5.Adaption
6.Acceptance
7.All is good
8.Find the Silence
Plattensee è un disco in cui il black metal, che è alla base del sound, si nutre di diverse sfumature che lo rendono poco prevedibile e, comunque, ampiamente meritevole di uno suo spazio privilegiato.
Secondo album per i russi Sterbefall, band che curiosamente, fin dalla sua prima apparizione datata 2014, ha scelto di non utilizzare per i testi né la lingua madre né la sua più logica alternativa, l’inglese, bensì l’idioma tedesco.
Plattenseeè un disco in cui il black metal, che è alla base del sound, si nutre di diverse sfumature che lo rendono poco prevedibile e, comunque, ampiamente meritevole di uno suo spazio privilegiato.
Il sound della band di Voronezh, infatti, spazia tra afflati melodici, pulsioni post black, accelerazioni in linea con la tradizione del genere, il tutto sempre contrassegnato da una qualità sorprendente, unita ad un’aura drammatica di matrice doom che ammanta ogni singola nota.
Indubbiamente, la scelta della lingua germanica rende in qualche modo il sound ancor più solenne e severo, collocando gli Sterbefall allo stesso livello (e non in scia) dei nomi più illustri della scena black metal di quel paese (che, personalmente, ritengo la più peculiare ed interessante del nuovo millennio) .
Quello che questi quattro ragazzi russi immettono, per rendere ancor più stimolante la loro proposta, è una proprietà strumentale non comune, associata ad una produzione che ne valorizza appieno gli sforzi e, non ultima, una capacità di scrittura che rende ogni singolo brano meritevole di attenzione.
In una tracklist disseminata di piccole gemme musicali ne scelgo due più preziose delle altre: Wenn die Soldaten ins Feld rucken, uno strumentale di una bellezza stordente che porta a scuola pletore di band post metal, e la conclusiva Tesla, che si potrebbe definire “pericolosamente vicina” a quanto esibito dagli ultimi Secrets Of The Moon, se non fosse che Plattenseeè uscito qualche mese prima rispetto a Sun ….
Solo quest’ultimo dato è sufficiente a farci capire quanto il lavoro degli Sterbefall sia di livello superiore alla media, meritando l’attenzione totale da parte degli appassionati che non si vogliono fermare ai soliti noti ma, semmai, intendono ampliare sempre più lo spettro dei propri ascolti. Plattenseeè un magnifico album, peraltro l’ennesimo sdoganato in quest’ultimo periodo al di fuori dei confini russi dal al meritorio operato della Nihil Art Records.
Tracklist:
1. Winter
2. Todtanz
3. Liebliengsfrau blut
4. IV
5. Plattensee
6. Wenn die Soldaten ins Feld rucken
7. Mit dem Feuer und Schwert
8. Tesla
Rituals è un’opera magnifica, da scoprire con la dovuta calma centellinando le emozioni che è in grado di offrire.
Il secondo full length dei liguri Plateau Sigma è un lavoro che sa molto di consacrazione per una delle band italiane più interessanti in ambito doom (e non solo).
Doom che, peraltro, i nostri non interpretano certo nella sua veste più ortodossa: infatti, rispetto al precedente The True Shape of Eskatos, il sound si è ulteriormente raffinato, pur non smarrendo un’oncia a livello di impatto, arricchendosi di nuove sfumature che, inserite in una struttura che possiede come base la tradizione del genere, offre pulsioni post metal e dark canalizzate in un’indole progressiva.
Spiegare questo disco non è semplice, in virtù proprio delle sue atmosfere cangianti, spesso all’interno dello stesso brano; il bello è che tutto ciò avviene in maniera organica e seguendo una logica ispiratrice che asseconda costantemente gli intenti dei Plateau Sigma, autori di una trama musicale mai banale e in grado di avvolgere ed appagare l’ascoltatore, piegandolo alle sue irresistibili lusinghe. Rituals(che, per una strana coincidenza, è lo stesso titolo dell’ultimo album dei Rotting Christ, anch’esso uscito da poche settimane) tratta delle divinità dell’antica Roma, un tema che offre il nobile pretesto per oscillare da un umore all’altro, assecondando la variabilità stessa delle liriche. Palladion, la magnifica traccia che giunge subito dopo la breve e cristallina intro The Nymphs, apre le danze con i suoi umori collocabili tra Anathema e Porcupine Tree, lieve ma intensa ed altamente evocativa nel suo crescendo.
Segue The Bridge and the Abyss, brano apparentemente incanalato nell’ortodossia doom, con i suoi riff robusti ed il growl di Francesco Genduso ad accentuarne una pesantezza intervallata da rarefazioni acustiche di matrice postmetal. La ritualità della lingua latina apre Cvltrvm, altro momento cardine dell’album assieme a Palladion: qui l’influsso di giganti del funeral come Esoteric o Mournful Congregation parrebbe prendere a tratti il sopravvento, prima che tale sensazione venga smentita da una magnifica incursione chitarristica di Manuel Vicari. I due chitarristi/cantanti si scambiano costantemente le parti e, curiosamente, se il growl di Genduso ha come contraltare i passaggi della sei corde più liquidi ed intimisti, le clean vocals di Vicari mostrano come corrispettivo le fughe solistiche ed i riff più robusti; la base ritmica composta da Maurizio Avena (basso) e Nino Zuppardo (batteria) alterna con sapienza la clava al fioretto, assecondando l’incedere oscillante del lavoro.
Nelle due parti in cui è suddivisa la title track, vengono esibiti quasi a compendio i diversi tratti distintivi della vis compositiva messa in campo dai ragazzi ponentini: il sound pare ripiegarsi su se stesso, rarefacendosi fin quasi ad arrestarsi e costituendo l’humus per repentine, quanto brevi ed intense, esplosioni di matrice doom (magistralmente eseguite nel finale della pt. 1). Ritualsnon è un disco facile e necessita di diversi ascolti perché le sue note possano trovare stabilmente residenza nelle menti più aperte e ricettive e, del resto, la stessa etichetta di doom band affibbiata per comodità ai Plateau Sigma rischia di ghettizzarli all’interno di un movimento musicale geneticamente per pochi; questo disco è molto di più, è l’espressione creativa di musicisti giovani, preparati e con le idee chiare: il lavoro di produzione, a cura dello stesso Francesco Genduso, valorizza ulteriormente i contenuti musicali rendendo l’album del tutto all’altezza delle migliori uscite internazionali.
Proprio a questo che mi vorrei agganciare, in conclusione, esortando sia i malati di esterofilia sia i teorici dell’usato sicuro, ad approcciarsi alla musica con un diverso atteggiamento: se è imminente l’uscita del nuovo album dei Novembre, band alla quale molti (Plateau Sigma inclusi) devono qualcosa a livello di ispirazione, questo non significa che l’agognato ritorno di un nome così pesante debba sviare l’attenzione da Rituals, un’opera magnifica da scoprire con la dovuta calma, centellinando le emozioni che è in grado di offrire.
Tracklist:
1. The Nymphs
2. Palladion
3. The Bridge and the Abyss
4. Cvltrvm
5. Rituals pt.I
6. Rituals pt.II
Line-up:
Manuel Vicari – vocals, guitars
Nino Zuppardo – drums, percussions
Maurizio Avena – bass
Francesco Genduso – vocals, guitars
Inner Winter è un gran disco, duro e leggero al tempo stesso, etereo e potente, ruvido e dolcissimo.
Ottimo post rock e post metal dalla Spagna, partendo da Isis e Neurosis, e arrivando molto lontano.
Per fare musica strumentale bisogna essere molto bravi e versatili, poichél’ascoltatore medio si trova in difficoltà. Invece chi ha orecchie e conoscenza sa che la musica strumentale può regalare grandi gioie come in questo caso. I Buensuceso sono un gruppo che sa molto di musica e riversa queste conoscenze nella propria personale visione del post rock con forti venature post metal, la loro proposta spazia dai Mogwai ai Russina Circles, gli Isis più atmosferici fino allo spazio profondo, con un freddo incedere che genera calore. Inner Winterè un gran disco, duro e leggero al tempo stesso, etereo e potente, ruvido e dolcissimo. Un debutto pensato, composto superbamente e voluto fino in fondo. Evoluzioni strumentali.
TRACKLIST
1.Luckily, Vultures came and ate all dead bodies they saw: Backbones in their beaks…
2.Affectionate Giant Hug with a Bison-Shaped Heart
3.C.O.T.C (City of Tears Citizen)
4.Waiting For Deliverance
5.On the other hand the richness took over of his being, and overwhelmed sold all the things were left, much coherence, a bit of bitterness and innocence has been already rotten.
LINE-UP
Dave Moreno – Drums.
Johnny de Dios -Guitar.
Ed Xavier Quesada – Bass.
Serj Spine – Guitar and Whispers.
John Doe – Teclados, synths, secuencias.
Gli Hate & Merda per fortuna mettono il loro disagio in musica, dando al male il suo giusto spazio, ovvero quello di dominus del mondo.
L’uomo ha inventato la musica per tentare di tappare dei buchi, delle mancanze. Come tutte le arti la musica è un tirare fuori la testa dal mare di merda nel quale ci troviamo. Gli Hate & Merda per fortuna mettono il loro disagio in musica, dando al male il suo giusto spazio, ovvero quello di dominus del mondo.
Secondo episodio discografico per questo duo toscano che aveva stupito positivamente con L’Anno dell’Odio, facendo numerosi concerti, incappucciati e violenti.
Gli Hate & Merda picchiano sulla batteria, violentano la chitarra e gridano, gridano cercando di scacciare quella paura che ci fa capire di non essere individui meritevoli o forse anche solo individui. La loro musica è un massacro, non tanto per la velocità, anche perché hanno aperture notevoli, ma perché è un vortice che, come il male, abbraccia tutto.
Gli Hate & Merda hanno molte anime, da quella metal a quella post metal, dallo sludge al post rock, ma è profondamente ingiusto parlare di generi perché gli Hate & Merda sono un caso a sé. Già a partire dal nome.
Il male è scaricabile gratuitamente.
Non esiste filosofia che possa contemplare il male. Quando arriva si mangia tutto..tutto..e si spenge ogni cosa. E’ una cosa da non programmare a nessuno, da non dire a nessuno. E’ una cosa che non ha infinità. Si mangia tutto. Le cellule..non le scalda nemmeno. I morti..se li rimangia i morti..è una cosa pazzesca. Però il male è rappresentato. Già tempi or sono dal Ponte Vecchio si buttavano le streghe. Era il posto delle streghe il Ponte Vecchio, ma prima c’erano i macellai che buttavano via le budella. E queste cose, queste frattaglie, venivano buttate nell’Arno e l’Arno si riempiva di questo sangue. Il male è una cosa che va sopportata, non c’è possibilità, la religione cristiana ne ha fatto una menzogna, ne ha fatto un processo di una virilità che è quella di un’eventuale condizione di salvezza, perché più soffri e più salirai al paradiso..ma non è vero un cazzo.. La capitale del male? Il male non ce l’ha una capitale, o se ce l’ha può essere anche il terribile mondo oscuro dell’altra parte della luna. Dove vuoi che sia..in fondo a se stessi.. Che poi è sempre un aspetto personale il male. Non c’è nulla di detto, non c’è una misura per misurarlo. Il male è anche giusto sotto certi punti di vista. Il male serve. Serve anche il male..’
[Stefano Santoni]
TRACKLIST
1.LA CAPITALE DEL MALE
2.FOH
3.L’INESORABILE DECLINO
4.IN ITINERE
5.LA CAPITALE DEL MIO MALE
6.PROFONDO NERO SENZA FINE
7.VAI VIA
La bontà del lavoro risiede anche nel suo farsi ricordare per la personalità, in un ambito in cui dischi, comunque molto belli, contengono però pochi elementi di novità.
Eccoci alle prese con un gioiellino di musica oscura ed atmosferica proveniente dalla sempre fertile Finlandia.
I Serotonin Syndrome sono una band catalogabile con un certa approssimazione, visto che la componente post metal è piuttosto consistente all’interno di un sound che fa capo al death doom melodico ben radicato nel paese nordico.
In effetti, se si fa eccezione per la traccia iniziale Twelve Step Circle che, in più parti, paga dazio al death melodico rivelandosi gradevole quanto nella norma, gli altri quattro lunghi brani mostrano un andamento più irrequieto, sempre in bilico tra placidi arpeggi di matrice post metal e sferzate spesso dai toni drammatici.
In particolare, i tre brani centrali sono accomunati da un crescendo costante, specialmente nella parte finale di Rusted Rainbow in the Horizon, magnifica nel suo evocare pathos a profusione. Splendida anche la conclusiva Sarajas, uno strumentale che dimostra ampiamente quale sia il talento e la sensibilità compositiva dei ragazzi di Rovaniemi.
Se pensiamo a dei Swallow The Sun o ancor meglio, forse, dei Kaunis Kuolematon decisamente più orientati verso sonoritàliquide e riflessive, si può più o meno immaginare il sound proposto dai Serotonin Syndrome, ma in realtà la bontà del lavoro risiede nel suo farsi ricordare per la personalità in un ambito in cui dischi, comunque molto belli, contengono però elementi di novità in quantità omeopatiche.
Davvero una bella scoperta, e a questo punto sarà anche il caso di riscoprire il full length d’esordio pubblicato nel 2014.
Tracklist
1. Twelve Step Circle
2. Rusted Rainbow in the Horizon
3. My Boat Is Filled with Blood
4. Catharsis
5. Sarajas
Line-up:
Jussi Pietarila – Bass
Claus Verner Kiiskenberg – Drums
Timo Lurkkiniemi – Guitars (lead), Vocals
Joonas Hämäläinen – Guitars (rhythm)
Kale – Keyboards
Asko Nousiainen – Vocals
Questi ragazzi svedesi hanno un respiro immenso e la loro narrazione è davvero grande ed importante.
La cifra di una narrazione, sia essa musica cinema chissà cosa, è un valore quantificabile del suo respiro, un misurare la respirazione, l’altezza di ciò che si racconta.
Questi ragazi svedesi hanno un respiro immenso e la loro narrazione è davvero grande ed importante. In The Earth Is The Sky fondono mirabilmente post rock e post metal, non stando mai fermi nello stesso punto, parlando con le proprie canzoni. In profondità nella loro poetica musicale ci sono i Neurosis, soprattutto per l’ampiezza della musica. I Moth Gaterer sono un prodotto moderno si un sentire epico che ha in un metal altro la sua stella polare, in ascolti talmente differenziati fra loro che quando si prende in mano uno strumento si è quasi spaventati dalla mole di idee, ma questi svedesi riescono a sintetizzare molto bene tutto. Ora prevale maggiormente un elemento, poi nel momento successivo si sente un’altra piega della stessa energia cosmica. Ascoltando i Moth Gaterer si ha la netta impressione di fluttuare sopra a questo mondo, sopra a questa civiltà tossica, finalmente liberi e leggeri, in un grande respiro che unisce la terra al cielo.
Un disco che lascia spazio a tutto, per un risultato molto buono.
TRACKLIST
1.Pale Explosions
2.Attacus Atlas
3.Probing The Descent Of Man
4.Dyatlov Pass
5.The Black Antlers
6.In Awe Before The Rapture
LINE-UP
Alex Stjernfeldt: Vocals, Bass
Victor Wegeborn: Vocals, Guitars, Electronics
Svante Karlsson: Drums
Ronny Westphal: Guitars
Dopo aver dichiarato chiusa, salvo improbabili ripensamenti, la lunga storia degli Ephel Duath, Davide Tiso si ripresenta sulla scena con questo nuovo progetto denominato Niō.
Dopo aver dichiarato chiusa, salvo improbabili ripensamenti, la lunga storia degli Ephel Duath, Davide Tiso si ripresenta sulla scena con questo nuovo progetto denominato Niō.
In coppia con il drummer Jef Pauly, il musicista veneto oggi residente in California, propone questo primo assaggio di progressive/post metal strumentale, adottando una formula che prevede quali strumenti solo chitarra e batteria.
Il lavoro mostra diversi spunti interessanti, anche se la sua spontaneità gli fa assumere talvolta le sembianze di un abbozzo, quasi che Tiso sentisse l’urgenza di esprimersi in una forma meno rifinita, con un intento inconsciamente catartico.
In effetti, la progressione degli Ephel Duath era giunta ad un punto di non ritorno oltre al quale, però, era anche impossibile provare a spingersi: l’ultima incarnazione della band, con Karyn Crisis alla voce, aveva oltremodo estremizzato le caratteristiche di un sound già di suo piuttosto intricato, per quanto avvincente.
Così in Niō vengono fatte sfogare pulsioni progressive spogliate del loro involucro estremo, e la rinuncia ad un vocalismo esasperato come quello dell’artista statunitense consegna la scena alla chitarra, dando vita ad un sound dai ritmi circolari che più di una volta appare di lodevole ispirazione frippiana.
Come detto, questa prima prova dell’operazione Niō mostra stimmate sperimentali nonostante una fruibilità di fondo di gran lunga superiore agli Ephel Duath di questo decennio: i cinque brani presenti in scaletta sono gradevoli, con menzione particolare per The Wheel e Grey Dealer, e la breve durata complessiva agevola non poco la loro assimilazione, anche se c’è da chiedersi se Tiso riuscirà a rendere ancor più accattivante questa formula se sviluppata su un minutaggio più consistente rispetto a quello di un Ep.
La stima che, personalmente, nutro nei confronti di questo musicista poco disposto a scendere a patti con sonorità convenzionali, mi rende comunque fiducioso nei confronti dei risultati che scaturiranno da questo interessante progetto.
I Sunpocrisy hanno due pregi fondamentali: non hanno pausa di osare ma, nel contempo, non spingono oltre il limite del ragionevole la loro vis sperimentale, mantenendo sempre un invidiabile equilibrio tra melodia e inquietudine.
Il secondo full length dei bresciani Sunpocrisy è esattamente ciò che bisognerebbe spiattellare sotto il naso a chi, pervicacemente, continua a sostenere la pochezza della scena musicale italiana, in particolare di quella metal.
La band lombarda propone infatti una versione realmente evoluta di quello che per comodità definiremo post metal, non rendendo del tutto giustizia alle innumerevoli sfaccettature che l’album racchiude; sorta di risposta tricolore (ma meno schizoide e sinfonica) ai geniali statunitensi Xanthocroid, i Sunpocrisy con Eyegasm, Hallelujah! raggiungono qualcosa di molto vicino alla perfezione, verrebbe da dire, se non fosse che affermando ciò si finirebbe per precludere ai nostri un ulteriore margine di evoluzione che, al contrario, si intuisce essere ampiamente nelle loro corde.
L’accoppiata iniziale Eyegasm / Mausoleum of the Almost si rivela oltremodo sufficiente per fotografare le capacità di una band che spazia con disinvolta tra atmosfere liquide ed evocative e sfuriate di stampo post hardcore, senza che ciò vanifichi l’afflato melodico che pervade in maniera costante l’intero lavoro. Eyegasm, Hallelujah! è un magnifico viaggio che si snoda senza soluzione di continuità e, anche quando la strada sembra farsi più tortuosa, dietro l’angolo ci sono sempre soluzioni sonore che ci spingono a proseguire un percorso immaginifico e a tratti commovente: dopo il breve intermezzo strumentale Transmogrification, arriva Eternitarian a ribadire quanto la musica sia in grado di rendere migliori le nostre esistenze, con diversi momenti di autentico incanto.
Dopo mezz’ora, che basterebbe ed avanzerebbe per sancire il successo di qualsiasi lavoro, ci aspettano ancora altri 40 minuti stupefacenti, a partire da Kairos Through Aion, brano dall’intensità spasmodica che, quando si apre melodicamente, può ricordare i migliori Fear Factory o i loro più qualificati seguaci Mechina, ma che in realtà è un personalissimo caleidoscopio di emozioni sublimate dall’impressionante crescendo conclusivo, propedeutico alla successiva Gravis Vociferatur, strutturata esattamente in maniera opposta, ovvero con una sfuriata iniziale che si stempera in sonorità più rarefatte nella sua fase discendente. Festive Garments è l’episodio più aspro, fondamentalmente, con il suo incedere ascrivibile al progressive death meshugghiano, ma pur sempre bilanciato da una sensibilità compositiva che rende il brano tutt’altro che algido nel suo sviluppo, il tutto in preparazione del perfetto e sognante epilogo del disco denominato Hallelujah !.
I Sunpocrisy hanno due pregi fondamentali: non hanno pausa di osare ma, nel contempo, non spingono oltre il limite del ragionevole la loro vis sperimentale, mantenendo sempre un invidiabile equilibrio tra melodia e inquietudine; l’album, poi, sembra rivelarsi nel suo splendore in maniera repentina ma, in realtà, svela ad ogni ascolto particolari che si erano celati nelle occasioni precedenti.
Concludo dicendo solo che, se avessi ascoltato Eyegasm, Hallelujah! il mese scorso, invece che in questi primi giorni del 2016, per quel che vale sarebbe finito decisamente molto in alto nella mia top ten, risultando senza dubbio il miglior album uscito in Italia nell’anno appena terminato.
Ma tutto ciò in fondo è un qualcosa che può interessare solo agli statistici, i fatti ci consegnano piuttosto una band come i Sunpocrisy che, non ci sono dubbi, al di fuori dei nostri confini ci viene invidiata: e noi, all’interno del nostro tormentato stivale, cosa aspettiamo ad aprire per ben le orecchie approfittando di cotanta bellezza ? ….
Tracklist
1. I. Eyegasm
2. II. Mausoleum of the Almost
3. III. Transmogrification
4. IV. Eternitarian
5. V. Of Barbs and Barbules
6. VI. Kairos Through Aion
7. VII. Gravis Vociferatur
8. VIII. Festive Garments
9. IX. Hallelujah!
Un disco splendido per una band da mettere sotto stretta osservazione in futuro: già così i Below The Sun si attestano a livelli altissimi, ma la sensazione è che abbiano nelle corde addirittura qualcosa di meglio da offrirci.
Esordio per questa band russa dedita ad una forma di death doom dai tratti progressivi, oltreché da una componente post metal ben riconoscibile.
L’album si snoda nel corso di sette tracce piuttosto lunghe ma la buona capacità compositiva dei Below The Sun li rende sufficientemente scorrevoli. Nel complesso il sound non è troppo aggressivo nel suo alternare liquidi passaggi acustici e melodici a sfuriate sempre piuttosto controllate, e queste caratteristiche sono rinvenibili nelle prime tre tracce e nell’ultima, perfetti esempi di come dovrebbe essere trattata la materia.
Fanno eccezione a questo modus operandi il quarto d’ora di Drift In Deep Space, funeral death doom ottimo nella sua ortodossia, e la notevole space ambient di Breath of Universe. Envoysi rivela una graditissima sorpresa in quanto ci mostra una band davvero perfetta nell’esibire un sound a tratti cupo ed oscuro, e in altri malinconico e sognante, il tutto senza sbavatura alcuna; la voce viene esibita con una certa parsimonia, rendendo l’album virtualmente strumentale, e così non è un caso che la perla del lavoro sia Cries of Dying Stars, un effluvio di soli suoni che mescolano pulsioni cascadiane, i migliori Agalloch ed ovviamente una componente doom, non accentuatissima ma comunque ben radicata.
Se vogliamo, lo stacco tra un brano come la già citata Drift In Deep Space può sembrare eccessivo, ma ciò d’altra parte dimostra la competenza dei ragazzi di Krasnoyarsk per la disinvoltura con la quale approcciano sonorità apparentemente diverse.
Un disco splendido per una band da mettere sotto stretta osservazione in futuro: già così i Below The Sun si attestano a livelli altissimi, ma la sensazione è che abbiano nelle corde addirittura qualcosa di meglio da offrirci.
Tracklist
1.Outward The Sky
2.Cries of Dying Stars
3.Alone
4.Drift In Deep Space
5.Breath of Universe
6.Earth
Secondo incontro con i francesi The Lumberjack Feedback, già recensiti poco meno di un anno fa in occasione dell’uscita del loro ep Noise In The Church, gustoso antipasto comprendente due tracce (anche video) registrate live all’interno di una chiesa.
Alla prima prova su lunga distanza il gruppo di Lille consolida, nel bene e nel male, quanto fatto intravedere in quell’occasione: uno sludge doom possente ma sufficientemente ricco di sfaccettature si scontra con l’assenza di parti cantate, impedendo di fatto un’ulteriore progressione di un sound che parrebbe avere molte frecce al proprio arco.
Infatti, a differenza di molte band accomunate ai nostri da questa particolare scelta stilistica, Blackened Visions si lascia ascoltare senza molta fatica riuscendo a non annoiare praticamente mai, questo grazie ad una pesantezza che dona ulteriore profondità senza tralasciare più docili aperture verso il post metal (emblematica in tal senso l’ottima title track) .
In fondo non ci sono punti deboli nella proposta dei The Lumberjack Feedback: No Cure (for the Fools) e Salvation (già presente nel citato ep) brillano per la loro intensità ritmica, IMereMortal è l’episodio più estremo ma non per questo meno intrigante, mentre la coppia finale Dra till helvete e Mah Song offre forse il meglio del lavoro: la prima con il suo incedere più doom e relative spruzzate di post metal, la seconda rivelandosi un magnifico esempio di sludge avvolgente ed in costante crescendo grazie ad una chitarra solista che si libera, infine, delle pastoie ritmiche lasciando un ottimo ricordo di sé.
Il ricorso alla doppia batteria si apprezza maggiormente nei passaggi più tirati, ma immagino che si riveli moto più efficace e peculiare in sede live ed il resto della band svolge al meglio il proprio fangoso dovere; rimane il limite (che per me resterà sempre tale, indipendentemente dai protagonisti) di una proposta esclusivamente strumentale, ricordandomi molto quello di una squadra di calcio che esibisce un gioco spettacolare ma non la butta mai dentro: il pubblico durante la partita magari si diverte, ma alla fine, a vincere, sono altri …
Tracklist:
1. No Cure (for the Fools)
2. Blackened Visions
3. IMereMortal
4. Salvation
5. Dra till helvete
6. Mah Song (Horses of God)
In Arbor emergono le influenze più profonde, radicate e inintelligibili, come il sulfureo noise-jazz d’avanguardia dei californiani Oxbow.
E’ con un ritmo cadenzato e regolare che il combo inglese ci introduce al loro primo full-length, fatica autoprodotta ed autodistribuita direttamente dalle grigie periferie industriali di Birmingham; una agonica marcetta vagamente militare che s’intreccia con nove intensi minuti di grassi riff post-hardcore mutuati da intensi ascolti in materia di sludge.
Un cantato disperato e feroce ci accompagna sino allo scioglimento di questa prima, monumentale traccia che lascia immediatamente il campo alla track più veloce ed impietosa dell’intero disco. Knee Deep è una traccia massiccia, in cui il cantato doppio del bassista Stitch e del chitarrista Tim si intrecciano su un pattern sonoro tagliente e indelicato, fusione di sonorità del black metal più raw-oriented ed ancora quelle forme di sludge/post-hardcore dedite all’attacco delle sinapsi dell’ascoltatore.
In un susseguirsi organico e ben calibrato di ferocia musicale il disco cambia ritmo, donando aperture arpeggiate di chitarre fumose su partiture lente, oleose: Mongolian Terror Trout e Gas Bird sono la colonna centrale dello stoning di questo gioiellino digitale, monumentali costruzioni mentali scaturite dagli abissi onirici di sedute yoga dedite al male.
I successivi diciannove minuti sono l’acme del disco intero, due tracce: Desert Baron e Statues In The Garden Of Death sono la simmetrica specularità sonor di un delirio allucinatorio, in cui le atmosfere glaciali e siderali di certi blackmetallers francesi, Darkspace su tutti, confluiscono, con incedere marziale in monolitici urti contro muri di funeral doom cupo ed evocativo.
Chiudono Astral Beard e The Axeman, la prima un inno alle radici musicali dei The Nepalese Temple Ball, Neurosis ed Isis su tutti, ma con un occhiolino a sfuriate molto moderne, vedi Mastodon. Accoppiate nel’ascolto, le ultime due track, formano una cartina tornasole per quello che è stato questo disco, e finalmente emergono le influenze più profonde, radicate e inintelligibili, come il sulfureo noise-jazz d’avanguardia dei californiani Oxbow.
Bella prova questo Arbor, prima fatica ufficiale dei The Nepalese Temple Ball dopo ben 8 anni di attività! Si spera di aspettare meno, per rientrare nei meandri del loro sound.
TRACKLIST
1 – A Snake for Every Year
2 – Knee Deep
3 – Mongolian Terror Trout
4 – Gas Bird
5 – Desert Baron
6 – Statues in the Garden of Death
7 – Astral Beard
8 – The Axemen
LINE-UP
Stitch Heading | Bass, Vocals
DavePhilips | Drums
Lee Husher | Guitars, vocals, soundscapes
Tim Galling | Vocals, guitars
Lasciate ogni speranza voi che entrate … qui non ascolterete assolutamente nulla di “già sentito”.
“il Nero Di Marte, noto anche come Pigmento Nero 11 o più comunemente Magnetite (dimetaferrato di ferro), è un pigmento a base di idrossido di ferro considerato il più opaco dei pigmenti neri presenti in natura ed allo stesso tempo il meno tossico, nonché il più resistente alla luce e duraturo”.
Ecco, se i Nero Di Marte, ormai affermata band bolognese, esprimono sonorità decisamente dure e pesanti, i Nono Cerchio sono un progetto parallelo che vira su territori più sperimentali.
I Nono Cerchio sono nati da una costola dei Nero di Marte, formati precisamente da due dei quattro membri della stessa (Francesco D’Adamo il Chitarrista, Andrea Burgio il bassista). Ombre è il loro esordio, autoprodotto, che appunto unisce le sonorità decisamente cupe e care al black metal (che ritroviamo nei Nero Di Marte appunto) a componenti elettroniche distorte e ricche di riverbero, effetti disturbanti che si ripropongono a lungo durante i brani, crescendo sonori e improvvisi cambi di tempo che virano su territori quasi tribali e ipnotici.
Questi suoni così alienanti ci proiettano esattamente dove la band ci vuole portare, un viaggio negli inferi, senza necessariamente un biglietto di ritorno. Si parte subito con una citazione della Divina Commedia, oltre al nome della band stessa. Il pezzo più lungo del lotto è infatti intitolato Cocito e richiama il fiume infernale (paradossalmente ghiacciato) in cui sono intrappolati nel IX Cerchio i fraudolenti, i traditori: il pezzo fa da “overture” all’album e riassume perfettamente in ben 11 minuti quanto di buono propongono i Nono Cerchio.
“Per ch’io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante.”
Dante, Inferno – Canto XXXII
Degna di nota la traccia centrale Samsara, forse la più audace in quanto a sound e che grazie alle sfuriate metalliche e all’ottimo drumming del valido Jonathan Sanfilippo (Caffè Dei Treni Persi) risulta “crudele” il giusto, efficace e di impatto immediato. E’ inoltre la traccia più breve del lotto e riesce comunque a dire tutto ciò che deve, cosa non facile quando ci si esprime attraverso certe sonorità.
Nell’edizione deluxe bisogna menzionare che, oltre allo splendido booklet e cover, troviamo una interessante e geniale, nel concetto, “sinfonia elettronica” a cura di Francesco D’Adamo divisa in quattro movimenti, dal titolo Aldilà Elettrificato. Interessante il fatto che quest’opera sia registrata senza sovra-incisioni e con l’utilizzo di effetti a pedale manipolati in tempo reale.
Il genere in cui spaziano i Nono Cerchio è di difficile catalogazione, si potrebbe avvicinare ad uno sludge molto sperimentale e comunque molto vicino al post-metal ed al black metal. Fa piacere il fatto che non siano “facilmente etichettabili”, poiché i bolognesi propongono davvero qualcosa di originale e valido. Se siete alla ricerca di momenti di riflessione e ispirazione musicale non andate a rovistare tra la musica ambient “di serie B”: assaporate Ombre.
TRACKLIST
1. Cocito
2. La Porta Cremisi
3. Samsara
4. Frammenti d’Oltrevita
5. La Caduta
6. Riflessi per Percussioni e Spettri
LINE-UP
Francesco D’adamo – Chitarre
Andrea Burgio – Bassista
Jonathan Sanfilippo – Batteria
Aion possiede una sensibilità diversa, una sonorizzazione incessante di emozioni e di pensieri antichi sentiti da una persona appartenente alla civiltà cosiddetta moderna.
I Wows sono una creatura dalle molte teste e da un suono unico e ben definito. Un gruppo di persone, quando vuole fare musica e mettersi in gioco ha fondamentalmente due strade : copiare o innovare.
Certamente nessuno può fare musica nuova al cento per cento ed essere minimamente orecchiabile, ma certamente ci si può creare un proprio suono. I Wows appartengono decisamente a questa seconda categoria, nel senso che il suono è pressoché unico. I veronesi, attivi dal 2008, nascono nella grande famiglia esoterica del post metal, ma dentro la loro musica vi sono varie proposte sonore, che permettono all’ascoltatore di imbarcarsi in un viaggio molto particolare.
Dimentichiamoci toni pesanti o chitarre estremamente ribassate, qui a dominare è l’aulicità, un epico ricercare note e vie lontane dallo stomaco ma vicino alla mente. All’interno di Aionpossiamo trovare la via per meditare ascoltando un disco di musica moderna. Dentro questo disco vi sono moltissime cose, se avete la giusta disposizione, qui si va in controtempo, non c’è velocità bensì sostanza, non ci sono inutili pesantezze bensì il percorso di sentieri aperti da sciamani come i Neurosis e pochi altri. Aionpossiede una sensibilità diversa, una sonorizzazione incessante di emozioni e di pensieri antichi sentiti da una persona appartenente alla civiltà cosiddetta moderna.
Il disco è splendidamente rappresentato dalla copertina dipinta da Paolo Girardi, è un vortice nel quale è dolce perdersi, abituati ai vortici delle nostre quotidiane follie. Come ogni gran disco cresce enormemente alla distanza e noi lievitiamo con lui.
Descent è il classico lavoro da ascoltare in solitudine, avvolti solo dalla musica della band e dalle emozioni che ne scaturiscono.
Descentè il primo full length dei polacchi Moanaa, band post metal di Bielsko con un ep omonimo alle spalle prima di dare alle stampe questo lavoro che definire emozionante è poco.
Di una maturità artistica che ha del clamoroso, la band sfodera una prova straordinaria, includendo nel proprio sound elementi che vanno dal prog allo sludge, dall’hardcore al death, racchiusi in un genere che si può senz’altro definire post metal.
Dotati di un talento disumano per le parti atmosferiche, che in questo album passano dal sognante al drammatico, con una facilità disarmante, il gruppo crea quest’ora di musica depressiva e tragica, squartata da rabbiose parti sludge che le conferiscono un’anima metal pesante e soffocante, in parte addolcita da parti acustiche strepitose e mai banali.
I due vocalist in formazione vomitano sull’ascoltatore rabbia e disperazione, in un caleidoscopio di suoni grigi e scuri, un po’ come vedere il mondo perennemente in bianco e nero.
I suoni si dilatano, a volte si sciolgono in un sound liquido, molte volte esplodono, come nitroglicerina sballottata sul carro che segue la strada dissestata della vita, con poche speranza di arrivare in fondo senza far conoscere la sofferenza alla propria anima.
Su queste emozioni i Moanaa costruiscono la loro musica che ferisce, sognante e drammatica, e ci trasporta su un altro livello, guardando il mondo da prospettive sempre diverse, accompagnati da digressioni musicali che destabilizzano, turbano, ci avvolgono in un abbraccio colmo di tristezza e amarezza.
Ma c’è sempre una speranza, ed allora armoniose note ci riconducono verso la giusta strada: sopravvissuti all’esplosione di note che ci ha investito, riprendiamo il cammino più forti, il brutto è ormai alle spalle e il vivere ci fa un po meno paura.
I brani, mediamente lunghi, sono di una bellezza che stordisce e Descentè il classico lavoro da ascoltare in solitudine, avvolti solo dalla musica della band e dalle emozioni che ne scaturiscono.
Difficile da assimilare se non con un ascolto attento, l’album vive di momenti intimisti straordinari, sempre in bilico tra disperata dolcezza e rabbiosa drammaticità, che si alternano in brani toccanti come Sunset Growing Old, Lit, Lost In The Noise e ….Mills: i Moanaa risultano convincenti ad ogni passaggio, con un lavoro che riconcilia con un genere non sempre facile da assimilare e da suonare.
Tracklist:
1. Sunset Growing Old
2. Repulsive
3. Lit
4. Zero
5. Lost In The Noise
6. Ion…
7. …Mills
8. Away