Birdflesh / Slavebreed – Nekroacropolis

Un’uscita che consente di conoscere due realtà piuttosto diverse tra loro, ma accomunate dalla stessa voglia suonare musica estrema.

Buono split di due realtà che fanno dell’assalto grindcore il loro credo: protagonisti questa volta sono gli svedesi Birdflesh ed i greci Slavebreed.

I Birdflesh sono dei veterani della scena estrema, i sei brani a loro disposizione, per quattro minuti totali, riempiono le orecchie di grindcore dalla forte impronta hardcore/punk, i testi pregni di humour nero e gore non fanno altro che rendere il tutto molto sarcastico ed estremamente crudo.
Gli scandinavi ci sanno fare, questo è certo, e d’altronde si parla di una band con una ventina d’anni di carriera alle spalle ed una discografia che, tra quattro full length ed una marea di split ed Ep.
Tra i brani, Ancient In The Forest è quello che più mi ha sorpreso, avvicinandosi al black metal come andamento e struttura del pezzo, molto marziale nel suo incedere e maledettamente inquietante.
I greci Slavebreed sono molto più giovani e maggiormente ancorati al grindcore classico di matrice death.
Nati nel 2004, esordiscono con un demo nel 2007 ed archiviano due album, “Pain Syndicate” del 2008 e “Dethrone The Architect” del 2012.
La band greca, con una sezione ritmica sparata alla velocità della luce, risulta meno originale dei loro dirimpettai svedesi ma oltremodo monolitici e violenti quanto basta e, seguendo le orme delle band storiche del genere (Napalm Death, Terrorizer), convince a più riprese con i suoi tre brani.
Un’uscita che consente di conoscere due realtà piuttosto diverse tra loro, ma accomunate dalla stessa voglia suonare musica estrema.

Tracklist:

Birdflesh:
1No.1
2Shitpainter
3Danish Skull
4Ancient In The Forest
5Breakfast Time
6Killer Of Priest

Line-up:
Smattro Ansjovis – Drums, Vocals
Achmed Abdulex – Guitars, Vocals
Panda Flamenco – Bass, Vocals

Slavebreed:
1.Fekete Arnyek
2.Lucid Dreams
3.Asphyxia

Line-up:
Kostas – Drums
Pavlos – Guitars
Tolis – Guitars
Thanasis – Bass
Smirnoff – Vocals

Lords Of The Trident – Frostburn

Un album di hard & heavy ottantiano composto da un lotto di brani mozzafiato.

Fate come credete: scaricatelo, compratelo nel vostro negozio di fiducia ma, cari metal fan amanti dell’ hard & heavy ottantiano carico di anthem e melodie, fate vostro questo clamoroso album, ultimo lavoro degli americani Lords Of The Trident.

La band, nata nelle aule dell’università di Madison (Wisconsin), si presenta all’appuntamento con il nuovo anno fresca di firma con la Killer Metal e, con tanto di maschere, testi dissacranti e voglia di divertirsi, se ne esce con un album clamoroso.
Il gruppo nasce nel 2008 ed arriva al debutto l’anno dopo con “Death Or Sandwich”, seguito da “Chains Of Fire” del 2011 e due Ep; Frostburn risulta così il terzo lavoro sulla lunga distanza e vede la band in stato di grazia, azzeccando ogni melodia, ogni chorus, ogni riff inserito sul nuovo album: un hard & heavy ottantiano dall’appeal straordinario, una raccolta di brani uno più bello dell’altro che passano dal classico heavy metal alla Judas Priest (Kill To Die) a brani dalle ritmiche graffianti ma dalle melodie ariose e sopratutto vincenti, regalando una cinquantina di minuti di musica metallica esaltante, da urlare a squarciagola, fregandosene altamente dei troppi capelli bianchi sulla testa e della vicina col telefono in mano in procinto di chiamare le forze dell’ordine.
Un vocalist d’altri tempi (Fang VonWrathenstein), melodico, grintoso, sul pezzo per tutto l’album, due chitarristi che sciorinano ritmiche e solos che esaltano a più riprese (Asian Metal e Killius Maximus) ed una sezione ritmica d’assalto (Pontifex Mortis al basso e Dr. Vitus alle pelli) compongono una band che a questo giro gioca il jolly e, forte di un songwriting straordinario, compone dieci perle che del metal sono l’ossigeno, la linfa, la sorgente.
Dall’iniziale e strepitosa Knight’s Of Dragon Deep è tutto un susseguirsi di monumenti al genere, costruiti usando acciaio e fuoco, incudine e martello, strumenti per cesellare Winds Of The Storm, Manly Witness, Haze Of The Battlefield, Kill To Die e di seguito tutte le canzoni che compongono Frostburn.
Dalle info pare che la band, tra costumi e fuochi, in sede live sia strepitosa e sinceramente il sottoscritto ha pochi dubbi al riguardo, non mi rimane che rinnovarvi l’invito a supportare questa meraviglia metallica che di nome fa Frostburn.

Tracklist:
1. Knights of Dragon’s Deep
2. The Longest Journey
3. Winds of the Storm
4. Manly Witness
5. Haze of the Battlefield
6. Kill to Die
7. Den of the Wolf
8. Light This City
9. The Cloud Kingdom
10. Shattered Skies

Line-up:
Pontifex Mortis – Bass
Dr. Vitus – Drums
Asian Metal – Guitars
Killius Maximus – Guitars
Fang VonWrathenstein – Vocals

LORDS OF THE TRIDENT – Facebook

Tyrannosaurus Rex – My People Were Fair And Had Sky In Their Hair … But Now They’re Content To Wear Stars On Their Brows

Primo album dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan rimasterizzato dalla Universal.

L’ importanza del “divino” Marc Bolan sul rock contemporaneo è pari a quella della manciata di musicisti che hanno fatto la storia della musica contemporanea: geniali sia musicalmente sia, in questo caso, venditori di se stessi, diventati icone rivoluzionando non solo il mercato discografico ma influenzando culturalmente un’intera generazione.

Da sempre il nome di Bolan è giustamente accomunato al glam rock, ancor prima dei viaggi psichedelici di Ziggy Stardust, un genere che prima della musica diede molta importanza al look di cui Marc fu il perenne modello.
Fortemente influenzato dalla scena hippie, il glam all’epoca fu uno schiaffo alla società del Regno Unito, bigotta fino al midollo e stravolta dall’arrivo di questo bel ragazzo vestito di lustrini e pailettes.
La Universal rimasterizza con bonus CD i primi tre lavori della prima incarnazione dei T.Rex, e questo My People … è il primo bellissimo vagito di un giovane Marc che, aiutato solo dai bonghi dell’ex batterista Steve Peregrine Took e dalla sua chitarra acustica, ammalia con dieci brani tra folk, blues ed uno spirito freak geniale, lasciando che atmosfere orientaleggianti e neanche troppo velati rimandi alla cultura Hare Krishna (eredità della cultura hippie, ancora fortemente presente nel giovane musicista) conquistassero i giovani ascoltatori dell’epoca, quei glamster che ebbero quasi una decina di anni gloriosi prima dell’esplosione del punk rock.
Prodotto da Tony Visconti e da John Peel, innamorato perso del personaggio Bolan, My People … suona scarno anche per l’epoca ma, tra i solchi di queste perle acustiche, esce il talento di un artista eccezionale, non solo ottimo chitarrista ma icona a tutto tondo e, a modo suo, un rivoluzionario.
Poco rock e tanto folk , un rhythm and blues nascosto tra lo spartito e gli accordi, venati da una divertente vena psichedelica che il talento di Bolan nasconde, per poi farcela assaporare a piccole dosi, lasciandoci sognare, come in preda ad un bel trip di cui l’artista è l’ambiguo sacerdote.
L’album , accompagnato da un secondo bonus cd e da una versione in vinile, è assolutamente consigliato ai fan e a chi vuole davvero entrare nel mondo di Bolan dalla porta principale, con questo primo testamento di una carriera folgorante.

Tracklist:
Side A
1. Hot Rod Mama 2014 Remaster / Mono Version
2. Scenescof 2014 Remaster / Mono Version
3. Child Star 2014 Remaster / Mono Version
4. Strange Orchestras 2014 Remaster / Mono Version
5. Chateau In Virginia Waters 2014 Remaster / Mono Version
6. Dwarfish Trumpet Blues 2014 Remaster / Mono Version

Side B
1. Mustang Ford 2014 Remaster / Mono Version
2. Afghan Woman 2014 Remaster / Mono Version
3. Knight 2014 Remaster / Mono Version
4. Graceful Fat Sheba 2014 Remaster / Mono Version
5. Weilder Of Words 2014 Remaster / Mono Version
6. Frowning Atahuallpa (My Inca Love) 2014 Remaster / Mono Version

Side C
1. Debora
2. Child Star Take 2 / Joe Boyd Session
3. Hot Rod Mama BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
4. Strange Orchestras BBC Top Gear, London / Live / 1968 / Mono
5. Chateau In Virginia Waters Take 3 / Joe Boyd Session
6. Mustang Ford BBC Top Gear, London / Live / 1968/ Mono
7. Pictures Of The Purple People BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
8. Afghan Woman (With Chat) BBC Top Gear, London / Live / 1968 / Mono

Side D
1. Highways (With Chat) BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
2. Puckish Pan Demo
3. Dwarfish Trumpet Blues Tony Visconti’s Home Demo
4. Knight Tony Visconti’s Home Demo
5. Scenescof BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
6. Lunacy’s Back Demo
7. Frowning Atahuallpa (With Chat)

Line-up:
Mark Bolan – Guitars
Steve Peregrine Took- Bongo

Saints Trade – Robbed In Paradise

“Robbed In Paradise” è costruito intorno ad una manciata di ottimi brani, colmi di anthem e gustosamente melodici, e risulta così un ascolto obbligato per i fan dell’hard rock classico.

Quando si parla di hard rock è facile, di questi tempi, confondere quelle che sono le sonorità classiche provenienti dagli anni ottanta con i suoni moderni, ipervitaminizzati, ma che con il genere hanno poco a che fare: chiaro che, per chi scrive, hard rock è un sinonimo che viene in aiuto per spiegare al lettore di turno per definire suoni grintosi e potenti, a volte dimenticando le peculiarità per cui una band viene descritta come appartenente al genere del quale i bolognesi Saints Trade sono ottimi paladini.

Nata nel 2009, la band ha già pubblicato un primo lavoro autoprodotto (“A Matter Of Dreams” del 2012) ma, soprattutto, ha avuto l’onore di aprire al festival di Fleetwood per i Ten di Gary Hughes, evento poi che ha fornito la spinta definitiva all’incisione l’album di debutto.
Prodotto da Roberto Priori, già al lavoro sul primo album, Robbed In Paradise vede la partecipazione in veste di ospiti dello stesso Priori, del tastierista Pier Mazzini dei Perfect View, e di Tommy Denander alla sei corde (già al lavoro con Paul Stanley, Toto, Alice Cooper, Robin Beck e House Of Lord).
Il disco offre undici canzoni di hard rock ottantiano, che vanno dalla tradizione british a quella a stelle strisce, dalle ritmiche clamorose e trascinanti, colme di ritornelli facilmente memorizzabili e di quella vena melodica tipicamente AOR, con l’alternanza di atmosfere e vibrazioni in una tempesta di suoni dall’appeal elevatissimo.
Partendo dalla prima, graffiante, To The Light, dalle ritmiche che portano alla mente i fratelli Young in prestito ai Van Halen di Sammy Hagar, si passa facilmente al clima arioso creato dai tasti d’avorio di Feel The Fire, ottimo esempio di AOR style.
Inside è il tipico brano da arena rock (Tommy Denander lo impreziosisce con la sua chitarra), con riffone cadenzato supportato da un’ottima prova della calda voce di Santi Libra, seguito da Like A Woman e da California all’insegna del puro hard rock, due brani dal flavour statunitense con la seconda, in particolare, dal refrain irresistibile.
Dopo la ballad Dreams Running Wild si torna a rockare alla grande con Rock’n’Roll Man, solo smorzata dalla seconda ballad semiacustica Into Your Eyes, lasciando per ultima la canzone più moderna del lotto, quella The Game dalle ritmiche colme di groove che sembra guardare ad un futuro prossimo, laddove potrebbero aprirsi nuovi orizzonti per una band dalle ottime potenzialità.
Robbed In Paradise è costruito intorno ad una manciata di ottimi brani, colmi di anthem e gustosamente melodici, e risulta così un ascolto obbligato per i fan dell’hard rock classico.

Tracklist:
1.To The Light
2.Feel The Fire
3.Inside
4.Allied
5.Like A Woman
6.California
7.Dreams Running Wild
8.Siria (Dawn Breaks In)
9.Rock’n’Roll Man
10.Into Your Eyes
11.The Game

Line-up:
Joana Lachkova – Drums
Claus – Guitars
Santi Libra – Vocals
Matteo Angelini – Bass Guitar

SAINTS TRADE – Facebook

Artic Fire – Lower And Louder

Buon esordio di questa band portoghese dedita al credo nirvaniano ed ai suoni di Seattle.

Il grunge: molti negli anni novanta tacciarono il genere come la morte del metal, incolpandolo di chissà quali torti, mentre invece fu una benedizione per tutto il circuito musicale gravitante intorno a quel mondo.

Infatti, mai come nei primi anni novanta i media diedero spazio al rock, trascinati dalla moda grunge che, chiariamolo subito, con la musica aveva poco a che fare, ed i giovani kids di tutto il mondo sulla scia di Nirvana, Soundgarden e compagnia di Seattle ebbero l’opportunità di conoscere le band storiche (molte di queste chiaramente metal) a cui i nuovi eroi del rock si ispiravano.
Come in tutti i periodi d’oro di un genere, a livello di popolarità, anche nel grunge, accanto alle band che segnarono un epoca, uscirono sul mercato anche realtà che durarono lo spazio di un album, tranciate sul nascere dalla morte di Kurt Cobain e dalla definitiva caduta di tutto il movimento.
Come al solito rimangono i grandi, le band e gli artisti che da ottimi interpreti si trasformano in icone e miti continuando a sfornare ottima musica aldilà delle mode e di ciò che “tira” in quel preciso momento.
Nell’underground poi, chi continua a suonare il rock degli anni novanta sono molti, tra cui questo trio portoghese proveniente dalla capitale, all’esordio discografico con un buon esempio di rock alternativo, o grunge come preferite chiamarlo, molto nirvaniano e riconducibile ai primi passi delle band più famose del suono di Seattle.
Lower And Louder, senza far gridare al miracolo, si compone di cinque brani devoti al credo di Cobain e soci, inserendo qua e là atmosfere stoner, in linea con i suoni del momento.
Ne esce uno stile musicale che, pur fortemente debitore nei confronti della band di “Nevermind” e “In Utero”, possiede comunque una sua vita propria di cui specialmente le due ottime Take Me All The Way e Two, poste in chiusura, sono gli esempi migliori.
Gli Artic Fire, formati da Pedro (chitarra e voce), Alex (basso) e Alexia (batteria), ci consegnano un buon Ep, carico di quegli elementi che fecero il botto vent’anni fa e che ancora oggi, con buona pace dei detrattori, continuano ad arrivare a noi tramite ottimi seguaci che ne hanno colto l’eredità.

Tracklist:
1.Running
2.Prozac Addict
3.Give Me A Cancer
4.Take Me All The Way
5.Two

Line-up:
Pedro – Guitars, Vocals
Alex – Bass
Alexia – Drums

ARTIC FIRE – Facebook

New Disorder – Straight To The Pain

“Straight To Pain” ci consegna una band al suo massimo livello ed un album che difficilmente riuscirete a togliere dal vostro lettore, una volta che si sarà fatto spazio dentro di voi.

C’è tanta carne al fuoco nel nuovo album dei romani New Disorder, il piatto che poi ci confezionano è un delizioso mix di tanti sapori che, uniti, formano una gustosa pietanza di cui sicuramente chiederemo il bis.

Ma andiamo con ordine: la band romana nasce nel 2009 e all’attivo ha due ep, “Hollywood Burns” dello stesso anno, “Total Brain Format” del 2011 ed il full length d’esordio “Dissociety”, uscito per la Revalve nel 2013.
In questi anni, vari cambi di line-up hanno lasciato il solo cantante Francesco Lattes come unico superstite della band originale: niente di male, la band rimpolpa le fila e firma per all’inizio dello scorso Agoge Records anno, che produce e distribuisce questo ottimo Straight To The Pain.
Intanto una considerazione: Francesco Lattes è un gran vocalist, la sua voce passionale, cangiante nei toni, segue in perfetta armonia gli umori di un sound difficile da catalogare e per questo molto affascinante.
Nel songwriting vivono molte personalità, la base su cui si poggia è sì un metal alternativo, ma questo viene manipolato ad uso e consumo della band che stupisce tra ritmiche core, brani dove il rock americano (diciamo post grunge? Diciamolo …) viene travolto da parti in cui il prog moderno (specie nelle ottime partiture chitarristiche) prende il sopravvento e Straight To The Pain può così spiccare il volo.
Musica adulta, matura, canzoni che, ad un primo ascolto, possono risultare difficili, ma che crescono in modo esponenziale dopo che avrete fatto vostre tutte le sfumature di questi ottimi undici brani.
Le atmosfere cambiano, dicevamo, e così si passa dal metal dai rimandi core di Never Too Late To Die, scelta come singolo, alla metallica ed in your face Judgement Day, dalla bellissima semiballad Lost In London alla violente Love Kills Anyway e alla conclusiva The Beholder, tutto con un gusto progressivo che, sommato alla grande prova del singer, fanno di questo lavoro un piccolo gioiello di rock/metal moderno.
Prodotto negli studi di Gianmarco Bellumori, Straight To The Pain ci consegna una potenziale top band ed un album davvero bello che difficilmente riuscirete a togliere dal lettore una volta che si sarà fatto spazio dentro di voi. Assolutamente da avere.

Tracklist:
1. Into the Pain
2. Never Too Late to Die
3. A Senseless Tragedy (Bloodstreams)
4. Judgement Day
5. Straight to the Pain (feat. Eleonora Buono)
6. What’s Your Aim? (Call It Insanity)
7. Lost in London
8. Love Kills Anyway
9. Bitch On My Wall
10. The Perfect Time
11. The Beholder
12. Lost in London ( acvoustic version)

Line-up:
Francesco Lattes – vocals
Fabrizio Proietti – guitar
Alex Trotto – guitar
Ivano Adamo – bass
Luca Mancini – drums

NEW DISORDER – Facebook

Hierophant – Peste

Venti minuti nel segno della pestilenza, l’inferno sulla terra raccontato dagli Hierophant.

Dura solo una ventina di minuti Peste, ritorno sulle scene della band ravennate, ma sono venti minuti d’intensità estrema notevole, una bordata di metallo massiccio, urlante e assolutamente non convenzionale.

Gli Hierophant sono al terzo lavoro, i precedenti full length messi in archivio portano i titoli di “Hierophant”, omonimo debutto del 2010 e “Great Mother: Holy Monster” dello scorso anno.
Peste supera ogni aspettativa con questi dieci brani collegato tra loro, uno più rabbioso dell’altro e che formano un unico intenso monolite di metal estremo dove l’hardcore, il black, il death ed il punk uniscono le proprie forze per scaricarci addosso una valanga di potenza inaudita.
Un clima di delirio e sofferenza, raccontata dalla musica del gruppo che si avvale delle urla disumane di Carlo, cantore tra i fumi dei falò di cadaveri bruciati, sorretto dal basso colmo di groove di Giacomo che, con il drumming di Ben, compone una coppia ritmica da apocalisse.
Le chitarre sempre impostate su riff pesanti come macigni (Lollo e Steve) formano appunto con il basso un muro sonoro estremamente potente, l’atmosfera vera e non romanzata di un’apocalisse sulla terra, portata da un virus che, nei secoli passati, ha avvicinato con la sua devastazione la terra all’inferno.
Non un attimo di tregua e tanta violenza sonora, sommata alla varietà di stili che la band utilizza per creare il proprio sound, fanno di Peste un lavoro originale ed estremamente affascinante: una band ed un album fuori dagli schemi … notevoli.

Tracklist:
1. Inganno
2. Masochismo
3. Nostalgia
4. Sadismo
5. Apatia
6. Paranoia
7. Sottomissione
8. Alienazione
9. Egoismo
10. Inferno

Line-up:
Giacomo – Bass
Ben – Drums
Lollo – Guitars
Karl – Vocals
Steve – Guitar

HIEROPHANT – Facebook

Revenge – Harder Than Steel

Assolutamente da avere, “Harder Than Steel” è un ottimo tributo ai suoni classici

Un monolite di heavy speed metal fuso nell’acciaio ottantiano: questo è, per la gioia dei true metallers innamorati dei suoni old school, Harder Than Steel dei sudamericani Revenge.

La band colombiana, veterana della scena heavy mondiale, arriva al sesto full-length di una discografia infinita, colma di Ep e split, iniziata sulla lunga distanza dieci anni fa con “Metal Warriors”.
Una carriera tutta incentrata sui suoni old school arriva al culmine con il nuovo lavoro, entusiasmante per gli amanti dei suoni classici, una tranvata suonata alla velocità della luce, epica come solo l’heavy metal sa essere e piena di quei meravigliosi cliché che ne fanno un monumento al genere.
L’heavy della band viaggia su territori speed, i brani sono quasi tutti a rischio autovelox e sfoggiano grinta e fierezza metallica, impreziositi da un ottimo songwriting che li rende imperdibili.
I quattro guerrieri di Medellin, in stato di grazia, offrono una prova sopra le righe, cominciando dai solos al fulmicotone che sprizzano scintille come una fresa al lavoro (Esteban M. Garcia), passando per la sezione ritmica martellante composta da Jorge Rojas (basso) e Daniel Hernandez (piovra dai mille tentacoli alle pelli) fino all’ottima prova al microfono di Esteban Mejia, grandioso anche nelle parti ritmiche con la sua chitarra.
Pronti e via, Harder Than Steel parte a cento all’ora per travolgere tutto fino alla fine ed oltre: brani dall’ottimo appeal metallico, si susseguono senza soluzione di continuità e, veloci come il vento e duri come il ferro, non fanno prigionieri, avvicinandosi in alcuni casi al thrash dei primi Testament, ma con il power teutonico come nume tutelare della band (non è un caso che l’ultimo brano sia proprio Chains And Leather dei maestri Running Wild).
Assolutamente da avere, Harder Than Steel ha nella title track, Back For Vengeance, At The Gates Of Hell e nella “sassone” Motorider gli episodi migliori di un album tutto da ascoltare: suoni classici all’ennesima potenza, un tributo ai classici suoni old school davvero ben fatto …. long live heavy metal!

Tracklist:
1. Headbangers Brigade
2. Harder Than Steel
3. Witching Possession
4. Gravestone
5. Back for Vengeance
6. Torment & Sacrifice
7. Flying to Hell
8. At the Gates of Hell
9. Motorider
10. Chains and Leather

Line-up:
Jorge “Seth” Rojas – Bass
Esteban “Hellfire” Mejía – Vocals, Guitars
Daniel “Hell Avenger” Hernandez – Drums
Night Crawler – Guitars (lead)

Sepulchral Curse – A Birth In Death

“A Birth In Death” è una bella sorpresa per i fan del death metal old school.

Quindici minuti di devastante Death Metal, marcio, brutale e senza compromessi è quello che ci propongono i maligni Sepulchral Curse nel loro Ep d’esordio dal titolo A Birth Of Death.

La band dai natali finlandesi nasce nel 2013 ed arriva all’esordio con questi quattro brani di puro massacro sonoro, tra la tradizione scandinava ed il brutal, vomitandoci addosso scariche di metal estremo dall’impatto di un atomica.
Veloci come il vento e potenti come un panzer, la band di Turku ha il proprio punto di forza nell’ex Frostbitten Kingdom Jaakko Riihimäki alla sei corde, protagonista di una prova inumana sia nel riffing che nei solos di scuola old school.
I suoi degni compari non sono da meno e nelle buone Sepulchral Curse, Demonic Pestilence, Infernal Pyres e Torn To Shreds esce tutta la bravura di una sezione ritmica dirompente (Niilas Nissilä al basso e Tommi Illmanen alla batteria) e di un demonio dal growl brutale al microfono come Kari Kankaanpää.
Death metal old school si è detto, ed allora i richiami a Grave e Dismember sono palesi, così come il brutal di Autopsy e Cannibal Corpse racchiusi in questo girone infernale che è A Birth In Death.
Per i fan del genere una bella sorpresa, ora aspettiamo il full length.

Tracklist:
1. Sepulchral Curse
2. Demonic Pestilence
3. Infernal Pyres
4. Torn to Shreds

Line-up:
Niilas Nissilä – Bass
Tommi Ilmanen – Drums
Jaakko Riihimäki – Guitars
Kari Kankaanpää – Vocals

SEPULCHRAL CURSE – Facebook

Story Of Jade – Loony Bin

Un album trascinante, non solo per appassionati del genere ma, forte delle sue ottime melodie, adatto un po’ a tutti gli amanti dei suoni metallici.

Nuovo capitolo della storia di Jade: Loony Bin è il terzo lavoro in studio della band nostrana e rappresenta un altro tuffo nell’horror metal.

Gli Story Of Jade, per chi non li conoscesse, sono attivi dal 2002 e hanno già archiviato due lavori, l’ep “The Factory Of Apocalypse” del 2006 ed il primo full lenght “The Damned Next Door (Know Your Neighbors)”, uscito nel 2011 per WormHoleDeath e prodotto da Carlo Bellotti e Alessandro Paolucci.
Una buona attività in sede live ha portato la band a dividere i palchi con nomi del calibro di Eldritch, Tankard, Sinister, Necrodeath e Cadaveria, tra gli altri, per arrivare all’alba di questo 205 con l’uscita del nuovo Loony Bin, prodotto da Pier Gonnella.
Ospiti illustri fanno capolino su tre tracce dell’album: Gerre dei Tankard su Blood Hangover, le tastiere di Antonio Aiazzi dei Litfiba impreziosiscono il singolo Psychosis In A Box, e Steva dei Deathless Legacy appare su Symphonies From The Grave.
Un nuovo contratto (Black Tears) e piccole ma significative rivoluzioni nella line-up, che portano l’entrata di Vrolok Lavey al basso lasciando Bapho Matt a dedicarsi alle sole parti vocali, oltre ad un maggior uso delle tastiere, sono le novità su cui poggia un album che risulta una bella mazzata heavy metal, dalle atmosfere horror sì, ma sempre tenendo ben alta l’elettricità dei brani, a partire fin dall’intro.
Tecnicamente ineccepibili, i brani si susseguono in un clima da grand guignol, anche se nel lavoro dei nostri non si perde tempo in rallentamenti atmosferici, ma si bada ad aggredire l’ascoltatore con ottime parti tastieristiche inserite nella struttura heavy di brani che non cedono di un passo, continuando per tutta la durata dell’album a martellare.
Ottimo Bapho Matt alla voce, teatrale e molto melodico dona un certo appeal orecchiabile a canzoni quali la title track, Psychosis In A Box, Sick Collector e la travolgente Symphonies From The Grave.
Direi che Loony Bin mi ha ricordato tanto il King Diamond solista, leggermente modernizzato nel sound del gruppo, ma spiritualmente presente tra i solchi di questi ottimi undici brani.
Molto riuscita la conclusiva Horror Me(n)tal Disorder, una via di mezzo perfetta tra il sound del vocalist danese ed i nostrani ed ultimi Death SS, che archivia come meglio non potrebbe un album trascinante, non solo per appassionati del genere ma, forte delle sue ottime melodie, adatto un po’ a tutti gli amanti dei suoni metallici.

Tracklist:
1- Corridor
2- Loony Bin
3- The Book Of Lies
4- Sick Collector
5- Psychosis In A Box – feat. Aiazzi (Litfiba)
6- Symphonies From The Grave – feat. Steva (Deathless Legacy)
7- Lobotomy
8- Merculah
9- Room 501
10- Blood Hangover – feat. Gerre (Tankard)
11- Horror Me(n)tal Disorder

Line-up:
YNDY T.WITCH – Lefthanded Drums
AG – Lead/Rhythm Guitars
Mr.VROLOK LAVEY – Bass Guitar
BAPHO MATT – Lead Vocals

STORY OF JADE – Facebook

No One Cares – Dirty

Ottimo lavoro, consigliato agli estimatori dei suoni crossover/metal, i quali troveranno di che essere soddisfatti da questa raccolta di canzoni.

Un altro ottimo lavoro targato Qua’Rock: questa volta il genere vira verso il nu metal/crossover, con il debutto della band toscana No One Cares con questo riuscito e divertente Dirty.

La qualità maggiore del gruppo di Pistoia è l’approccio vario e in your face alla materia, ovvero non il monolitico muro sonoro tanto caro alle ultime generazioni dedite al metal moderno, ma tanto groove ed una predisposizione per il crossover che lo rendono a suo modo originale.
Metal, punk, alternative e buone sfumature rappate fanno di questo lavoro un buon ascolto per i fan del genere: la band punta sull’impatto live dei brani in scaletta, tutti anthem da pogo sotto il palco, ed una attitudine rock’n’roll molto marcata e difficile da trovare in altre realtà dedite al genere.
Ottima la sezione ritmica (Andrea Moroni al basso ed Elena Giraldi alla batteria), che segue la chitarra saturata di metallico groove (Andrea Gorini), e davvero bravo Matteo Turi dietro al microfono, personale e sguaiato il giusto per tenere alta la tensione dei brani, passando dallo scream al rap fino ad un cantato pulito molto punk rock che accentua tutta la voglia di esplodere dei brani in sede live.
Due degli otto brani in scaletta sono cantati in lingua madre (Niente Da Perdere ed Intolleranza), qualcuno potrebbe arricciare il naso nei confronti di tale scelta della band che, invece piazza due songs avvincenti, tenendo botta alla tempesta di ritmi e groove che rilasciano sull’ascoltatore le ottime Bored, First Last, No One Cares (sorta di inno della band) e Rock’n’Roll.
Rage Against The Machine, Lamb Of God ed un pizzico di Offspring, ma ne potrei citare altre mille, tanta è la carne al fuoco e la varietà con cui i No One Cares affrontano la materia, basti ascoltare l’inizio di Lymphoma, la più metallica del lotto, dove il cantato ricorda non poco Anders Friden degli In Flames.
Ottimo lavoro dunque, consigliato agli estimatori dei suoni crossover/metal i quali troveranno di che essere soddisfatti da questa raccolta di canzoni.

Tracklist:
1.Bored
2.First Last
3.Born For This
4.No One Cares
5.Niente Da Perdere
6.Rock’n’Roll
7.Lymphoma
8.Intolleranza

Line-up:
Matteo “MarioMariaMario” Turi – Voce
Andrea “John Pier J.” Gorini – Chitarra
Andrea “Franchio” Moroni – Basso
Elena “Maria Sfiocina” Giraldi – Batteria

Nightraid – Nightraid

Demo d’esordio per i rockers umbri Nightraid.

I ternani Nightraid arrivano al demo d’esordio con il loro convincente hard rock cantato in italiano: fondati dall’ottimo vocalist Andrea, con un passato nel death metal, dopo aver trovato nel chitarrista Alessandro il partner giusto per portare avanti il progetto, la band nasce per fare rock’n’roll con gli attributi, in due parole hard rock.

Il duo nel frattempo diventa un quintetto, cambiando diversi elementi nella line-up e girando per i locali suonando cover di Ozzy, Motorhead e Pino Scotto, l’influenza maggiore sui brani di questo demo.
Al gruppo si aggiungono infine Andrea alla chitarra, Leonardo al basso e Filippo alle pelli, ed è con questa formazione che incidono i brani racchiusi in questo composto da quattro brani di hard rock senza compromessi e dall’ottimo groove.
Pino Scotto fa da ideale padrino alle canzoni, sia musicalmente sia per l’ugola sporca e grintosa del vocalist, ottimo interprete di botte d’adrenalina come Stand By, Nightraid e Misteri, ma tra i solchi delle tracce affiorano riff rimembranti i fratelli Young e ritmiche motorheadiane per un risultato trascinante, specialmente nei primi tre brani.
Il lavoro si chiude con l’ottima semiballad Indians, heavy nel bellissimo solo e interpretata con piglio guerresco dal frontman, risultando il brano top della band, per niente ruffiana ma intensa nel suo incedere ed impreziosita dall’ottimo testo.
Un inizio niente male per il combo umbro: con passione ed attitudine da vendere ed una manciata di buone canzoni da portare in giro, questo demo si può considerare un ottimo inizio.

Tracklist:
1.Stand By
2.Nightraid
3.Misteri
4.Indians

Andrea – voce
Alessandro – chitarra
Leonardo – basso
Andrea – chitarra
Filippo – batteria

NIGHTRAID – Facebook

 

Mechina – Acheron

Altro straordinario capolavoro di musica estrema targato Mechina.

Esattamente come lo scorso anno il primo di Gennaio si è riaperto lo Stargate e, dall’abisso spaziale in cui era stato esiliato, torna quel mostro apocalittico chiamato Mechina.

A un anno esatto dal capolavoro “Xenon” e pochi giorni dopo l’uscita del mio best of, dove il gruppo dell’illinois era presente come rappresentante della musica estrema moderna, Acheron, il nuovo straordinario lavoro, conferma ed aggiunge nuove sfumature al sound di questo gruppo immenso, andando oltre al suo predecessore ed aumentando il bombardamento sinfonico che è il protagonista assoluto del songwriting del gruppo.
Magniloquente, arabeggiante, fantascientifico, un incubo proveniente da un altro mondo, l’apocalisse palpabile in ogni secondo di questa monumentale sinfonia, terrorizza come solo la musica dei Mechina riesce a fare, toccando vette operistiche in un contesto death/industrial che fa della band un monumento alla musica estrema.
David Holch continua con il suo growl a rendere Mechina un mostro di brutale violenza, la sezione ritmica (Steve Amarantos al basso e David Gavin a devastare tamburi) non tradisce e continua la sua battaglia con ritmiche cyber fredde come lo spazio profondo; Joe Tiberi tra la sei corde ed il programming fa il bello e cattivo tempo ma, come da tradizione, è ancora una volta la parte sinfonica ad essere il vero motore del sound, tra cori orientaleggianti e monastici, vera colonna sonora della fine dell’universo conosciuto e l’inizio di un nuovo “tutto”.
Un opera di oltre un’ora che fa dei Mechina qualcosa di diverso da qualsiasi band estrema vi possa venire in mente: lo scorso anno scrivevo dei Fear Factory per raccontarvi Xenon, ma ormai è troppo tardi, o meglio, la loro musica è ormai troppo lontana da poterla schematizzare avvicinandola a qualsiasi altra band (Ode To The Forgotten Few / The Hyperion Threnody ne è l’esempio) entrando in un’aura di spettacolare magnificenza.
I Mechina sono tornati e questo straordinario Acheron non fa che renderli ancora più inavvicinabili, almeno per chi si raffronta con la musica estrema moderna; ancora con un’autoproduzione, non so se per scelta della band o per sordità incurabile da parte degli addetti ai lavori.
Devo far presto, lo Stargate sta per richiudersi ed io mi sono inevitabilmente perso …

Tracklist:
1. Proprioception
2. Earth-Born Axiom
3. Vanquisher
4. On the Wings of Nefeli
5. The Halcyon Purge
6. Lethean Waves
7. Ode to the Forgotten Few
8. The Hyperion Threnody
9. Adrasteia
10. Invictus Daedalus
11. The Future Must Be Met

Line-up:
Joe Tiberi – Guitars, Programming
David Holch – Vocals

MECHINA – Facebook

Bug – Alpha

Un concept futurista ed un ottimo esempio di metal strumentale per l’esordio di Bug.

Buon esempio di progressive metal strumentale l’esordio di Lorenzo Meoni, che sotto il monicker Bug licenzia questa quarantina di minuti tutti da ascoltare.

Alpha è un concept molto originale: la storia raccontata attraverso il solo uso delle note si sviluppa sul conflitto tra la metà umana e quella robotica racchiusi in un unico corpo, quello del protagonista, che crea la metà cyborg con lo scopo di difendersi sia a livello fisico che mentale.
Col passare del tempo la parte creata si ribella diventando autonoma, iniziando una dura lotta che porterà alla morte questa sorta di creatura metà uomo, metà robot.
Sotto l’aspetto musicale il lavoro è molto vario, passando dal metal, al progressive moderno, con ottimi risultati di fruibilità; Lorenzo Meoni suona tutti gli strumenti con buona padronanza dei mezzi, passando dai suoni cari a Devin Townsend al thrash panterizzato, fino ad esplorare il metal prog di Anthony Lucassen, con ottimi risultati.
Scariche elettriche si alternano a momenti più rilassati sempre tenendo alta la tensione e sopratutto l’attenzione dell’ascoltatore: l’atmosfera di scontro tra le due metà è avvertibile da una drammaticità di fondo ed una violenza musicale che non viene mai meno.
Davvero interessante poi, che in un album strumentale non si avverta il minimo accenno al virtuosismo fine a se stesso, ogni nota racconta di questo inevitabile e drammatico scontro, catturando e affascinando con sfuriate thrash e bellissimi momenti di melodie progressive.
Album realizzato in modo molto professionale, come ormai ci hanno abituato i lavori targati Qua’Rock, Alpha racchiude undici brani, tutti ottimamente prodotti e suonati, da ascoltare tutto di un fiato per assaporare tutti i vari passaggi che porteranno alla tragica fine del protagonista.
Prodotto non solo consigliato agli amanti dei dischi strumentali, ma un po’ a tutti gli amanti della buona musica.

Tracklist:
1.Alpha
2.Tears Of Silicon
3.Ethernet Express
4.The Rebellion Of The System
5.Formatted
6.No Parameter
7.You’re Just A Number
8.Synchro
9.Remove My Circuits
10.Session Terminated
11.Null

Line-up:
Lorenzo Meoni- All Instruments

BUG – Facebook

Phantasmal – The Reaper’s Forge

Demo d’esordio per i Phantasmal, duo statunitense votato al metal old school.

I Phantasmal provengono dagli Stati Uniti e sono votati al thrash metal old school, con chiare influenze heavy e black: fondati nel 2012, il loro primo passo discografico è questo demo autoprodotto dal titolo The Reaper’s Forge.

Psychopomp, basso e voce, e Wraith, che si divide tra la sei corde e il drumkit, realizzano tre brani dal buon impatto, influenzati dai maestri Venom, nome che più di tutti spicca sul lavoro dei nostri old metallers, tra ritmiche thrash, vocals black e buoni solos di matrice heavy ottantiana.
The Reaper’s Forge apre le danze, ed è un susseguirsi di cliché di quello che negli anni ottanta erano i primi vagiti del metal estremo, ben confezionati dal duo americano: le vocals al vetriolo di Psychopomp, accompagnano sferragliate thrash e assoli chitarristici, come nella seguente The Eternal Campaign.
Queen Nightshade rallenta il tiro, il sound si fa più cadenzato e ne esce un ottimo brano, l’heavy metal classico prende le redini del sound, ed i Phantasmal regalano un brano notevole, bello nel suo essere tradizionale racchiudendo in cinque minuti tutto quello che un true metaller vorrebbe sempre ascoltare.
La produzione in linea con la musica proposta, fa di questi tre brani una piacevole sorpresa per i fan del metal di scuola ottantina: la strada presa dal duo porterà, se le buone sensazioni suscitate da questi tre brani saranno confermate dalle prossime uscite, ad un buon riscontro tra gli estimatori del metal old school.

Tracklist:
1. The Reaper’s Forge
2. The Eternal Campaign
3. Queen Nightshade

Line-up:
Wraith – Guitars, Drums
Psychopomp – Vocals, Bass

PHANTASMAL – Facebook

Frozen Sand – Prelude

Ottimo ep d’esordio per i prog metallers Frozen Sand, ideale preludio all’imminente full length.

I Frozen Sand provengono da Novara, nascono nel 2010 e, all’insegna di un buon progressive metal, alternando tradizione e modernità, licenziano questo Ep di quattro brani dal titolo Prelude, appunto preludio di una storia che sarà sviluppata nel futuro esordio sulla lunga distanza.

Fractal Of Frozen Lifetimes, questo è il titolo del concept in cui la band sviluppa il suo songwriting fatto di un metal/prog che predilige le atmosfere piuttosto che cervellotiche parti tecniche, anche se ai musicisti del gruppo la bravura strumentale non manca di certo.
Ottime le vocals, che passano da parti evocative che creano un aurea epica, al growl (ormai usato sempre più spesso dalle band del genere) fino ad un’ottima voce pulita, il che rende l’ascolto dei brani vario, così come vario risulta il sound di Prelude che alterna con disinvoltura progressive e metal classico, inserendo ritmiche di death moderno che seguono l’alternarsi delle voci, cambiando atmosfere ad ogni passaggio.
Inutile elencare influenze o band da cui il gruppo piemontese prende spunto, qualsiasi amante dei suoni progressivi troverà modo di farsi una sua idea: la cosa che invece salta all’orecchio è la personalità con cui i Frozen Sand affrontano un genere non facile come quello racchiuso in Prelude, aumentando la curiosità e le aspettative per il futuro full length, di cui sicuramente ci faremo carico di parlarvi.

Tracklist:
1.Chronicle I – Chronomentrophobia
2.Chronicle II – Sand Of The Hourglass
3.Chronicle III – Khrono’s Pendulum
4.Fracture

Line-up:
Luca Pettinaroli – Vocals
Mattia Cerutti – Guitar
Tiziano Vitiello – Bass
Simone De Benedetti – Drums
Federico De Benedetti – Guitar, synth guitar & back vocals

FROZEN SAND – Facebook

Reasons Behind – The Alpha Memory

“The Alpha Memory” è un altro esempio di come il symphonic power, se suonato a questi livelli, sappia ancora regalare grandi momenti di musica metallica.

Il genere proposto dai bolognesi Reasons Behind, a detta dei più, è ormai inflazionato: può essere, dipende dai punti di vista ma, almeno finché la qualità di buona parte dei lavori che escono sul mercato sarà di questo livello non credo sia un problema; sicuramente non lo è per i fan che hanno di che gioire investiti da questa tempesta di suoni metallici dall’appeal gotico sinfonico che, irrobustiti da una struttura power, diventano armi letali capaci di creare un bombardamento di note nobilitate da vocals celestiali da parte delle splendide sirene di cui il genere può vantarsi.

The Alpha Memory, debutto sulla lunga distanza del quartetto emiliano, fa parte di quei lavori che, uscito una decina di anni fa e magari suonato da una band straniera, avrebbe fatto faville, portandone gli autori sulle pagine dei maggiori magazine, sempre alla ricerca dei nuovi Nightwish o Within Temptation.
Sì, perché l’album è davvero bello: prodotto e mixato da Olaf Thorsen e Stefano Morabito, The Alpha Memory entusiasma, esplodendo in tutta la sua potenza, deflagrando letteralmente dalle casse per una quarantina di minuti in cui il power metal sinfonico prende sotto braccio il gothic, confrontandosi con una vena prog d’alta scuola.
Strepitosa Elisa Bonafè, dotata di una voce straripante ma allo stesso tempo elegante e raffinata, che fa il bello e cattivo tempo sul metal bombastico della band, la quale da parte sua mette sul piatto una gran tecnica ed un lotto di brani spettacolari, colmi di cambi di tempo, riff e solos affilati come rasoi, oltre ad una sezione ritmica spaventosamente efficiente.
Quando poi i ritmi si placano e il piano di Dario Trentini prende la scena accompagnando la vocalist, emerge la vena più intimista della band, che spadroneggia con melodie gotiche di gran classe lasciando che i brividi scorrano così come le note melanconiche.
Starlight In The Shades, The Ghost Under My Skin e la bellissima title track sono le fondamenta sulle quali si regge un album bellissimo, cantato a meraviglia, un altro esempio di come il genere, se suonato a questi livelli, sappia ancora regalare grandi momenti di musica metallica.

Tracklist:
1. A Broken Melody
2. Under the Surface
3. The Chemical Theater
4. With Your Light
5. Starlight in the Shades
6. On Butterfly Wings
7. The Ghost Under My Skin
8. 1000 Fading Lives
9. The Alpha Memory
10. In the End?

Gabriele Sapori – Guitars
Dario Trentini – Keyboards, Piano
Elisa Bonafè – Vocals
Goya – Bass

REASONS BEHIND – Facebook

Soldiers Of A Wrong War – Slow

Bellissimi tre brani di rock moderno e molto melodico da parte dei Soldiers Of Wrong War.

Premessa: il genere proposto dai Soldiers Of A Wrong War non è sicuramente tra i miei preferiti, come sapranno i lettori di Iyezine, abituati a leggere i miei deliri su generi estremi o hard & heavy classico, ma questi tre brani raccolti nel mini Slow sono veramente belli, dall’enorme appeal, suonati benissimo e prodotti in modo professionale.

E ora via con le presentazioni: questa ottima band dedita ad un rock moderno, dai rimandi alternative e molto melodico, nasce nel 2007 ed hanno già licenziato due lavori, un Ep di tre brani nel 2009 ed il primo full length “Lights And Karma” nel 2011.
Tornano oggi con questo Ep e lo fanno con tre splendidi brani che uniscono una buona grinta ad un gusto melodico straordinario: eleganti e raffinati conquistano all’istante, non dimenticando di rockare con ottima verve.
Slow, Walls e Inside My Bones,  scritte da una delle band straniere che passano regolarmente sui canali satellitari avrebbero fatto sfracelli, ma la maggior parte di esse non ha neanche la metà del talento che dimostra il gruppo nostrano nel racchiudere in pochi minuti grinta e melodia, alternative e rock/pop in perfetto equilibrio e con un feeling straordinario.
A detta della band è stata una scelta ben precisa quelle la scelta di pubblicare un Ep convincente al 100%, puntando più sulla qualità che non sulla quantità; infatti un eventuale full length avrebbe del clamoroso se composto da canzoni di questo livello, cosa che auspico nel futuro prossimo del gruppo.
Spegnete la televisione e accendete lo stereo, mettetevi comodi e fatevi cullare dalla musica dei Soldiers Of A Wrong War, non ve ne pentirete.

Tracklist:
1.Slow
2.Walls
3.Inside My Bones

Line-up:
Luca “Difio” Del Fiore – voce, chitarra
Adin Sulic – basso
Luca Cek – chitarra
Simone Fava – batteria

SOLDIERS OF A WRONG WAR – Facebook

Villainy – The View From Ivory Tower

“The View From Ivory Tower” regala agli amanti del genere due ottimi brani

Provenienti dai Paesi Bassi, i Villainy sono una band death/crust nata nel 2010: nel 2013 licenziano il primo full-length dal titolo “Villainy I”, seguito quest’anno da una compilation contenente i due demo d’esordio.

Si ripresentano oggi tramite Hellprod con questo 7″ composto da due ottimi brani, The View from Ivory Tower, dall’andamento al limite del doom/death, e Heir To The Throne, dai ritmi più sostenuti e vicina all’hardcore/punk, caratterizzata da un ottimo lavoro della chitarra e dalle atmosfere rock’n’roll motorheadiane.
Due brani agli antipodi dunque, facce di una stessa medaglia che fa del metal fuori dagli schemi il punto di forza dei tre musicisti orange, con un ottimo impatto nella prima ed una buona attitudine nella seconda.
Jeroen Pleunis al basso e Bram Keijers alle pelli formano la solita sezione ritmica tutta potenza e velocità, mentre la chitarra di Reinien Vrancken (specialmente nel secondo brano) si crogiola in fiammate metal rock grintose e trascinanti.
Prodotto indubbiamente di nicchia, The View From Ivory Tower regala agli amanti del genere due ottimi brani e, per chi vuole avere tutto della band, un acquisto da compiere in fretta visto il limitato numero di copie disponibili.

TrackList:
Side A
1. The View from My Ivory Tower
Side B
2. Heir to the Throne

Line-up:
Jeroen Pleunis – Bass
Reinier Vrancken – Vocals, Guitars
Bram Keijers – Drums

VILLAINY – Facebook

Ancillotti – The Chain Goes On

Elegante,metallico, epico, struggente, esaltante, in poche parole un must per gli appassionati dell’hard & heavy.

I lettori della nostra ‘zine che all’apertura della home cliccano sulla sezione metal, non avranno certamente bisogno che mi dilunghi per presentare Bud Ancillotti, un nome che è strettamente legato ad una band leggendaria dell’hard & heavy nazionale come la Strana Officina.

Il singer, accompagnato dal figlio Brian dietro le pelli e dal fratello Sandro al basso, con l’aggiunta dell’ottimo Luciano Toscani alla sei corde, arriva all’esordio sulla lunga distanza (dopo il demo “Down This Road Toghether”) con il progetto che porta il suo glorioso cognome.
Licenziato dall’etichetta tedesca Pure Steel Records, firma di prestigio per i suoni heavy classici, The Chain Goes On aggiunge un’altra tacca sull’asta del microfono del vocalist nostrano, risultando un ottimo lavoro, suonato e prodotto benissimo, uno splendido spaccato di hard & heavy tradizionale che , inevitabilmente, porta alla mente (specialmente a chi quei gloriosi anni li ha vissuti) il passato di una musica che molti danno per morta ma che, al contrario, non solo è la fonte da cui nasce l’immenso fiume metallico, ma vive ed è perfettamente in salute, magari lontana dai riflettori ma sempre fiera ed assolutamente protagonista.
Una raccolta di brani rocciosi dove la grintosa voce di Bud declama anthem metallici, esaltanti, un songwriting sopra le righe che regala momenti pregni di quel sano heavy metal di cui non ci si può che innamorare, acciaio che fonde e si modella tra ritmiche ruvide ma dall’enorme appeal, solos sferraglianti e ballad splendide (Sunrise), a comporre un lavoro completo, curato ed elettrizzante dalla prima all’ultima nota.
Bang Your Head mette subito in chiaro che qui si fa hard rock al suo massimo livello, seguita dalla veloce Cyberland, ma siamo solo all’inizio, perché irrompe poi uno dei brani più belli del disco, Victims Of The Future, cadenzata, sostenuta da un riff mastodontico e da una prova di Bud da applausi: sanguigno ma allo stesso tempo elegante, il singer toscano invita a sedersi al banco e con attenzione seguire la lezione su come si canta su un album di questo tipo.
The Chain Goes On scorre che è un piacere tra canzoni eccezionali come Legacy Of Rock (un brano che i Saxon non scrivono più da vent’anni), I Don’t Wanna Know, Warrior e la già citata e bellissima Sunrise.
Elegante, metallico, epico, struggente, esaltante, in poche parole un must per gli appassionati dell’hard & heavy: l’esordio della band toscana regala brividi a profusione, colmando il vuoto delle uscite discografiche in questo genere, specialmente a questi livelli, aspettando il singer con una nuova prova degli altrettanti grandi Bud Tribe.

Tracklist:
1. Bang Your Head
2. Cyberland
3. Victims of the Future
4. Monkey
5. Legacy of Rock
6. Liar
7. I Don’t Wanna Know
8. Devil Inside
9. Warrior
10. Sunrise
11. Living for the Night Time

Line-up:
Sandro “Bid” Ancillotti – Bass
Brian Ancillotti – Drums
Luciano “Ciano” Toscani – Guitars
Daniele “Bud” Ancillotti – Vocals

ANCILLOTTI – Facebook