Larsen – Tiles Ep

Sedersi, mettersi le cuffie ed ascoltare Tiles è un atto molto bello ed insieme positivo per il vostro cervello, che essendo sempre connesso sarà stanchissimo: questi signori torinesi insieme a Miss Bendez hanno una meravigliosa medicina.

Tornano i torinesi Larsen, uno dei pochi gruppi italiani veramente di avanguardia e di rottura.

Parlare di avanguardia è però in questo caso un po’ vuoto, poiché i Larsen fanno da sempre musica alla loro maniera, senza guardare se siano avanti od indietro. In questi venti anni circa di carriera il gruppo ha fatto ascoltare a chi lo ha voluto una visione della musica profondamente diversa rispetto a quella comune e a quella della massa, ovvero un flusso naturale che coglie e narra la realtà ed oltre. I Larsen sono forse l’unico gruppo italiano che ha saputo trarre ispirazione dalle band del post punk inglese e da una certa concezione di musica minimale americana, per arrivare a proporre una sintesi originale e molto personale che in questo ep si avvale della validissima collaborazione di Annie Bendez, che magari non conoscete di nome ma probabilmente di fama, poiché è stata con i Crass nonché musa del dub e molto altro della On-U Sound. La sua voce è quella di una narrazione fuori dal tempo e dal tempio, di un cercare senza sosta, di un parlare sopra una musica ipnotica e molto fisica ma al contempo eterea e leggera. Tiles è un racconto di viaggi in terre lontane, di impercettibili movimenti della nostra tazzina di caffè, di cose che pensiamo e non ci siamo mai detti. La dolcezza mista a verità e crudezza dei rari momenti di illuminazione che seguono a momenti indolenti o dolorosi, un guardare meglio per vedere oltre. Recentemente è uscito un documentario della televisione nazionale italiana sul cosiddetto indie, l’insopportabile necessità di essere alternativi per fare mainstream, e i Larsen sono una delle cose più lontane da questa tragedia musicale ed umana, sono un gruppo che fa cose molto belle e godibili, soprattutto durature, perché questo ep con Little Annie girerà molto nelle orecchie di chi vuole andare oltre. L’uso dell’elettronica nei Larsen raggiunge vette molto alte, dato che si fonde completamente con altre forme musicali e fuoriesce in maniera del tutto naturale. Sedersi, mettersi le cuffie ed ascoltare Tiles è un atto gradevole ed insieme positivo per il vostro cervello, che essendo sempre connesso sarà stanchissimo: questi signori torinesi insieme a Miss Bendez hanno una meravigliosa medicina.

Tracklist
1. First Song
2. Barroom Philosopher Pt. 1
3. She’s So So
4. Barroom Philosopher Pt. 2

Line-up
Fabrizio Modonese Palumbo – Guitar, electric viola
Little Annie – Vocals
Marco Schiavo – Drums, cymbals, percussions, glockenspiel
Paolo Dellapiana – Keyboards, synths, electronics
Roberto Maria Clemente – Guitar

LARSEN – Facebook

Urali – Ghostology

La musica è variegata, sognante e dura quando serve, un piccolo trattato di come dovrebbe essere la quella cosiddetta alternativa, ovvero una tuffo nel bello che la musica di massa non offre.

Urali è un ambizioso progetto sonoro che mette insieme varie e diverse istanze musicali, all’insegna della qualità, della bellezza sonora e della delicatezza, cose alquanto sconosciute di questi tempi.

Diviene quasi pesante spiegare il tutto, dato che qui davvero la musica è la cosa più importante e il fine di tutto è dare qualcosa all’ascoltatore. Era da tempo che non si ascoltava un disco così improntato a far scorrere la musica, esplorando differenti zone e facendo sprigionare varie emozioni. Il progetto Urali è portato avanti da Ivan Tonelli ed è la prima volta che incide con altri musicisti, infatti si può sentire in maniera molto marcata la sua impronta cantautorale, che nel suo caso è anche una grande dote. Si provano a rappresentare e a vivere diverse emozioni, a galleggiare a testa alta in un mondo che ti vorrebbe tirare già con i suoi sporchi tentacoli, ma da qualche parte la bellezza c’è ancora, questo disco la possiede e la fa vedere. Chiudere gli occhi, lasciarsi andare e poi forse tornare, non è un ordine ma un consiglio gentile. Ghostology è un disco concepito con canzoni che sono brevi racconti messi in musica, ispirandosi alle opere del sommo vate H.P. Lovecraft, dello scrittore di fantascienza Alex Garland e all’immaginario giapponese degli anime e dei manga. Una delle particolarità di questo disco è che la voce narrante è un’intelligenza artificiale liberatasi dal giogo del suo padrone ed amante e che narra ciò che ha vissuto e la traiettoria della razza umana vista da un’angolazione particolare. La musica è variegata, sognante e dura quando serve, un piccolo trattato di come dovrebbe essere la quella cosiddetta alternativa, ovvero una tuffo nel bello che la musica di massa non offre, e quindi un qualcosa di diverso. Tutto ciò è Ghostology e anche di più: un’opera delicata ed intelligente, frutto di una sensibilità musicale superiore che riesce a stupirsi di fronte alle cose più piccole e che rende molto bene anche quelle assai difficili da spiegare. Nel corso di alcuni pezzi ci sono magnifici cambi musicali che rendono il disco un oggetto difficilmente classificabile per quanto riguarda i generi, e questo è un altro punto a suo favore.

Tracklist
1. A Ghost Anthology
2. Memorizu
3. Arborescence
4. One Day, A Thousand Autumns
5. Grave Of The Stars
6. Dwellers
7. The History Of Mankind On The Palm Of My Hand
8. Finale

URALI – Facebook

Crippled Black Phoenix – The Great Escape

Ci sono concatenazioni sonore che sono tipiche del gruppo di Waters, Gilmour e soci, e poi c’è quel tocco in stile Mogwai in libera uscita che è qualcosa di bellissimo.

Quando sei un collettivo che annovera fra i propri membri molti nomi fra il meglio della scena psichedelica mondiale e specialmente quella inglese non è facile fare ottimi dischi e non sbagliarne uno, ma i Crippled Black Phoenix ci riescono anche questa volta.

Tutte le dilatate note di questo ultimo lavoro valgono la pena di essere ascoltate e sofferte, perché qui c’è il fumo che esce dallo specchio rotto delle nostre esistenze. Ogni disco del collettivo britannico ha rappresentato un episodio particolare e a sé stante, nel senso che ogni volta era uno splendido capitolo a parte, un qualcosa di assoluto. Il filo che lega tutti i loro dischi è la qualità, la bravura nel creare un’atmosfera oppiacea e particolarissima, e in The Great Escape ci si può immergere e non ne uscirete come prima. Qui siamo maggiormente nei territori dello slow core, ma con un disegno assai più ampio di quello a cui ci hanno abituato gli altri gruppi. Personalmente, e come tutte le visioni soggettive può essere sbagliata, ho sempre visto i Crippled Black Phoenix come la versione moderna e in certi frangenti migliore dei Pink Floyd, e questo lavoro rafforza ulteriormente la mia convinzione. Ci sono concatenazioni sonore che sono tipiche del gruppo di Waters, Gilmour e soci, e poi c’è quel tocco in stile Mogwai in libera uscita che è qualcosa di bellissimo. Come detto sopra ogni disco è a sé, e qui addirittura ogni canzone vive in uno proprio stato, sempre di grazia ma con sfumature diverse. Il lavoro questa volta è doppio, anche perché ogni canzone è di lunga durata, e questo gruppo riesce a fare brani di nove minuti come il singolo To You I Give ( sentite i primi due minuti della canzone e pensate a chi somigliano…) dei quali non si ha mai abbastanza. Nell’underground questo collettivo ha una grande e solida reputazione ed è più che meritata, ogni album è sempre ottimo e denota un ulteriore avanzamento. Il primo disco è più lento, nel secondo invece ci sono delle cose più veloci, quasi tribali, ma sempre uniche e particolari. I Crippled Balck Phoenix sono uno dei gruppi migliori e più originali della scena underground, da sentire e risentire sia questo disco che tutta la loro produzione.

Tracklist
1 You Brought It Upon Yourselves
2 To You I Give
3 Uncivil War (Pt I)
4 Madman
5 Times, They Are A’Raging
6 Rain Black, Reign Heavy
7 Slow Motion Breakdown
8 Nebulas
9 Las Diabolicas
10 Great Escape (Pt I)
11 Great Escape (Pt II)
12 Hunok Csataja (Bonus)
13 An Uncivil War (Pt. I & II) (Bonus)

Line-up:
Justin Greaves
Daniel Änghede
Mark Furnevall

Ben Wilsker
Tom Greenway
Jonas Stålhammar
Belinda Kordic
Helen Stanley

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Reveers – To Find A Place

La poetica dei Reveers colpisce al cuore e parla attraverso immagini che nascono attraverso la musica, dove si sentono note e sequenze dai molti colori

I Reveers sono un gruppo composto da quattro ragazzi della provincia udinese, formatosi jam dopo jam.

Questo debutto è un dolcissimo disco di rock pop, con aperture post rock, di una maturità e di una consapevolezza straordinarie. Prendete Paul Simon a vent’anni, trasportatelo nella nostra epoca buia, fatelo suonare con dei ragazzi che hanno una grande padronanza degli strumenti e potreste avvicinarvi a cosa fanno i Reveers. Qui regna la calma, siamo in una sala parto dove nasce buona musica e ogni elemento è prezioso: si passa dal post rock a momenti molto floydiani, il tutto con personalità e gusto. Ogni canzone del disco è come un movimento che contiene al suo interno diversi elementi e tutti questi trovano armonia se posti assieme. Le tracce sono quasi tutte di lunga durata, e ciò rende possibile sviluppare un disegno sonoro molto interessante ed avanzato. La poetica dei Reveers colpisce al cuore e parla attraverso immagini che nascono attraverso la musica, dove si sentono note e sequenze dai molti colori, in cui tutto muta. Scorrendo le biografie dei componenti del gruppo si nota che sono musicisti con basi solide e si sente, soprattutto nella composizione e nelle strutture dei pezzi, che appaiono di un altro livello rispetto alle cose che si trovano in giro oggi. Si potrebbe quasi definire To Find A Place il disco più slowcore ascoltato da qualche anno a questa parte, ma in realtà c’è molto di più. Inoltre spuntano anche elementi elettronici trattati con grande sapienza e capacità. Questi ragazzi esordiscono con un grande album, ma se volessero hanno la possibilità di spingersi anche ben oltre: con le capacità ed il gusto esibito nulla è loro precluso.

Tracklist
1. Low to the ground
2. Fortune teller
3. Thesis, antithesis and synthesis
4. Music for a silent film
5. Mosaico
6. Spheres
7. Waves from the sky
8. Blind alley

Line-up
Fabio Tomada
Ismaele Marangone
Elia Amedeo Martina
Giulio Ghirardini

REEVERS – Facebook

King Dude – Sex

In definitiva Sex è un disco di folkore americano altro, ben suonato e composto ancora meglio.

Continua il viaggio nelle molteplicità dell’animo umano di King Dude, il cantautore neofolk e darkwave americano che tanto bene ha fatto in questi ultimi anni. King Dude ha cambiato i confini di un genere di nicchia ma dalle grandi potenzialità come il neoofolk, facendolo sposare alla darkwave e alla new wave.

Il suo cantato è potente, suadente e racconta viaggi nelle malebolge, negli anfratti del nostro io, angoli ciechi che non vediamo nemmeno allo specchio. La sua voce ti entra dentro, e scava alla ricerca di cose che sono dentro di noi e che a volte spingono per uscire. La sua maturazione è costante disco dopo disco, e sta portando ad una musicalità che è unica ed appartiene solo a lui. Il sasso gettato nello stagno del neofolk da King Dude sta portando una ventata di novità nel genere, che stava ristagnando. Sex è una ricerca intorno a tutto ciò che è sesso, ma è soprattutto un’indagine pasoliniana su questo sommovimento del corpo e dell’anima che si chiama sesso. Potrà sembrare una bestialità, ma King Dude mi sembra l’unico che possa raccogliere l’eredità di Johnny Cash, quel mettere in musica in altra maniera i sentimenti umani, con un codice totalmente diverso dagli altri.
Il suo stile è immediatamente riconoscibile ed è un piacere fisico stare ad ascoltare le sue storie. In definitiva Sex è un disco di folkore americano altro, ben suonato e composto ancora meglio.

TRACKLIST
1.Holy Christos
2.Who Taught You How To Love
3.I Wanna Die at 69
4.Our Love Will Carry On
5.Sex Dungeon (USA)
6.Conflict & Climax
7.The Leather One
8.Swedish Boys
9.Prisoners
10.The Girls
11.Shine Your Light

KING DUDE – Facebook