La robustezza dei riff e della base ritmica riescono abbondantemente a catturare l’attenzione, evitando che il lavoro scivoli via senza lasciare traccia come sovente accade, invece, nelle opere di carattere esclusivamente strumentale.
Con I Lodo ecco che, finalmente, si compie il fenomeno che consente alla musica esclusivamente strumentale di avere una vita propria, risultando incisiva pur senza l’apporto della voce.
Probabilmente il genere prescelto, un bel monolite a cavallo tra doom e post metal, favorisce la riuscita dell’operazione che, invece mi lascia sovente perplesso allorchè chi ci prova si dedica sonorità più psichedeliche, come per esempio avviene in ambito stoner.
La robustezza dei riff e della base ritmica riescono abbondantemente a catturare l’attenzione, evitando che il lavoro scivoli via senza lasciare segni tangibili. Avviene così che la band spagnola si riveli in grado di mettere assieme sei tracce per una quarantina di minuti intensi, rocciosi e ben delineati, tra le quali brillano le più robuste Carretera y Mantra e Tábano, caratterizzata questa da un lento ma costante crescendo.
Non per questo cambierò idea riguardo alla frequente scelta di abolire la figura del vocalist, ma perlomeno questo lavoro autointitolato dei Lodo dimostra che la strada è percorribile, con tutte le difficoltà del caso, quando ci sono idee a sufficienza ed una capacità di imprimere al sound un impatto più deciso.
Del resto con la Third I Rex ci aspettiamo sempre un offerta musicale di certo non banale, e in tal senso i Lodo non fanno eccezione.
Tracklist:
1.La muela de la Cruz
2.Carretera y Mantra
3.Muerto Sentado
4.Tábano
5.Fumetal
6.Santa Águeda
Line up:
Latigo – guitar
David – bass
Raul – guitar
Rojo – drums
My Endless Immensity è una prova di buon livello, abbastanza consistente e in grado di fare emergere adeguatamente la sensibilità compositiva di questi due bravi musicisti.
Arriva al suo secondo full length il duo umbro Falaise, protagonista di un interessante interpretazione del postblack o blackgaze, che dir si voglia.
Infatti, se da una parte troviamo quell’incedere etereo screziato dal black tipico dei primi Alcest, dall’altra emergono repentine spinte emotive che spostano l’asse del sound ai confini del depressive, pur se con toni meno esasperati.
E’ con queste coordinate di massima che, alla fine, My Endless Immensity si snoda, facendo ricorso in maniera ridotta dell’apporto vocale che, quando si palesa, fatica un po’ ad emergere sacrificato dalla produzione, ma non c’e dubbio che a prevalere nel complesso sia maggiormente l’anima post metal rispetto a quella black, mettendo in luce l’aspetto più delicato del metodo compositivo di di Lorenzo Pompili e Matteo Guarnello; personalmente però prediligo il loro sforzo in concomitanza con le sfuriate estreme, capaci di dare una sferzata ad un sound che altrimenti, alla lunga, rischierebbe di adagiarsi su un andamento gradevole ma non sempre così incisivo.
E’ piuttosto emblematica, in tal senso, l’efficacia della centrale The Abyss, nella quale viene esibito il volto più drammatico ed oscuro dei Falaise, la cui ammirazione per la scena transalpina è comunque confermata anche dalla riuscita cover di Les Ruches Malades degli Amesoeurs, effimera creatura che che vide all’opera fianco a fianco due dei migliori talenti musicali partoriti dalla terra francese, ovvero Neige e Fursy Teyssier.
Ma non per questo di deve pensare che l’approccio al genere sia derivativo. anche se in quest’ambito talvolta i margini di manovra non è che siano così ampi: a tale proposito va segnalato quindi un’altra traccia di grande spessore come la già edita (come singolo) You Towards Me, segnata da un bellissimo connubio tra tocchi pianistici e chitarra.
My Endless Immensity è sicuramenteuna prova di buon livello, magari non imprescindibile in ogni sua fase, ma comunque consistente e in grado di fare emergere adeguatamente la sensibilità compositiva di questi due bravi musicisti.
Tracklist:
1. Nightgaze
2. The Embrace of Water
3. You Towards Me
4. Crimson Clouds
5. Dreariness
6. The Abyss
7. Sweltering City
8. Pristine Universe
9. A Veil of Stars
10. Les ruches malades (Amesoeurs cover)
Brine Pool vede nuovamente i Mudbath alle prese con la loro interpretazione del genere, ondeggiante tra pulsioni più estreme, prossime allo sludge, e passaggi più ariosi e rarefatti riconducibili al post metal.
I Mudbath si ripropongono con un nuovo full length a due anni dal primo, Corrado Zeller, grazie al quale hanno attirato su di loro una certa attenzione da parte dei cultori della scenda post doom/metal.
Brine Pool vede ancora gli avignonesi alle prese con la loro interpretazione del genere, ondeggiante tra pulsioni più estreme, prossime allo sludge, e passaggi più ariosi e rarefatti riconducibili al post metal: per mia indole non posso nascondere che li preferisco di gran lunga allorché irrobustiscono le loro partiture, specialmente quando, con la conclusiva Fire, vanno a sfiorare il funeral doom con un finale davvero memorabile.
Anche l’inziale Burn Brighter, traccia nervosa e ricca di cambi di ritmo ed umori, brilla di luce propria, mentre sia End Up Cold che Seventh Circle si rivelano episodi maggiormente nella norma ed in linea con le consuetudini stilistiche in uso; più interessanti, allora, la breve sfuriata dissonate di Zone Theory ed il delicato approccio acustico di Rejuvenate.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che i Mudbath siano una band di notevole valore, perché in diversi momenti dell’album si mostrano segnali incontrovertibili in tal senso, ma resta il problema dell’inclusione in una corrente stilistica che ormai appare priva di sbocchi se la competenza tecnica e compositiva non viene affiancata dalla volontà di svincolarsi da un modus operandi consolidato, ma che non riesce più a sorprendere .
I due brani posti alle estremità di Brine Pool dimostrano ampiamente di che pasta siano fatti questi ragazzi francesi, ai quali chiederei personalmente di spingere con più convinzione sul versante doom del loro sound, ma è ovvio che si tratta di un esortazione derivante da un gusto del tutto soggettivo, perché chi predilige il post metal la penserà senz’altro in maniera diametralmente opposta, probabilmente anche apprezzandone molto di più l’operato.
Tracklist:
1. Burn Brighter
2. End Up Cold
3. Seventh Circle
4. Zone Theory
5. Rejuvenate
6. Fire
Line up:
Marco – Bass
Luke – Drums, Vocals
Flo – Guitars
Mika – Guitars, Vocals
Questo disco è una discesa nel magma del metal, dove pulsa il suo cuore, ed è un inno alla varietà ed alla creatività della musica pesante.
Ci sono dischi che non sono ciò che sembrano, cambiano forma mentre li si ascolta, perché noi siamo partiti con una certezza mentale, un preconcetto che presto svanisce come neve al sole, lasciando libero spazio alla natura stessa di questa musica.
I Seer sono un gruppo canadese, provengono da Vancouver, British Columbia, e sono gli autori di un processo alchemico di ottima fattura. Questo Volume III & IV : Cult Of The Void segue la pubblicazione del loro debutto Volume I & II, sempre su Art Of Propaganda, uscito l’anno scorso. Nel primo disco questi canadesi facevano un ottimo doom sludge con notevoli aperture melodiche, denotando una buona capacità compositiva, laddove si potevano apprezzare composizioni mai ovvie, ma con questo seguito arrivano a vette eccezionali. Questo disco è una discesa nel magma del metal, dove pulsa il suo cuore, ed è un inno alla varietà ed alla creatività della musica pesante. In ogni canzone i Seer affrontano vari generi diversi, in certe tracce si cambia stile da strofa a ritornello. Le basi ferme sono un gran senso della melodia, e soprattutto hanno a loro disposizione molti modi per poterla rendere. Volume III & IV : Cult Of The Voidè un disco mutante, ha una vita propria e come i mutaforma cambia aspetto, mantenendo ferma la sua essenza. Si passa da un momento di melodia a momenti quasi atmospheric, ma si potrebbe dire che questi ragazzi trovano un modo davvero alternativo di rendere dinamiche doom e metal tout court in maniera totalmente originale e differente. L’incedere dell’album, il suo passo, è decisamente maestoso, ma lo è in maniera naturale, senza eccedere, poiché tutto esce in maniera molto spontanea. Dopo ripetuti ascolti non ci si stanca del disco, di questo continuo fluire, della scultorea perfezione di queste composizioni, che partono ed arrivano in terre completamente diverse. Ascoltare, fluire e gioire.
Tracklist
1.Ancient Sands (Rot Preacher)
2.Acid Sweat
3.They Used Dark Forces
4.Burnt Offerings
5.I: Tribe of Shuggnyth m
6.II: Spirit River
7.III: Passage of Tears
8.संसार
Line-up
Bronson Lee Norton – vocals, acoustic guitar
Madison Norton – drums
Peter Sacco – guitar
Josh Campbell – bass guitar, synth
Kyle Tavares – electric guitar, acoustic guitar, vocals, synth
Hansel, Gretel e la Strega Cannibale è un disco di umane vicende raccontate per simboli e con un tappeto musicale veramente progressivo, nel senso di continua progressione, per poter uscire dal labirinto.
I Viridanse sono un’entità musicale che ha avuto molte vite, molte morti e altrettanti nuovi inizi.
Hansel, Gretel e la Strega Cannibale è il loro nuovo lavoro, ancora più profondo e ricercato del precedente Viridanse del 2015, che aveva segnato il ritorno alla produzione di musica inedita del gruppo, dopo l’antologia nel 2012 che era stato il meccanismo che aveva fatto rinascere qualcosa per la mutazione del gruppo. Infatti i Viridanse nacquero ad Alessandria nel 1983, e subito stupirono per la loro dark wave di ottima fattura, tanto che saranno sempre ricordati per l’essere stato un gruppo seminale e molto importante in quella scena e non solo. In due anni, dal 1983 al 1985, pubblicarono due ottimi album, Benvenuto Cellini e Mediterranea, ma i Viridanse di oggi sono altra cosa rispetto a quei suoni, essi ricercano una qualcosa nella musica ma soprattutto nei testi, con tentativi di capire e descrivere dall’interno la parabola umana. Il suono, molto cambiato, è un post psych metal, strutturato molto bene e di grande effetto. Molto importante nel loro suono è anche la parte prog, sicuramente più sbilanciata verso il metal, ma comunque legata a quell’immenso momento che è stato il prog italiano, forse il punto più alto nella musica della nostra penisola. La musica in Hansel, Gretel e La Strega Cannibale è davvero magnifica ed immaginifica, all’altezza dei testi particolari ed iniziatici. I Viridanse sono un gruppo che vuole far nascere qualcosa nella testa dell’ascoltatore, facendogli compiere un viaggio di iniziazione, un sentire le difficoltà come in un labirinto, e attraverso la sua musica e i testi riuscire a liberare la forza del vero io/dio che è dentro di noi. Mille sfaccettature, angoli, piazze e sentieri diversi, fatti di potenza, ora di gusto barocco, ora di inseguimenti tra note evocative di un nostro antico gusto. Il disco è stupefacente, con molti stili fusi nella ricerca e nella psichedelia più totale e slegata dal significato classico che ha. La voce di Gianluca Piscitello è quella di uno psicopompo che ci guida nel culto misterico, mentre il resto del gruppo è eccellente. Hansel, Gretel e la Strega Cannibale è un disco di umane vicende raccontate per simboli e con un tappeto musicale veramente progressivo, nel senso di continua progressione, per poter uscire dal labirinto.
Tracklist
1 Hansel, Gretel E La Strega Cannibale
2 Arkham
3 Alle Montagne Della Follia
4 Scomunica
5 Aria
6 Il Grande Freddo
7 Madre Terra
Un passo indietro che non deve equivalere ad una bocciatura per gli Apneica, i quali possono ripartire da qui scegliendo in maniera più decisa su quale delle due sponde approdare, perché, come già detto, qui di talento da spendere ce n’è in abbondanza e si tratta solo di ottimizzarlo al meglio.
Aspettavo con una certa curiosità il secondo passo su lunga distanza dei sardi Apneica, band che tre anni fa mi aveva colpito non poco con l’ep Pulsazioni … Conversione, un lavoro nel quale confluivano in maniera naturale il death doom ed il post metal.
Fin dal primo ascolto appare piuttosto evidente lo spostamento deciso verso la seconda delle due componenti, lasciando purtroppo un senso di incompiutezza a chi, come me, predilige invece sonorità più aspre e drammatiche piuttosto che il liquido e languido fluire per i quale ha optato il comunque bravo Angelo Seghene.
Già perché, nonostante tutto, il talento del musicista di Sorso continua ad essere sempre ben tangibile anche se appiattito oggi su soluzioni che, su una durata vicina all’ora, alla lunga si rivelano se non proprio tediose sicuramente interlocutorie, nell’attesa spesso vana che il pathos conferito dal death doom prenda prima o poi il sopravvento.
Una voce pulita, che non riesce ad esser ficcante come il growl, declama testi sempre originali ed interessanti, con il loro constante riferimento all’acqua quale elemento fondamentale per la vita umana ma anche come metafora dell’esistenza: è così che Vulnerabile Risalita vive di alti e bassi, con sprazzi di ottima musica alternati a cali di tensione che corrispondono, per lo più, ai passaggi maggiormente rarefatti.
Ma non si tratta solo della mia predilezione per uno stile musicale rispetto all’altro a lasciarmi perplesso: infatti, anche brani dalla struttura ben più robusta, come per esempio la conclusiva In Risalita, faticano a prendere quota ed assumere una fisionomia melodica ben definita, e la sensazione è che la quantità di spunti brillanti esibita nell’ep sia rimasta più o meno la stessa, perdendo in efficacia nel suo essere diluita sulla lunga distanza.
Peccato, anche perché la parte finale dell’opener Sul Fondo e le successive Acqua Su Acqua e Inserimento Dati Vitali paiono avviare sui giusti binari un lavoro che, invece, si snoda sino alla sua conclusione senza nessun episodio deprecabile ma neppure provocando particolari sussulti, salvo con una più incisiva e psichedelica Sognando Nuove Colonie.
Un passo indietro che non deve equivalere ad una bocciatura per gli Apneica, i quali possono ripartire da qui scegliendo in maniera più decisa su quale delle due sponde approdare, perché, come già detto, qui di talento da spendere ce n’è in abbondanza e si tratta solo di ottimizzarlo al meglio.
Tracklist:
1. Sul fondo (angoli remoti)
2. Acqua su acqua
3. Inserimento dati vitali
4. Programmazione sentimenti
5. Elemento
6. Modalità percettiva
7. Sognando nuove colonie
8. In risalita
Line-up:
Alessandro Seghene – chitarra
Alice Doro – chitarra
Ignazio Simula – voce
Francesco Pintore – basso
Luigi Cabras – batteria
Si sogna grazie ad una musica che regala onde sonore che ci colpiscono nel profondo: si dovrebbero chiudere gli occhi e lasciarsi andare, la meta è lontana ma con i Distant Landscape si può raggiungere lo spazio profondo.
Quando si hanno grandi idee e visioni musicali non è mai facile metterle in musica, e soprattutto non è semplice risvegliare qualcosa nell’ascoltatore, dare quella sensazione particolare.
I Distant Landscape ci riescono benissimo, con un disco maestoso, ma intimo e confortevole al contempo. Il miglior post rock o post metal qual dir si voglia può essere un posto molto bello dove rifugiarsi la riparo dalla tempesta che c’è là fuori, e i Distant Landscape riescono a portarci in una zona nostra, dove possiamo respirare e sognare mentre il diaframma si alza e si abbassa. Le atmosfere del disco regalano momenti di vera magia, di sospensione dei pensieri una bolla di assoluto piacere. I romani riescono a fare ciò con un post rock suonato in maniera divina, con cura e composizioni che paiono semplici solo grazie alla bravura del gruppo che le rende tali. Distant Landscape è nato come progetto solista di Marco Spiridigliozzi, del gruppo doom gothic Raving Season, ma poi non rimane più solo perché riesce a coinvolgere prima il batterista Andrea Biondi, e poi entreranno nel gruppo Fabio Crognale al basso e Alessio Rossetti alla chitarra. E tutto ciò doveva succedere ascoltando questo disco, e ciliegina sulla torta arriva anche Judith alle tastiere e alla voce, già compagna di Marco nei Raving Season. I due si sono portati dietro un certo gusto gotico per la composizione, ma qui il barocco è una piccola parte di un tutto molto più ampio. Si sogna grazie ad una musica che regala onde sonore che ci colpiscono nel profondo: si dovrebbero chiudere gli occhi e lasciarsi andare, la meta è lontana ma con i Distant Landscape si può raggiungere lo spazio profondo. Ottimo disco, e ci sono ancora grossi margini di miglioramento: il futuro brilla laggiù
Tracklist
01. Same Mistake
02. Cage Inside Us
03. First Insight
04. The Desire
05. The Change
06. The Love Of A Mother For Her Sons
07. Distant Landscape
Unceasing Growth offre cinque brani di prog metal strumentale, con diverse pulsioni che si spingono fino al post metal e al djent: nulla di trascendentale o di inedito, se non la buona esecuzione di una materia abbastanza nota ai più e per la quale la decisione di rinunciare alle parti cantate rischia di rivelarsi penalizzante,
Mente ascolto questo ep Unceasing Growthdella one man band ucraina Sawsoer, scopro che sempre nel mese di febbraio è uscito anche allo stesso nome un full length intitolato Astrocarcas.
Francamente non ho idea di quale possa essere l’effettiva sequenza temporale dei due lavori, e quindi se l’una sia magari una raccolta di materiale più datato e riassemblato in una sola uscita e l’altro sia fatto di materiale di produzione recente, o viceversa, fatto sta che questo ep (che poi durerebbe quattro minuti in meno dell’altro che viene catalogato come full length, mistero …) dovrebbe essere sufficientemente esaustivo ai fini di definire lo stile musicale che vede coinvolto Sergiy Nesterenko. Unceasing Growth offre quindi cinque brani di prog metal strumentale, con diverse pulsioni che si spingono fino al post metal e al djent: nulla di trascendentale o di inedito, se non la buona esecuzione di una materia abbastanza nota ai più e per la quale la decisione di rinunciare alle parti cantate rischia di rivelarsi penalizzante, trattandosi di un genere discretamente inflazionato, per cui senza un elemento peculiare come la voce viene meno un aspetto determinante per catturare l’attenzione dell’ascoltatore.
Il buon Sergiy se la cava bene con tutti gli strumenti e sicuramente questa soluzione, se adottata in un genere per sua natura più dinamico rispetto ad altri, produce risultati meno tediosi, consentendo a chiunque gradisca ascoltare un sound abbastanza vario ed esibito con buona tecnica di arrivare alla fine dell’ep senza troppa fatica, salvo poi difficilmente ritornarvi optando per qualcosa di differente.
L’iniziale Let the shining infinity unite us and turning to dust è una traccia sicuramente efficace, dotata di buoni spunti, anche melodici, mentre il resto della tracklist si mantiene su un livello simile, anche se forse leggermente meno immediato a livello di fruibilità; per chi apprezza il progmetal strumentale Sawsoer potrebbe rivelarsi un nome da tenere perlomeno monitorato, in caso contrario meglio dirottare le proprie attenzioni su qualcosa d’altro.
Tracklist:
1.Let the shining infinity unite us and turning to dust
2.Mother of recycling
3.I saw million glass faces
4.Your light die here
5.Unceasing Growth
Il tutto avviene senza che sia tralasciato alcun crisma, dall’aspetto esecutivo alla produzione, ma l’assenza della voce ha il difetto di uniformare questa prova a quelle di tutte le altre band cimentatesi in precedenza con analoghe modalità.
Mi devo ripetere? Temo di si per cui cercherò di farlo in maniera sintetica.
I Mistica sono un duo catalano dedito ad uno stoner doom strumentale e dai forti influssi post metal, ed Embrio Ine è la prima testimonianza discografica.
Il tutto avviene senza che sia tralasciato alcun crisma, dall’aspetto esecutivo alla produzione, ma l’assenza della voce ha il difetto di uniformare questa prova a quelle di tutte le altre band cimentatesi in precedenza con analoghe modalità.
Non solo, a tratti si fatica anche a distinguere un brano dall’altro, ma non a causa di una deprecabile ripetitività, bensì per la mancanza di un elemento peculiare come le parti cantate che rende assolutamente normale e quasi trascurabile un prodotto di per sé potenzialmente gradevole.
Allora, come preannunciato, ribadisco il concetto già espresso più volte: questo schema compositivo può aver dato soddisfazione a diverse band ma di trattava comunque di realtà in possesso di doti ben al di sopra della media (e in tempi in cui l’opzione non era ancora inflazionata): senza queste caratteristiche il destino di album come questi è un ascolto che non annoia e non delude più di tanto, ma che destina ugualmente all’oblio i suoi autori.
Non me ne vogliano questi due bravi musicisti di Barcellona, dotati di una passione genuina ed inattaccabile per un genere che certo non rende ricco chi lo suona: il loro Embrio I troverà senz’altro estimatori in chi predilige farsi fagocitare dalle trame ossessive e lisergiche delle maggiori band focalizzate solo sull’aspetto strumentale del genere, che a mio avviso, però, risultano molto più efficaci dal vivo in virtù della valanga di watt scaricabili sull’audience, e non dubito che ciò possa valere anche per i Mistica.
Tracklist:
01.Verge Negra
02.Pandemonium
03.Vellut de Taut
04.Sincopada Magia
05.Pas de Voltor
L’opera omonima dei Deriva è una bella sorpresa e costituisce una forma che potrebbe far convergere consensi da parte di appassionati appartenenti a frange musicali differenti.
Una certa idiosincrasia che mi trovo ad esprimere sovente, nei confronti delle opere interamente strumentali, non va vista ovviamente come un atteggiamento assunto per partito preso, anche perché il tutto può essere riveduto in base al genere ed allo stile offerto.
Infatti, se continuo a ritenere abbastanza stucchevole questa soluzione in un genere più estremo come lo sludge/stoner, dove il rischio di ripetitività è elevatissimo, lo stesso non si può affermare per il prog metal, specialmente se le band che lo propongono lo fanno con la necessaria inventiva ed abilità tecnica.
E’ questo il caso degli spagnoli Deriva, con i quali mi scuso per aver recuperato il loro promo diversi mesi dopo l’invio, sepolto dalle montagne di materiale che vengono riversate quotidianamente su MetalEyes, con tutte le relative ed oggettive difficoltà nel farvi fronte adeguatamente.
Questo primo parto dei musicisti madrileni, tutt’altro che di primo pelo come si può tranquillamente evincere dalla disinvoltura con la quale si disimpegnano tra partiture piuttosto complesse, trova una sua ragion d’essere proprio nella varietà stilistica che porta i nostri, partendo dal una base prog metal, a sconfinare sovente nel post metal/post rock, mantenendo sempre in primo piano un gusto melodico mai banale ed evitando per quanto possibile di cadere nel tecnicismo fine a sé stesso.
Ecco spiegato, quindi, perché questo lavoro scorre via con una certa fluidità, tra ritmi sincopati, brusche accelerazioni, qualche accenno etnico (nella bellissima Substantia Negra) ed una scrittura sempre piuttosto controllata e mai ridondante.
L’opera omonima dei Deriva è una bella sorpresa e costituisce una forma che potrebbe far convergere consensi da parte di appassionati appartenenti a frange musicali differenti.
Il gruppo torinese riesce ad avere un genere proprio senza cadere in cliché, passa da cose ai Massimo Volume, a momenti di post metal per poi andare nei pressi della musica orientale, per un’esperienza totalizzante.
Esistono molti mondi diversi, piccoli e grandi universi da esplorare, armati di curiosità e del senso della nostra incompiuta finitezza. Questo potrebbe essere una spiegazione dell’esperienza che potete fare ascoltando Pandora, il nuovo lavoro dei Kynesis, un combo torinese molto interessante.
Il disco è incentrato sul mito di Pandora, e attraverso un post metal convincente ed oscuro tratta delle umane vicende. I Kynesis con il precedente Kali Yuga avevano già messo in chiaro di non essere un gruppo comune e Pandora è il grado successivo della loro evoluzione, che è davvero notevole. Il disco vive di sfaccettature, di momenti di relativa calma, di inquietudine messa in musica, e sopratutto di un grande disegno che è portato pienamente a compimento. La loro musica nervosa e senza paracadute ci porta davanti al compimento delle nostre sofferenze e soprattutto della ineluttabilità del nostro destino. Pandora è un paradigma, un archetipo che si rinnova ogni giorno nelle nostre vite, e i Kynesis mettono in musica cose senza tempo. E proprio la musica qui è splendida, ha vita propria, è molto varia e piena di ricchezze e di momenti davvero alti. Il gruppo torinese riesce ad avere un genere proprio senza cadere in cliché, passa da cose ai Massimo Volume a momenti di post metal per poi andare nei pressi della musica orientale, per un’esperienza totalizzante, che trae grane giovamento dalla scelta di cantare in italiano. Pandora è un disco che va decisamente oltre la musica per approdare a lidi moto lontani, confermando la vitalità di un underground pesante italiano che si fa sempre più interessante. Da ascoltare rigorosamente con le cuffie, isolandosi per poter gustare meglio questo capolavoro.
Proprio nell’ultimo brano i Nocte Obducta riescono con successo a riavvolgere il nastro creativo, tornando ad impartire lezioni di avanguardismo estremo, ed è da lì che si spera possano ripartire con rinnovato vigore nel loro viaggio che sembra ancora ben lungi dall’interrompersi.
Quando, nell’ottobre dello scorso anno mi ritrovai a parlare di Mogontiacum, espressi una certa perplessità sulle sembianze di black avanguardistico alla quale erano approdati infine i Nocte Obducta, in quanto la forma alla lunga finiva per prevalere sulla sostanza.
Nemmeno un anno dopo, la band di Mainz ritorna con l’undicesimo full length di una brillante carriera iniziata agli albori del nuovo millennio, ed appare subito evidente una decisa sterzata sonora verso lo stile che fece la fortuna dei nostri nello scorso decennio.
Il tessuto black metal è sempre inquieto e cangiante, ed ovviamente i Nocte Obducta in questa catalogazione continuano a starci un po’ stretti, ma Totholz dimostra rispetto alle uscite più recenti una relativa linearità che, quantomeno, impedisce l’eccessiva dispersione delle molte buone intuizioni delle quali i musicisti tedeschi si rendono artefici.
Alcuni elementi, come la durata più breve rispetto alle abitudini recenti (quaranta minuti contro l’ora abbondante di Umbriel e Mogontiacum) e la distanza ridotta tra un’uscita e l’altra, potrebbero anche far pensare all’immissione in Totholz di musica che, in prima battuta, era rimasto fuori dal precedente album, magari integrata da qualche nuova composizione, ma anche se così fosse un materiale talmente valido nel suo insieme non può essere certo definito di scarto; di sicuro, però, c’è un ritorno abbastanza deciso verso una forma più canonica che definire lineare, quando si parla di gruppi come i Nocte Obducta, è forse eccessivo, ma che comunque non obbliga l’ascoltatore a percorrere strade troppo tortuose per goderne appieno l’essenza.
Tutto questo non significa che Totholz rappresenti la definitiva (ri)quadratura del cerchio, perché alla fine il lavoro vive su due episodi decisamente brillanti ed a di sopra della media, come Die Kirche der Wachenden Kinder e Wiedergaenger Blues, a fronte di una manciata di altri brani non altrettanto incisivi pur se disseminati di qualche buono spunto e marchiati da una cifra stilistica che resta sempre piuttosto personale.
Mentre Die Kirche der Wachenden Kinder rappresenta, in qualche modo, la quintessenza del modo di intendere il black da parte dei Nocte Obducta, ovvero con ritmi piuttosto pacati ad assecondare atmosfere e melodie che si estrinsecano in un bel crescendo qualitativo, la conclusiva Wiedergaenger Blues offre oltre un quarto d’ora di musica che va toccare anche l’ambient, fatta di solenni aperture tastieristiche che ben si amalgamano con qualche asprezza senza che, appunto, il tutto appaia mai farraginoso o forzato.
Discrete sono le più brevi Liebster e la title track, ma in definitiva è proprio nell’ultimo brano che i Nocte Obducta riescono con successo a riavvolgere il nastro creativo, tornando ad impartire lezioni di avanguardismo estremo, ed è da lì che si spera possano ripartire con rinnovato vigore nel loro viaggio che sembra ancora ben lungi dall’interrompersi.
Tracklist:
01. Innsmouth Hotel
02. Die Kirche der wachenden Kinder
03. Trollgott
04. Totholz
05. Ein stählernes Liedt
06. Liebster
07. Wiedergaenger Blues
In questo delirio di uscite discografiche, in questo orgia dionisiaca e non, si rischia di perdere cose notevoli, ma i Crackhouse da Tours si fanno notare con la loro musica.
Dentro questi due pezzi che compongono il loro debutto, i francesi riescono a condensare molte cose, rielaborano stili conosciuti per arrivare ad un risultato personale. Nelle due tracce si alternano vari momenti, il tutto con un disegno ben preciso che segue le teorie alchemiche, perché tutto ciò che ci circonda financo noi stessi, siamo processi alchemici. Swamp Widows dopo tre minuti esplode in un potentissimo sludge stoner che non lascia scampo, con chitarre distorte e sezione ritmica davvero possente. Quello che colpisce del gruppo francese è la grande potenza, si sente proprio fisicamente l’energia del loro suono, la botta del suono che ti colpisce. I Crackhouse hanno la forza del grande gruppo, la musica circola libera e il groove è irresistibile. L’ascoltatore che cerca qualcosa in un gruppo stoner sludge è in perenne attesa di un disco così, però nel mare magnum della musica pesante il disco, come detto sopra, rischia di perdersi. E invece non sarà così perché la musica di qualità esce sempre, fosse anche in una nicchia ristretta, anche perché questa musica non può essere per tutti. Due pezzi pressoché perfetti, che portano alla ribalta un gruppo dai tanti punti di forza, inclusa la lunga durata dei pezzi, che in questo caso è la benvenuta poiché in tal modo le strutture si possono sviluppare al loro meglio. Notevolissima la copertina di Manon Cornieux.
Quello dei Ghost Bath è un approccio interessante e personale alla materia, ma il senso di leggerezza che si avverte in più di un passaggio potrebbe spiazzare gli estimatori della prima ora.
I Ghost Bath sono una band che, per diverso tempo, è stata avvolta da un alone di mistero riferito alla sua provenienza ed all’identità dei singoli componenti.
Tutto questo sicuramente non è risultato ostativo all’acquisizione di una certa fama a livello underground, grazie ad una forma di post black/depressive dai tratti marcatamente melodici e caratterizzato dall’assenza di lyrics vere e proprie, rimpiazzate da uno screaming di matrice DSBM volto a rimarcare essenzialmente la natura drammatica del sound.
Questo terzo lavoro su lunga distanza porta con sé una svolta, magari rivedibile sotto certi aspetti, ma che senza’altro costituisce un interessante elemento di novità, ovvero l’intento dichiarato di voler esplorare il lato positivo della realtà e di stati d’animo che, normalmente, vengono sviscerati nei loro aspetti più cupi.
In tal senso non può che risentirne anche il sound, che fin dall’inizio mostra aperture melodiche che si avvicinano (non paia una bestemmia) a certi afflati epici dei migliori Virgin Steele (Seraphic, Thrones) ovviamente inseriti all’interno di ritmiche black e sovrastati dalle urla incessanti del vocalist: questo aspetto causa una notevole dicotomia all’interno del disco, laddove melodie piuttosto solari, solo venate da una punta di malinconia, vengono costantemente screziate da tali interventi che alla fine costituiscono l’unico elemento realmente disturbante.
I Ghost Bath dimostrano una capacità non proprio comune di lasciar sfogare il proprio sound in aperture ariose e di sicuro impatto sconfinanti, talvolta, nello shoegaze (Ethereal, Celestial) e nel complesso il lavoro mostra una fruibilità che, in qualche modo, va ad attenuare gli effetti collaterali causati da una durata che supera abbondantemente l’ora; quello che limita Starmouner, impedendogli di toccare i picchi emotivi delle precedenti opere, è proprio questo suo essere relativamente solare, il che non si sposa ma, piuttosto, si scontra con le residue attitudini estreme.
Così, per quanto gradevole e ben costruito, con tali premesse compositive l’album non può ovviamente evocare il male di vivere che era invece ben evidenziato nei precedenti full lenght Funeral e Moonloover, facendo apparire talvolta forzati tutti gli innesti di matrice black: quello dei Ghost Bath resta comunque un approccio interessante e senz’altro personale alla materia, anche se non so quanto il senso di leggerezza che si avverte in più di un passaggio possa rappresentare esattamente ciò che vorrebbero ascoltare gli estimatori della prima ora.
In 3: Release Yourself Through Desperate Rituals viene edificato un sound disturbato e cangiante, capace di passare in un nonnulla da sfuriate death/black a una tossica psichedelia dagli aromi settantiani.
I Viscera /// li avevamo incontrati qualche anno fa in occasione dello split con gli Abaton, un’uscita di buon livello ma non del tutto indicativa, vista la sua particolare natura che vedeva le due band rimescolare le rispettive line-up in ciascuno dei due brani offerti.
Questo full length, dunque, squarcia in maniera decisa il velo sul gruppo cremonese mettendone in mostra le reali e dirompenti potenzialità: infatti, su una base virulenta ed estrema, in 3: Release Yourself Through Desperate Rituals viene edificato un sound disturbato e cangiante, capace di passare in un nonnulla da sfuriate death/black a una tossica psichedelia dagli aromi settantiani, come ampiamente dimostrato fin dall’opener Uber-Massive Melancholia, oppure lanciarsi una cavalcata entusiasmante come Martyrdom For The Finest People, brano che spero di non ascoltare mai dal vivo in quanto temo seriamente che il mio usurato rachide cervicale non ne reggerebbe l’urto.
Le tracce sono tutte collegate tra loro, creando così un coeso monolite sonoro che, in qualche modo, viene separato in due tronconi dal breve strumentale posizionato al centro della tracklist: una sorta di spartiacque virtuale, visto che con In The Cut e Anxiety Prevails si ritorna parzialmente dove ci si era lasciati, ovvero ad una forma di metal contaminata da pulsioni di diversa natura, ma sempre piuttosto diretta nell’esibire le proprie ruvidezze, anche se in questa seconda parte maggiormente levigate.
L’ascolto dell’album spiega a posteriori il campeggiare in copertina del volto di Jim Jones con il suo carico di inquietante carisma: i Viscera /// non sono i primi e non saranno certo gli ultimi a sfruttare nel loro immaginario la figura di uno dei più letali affabulatori dell’era moderna, anche se, rispetto a chi ha scelto di parlare esplicitamente della tragedia della Guayana, la band lombarda resta più defilata sia a livello lirico che musicale, prediligendo la forza dell’impatto alla pura evocazione dell’orrore.
Alla fine, proprio come nel caso del famigerato predicatore, è proprio un senso di instabilità, frutto di una lucida follia, l’anima predominante ed il punto di forza del modus operandi dei Viscera ///, i quali con questo suggello alla loro trilogia si svincolano da qualsiasi possibile manierismo “post”, offrendo tre quarti d’ora abbondanti di musica intensa, mai banale e doverosamente da intercettare.
Tracklist:
1. Uber-Massive Melancholia
2. Martyrdom For The Finest People
3. Titan (Or The Day We Called It Quits)
4. In The Cut
5. Anxiety Prevails
Line-up:
Mike B. vox, guitars
G. C. bass
Cardinal MDS drums
Additional personnel
Angelo Bignamini (The Great Saunites) – synths and soundscapes
M. (Morkobot, Zolle, ex-Viscera///) – additional guitars on track 01
Marco Serrato Gallardo (Orthodox) – additional vocals on track 01
Tytus Kalicki (Fleshworld, Unquiet Records) – additional vocals on track 02
Kevin K. (Abysmal Darkening, Verbum Verus) – additional vocals on track 05
I dischi precedenti erano buoni, Carmentis rappresenta però una decisa svolta verso l’alto, verso un disegno sia musicale che poetico molto elevato, confermando il post metal come musica di scoperta e di navigazione dell’occulto.
Il sestetto ravennate Postvorta è uno dei migliori gruppi in ambito post metal che abbiamo in Italia.
In giro dal 2009, i Postvorta hanno regalato autentiche perle di post metal, dal debutto Beckoning Light We Will Set Ourselves On Fire in poi si sono sempre evoluti aggiungendo vari tasselli al loro suono. Ora toccano il punto più alto con questo Carmentis, un disco che segnerà la scena post metal italiana e non solo. Il sound si mescola a sludge e noise, non viene inventato nulla, ma il tutto è reso molto bene e con grande personalità. Il disco è il secondo, dopo Aegeria, di una trilogia sulla nascita come era intesa nella mitologia romana. Carmenta è una delle dee Camene nella religione romana primitiva, e non è stata adottata nelle religioni successive: essa era la protettrice della gravidanza e della nascita e patrona delle levatrici, compito non certo facile in quell’epoca. I Postvorta sono sempre stati cantori dei misteri dell’inizio, della nostra connessione all’universo e del nostro essere un piccolo universo noi stessi. La loro musica è oscura, un ottimo post metal molto carico, una specie di pesante incrocio tra Neurosis e Isis più duri, ma questo è giusto per dare delle coordinate. I dischi precedenti erano buoni, Carmentis rappresenta però una decisa svolta verso l’alto, verso un disegno sia musicale che poetico molto elevato, confermando il post metal come musica di scoperta e di navigazione dell’occulto. Un disco completo e maturo, da sviscerare con svariati ascolti per svelare
i diversi livelli di cui è composto. Non è tutta oscurità ciò che è tenebra, ma bisogna addentrarsi nella notte profonda per scoprire qualcosa, e questo disco è una scoperta continua.
L’album presenta una serie di tracce dal notevole spessore, oscillanti tra le varie anime rinvenibili nel mare magnum del post metal, mettendo in evidenza un gruppo di musicisti ispirati e dalle idee piuttosto chiare sul da farsi.
I Montezuma appartengono all’ormai piuttosto diffuso novero delle band che si cimentano con il post metal strumentale.
Rispetto alle abitudini della Drown Within Records, l’etichetta italiana specializzata in sonorità “post” che licenzia l’album assieme a Vollmer Industries, Icore Produzioni e I Dischi Dell’Apocalisse, il sound proposto dal gruppo pesarese è molto più liquido e melodico, rinunciando per lo più alle asperità esibite nei lavori in uscita sotto tale egida. Sutura si va ad inserire così in un filone nel quale ci siamo imbattuti di recente con il lavoro dei The Chasing Monster, al quale può essere accomunato, oltre che per la sua natura strumentale, anche per il ricorso agli spoken word.
Così come nel caso della band laziale, la parte musicale gode di grande efficacia, grazie all’ottima esecuzione, valorizzata da un’altrettanto buona produzione, e alla sua alternanza tra passaggi più intimisti e brusche, ma mai troppo estreme, accelerazioni ritmiche, ma l’opera dei Montezuma si colloca un gradino sotto rispetto a quel lavoro in virtù, soprattutto, di una minore efficacia delle parti vocali rinvenibili nel brano d’apertura Limiti ed in quello di chiusura Calypso.
Infatti, a fronte di testi molto interessanti e decisamente non banali, troviamo nel primo caso una recitazione troppo impersonale da parte della voce femminile, mentre nel secondo, al contrario, l’eccessiva enfasi di quella maschile finisce spesso per sovrastare la parte musicale in quello che è, a mio avviso, il brano più intenso e coinvolgente del lavoro.
Al netto di tutto questo, l’album presenta una serie di tracce dal notevole spessore, oscillanti tra le varie anime rinvenibili nel mare magnum del post metal, mettendo in evidenza un gruppo di musicisti ispirati e dalle idee piuttosto chiare sul da farsi. Sutura è, quindi, un lavoro vivamente consigliato a chi predilige queste sonorità e che segna, peraltro, un ritorno gradito e tutt’altro che trascurabile dopo sei anni di silenzio discografico da parte di una band in possesso di un potenziale rimasto finora inespresso, soprattutto dal punto di vista quantitativo; infatti, due album pubblicati in dodici anni di attività rischiano di rivelarsi insufficienti ai Montezuma per riuscire a fidelizzare gli ascoltatori, specie in una scena quanto mai affollata e dal livello complessivo medio alto: Sutura, in tal senso, potrebbe rappresentare l’avvio di una possibile inversione di tendenza.
Tracklist
1. Limiti
2. Mangrovia
3. Ex-Press
4. Altrove
5. Insulo De la Rozoj
6 . Oregon Tashkent
7. Calypso
Line-up:
Lorenzo Guccini – Chitarra
Carlo Uguccioni – Chitarra
Alessandro Albergamo – Basso, Synth
Lorenzo Tomassi – Synth, Elettronica
Giacomo Del Monte – Batteria, Percussioni
Un ottimo ibrido tra il progressive estremo dal taglio death/prog e quello moderno ed alternativo dei gruppi statunitensi esplosi all’alba del nuovo millennio.
E’ indubbio che il progressive metal moderno e dalle influenze alternative abbia dato nuova linfa ad una scena conservatrice come quella progressiva.
Anche se lontani dalla tradizione settantiana, sono sempre di più gli amanti dei suoni progressivi ad avvicinarsi a questi nuovi suoni, magari meno cervellotici ed intricati ma molto più atmosferici ed emozionali e, in molti casi, estremi come quelli proposti da questi bravissimi musicisti provenienti da Torino: cinque ragazzi che, sotto il monicker Kill Your Karma, manifestano la loro voglia di musica fuori dagli schemi con What Hides Behind The Sun, ep di debutto licenziato dalla High Voltage Records.
Attivi dal 2010, arrivano dopo un naturale periodo di assestamento all’esordio con questo interessante lavoro composto da cinque brani che spaziano tra atmosfere moderne, alternative e post metal, non facendo mancare una parte estrema che fa da traino al sound proposto, intenso, rabbioso, drammatico ed oscuro.
In What Hides Behind The Sun, oltre ad un songwriting decisamente pronto per far breccia tra gli amanti del genere, è indubbiamente la prestazione della cantante Stefania Durante ad essere meritevole di sottolineatura, dimostrandosi graffiante e penetrante, quando si trasforma in un stregonesco e maligno growl.
Il resto lo fanno i suoi compagni e la musica che rimane ad altissima gradazione emotiva per tutta la durata di un’opera metallica, progressiva (ottimi i cambi di tempo ed atmosfere) e piacevolmente alternativa.
Un ottimo ibrido tra il progressive estremo dal taglio death/prog e quello moderno ed alternativo dei gruppi statunitensi esplosi all’alba del nuovo millennio: si potrebbe sintetizzare così la proposta dei Kill Your Karma, anche se la personalità è tanta e brani come Ruins,Through The Sand Of Time e la title track parlano di una band con un potenziale decisamente alto e tutto da scoprire.
TRACKLIST
1.Ruins
2.Through the sands of time
3.Moon
4.Melting universes
5.What hides behind the sun
LINE-UP
Diego Maglioni – Guitar
Claudio Canicattì – bass
Stefania Durante – Vocals
Gabriel Trogolo – Drums
Lorenzo Polia – Guitar
La ricchezza di questo disco risiede nella varietà di sensazioni che riesce a dare, rimanendo sempre ben ancorato alla pesantezza e alla possente lentezza del doom.
Tenebrosi echi di Danzig, Candlemass in un satanico amplesso di sludge e doom.
Prendete New Orleans e impiantatela a Madrid, ed ecco che potete iniziare a strisciare lentamente per tombe ed anfratti.
Il suono dei MotherSlot è un potentissimo doom con inserti sludge, voce in stile doom classico tipo Candlemass, e in tutto ciò spunta qui e là il fantasma del nostro blues bianco, ovvero il grunge. Quest’ultimo non è forse sopravvissuto come genere tout court, ma è uno degli abitanti più importanti della periferia musicale di molti gruppi. Come il blues per la musica nera e non solo, il grunge è un substrato molto potente, che è entrato nell’anima della musica pesante, e non se ne può fare a meno. In questo disco è un elemento importante ma non certo unico, anche perché il piatto è molto ricco. Oltre all’incedere doom il gruppo sa creare benissimo atmosfere molto particolari, ora claustrofobiche, ora con grande melodia, come in The Firemill per esempio. Alternare momenti alla Crowbar, con i quali hanno suonato recentemente, e altri in pieno stile Candlemass non è da tutti ed in più i MotherSlot fanno molto altro. Un disco che va ascoltato con cura, perché propone un sacco di cose che ad un ascolto superficiale potrebbero passare inascoltate. La ricchezza di questo disco risiede nella varietà di sensazioni che riesce a dare, rimanendo sempre ben ancorato alla pesantezza e alla possente lentezza del doom.
TRACKLIST
1. Shadow Witch
2. Once Human
3. The Firemill
4. Doomsday Cyborg
5. Wish for Dawn
6. Moon Omen
Prodotto benissimo, la Partition potrà sicuramente trovare estimatori, magari negli amanti dei suoni moderni e cool, ma a mio modesto parere anche nel genere ci si può sicuramente rivolgere altrove.
Come scrivo da molto tempo, nel post extreme metal moderno il filo che divide un bel disco dalla solita proposta senza nerbo, creata per solleticare i giovincelli dai gusti intellettualoidi, è sottilissimo.
Le band che, al metalcore, aggiungono intricate parti che vorrebbero essere progressive, ma risultano solo cervellotiche note una sopra l’altra, non sono certo poche, così come l’uso ormai diventato per la maggior parte dei casi demenziale, della doppia voce (indovinate un po’, scream estremo e clean adolescenziale).
Non si discosta da quanto detto neppure il secondo album dei transalpini Uneven Structure, sestetto moderno che amalgama nel proprio sound tutti i difetti appena menzionati creandoci intorno un lavoro della durata di un’ora, nel corso della quale non inquadra mai la porta e come un centravanti a cui manca completamente il senso del goal, arriva alla fine senza aver mai segnato, in questo caso senza una canzone che vada al di là dei cliché del genere. La Partition, dunque, risulta un album che nulla aggiunge al genere che più di tutti ha dato soddisfazioni negli ultimi anni, ma che da un po’ di tempo non riesce più (a parte poche eccezioni) a strappare qualche applauso, ancorato alla solita alternanza tra parti violente ed altre post rock: in questo caso i Meshuggah fungono da riferimento alla parte progressiva e violenta di brani come Brazen Tongue e Funambule, mentre le parti ambient e post rock non coinvolgono risultando noiose.
Il difetto più grande di questo album è la freddezza che aleggia per tutta la durata, tenendo imprigionate le emozioni, mentre la musica scivola via facendosi dimenticare in fretta.
Prodotto benissimo, La Partition potrà sicuramente trovare estimatori, magari negli amanti dei suoni moderni e cool, ma a mio modesto parere anche nel genere ci si può sicuramente rivolgere altrove.