Heilung – Futha

Cultura vichinga, antiche saghe islandesi e il tocco magico di un altro tempo rendono Futha un lavoro che può competere a disco dell’anno in svariate categorie, ma cosa più importante è un disco femmineo ed oscuro, terminato nell’ora più scura dell’anno, le 21 del 21 dicembre, dopo tre anni di lavorazione per un qualcosa di meraviglioso e tremendo.

Gli Heilung sono un gruppo di folk totale, dove gli altri gruppi ricreano anche in maniera mirabile atmosfere antiche loro sono dentro a quella dimensione temporale e ci parlano da lì.

Definirli metal è azzardato, diciamo che fa parte del loro sostrato, ma qui c’è tantissimo di più. Anche il termine folk non è del tutto esatto qui, dato che gli Heilung fanno musica antica, nel senso che riportano alla luce una musica nordica e primordiale, con ritmi e tempi totalmente diversi dal nostro. Il gruppo danese compie sempre un lavoro immenso per produrre i propri dischi, sia in termini di ricerca, che di composizione e resa, e i risultati sono incredibili. I loro lavori trattano l’epopea dei vichinghi da dentro, specialmente il loro lato più esoterico ed animalesco, ed anche dal vivo l’immedesimazione è totale. Il precedente Ofnir era un album di netto segno maschile, che parlava di rune tracciate sugli scudi, lotte e sangue. Futha è anche un’incisione ritrovata su di un braccialetto, la cui traduzione ha suscitato più di una disputa in ambito accademico, che possiede sa un grande significato magico che un diretto riferimento ai genitali femminili. L’epoca dalla quale proviene il braccialetto era un tempo assai lontano nel quale la donna era molto potente all’interno di una società che si potrebbe tranquillamente definire matriarcale, molto lontana dalla concezione odierna della donna. Tutto ciò si respira all’interno di questo lavoro, che è molto più di un disco, è un trattato di magia, una porta per un passato che vive ancora in noi. Gli Heilung meravigliano per la loro originalità e per il loro disegno musicale, e Futha è davvero difficile da rendere con termini moderni. Il disco non è tutto di musica, e quando c’è il ritmo esso è tribale e si lega in maniera fortissima e magica alle voci che sono polifoniche, o raccontano storie come si usava nelle tribù. Ci sono anche notevoli momenti di dark ambient, ma i pezzi più forti sono quelli che coinvolgono tutte le parti del gruppo, come la immensa Eldansurin, vero e proprio capolavoro musicale, e non è il solo. Cultura vichinga, antiche saghe islandesi e il tocco magico di un altro tempo rendono Futha un lavoro che può competere a disco dell’anno in svariate categorie, ma cosa più importante è un disco femmineo ed oscuro, terminato nell’ora più scura dell’anno, le 21 del 21 dicembre, dopo tre anni di lavorazione per un qualcosa di meraviglioso e tremendo.

1 Galgaldr
2 Norupo
3 Othan
4 Traust
5 Vapnatak
6 Svanrand
7 Elivagar
8 Elddansurin
9 Hamrer Hippyer

Kai Uwe Faust
Christopher Juul
Maria Franz

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Stellar Master Elite – Hologram Temple

Hologram Temple è una prova matura e al contempo ricca degli slanci compositivi necessari per portare le sonorità estreme su un piano differente e più elevato, senza snaturarne l’abrasiva essenza

Gli Stellar Master Elite sono un band tedesca che, in questo decennio, si è messa in luce grazie ad una davvero interessante trilogia basata su un black doom di elevata qualità.

Hologram Temple è quindi il quarto full length che alza ulteriormente l’asticella qualitativa per questo gruppo che ha ben tre elementi in comune con un’altra intrigante realtà del black metal germanico come i Der Rote Milan.
Fin dalle prime note si intuisce che qui il tutto viene trattato in maniera tutt’altro che manieristica o derivativa, perché gli Stellar Master Elite riescono a creare un black doom/death nell’accezione più autentica del termine, nel senso che i generi vengono perfettamente amalgamati per un risultato finale che soddisfa il palato sia in senso melodico che per intensità.
Il gruppo di Trier (città che in Italia conosciamo meglio come Treviri) vi aggiunge poi anche un pizzico di avanguardia ed un ricorso sapiente a sampler o spunti ambient atmosferici senza far scemare mai la tensione.
L’aspetto che maggiormente colpisce è che, nonostante le premesse ed una profondità compositiva rilevante, gran parte dei brani godono di un andamento tutt’altro che ostico all’ascolto, testimonia ampiamente una traccia formidabile quale l’opener Null, senza dimenticare che i nostri sanno anche toccare corde più profonde come in Ad Infinitum oppure spingersi verso territori più avanguardistici senza perdere in incisività come in Black Hole Dementia.
Hologram Temple è una prova matura e al contempo ricca degli slanci compositivi necessari per portare le sonorità estreme su un piano differente e più elevato, senza snaturarne l’abrasiva essenza; nonostante questi musicisti, per forza di cose, attingano ad un background ben definito non ci sono mai momenti in cui si palesa in maniera fragorosa ed evidente l’influenza di una specifica band. Tutto ciò depone a favore di un sound personale, ricco e in costante evoluzione senza sconfinare in un arido sperimentalismo, come neppure avviene nel quarto d’ora ambient di Tetragon, minaccioso episodio opportunamente collocato in conclusione del lavoro e sorta di appendice volta a rinsaldare ancor più il forte legame tra il concept fantascientifico ed il contenuto musicale.

Tracklist:
1. Null
2. Freewheel Decrypted
3. Apocalypsis
4. Ad Infinitum
5. The Beast We Have Created
6. Agitation – Consent – War
7. Black Hole Dementia
8. The Secret of Neverending Chaos
9. Tetragon

Line-up:
M.S. – Drums, Vocals
D.F. – Guitars, Bass, Programming
T.N. – Bass
E.K. – Vocals
S.K. – Vocals

STELLAR MASTER ELITE – Facebook

None – Damp Chill of Life

L’opera di None è di assoluto rilievo per l’abilità nell’unire in maniera ottimale le componenti più cupe e al contempo più atmosferiche del black metal, al cui interno la tendenza di matrice depressive viene infatti stemperata da aperture melodiche.

None è il nome di un progetto atmospheric black del quale poco si sa, se non il fatto che la sua provenienza è la sempre fertile per queste sonorità terra statunitense.

Damp Chill of Life è il terzo full length che, come quelli usciti nel 2017 e nel 2018, è stato pubblicato puntualmente l’11 aprile, data che evidentemente riveste un significato preciso per questo musicista (probabile infatti che si tratti di un solo project).
L’opera di None è di assoluto rilievo per l’abilità nell’unire in maniera ottimale le componenti più cupe e al contempo più atmosferiche del black metal, al cui interno la tendenza di matrice depressive viene infatti stemperata da aperture melodiche che rimandano alle band cascadiane, ma il tutto viene poi rafforzato da una scrittura non banale e sempre carica di tensione emotiva.
Damp Chill of Life si snida per circa tre quarti d’ora, tra brani molto lunghi come la title track, dal drammatico incedere punteggiato dal tipico screaming disperato, o Cease, dall’incipit ambient che si apre nella seconda parte in un dolente e cristallino afflato melodico.
La componente ambient è comunque sempre piuttosto presente, così come sprazzi di folk regalati da un notevole lavoro di chitarra acustica: Damp Chill of Life è un album in cui vengono alternati con maestria passaggi dall’enorme impatto emotivo ad altri più rarefatti e riflessivi, senza il tutto appaia mai frammentato e qui risalta la bravura, anche esecutiva, del nostro anonimo quanto ottimo protagonista.
Una produzione al di sopra della media per gli standard del genere chiude alla perfezione un cerchio all’interno del quale è possibile conservare con cura questo album,  chiuso da un altro splendido e sofferto monumento alla disperazione come A Chance I’d Never Have.
Per fortuna, contraddicendo il titolo di quest’ultima traccia, un progetto come None ha avuto invece la possibilità di emergere in tutta la sua bellezza in questi ultimi anni, grazie al supporto di un etichetta come la Hypnotic Dirge, come sempre capace di portare alla luce magnifiche realtà altrimenti destinate a languire nei meandri dell’underground più nascosto e inaccessibile.

Tracklist:
1.Fade
2.The Damp Chill of Life
3.Cease
4.You Did a Good Thing
5.It’s Painless to Let Go
6.I Yearn to Feel
7.A Chance I’d Never Have

DEGREDO – A NOITE DOS TEMPOS

Ancestrali arcaici infernali suoni e rumori, per un esordio che, se musicalmente poco Black Metal, rimane comunque profondamente nero nell’anima, nel corpo e nell’infernale alone Dark Ambient che circonderà qualsiasi ascoltatore che ne tenterà il coraggioso approccio.

Sono sempre stato affascinato dall’alone di mistero di cui certe band (soprattutto Black) amano circondarsi.

I Degredo, nello specifico, appaiono e scompaiono come un poltergeist, come una qualche entità (maligna) che pare appena uscita da Paranormal Activity.
Appena abbozzi una ricerca sul Web, e pensi di esser riuscito a carpire qualche informazione, ti rendi quasi immediatamente conto, che stai guardando una qualsiasi pagina su internet che nulla ha a che fare con la band in questione.
D’altronde Velha e Lagrisome (i monickers del duo portoghese di non si sa quale dimenticata città lusitana…) non ci informano nemmeno sul loro ruolo nella band, su quale strumento suonano, su chi sia il songwriter, e non lasciano alcuna traccia delle loro liriche.
Appare pertanto difficoltoso (sebbene affascinante) recensire un album (il loro debutto) e citare qualche informazione di una band di cui conosciamo poco, anzi pochissimo, se non solo che appartengono all’Inner Circle Portoghese (il cosiddetto “Aldebaran Circle” che conta tra gli adepti anche Voemmr, Ordem Satanica, Trono Alem Morte e Occelenbriig).
Sicuramente l’appartenenza ad un Circle, oltre a rendere ancor più misteriosa l’origine di una band, (pensiamo agli adepti delle Legions Noires francesi, o dell’Austrian Black Metal Syndicate, e ancora del Temple of Fullmoon polacco, per non dimenticare il primo – ed originale – Norvegian Black Inner Circle) ci pone di fronte ad orde di misantropi, misogini e misandrici esseri (forse) viventi, il cui Verbo racchiude il più impenetrabile, imperscrutabile ed ermetico atteggiamento anti-umanità che la storia possa ricordare.
A fronte di queste considerazioni, pare ovvio che meno informazioni personali vengono divulgate sulla rete, meno notizie su se stessi vengono rese accessibili, al resto dell’umanità, meglio è. Chiaro che spesso, questo poco intelligibile atteggiamento, racchiude una sottile e velata attenzione ad azioni di vero marketing; il mistero affascina tutti, della serie: “meno faccio sapere di me stesso, più la gente vuole sapere…”.
Musicalmente i Degredo appaiono fin da principio in linea con quanto appena detto.
Un album della durata di circa un’ora e un quarto, suddivisa in quattro parti (letteralmente, non esistono veri e proprio titoli di canzoni), di un Dark Ambient Noise Black impregnato fortemente di infernali rumorismi dark, grigio industrial, ma soprattutto tanta Drone Music.
Un album assolutamente minimalista, nero come un’eterna notte antartica; un’iperbole di cupo odio, che sprigiona malignità da ogni sua pseudo-nota musicale. Un terrificante affronto alla vita, a tutto ciò che possa oggi rappresentare calore e luce. Chi si appropinqua a questo album, percorrerà un viaggio a ritroso nel tempo, proiettato in un antichissimo mondo dimenticato, ove luce e chiarore non faranno mai capolino, immersi in eterne tenebre, accompagnati da quattro “momenti musicali” che paiono far parte dell’uno (in realtà è un’unica canzone suddivisa in quattro parti); un viaggio Dantesco, verso i più oscuri antri infernali. Un album che è un archetipo della malvagità più arcana ed ancestrale, non adatto a persone impressionabili, consigliatissimo per scatenati fan di Abruptum e Mortiis.
Dopo quattro demo (il primo datato 2012, quindi una band decisamente giovane) ecco pertanto lo stravagante esordio su Harvest Of Death, label accostabile sicuramente al Circle portoghese, in quanto autrice di quasi tutte le produzioni delle band sopra citate.
Un ultima nota: se si ha un poco di tempo, può essere divertente dare un’occhiata alle informazioni sulle band dell’etichetta in questione… col risultato di trovare poco o niente. Mistero su mistero, in pieno stile Inner Circle!

Tracklist
1. Parte Um
2.Parte Dois
3.Parte Três
4.Parte Quatro

Line-up
Velha
Lagrisome

VV.AA. – A TRIBUTE TO BURZUM

La Compilation di cover della band di Vikernes – in uscita il 21 Novembre per il noto Antichrist Magazine – contiene ben 17 band provenienti da tutto il mondo (compresa una special guest d’eccezione: la bellissima e misteriosamente gotica pianista e compositrice berlinese, Katarina Gubanova). Ce n’è per tutti i gusti. Dai Burzum elementali e primevi dell’Omonimo e di Aske, passando poi per tutte le fasi di ispirazione Ambient, sino ad arrivare al periodo Folk/Viking dei giorni nostri.

Ad essere sincero, ho sempre pensato che il Tributo alla band icona di turno, dovesse per forza essere un omaggio a chi oggi non esiste più.

Un ossequioso dono sacrificale ad un’entità musicale del passato e che oggi esiste solo nei ricordi e nelle memorie dei fan. In realtà, continuo ad essere contraddetto e smentito, dalla valanga di album-tributo che escono ogni giorno, dedicati a compositori, strumentisti e band ancora molto attive, ai giorni nostri. Il Tributo spesso viene definito come l’atto che viene compiuto per adempiere ad un obbligo (in genere di carattere morale) verso qualcuno, a riconoscenza dei suoi meriti; forse sarebbe più azzeccato omaggiare il ricordo, di chi oggi non c’è più, o almeno non risulta essere più in attività…Vero è che la parola Tributo (dal latino “tributus”, derivazione di “tribus” – Tribù), spesso identifica anche l’appartenenza alla tribù. Oggi come tutti sappiamo, i Burzum non sono più in attività (l’ultima produzione risale al 2015, con il singolo Thulean Mysteries, dopodiché più nulla sino alla dichiarazione ufficiale di giugno di quest’anno di Mr. Varg Vikernes, nella quale ci informava che il progetto fosse giunto al termine, dopo ben 27 anni). In questo contesto, collocherei l’album, oggetto della recensione, ergendolo a simbolo di un’esigenza popolare, sicuramente maturata negli anni, di poter esprimere, sia tutta la devozione della tribù del Black Metal verso il loro idolo indiscusso, sia una sorta di necessità atta a sottolineare la “proprietà” (in senso ovviamente lato) dell’immensa opera che ci ha lasciato. Come a dire :”devoti alla nostra divinità e proprietari/custodi di ciò che ci ha lasciato in eredità”.
La Compilation di cover della band di Vikernes – in uscita il 21 Novembre per il noto Antichrist Magazine – contiene ben 17 band provenienti da tutto il mondo (compresa una special guest d’eccezione: la bellissima e misteriosamente gotica pianista e compositrice berlinese, Katarina Gubanova). Ce n’è per tutti i gusti. Dai Burzum elementali e primevi dell’Omonimo e di Aske, passando poi per tutte le fasi di ispirazione Ambient, sino ad arrivare al periodo Folk/Viking dei giorni nostri. Dall’Olanda gli ottimi blacksters Yaotzin, ci propongono Hvis lyset tar oss, in una versione fedelissima della title-track del capolavoro datato 1994. I truci tedeschi Khald, band della nera regione di Baden-Württemberg, rileggono Jesus’ Tod (in lingua madre Jesu død) dall’album Filosofem (1996), uno dei più grandi lavori dell’artista norvegese in ambito Black e Dark Ambient, in maniera leggermente più sinfonica (l’iniziale tremolo di Vikernes viene qui principalmente sostituito dai synth), perdendo un po’ il Raw, ma ottenendo comunque un pezzo di uguale impatto. Balzo in avanti negli anni (siamo nel 2010) con gli ucraini Atra Mors e con Belus’ død, tratta ovviamente da Belus (2010), primo album pubblicato dopo la scarcerazione di Varg, e originariamente uscito con il titolo Den Hvite Guden (“Il Dio Bianco”, in lingua norvegese), e quindi ennesima revisione del riff già presente su Dauði Baldrs (per scelta, Vikernes decise qui di ripetere paro paro il riff della canzone del 1997). Molto Black classico e poco Burzum di quegli anni, ad onor del vero. Malinconia e ricordi nella cover degli americani Aetranok che dei 10 minuti ed oltre di A Lost Forgotten Sad Spirit (dall’ep Aske del 1993) fanno copia ed incolla (da notare la voce del singer Meretrix, davvero simile a Burzum) e meritano l’acquisto del loro nuovo album “Kingdoms of the Black Sepulcher” uscito per la Symbol of Domination. Prima song tratta dall’album eponimo del 1992 (Feeble Screams from Forests Unknown) per gli olandesi Myrkur Skógur, riletta in chiave più moderna; la cover risulta piacevole, ma il suono più pulito ne impoverisce un po’ la cupa atmosfera degli esordi del signore di Bergen. I terribili “chiodati” vichinghi Wan dalla vicina Svezia, giocano facile e rivivono Stemmen fra tårnet (Aske) “alla scandinava”; il risultato è un pezzo che pare fuoriuscito direttamente dal 1993. I sinfonici germano/norvegesi Dynasty of Darkness scelgono Dunkelheit (titolo originale “Burzum”, da Filosofem), ovviamente il brano più Ambient dell’album, senza però perdersi in troppo arzigogolate ruffiane armonie, mantenendo la terrificante desolazione, che il brano originale esprime in ogni sua singola nota. Chi ama il tremolo ama My Journey To The Stars (Burzum). Qui i bravissimi germanici Mournful Winter sciorinano una tecnica sopraffina, senza però far perdere alla song il pathos originale. Con curiosità e attenzione critica mi appropinquo all’ascolto della cover di Han Som Reiste (da Det som engang var – 1993) il capolavoro strumentale dell’artista con l”A” maiuscola. I Colotyphus (Ucraina) purtroppo ne rovinano l’arcano fascino medioevale, riducendo il pezzo ad un classico (e scontato) brano di Dark Ambient sinfonico. Il sapiente utilizzo del basso non come semplice base ritmica, ma come strumento portante di tutto l’eterno corpo della canzone (più di 11 minuti) e gloriosa anima di dimenticate epopee guerresche, fece la fortuna di Glemselens Elv (Belus) ergendola ad uno dei più fulgidi esempi di Viking Metal (molto Bathoriano ad onor del vero). Purtroppo il seppur bravissimo duo dell’Arizona (Unholy Baptism) cede alla tentazione, e dà risalto alle sole chitarre per riproporre il meravigliosamente ossessivo giro di basso, così in evidenza nel brano originale. Un peccato perché, davvero, gli autori di …On the Precipice of the Ancient Abyss, sono un ottimo gruppo da tenere d’occhio. I terrificanti Bestia si cimentano nel tentativo di ripetere il successo primevo di Beholding The Daughters Of The Firmament (Filosofem); il brano, sicuramente uno dei più funerei e doom di tutto l’album, appariva già da principio inadatto al quartetto estone, fautore di un Black Metal con influenze Brutal Death; il pezzo viene rivisitato, ritmato ed infarcito di synth, facendone un buon pezzo Black, ma che nulla c’entra con l’originale. Anche il cantato schizoide di Vikernes, viene qui sostituito da uno dei più classici scream. Peccato. La brevissima War (da Burzum), vero pezzo Bathoriano appartenente alla First Wave of Black Metal, è stato scelto dai bravissimi Chaoscraft. Qui i greci dimostrano di sapere il fatto loro e di conoscere molto bene le loro origini e le loro fonti ispiratrici. Resta un mistero conoscere il motivo per il quale, per il pezzo Vanvidd (Fallen – 2011), sia stata chiamata una band di Melodic Death, invece che scegliere una tra le miriadi di band Black provenienti dalla Colombia. Qui i Thy Unmasked di Bogotà, ce la mettono tutta, ed il risultato ovviamente non poteva che essere un mix di Black e Death; bello si, ma lontano dalle idee di Varg. Quando ho letto Uruk-Hai ho pensato (con piacere) immediatamente ai bravissimi corpsepaint blacksters spagnoli; in realtà di tratta di un’altra band, ossia i Medieval Dark Ambient austriaci. Scelta comunque azzeccata per il brano Hermoðr á Helferð (Dauði Baldrs – 1997), che si collocherebbe alla perfezione tra le fila delle produzioni della one-man band di Linz. Un lungo salto nel 2012, per ascoltare la cover di Valgaldr, da Umskiptar, uno degli album più folk viking metal del Nostro. Scelta azzeccata con gli ungheresi Eclipse of The Sun, band che propone un sound molto ricco e variegato, tra il Folk, il Gothic e il Doom. Eccellente. Il Bielorusso Darkus (alias Stanislaŭ Semeniaha), unico membro dei blackster Imšar, si cimenta con un brano tratto da Det som engang var, ossia En Ring Til Å Herske. Il brano si sa, è nero e funereo come la morte stessa, drammaticamente lento e angosciosamente ripetitivo, e fortunatamente Mr. Darkus non ne storpia troppo la lugubre natura mortuaria; forse un po’ meno andante e un po’ più adagio, e sarebbe stato perfetto. Special guest a chiusura della compilation, la pianista berlinese Katarina Gubanova che, grazie al magico utilizzo dei suoi polpastrelli, rilegge Ea, Lord of the Depths (da Burzum) in chiave sinfonica per pianoforte: brano curioso e ammaliante, chiude un devoto tributo al Re del Male, spesso non proprio centrato, ma nel complesso un buon prodotto per i fan dei Burzum e per chi vuole scoprire nuove realtà Black, sino ad oggi ancora poco conosciute.

Tracklist
1. Yaotzin (Netherlands) Hvis lyset tar oss
2. Kâhld (Germany) Jesus’ Tod
3. Atra Mors (Ukraine) Belus’ Dod
4. Aetranok (USA) A Lost Forgotten Sad Spirit
5. Myrkur Skógur (Netherlands) Feeble Screams from Forests Unknown
6. Wan (Sweden) Stemmen Fra Taarnet
7. Dynasty of Darkness (Germany / Norway) Dunkelheit
8. Mournful Winter (Germany) My Journey To The Stars
9. Colotyphus (Ukraine) Han Som Reiste
10. Unholy Baptism (USA) Glemselens Elv
11. Bestia (Estonia) Beholding The Daughters Of The Firmament
12. Chaoscraft (Greece) War
13. Thy Unmasked (Colombia) Vanvidd
14. Uruk-Hai (Austria) Hermodr A Helferd
15. Eclipse of The Sun (Hungary) Valgaldr (Song of the Fallen)
16. Imšar (Belarus) En Ring Til Å Herske
17. + special guest:
Katarina Gubanova (Germany) Ea, Lord of the Depths

ANTICHRIST MAGAZINE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=cHNZE0s4w_8

BLACK FUNERAL – THE DUST AND DARKNESS

Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, The Dust And The Darkness contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità.

L’amore spassionato per occultismo, satanismo (più precisamente per il “Luciferianismo”) e vampirismo, costituisce l’anima di tutta la produzione del leader del duo di Houston.

Baron Drakkonian Abaddon (alias Michael W. Ford), voce, basso ed effetti del combo, è un appassionato delle scienze occulte e di tutto ciò che graviti intorno al Satanismo e all’Esoterismo più arcano e imperscrutabile. Un Aleister Crowley dei giorni nostri, autore di numerosi libri sull’argomento e proprietario della Luciefrian Apotheca (www.luciferianapotheca.com – negozio online adatto a chiunque si voglia sbizzarrire nell’acquistare testi esoterici, oggetti satanici, incensi, erbe misteriose e così via, ed organizzarsi un Sabba casalingo), non poteva che essere contemporaneamente il front-man di numerose famose band Black Metal americane (Darkness Enshroud, Empire Of Blood e i concittadini Valefor per citarne alcune). In tutte le sue produzioni, le tematiche sopra citate, costituiscono il leitmotiv, il motivo conduttore di tutta la sua attività da strumentista, attiva da oramai 25 anni. Tutta la sua vita risulta imperniata dal tenebroso interesse per le pratiche di magia nera che, negli anni, ne hanno influenzato anche la vita privata. Sposato inizialmente con quella che viene definita un “primeva strega” dei giorni nostri, la medium Lux Ferro (alias Elda Isela Ford), scrittrice di libri esoterici e compositrice per alcune band dedite ad arcane sonorità rituali (tra cui i dark dance Psychonaut 75), Mr. Ford dedicherà la maggior parte dei suoi sforzi e delle sue attenzioni al progetto Black Funeral, oggetto di questa recensione, di cui la moglie ne è stata – seppur per un breve periodo – anche cantante.
Coadiuvato da Mr. Azgorh Drakenhof, polistrumentista australiano già proprietario dell’etichetta Dark Adversary Productions, ma soprattutto leader incontrastato della one-man band Drowning the Light, la più famosa (e prolifica) band della terra dei canguri, Abaddon ci dona questo ep ricco di nere atmosfere, occulte ambientazioni e malvagie auree, che farà sicuramente la gioia di dei fan più legati al Black Ambient più nero e tetro, ottimamente arricchito di empi rimandi ritualistici, sprigionanti nere icore direttamente provenienti dai più oscuri antri dell’Inferno.
Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità. Dankuis Daganzipas (dalla lingua Ittita -Dark Earth) è un elogio rituale alle malvagie divinità dell’antico e misterioso popolo dell’Anatolia. Intro tribale per Alanni Goddess of the Underworld, un pezzo che si dipana su 3 minuti e mezzo circa di classico cupo Black Metal in pieno stile old school scandinavo. Versi infernali che presumibilmente gorgogliano blasfemie, annunciano l’ingresso di Chemosh of the Dust and Darkness: un elogio al Dio dei Moabiti, popolazione vissuta circa tremila anni fa sulle rive del Mar Morto, più precisamente sull’attuale altopiano del Kerak. Oscuro Dio della distruzione, a cui venivano dedicati sacrifici umani, viene qui idolatrato grazie ad un Black veloce, senza particolari fronzoli e senza nessuna tregua; un suono corvino come l’animo della divinità stessa, spesso etichettata come “abominio di Moab”, che non lascia dubbi sulla sua antica empia malvagità. Sfumature classiche in Mistress of the Pit, vero cantico consacrato ad una non ben definita nera regina dell’Abisso. Nulla a che vedere con il Black Metal nel senso stretto del termine. Cupe armonie cullate da un sapiente uso dei sinth, ne fanno un pezzo di ottimo Dark Ambient che ci strugge di malinconia e instilla nei più sensibili, desideri di abbandono all’eterno sonno, avvolti dal crepuscolo.
Un mini album di buona fattura che potrà accendere la curiosità di chi prima non si è mai accostato al sound del combo americano. Black ed Ambient in una cagliostrica miscela che appassionerà tanti, e che forse li condurrà alla scoperta della loro intera produzione (9 full-length e svariate produzioni minori).

Tracklist
1. Dankuis Daganzipas (Dark Earth)
2. Alanni Goddess of the Underworld
3. Chemosh of the Dust and Darkness
4. Mistress of the Pit

Line-up
Baron Drakkonian Abaddon (Michael Ford Nachttoter) – Vocals, Bass, Electronics
Azgorh Drakenhof – Guitars, Bass, Keyboards

BLACK FUNERAL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=5SDv0JFqqUo

Carpe Noctem – Vitrun

Il black metal è quello che, oggi, più che in tutti gli altri generi, sembra offrire a svariati interpreti la possibilità di forgiare la materia e renderla unica senza farle perdere la propria originaria connotazione: se, poi, a farlo sono musicisti magnifici come i Carpe Noctem il capolavoro è un qualcosa che viene di conseguenza.

Vitrun è il secondo full length dei Carpe Noctem, band islandese che annovera tra le sue fila musicisti attivi in diversi altri gruppi della scena, tra I quali spicca il nome di Árni, motore dei magnifici Árstíðir Lífsins, qui al basso.

Questo lavoro è l’ennesimo che capita di ascoltare quest’anno per il quale la catalogazione all’interno del black metal, per quanto corretta da un punto di vista prettamente teorico, rischia di rivelarsi fuorviante alla luce dei suoi contenuti reali.
Così come ingannevole è, per certi versi, l’opener Söngurinn sem ómar á milli stjarnanna, unico brano che sembra dare ragione al marchio associato ai Carpe Noctem, pur con il suo mostrare un incedere tutt’altro che lineare, ma è a partire dalla successiva Upplausn che Virun cambia completamente marcia, lasciando fluire quei livelli di tensione ed intensità che saranno poi il tratto distintivo dall’opera fino alla sua conclusione; questo è un episodio davvero splendido nel quale emerge un chitarrismo minimale ma peculiare ed insinuante.
Le dissonanze di Og hofið fylltist af reyk caratterizzano un brano che si fa furioso nel finale, una tempesta alla quale segue la quiete di Hér hvílir bölvun, traccia superlativa che monta lenta e inarrestabile come un’oceanica marea.
Il liquido ma sempre nervoso strumentale Úr beinum og brjóski mantiene alto il pathos prima dell’ultimo strappo emotivo rappresentato da Sá sem slítur vængi flugunnar hefur náð hugljómun, in cui i Carpe Noctem esaltano anche le loro non non banali doti strumentali (il drumming di Helgi è tentacolare e prodigo di variazioni), grazie alle quali un lavoro oggettivamente complesso riesce ugualmente a scorrere senza che chi ascolta venga messo di fronte ad un rompicapo sonoro.
Certo, tra il raw black e quanto contenuto in Vitrun paiono esserci di mezzo diverse ere geologiche, ma la base di partenza è pur sempre quella che, oggi, più che in tutti gli altri generi del metal, sembra offrire a svariati interpreti la possibilità di forgiare la materia e renderla unica senza farle perdere la propria originaria connotazione: se, poi, a farlo sono musicisti magnifici come i Carpe Noctem il capolavoro è un qualcosa che viene di conseguenza.

Tracklist:
1. Söngurinn sem ómar á milli stjarnanna
2. Upplausn
3. Og hofið fylltist af reyk
4. Hér hvílir bölvun
5. Úr beinum og brjóski
6. Sá sem slítur vængi flugunnar hefur náð hugljómun

Line-up:
Alexander Dan Vilhjálmsson – Vocals & lyrics
Andri Þór Jóhannsson – Guitars
Árni Bergur Zoëga – Bass
Helgi Rafn Hróðmarsson – Drums
Tómas Ísdal – Guitars

CARPE NOCTEM – Facebook

Essenz – Manes Impetus

Gli Essenz non risparmiano sofferenze all’ascoltatore ed in quasi un’ora di furia, rallentamenti asfissianti, ambient e aperture vicine al death più morboso, regalano un’opera a tratti complessa ed ostica, ma dal raro e annichilente potenziale.

Il terzo full length dei tedeschi Essenz, a sei anni dal precedente Mundus Numen, riporta alla ribalta un grippo enigmatico e sfuggente ma di spessore non comune nella sua interpretazione della materia estrema.

Il black metal offerto dalla band berlinese (nella quale confluiscono membri dei Drowned e degli Early Death) è piuttosto lontano dall’ortodossia del genere, se andiamo e vederne la forma, ma molto più vicino al momento di consuntivare il risultato finale, in quanto il carico di misantropica cupezza che i nostri scaricano in Manes Impetus è davvero moto elevato.
Il sound, per certi versi, può essere assimilabile ad una versione avantgarde del black più francese che tedesca (parliamo quindi di sperimentatori estremi come Blut Aus Nord o Deathspell Omega, ma anche dei vicini di casa Darkspace) ma non è difficile rinvenire il tentativo, spesso riuscito, di coinvolgere l’ascoltatore in maniera più diretta, grazie ad un incedere sovente cadenzato che spinge il tutto dalle parti di un doom deviato.
Il mondo prefigurato dagli Essenz è un luogo nel quale l’ossigeno scarseggia, sia quando si corre a perdifiato sia nei momenti in cui il passo rallenta e il sound si dilata; la solennità che contraddistingue il black metal germanico non viene certo meno ma qui viene messo al servizio di un incedere claustrofobico all’ennesima potenza, con quelle cavalcate in doppia cassa che paiono non vedere mai la fine, in particolare nelle lunghissime Peeled & Released e Randlos Gebein, ideali manifesti sonori dell’album.
Gli Essenz non risparmiano sofferenze all’ascoltatore ed in quasi un’ora di furia, rallentamenti asfissianti, ambient e aperture vicine al death più morboso (Ecstatic Sleep, per la parte che arriva dopo l’iniziale prolungamento della sperimentale Sermon To The Ghosts), regalano un’opera a tratti complessa ed ostica, ma dal raro e annichilente potenziale.
Non tragga in inganno il riferimento alle band avanguardiste fatto in precedenza: nonostante un certa contiguità a simili suoni, in realtà Manes Impetus si rivela paradossalmente più scorrevole , a patto di non opporre resistenza alle reiterazioni ritmiche ed al rombo, sovrastato dal ringhio di g.st., che si materializza all’interno di un lavoro che, per i suoi contenuti, non dovrebbe per nessun motivo essere trascurato.

Tracklist:
1. Peeled & Released
2. Unfolding Death
3. Amortal Abstract
4. Randlos Gebein
5. Apparitional Spheres
6. Sermon To The Ghosts
7. Ecstatic Sleep

Line-Up:
g.st. – vocals, lyrics, bass
d.rk – guitar
t.ngl – drums
d.bf – noise

ESSENZ – Facebook

Eidulon – Combustioni

Combustioni è un lavoro di enorme pregio, che merita l’attenzione di un gran numero di appassionati nonostante la naturale ritrosia da parte di qualcuno nel lasciarsi piagare le carni dalle sonorità aspre e profonde messe in campo da Gemelli.

La sperimentazione ha un senso solo quando non è fine a sé stessa, su questo non ci sono dubbi: solo se vengono rispettate tali condizioni anche le sonorità più ostiche hanno la possibilità di ottenere la giusta attenzione da parte di una fascia di ascoltatori,dotata comunque di un’attitudine all’ascolto non comune.

Il progetto denominato Eidulon possiede tutti questi crismi, forse perché nonostante una lungo silenzio l’ottimo Francesco Gemelli (che molti conosceranno anche per il suo prezioso operato in qualità di grafico) dimostra una padronanza totale della materia, modellandola e piagandola alle proprie esigenze, sfruttando al meglio in tal senso il contributo degli ospiti chiamati a collaborare alla riuscita di Combustioni.
L’album è un contenitore colmo di materia pericolosa ed instabile, sotto forma ora di dark ambient, ora di un industrial dalle sfumature apocalittiche; il tratto comune del lavoro è, però, un incedere talvolta solenne che viene sfregiato dalle prestazioni vocali di ospiti di primo piano come Nordvagr (MZ.412) e Luca Soi, il cui apporto si rivela senz’altro attrattivo anche per gli appassionati di doom, senza dimenticare il significativo apporto fornito da altri nomi di spessore quali Kammarheit, Caul e Naxal Protocol.
Indubbiamente , se il brano che vede all’opera uno dei protagonisti dell’epopea della Cold Meat Industry (A Shimmer In The Void), si rivela una delle massime espressioni possibili che si possano esibire in quest’ambito, non è certo da meno una traccia a dir poco impressionante come Grande Rosso, nella quale Luca Soi abbandona le tonalità evocative utilizzate nel recente capolavoro dei Void Of Silence per ergersi sinistro nel declamare un testo in lingua madre al di sopra di un tappeto sonoro altamente minaccioso.
L’organo che si insinua tra le pieghe The Hierarchy Of The Inner Planes (ancora con Nordvagr e con il fattivo contributo di Naxal Protocol) è qualcosa di destabilizzante, così come l’instabile quiete evocata dai vocalizzi di Soi in Immanence, dove spicca l’apporto di Brett Smith (Caul).
Kammarheit non può che essere chiamato in causa nella traccia più canonicamente dark ambient del lotto, Averni Flammas Transivi, mentre i due brani del tutto appannaggio di Gemelli aprono e chiudono il lavoro in maniera esemplare, con In Igne Revelabitur, dal riferimento nel titolo al quel fuoco che è una sorta di filo conduttore del disco, dedicato all’artista Alberto Burri capace di utilizzare appunto questo elemento come pennello (la magnifica copertina richiama il tutto in maniera eloquente), e con Stratificazione Settima, superbe prove di dark ambient disturbante e allo stesso tempo avvolgente.
Combustioni è un lavoro di enorme pregio, che merita l’attenzione di un gran numero di appassionati nonostante la naturale ritrosia da parte di qualcuno nel lasciarsi piagare le carni dalle sonorità aspre e profonde messe in campo da Gemelli.

Tracklist:
1.In Igne Revelabitur
2.A Shimmer In The Void (feat. Nordvargr)
3.Grande Rosso (feat. Luca Soi)
4.Averni Flammas Transivi (feat. Kammarheit)
5.The Hierarchy Of The Inner Planes (feat. Naxal Protocol & Nordvargr)
6.Immanence (feat. Caul & Luca Soi)
7.Stratificazione Settima

EIDULON – Facebook

Mesarthim – The Density Parameter

L’album è intriso di un immaginario cosmico che i Mesarthim interpretano con grande competenza e buon gusto, affidandosi ad ampie aperture melodiche che rifuggono abilmente il rischio di apparire stucchevoli.

The Density Parameter è il terzo full length per questo progetto atmospheric black australiano, nel quale ci siamo già imbattuti in occasione dei due precedenti lavori su lunga distanza (ai quali si accompagna un nutrito numero di Ep).

La componente black, in effetti, come è naturale che sia per uno stile nel quale è la melodia a prendere il sopravvento, si è via via stemperata rispetto agli esordi sino ad risultare davvero minima in quest’ultimo frangente, andando di fatto a coincidere con le diradate parti vocale in screaming.
L’album è come sempre intriso di un immaginario cosmico che i nostri interpretano con grande competenza e buon gusto, affidandosi ad ampie aperture melodiche che rifuggono abilmente il rischio di apparire stucchevoli; peraltro, sono proprio i passaggio nei quali meglio vengono delineate le atmosfere sognanti quelli in cui l’operato dei Mesarthim tocca il suo apice e trova anche la propria ragione d’essere.
Ω, Transparency e Fragmenting, ovvero i tre brani più lunghi del lotto, sono appunto gli episodi nei quali l’idea musicale del duo australiano viene espressa in manie più compiuta: nei primi due casi grazie a linee melodiche suadenti e ben memorizzabili, nel terzo con un andamento leggermente più vario, alla luce anche di un bell’inserto di elettronica nella parte centrale, prima di un finale piuttosto ricco di variazioni sul tema.
Ovviamente questo versante del black metal, spinto al massimo dal punto di vita atmosferico, difficilmente troverà i favori di chi predilige le sembianze true del genere, rivelandosi invece più adatto a chi ha già una certa familiarità con le sonorità sdoganate in passato dai vari Burzum e Mortiis.

Tracklist:
1. Ω
2. Collapse
3. Transparency
4. 74%
5. Recombination
6. Fragmenting

Line up:
. – Other
. – Vocals

MESARTHIM – Facebook

Autumnwind – Endless Fear

Endless Fear è un lavoro interessante, che mette in evidenza le buone potenzialità di un progetto ancora in divenire.

Suonare metal nei paesi mediorientali non è mai una passeggiata di salute, visto che in molti di essi l’egemonia culturale strettamente connessa alla religione comporta persino rischi a livello penale per chi ci prova; non credo che questo sia di norma lo stato delle cose in Siria, dove però purtroppo le difficoltà non devono essere certo da meno, a causa della guerra civile che attanaglia da anni una terra che è stata una delle più antiche culle della civiltà.

GaaRa “Abdulrahman Abu Lail”, con il suo progetto denominato Autumnwind, propone in Endless Fear un black metal atmosferico che tutto sommato lascia uno spazio molto limitato alle pulsioni estreme, rinvenibile in rare accelerazioni, affidando il tutto al lavoro delle tastiere, con le quali vengono tessute buone melodie.
Il riferimento più logico per il sound proposto dal musicista asiatico sono i Lustre, per cui c’è da attendersi fondamentalmente un sound piuttosto lieve, dalla marcata impronta melodica e con diversi elementi ambient.
GaaRa cerca di comunicare, con Endless Fear,  le sensazioni derivanti dagli attacchi di panico dei quali è stato vittima in tempi relativamente recenti: non solo per tale motivo, in questa mezz’ora di musica l’impressione è quella d’avere a che fare con un artista di indubbia sensibilità e con le doti necessarie per potersi ritagliare uno spazio in questa nicchia stilistica.
A mio avviso però, per riuscirci, dovrebbe forse focalizzarsi con maggiore decisione sul lato più evocativo del proprio sound, che emerge con prepotenza in bellissime tracce come The Hallucination e nella title track, mentre quando è l’anima più ruvidamente black a prendere il sopravvento (Forever Insomnia) gli esiti non sembrano altrettanto soddisfacenti.
Endless Fear è comunque un lavoro interessante, che mette in evidenza le buone potenzialità di un progetto ancora in divenire.

Tracklist:
1.The Panic Attack
2.The Hallucination
3.Lost And Alone
4.Forever Insomnia
5.Endless Fear

Line up:
GaaRa “Abdulrahman Abu Lail”

AUTUMNWIND – Facebook

Reverorum Ib Malacht – Im Ra Distare Summum Soveris Seris Vas innoble

I Reverorum Ib Malacht destrutturano il black metal rendendolo un coacervo di suoni minacciosi, con linee strumentali, rumori di fondo e urla sconnesse che si sovrappongono e si fondono quasi senza soluzione di continuità, valicando sovente il sottile confine tra la sperimentazione e la cacofonia.

Parlare di black metal cattolico potrebbe sembrare una contraddizione in termini, viste le finalità della nascita del genere e le modalità con cui esso si è sviluppato negli anni.

Del resto, la stessa frangia cristiana rinvenibile in ambiti rock e metal si muove in una direzione opposta rispetto a movimenti musicali nati con connotazioni ribellistiche e, in quanto tali, teoricamente estranei agli schemi rigidi imposti da una religione.
Gli svedesi Reverorum Ib Malacht costituiscono quindi un’anomalia piuttosto marcata, ancor di più se si pensa che l’operazione non si compie con il semplice rimpiazzo delle tematiche sataniste /pagane all’interno di una struttura musicale canonica: in realtà qui si va ben oltre, trattandosi di un’evoluzione sonora che porta il black a fondersi con sperimentalismi di scuola Cold Meat Industry, per un risultato finale inquietante e spiazzante assieme.
Il sound cupo e soffocante in fondo fa pensare ad una religione il cui fulcro risiede nell’espiazione e nella sofferenza rispetto alla misericordia e alla pace, come sarebbe normale ed auspicabile, rispetto a qualcosa di ultraterreno.
Misterium fidei, quindi. Chi la fede non ce l’ha può comunque apprezzare il tentativo di questi musicisti, invero coraggiosi, di destrutturare il black metal rendendolo un coacervo di suoni minacciosi, con linee strumentali, rumori di fondo e urla sconnesse che si sovrappongono e si fondono quasi senza soluzione di continuità, valicando sovente il sottile confine tra la sperimentazione e la cacofonia.
Im Ra Distare Summum Soveris Seris Vas innoble, per tutta questa serie di motivi, è un lavoro rivolto a pochi eletti i quali, al netto delle finalità della band, potranno trovare diversi motivi di interesse purché adusi ad un impatto non convenzionale.
L’unico brano contenente un linea melodica intelligibile è (Natten inuti) en tagg som sticke, che di fatto chiude il lavoro prima dell’outro: una piccola parentesi di respiro la cui collocazione potrebbe avere un significato, difficilmente rinvenibile all’interno di un concetto musicale decisamente criptico, per cui, in ossequio al credo promulgato da Im Ra Distare Summum Soveris Seris Vas innoble, ogni ascoltatore deve accettarlo come un dogma, senza discuterlo né provare ad comprenderlo fino ad esserne compenetrato.
Di per sé il lavoro è affascinante dal punto di vista strettamente musicale, mentre probabilmente sono troppo vecchio o non abbastanza acuto per riuscire a coglierne le reali finalità.

Tracklist:
1. Intro
2. Where Escapism Ends
3. Incompatible Molokh
4. Cloud of Unknowing
5. E va um da
6. Etia si omnes, ego non
7. Skin Without Skin
8. (Natten inuti) en tagg som sticke
9. Outro

Line-up:
Karl Hieronymus Emil Lundin
Karl Axel Mikael Mårtensson

REVERORUM IB MALACHT – Facebook

Malvento – Pneuma

I Malvento odierni raccolgono idealmente il testimone dell’occult metal italiano, portandolo fieramente lungo il tratto di percorso loro assegnato, con la consapevolezza di chi sa perfettamente che questa strada può essere ancora lunga e foriera di altri lavori di qualità eccelsa come Pneuma.

I campani malvento sono una delle band appartenenti alla scena black metal italiana nate ancora nel secolo scorso, per cui in questo caso è lecito parlare di una realtà collaudata e formata da musicisti esperti.

Una carriera così lunga ha fornito una produzione quantitativamente nella media, considerando che Pneuma è sì solo il quarto full length ma arriva a ben sette anni di distanza dal precedente.
Se prima ho parlato di black metal va doverosamente precisato che, con questo lavoro, si compie una sorta di definitivo distacco dal genere, almeno nella sua versione più canonica, portando a termine un processo iniziato già con Oscuro Esperimento Contro Natura.
Pneuma si snoda così come se si trattasse di un flusso guidato da un’oscura vena esoterica, nel corso del quale il vocalist Zim recita con un sussurro maligno testi in italiano di notevole impatto e profondità, appoggiati su un tessuto sonoro che fonde mirabilmente dark wave e dark ambient conferendo al tutto un senso melodico capace di fare la differenza.
Volendo fare un parallelismo con un’altra realtà nazionale tornata all’attività dopo un lungo silenzio, nel lavoro dei Malvento troviamo diversi punti di incontro, perlomeno a livello di approccio concettuale, con gli ultimi The Magik Way, però a mio avviso il trio partenopeo si rivela superiore proprio perché in grado di provocare un maggiore coinvolgimento emotivo.
A tale riguardo ritengo che tale risultato venga raggiunto proprio grazie a quella componente dark che porta, per esempio, un brano magnifico come Notte a sembrare un’ipotetica versione irrobustita e malevola dei Cure di Pornography; il tutto viene alternato a spunti ambient (con una fenomenale Vortex) che si trasformano nell’ideale colonna sonora di un rituale esoterico.
Non dobbiamo nasconderci dietro la falsa modestia negando che in Italia ci sia la maggiore concentrazione di band capaci di mettere in musica in maniera credibile tali tematiche, perpetuando una tradizione che viene da lontano e che abbraccia trasversalmente in vari generi: i Malvento odierni raccolgono idealmente tale testimone portandolo fieramente lungo il tratto di percorso loro assegnato, con la consapevolezza di chi sa perfettamente che questa strada può essere ancora lunga e foriera di altri lavori di qualità eccelsa come Pneuma.

Tracklist:
1. Pneuma (Intro)
2. Notte
3. La via sinistra
4. L’incanto
5. Vortex
6. Respiro notturno
7. Apuania
8. Le danze
9. Il risveglio (Outro)

Line-up:
Zin – Bass, Vocals
Nefastus – Drums, Guitars
Whip – Synthesizer, Programming

MALVENTO – Facebook

The Negative Bias – Lamentation of the Chaos Omega

Il black metal può risultare efficace sia nella sua forma più scarna e primitiva sia in quelle più trasversali ed inquiete, come lo è questa, quando a fare la differenza sono la credibilità e la competenza dei suoi interpreti.

A conferma di quanto il black metal possa offrire una quantità pressoché infinita di interpretazioni, ecco giungere l’esordio degli austriaci The Negative Bias.

Fin dalle prime note appare evidente come da questo Lamentation of the Chaos Omega ci sia da attendersi grande musica offerta con cura dei particolari e una mirabile misura nel dosaggio dei diversi elementi che ne vanno a comporre il sound.
The Golden Key To A Pandemonium Kingdom è infatti un brano magnifico con il quale il trio viennese di lancia a perdifiato in un’esibizione di odio cosmico che in questo case gode di ottime linee melodiche, così come la successiva traccia Journey Into The Defleshed Paradise (se possibile ancora più bella dell’opener) e che, in seguito, andrà a spaziare anche su territori ambient/avanguardisti senza mai perdere il filo del discorso.
Come si diceva pocanzi, il black può risultare efficace sia nella sua forma più scarna e primitiva sia in quelle più trasversali ed inquiete, come lo è questa, quando a fare la differenza sono la credibilità e la competenza dei suoi interpreti.
I The Negative Bias danno ampie garanzie in tal senso ed offrono un album di raro spessore in ogni frangente, sia quando spingono al massimo i motori (Tormented By Endless Delusions) sia quando arrestano la loro corsa in una sorta di distaccata contemplazione del caos (Cryptic Echoes From Beyond Dimensions).
Lamentation of the Chaos Omega è un album pressoché perfetto, un altro di quelli che avrebbe meritato a posteriori una posiziono di rilievo nelle nostre classifiche di fine anno: I.F.S. ha costruito un progetto destinato a lasciare il segno, perché non è così consueto ascoltare una prima uscita, per quanto ad opera di musicisti di comprovata esperienza, così ben focalizzato in ogni suo aspetto (esecuzione, concept e produzione).

Tracklist:
1 The Golden Key To A Pandemonium Kingdom
2 Journey Into The Defleshed Paradise
3 Tormented By Endless Delusions
4 The Undisclosed Universe Of Atrocities
5 Cryptic Echoes From Beyond Dimensions
6 And Darkness Should Be The End Of Cosmic Faith

Line-up:
I.F.S – Vocals, Lyrics, Concept,
S.T – Studio Strings
Florian Musil – Studio Drums

THE NEGATIVE BIAS – Facebook

Mhönos – LXXXVII

Per poco più di quaranta minuti tutto il dolore ed il male che ci scrolliamo dalle spalle, considerandolo solo frutto di paure ancestrali, viene evocato dai Mhönos fino a mostracelo con il suo sinistro carico di ineluttabile morte e disfacimento.

Per i francesi Mhönos si ripropone l’eterno dilemma che attanaglia chi deve esprimere un parere su musica decisamente fuori dagli schemi, che è quello di capire se si tratta di vera genialità oppure di un’accozzaglia di suoni messi assieme senza un’apparente logica.

A mio modo di vedere, ogni forma di sperimentazione musicale deve anche mantenersi in un alveo entro il quale l’ascoltatore possa percepire un qualche disegno che consenta di assimilare opere, altrimenti, a forte rischio d’essere considerate un’esibizione di rumore fine a sé stesso.
LXXXVII oscilla pericolosamente su questo confine e immagino che la sua collocazione, dall’una o dall’altra parte, dipenda non solo dalla predisposizione dei diversi soggetti a simili ascolti ma, addirittura, dall’umore specifico di una stessa persona nel momento in cui il sound dei Mhönos viene si fa strada  senza alcuna misericordia.
Cercando d’essere asettici ed obiettivi il giusto, credo che questo sia un lavoro di notevole spessore, perché qui il male cessa d’esser un qualcosa che ci accompagna in maniera subliminale per proporsi in uno stato quasi solido, tramite una forma di black metal stravolta da un approccio rituale che porta il tutto su un piano ambient drone, con l’aggiunta di vocals quanto mai malevole a completare il quadro.
I Mhönos offrono un’opera che rischia seriamente di finire derubricata a sottobicchiere se acquistata in formato cd da qualcuno che non ha ben chiaro quali siano le finalità di questi misteriosi “frati” transalpini; viceversa, se si possiede un minimo di masochistica familiarità con certi suoni, è difficile restare indifferenti a questa esibizione di velenosa ed oscura follia musicale.
Per poco più di quaranta minuti tutto il dolore ed il male che ci scrolliamo dalle spalle, considerandolo solo frutto di paure ancestrali, viene evocato dai Mhönos fino a mostracelo con il suo sinistro carico di ineluttabile morte e disfacimento: il tutto senza fare neppure troppo rumore, ma affidandolo a sonorità minimali ed artifici vocali che da sgradevoli si fanno via via insinuanti fino a non poter essere più scacciati dalla memoria.
LXXXVII va sicuramente ascoltato, sia pure a proprio rischio e pericolo …

Tracklist:
1. I
2. II
3. III
4. IV

Line-up:
Frater Erwan: basso, cori
Frater Nikaos: percussioni
Frater Samuel: percussioni
Frater Nehluj: basso, coro
Frater Alexandre: basso, cori
Necropiss: voce

MHÖNOS – Facebook

Ah Ciliz / Chiral – Origins

Uno split album che merita di finire stabilmente tra gli ascolti di chi ama le forme di black metal più oblique e meno scontate.

Devo ammettere che c’è stato un momento, in passato, in cui ritenevo che gli split album fossero uno spreco di risorse, soprattutto per le band già attive da tempo, ritenendoli eventualmente un mezzo utile per far conoscere realtà emergenti.

La qualità crescente di questo tipo di uscite, la frequente cura immessa nei formati e l’abilità delle label coinvolte nell’abbinare le band, mi ha fatto da diverso tempo ricredere ed è quindi con enorme piacere che mi ritrovo a parlare di questo Origins.
Lo split in oggetto vede all’opera Ah Ciliz e Chiral, due realtà simili per approccio al black metal ma differenti a livello di approdo.
Ah Ciliz è un progetto dell’omonimo musicista di Seattle che ha già alle spalle diversi lavori su lunga distanza di grande spessore, in virtù di una proposta che mette in mostra un black metal atmosferico e dalle naturali venature cascadiane, non solo per il titolo del primo brano. La novità in quest’occasione è la consegna del ruolo di lead vocalist ad un altra persona, nello specifico Boris Iolis, che gli appassionati di doom conoscono quale bassista degli ottimi Marche Funebre.
Il musicista belga si rivela un bel valore aggiunto con il suo buonissimo screaming lasciando al mastermind il solo compito di tessere le proprie trame,  prima incalzanti in Cascadia, poi quasi carezzevoli nello splendido strumentale Moonlight in Night Season e infine melodicamente irresistibile (il lavoro chitarristico nel finale è davvero notevole) in People of The Stars, brano che più di tante parole riesce a descrivere pienamente quali siano le qualità compositive di Ah Ciliz.
Di Chiral abbiamo già parlato diverse volte in passato, trattandosi di un progetto italiano con il quale l’omonimo musicista piacentino sta dimostrando ormai da diversi anni il proprio spessore artistico, confermandolo con questi due brani, il breve ma intenso A Feeble Glare of Autumn ed il lungo (oltre un quarto d’ora di durata) Queen of The Setting Sun, che prende le mosse da un liquido post black per incresparsi con forza nella fase centrale, lasciando che la seconda meta ritorni a quelle atmosfere evocative che sappiamo essere naturalmente nelle corde di questa sempre più convincente realtà.
Ecco spiegato perché questo split album, dietro al quale c’è un’etichetta che propone lavori sempre di grande qualità come la Hypnotic Dirge (qui in collaborazione con la Throats Productions), merita di finire stabilmente tra gli ascolti di chi ama le forme di black metal più oblique e meno scontate.

Tracklist:
Ah Ciliz
1. Cascadia
2. Moonlight in Night Season
3. People of The Stars
Chiral:
4. A Feeble Glare of Autumn
5. Queen of The Setting Sun

Line-up
AH CILIZ
Ah Ciliz – Guitars, Bass, Vocals, Lyrics
Boris Iolis – Lead Vocals

CHIRAL
Chiral – Everything

AH CILIZ – Facebook

CHIRAL – Facebook

Solbrud – Vemod

Vemod si rivela uno degli album più convincenti dell’anno: rabbioso, intenso, ossessivo ma anche capace di far riflettere, in sintesi, difficile far meglio di così.

Vemod è il terzo full length dei Solbrud, band danese autrice ad un black metal decisamente di buona fattura.

Nonostante la contiguità geografica e linguistica con la Norvegia, dalla patria di Amleto non è certo uscita una quantità industriarle di gruppi dediti al genere, per cui questo quartetto proveniente dalla capitale costituisce a suo modo una piacevole anomalia.
I Solbrud interpretano il black con una vena al contempo algida ed atmosferica, e tutto sommato paiono volgere lo sguardo molto più ad ovest, verso le coste canadesi e statunitensi piuttosto che puntare alle vicine lande scandinave: così momenti più rarefatti di matrice ambient si alternano a repentine sfuriate dal notevole impulso melodico, come avviene emblematicamente nell’opener Det sidste lys.
Vemod consta di quattro lunghi brani che assieme raggiungono i cinquanta minuti di durata, il che rende impegnativo l’ascolto ma nel contempo consente ai Solbrud di sviluppare con più calma e meno frenesia la propria idea di black metal, che diviene poi decisamente esemplare per oscurità nei primi martellanti sei minuti di Forfald.
Indubbiamente la band danese segue uno schema consolidato e fruttuoso, affidando al tremolo delle chitarre il compito di delineare melodie che si stagliano sulla furia dei blast beat, interrompendo il tutto con passaggi più riflessivi che, alla fine, hanno la funzione di sospendere ad arte il flusso emotivo per poi incrementarne ulteriormente l’impatto al momento della ripresa.
Del resto funziona così anche per Menneskeværk e Besat af mørke, e quello che può apparire scontato e ripetitivo è in realtà la maniera ideale di veicolare al meglio, da parte dei Solbrud, la loro condivisibile visione apocalittica concernente il destino dell’umanità.
Vemod si rivela così uno degli album più convincenti dell’anno: rabbioso, intenso, ossessivo ma anche capace di far riflettere, in sintesi, difficile far meglio di così.

Tracklist:
1. Det sidste lys
2. Forfald
3. Menneskeværk
4. Besat af mørke

Line-up:
Tobias Pedersen – Bass
Troels Pedersen – Drums
Adrian Utzon Dietz – Guitars
Ole Pedersen Luk – Vocals, Guitars

SOLBRUD – Facebook

Sanguine Pluit – There Is a Goddess in the Forest

Nell’insieme, il tutto acquista un suo esecrabile fascino purché l’ascoltatore non anteponga la resa sonora di un lavoro ai suoi contenuti, visto che There Is a Goddess in the Forest soffre di una produzione che ne preserva una certa purezza di intenti ma, d’altra parte, finisce per inficiarne non poco la fruizione.

There Is a Goddess in the Forest è la riedizione, a cura della This Winter Will Last Forever, del demo pubblicato dalla one man band italiana Sanguine Pluit, contenente per l’occasione anche le sei tracce presenti nell’ep Never Ending Winter, uscito quello stesso anno.

Il tutto viene presentato come un ambient raw black metal e direi che la definizione non fa una piega: infatti, le frequenti aperture atmosferiche si alternano ad un’interpretazione del black quanto mai minimale, mostrando due volti decisamente differenti dell’approccio alla materia da parte di Polus, musicista pavese alle prese con questo progetto da circa in decennio nel corso del quale ha prodotto diverse uscite di minutaggio ridotto.
L’immersione in un lavoro di questo tipo non è affatto semplice, perché i primi tentativi di ascolto sono fallimentari a causa di un espressione così ruvida ed integralista da apparire quasi irritante: un drumming dai ritmi pressoché immutabili punteggia sovente un rumorismo al quale si mescolano degli inquietanti rantoli, un insieme che viene stemperato a tratti da spunti di ambient “cosmica” (Nature Rising, Transcendent Forest, Magnetic Pathways), questo almeno per quanto riguarda i brani appartenenti al demo dal quale il lavoro prende il titolo. Le tracce provenienti da Never Eding Winter aumentano, se possibile, il livello dell’incomunicabilità manifestata da Polus, andando talvolta a valicare i confini della cacofonia.
Detto questo potrebbe sembrare che tale operazione sia assolutamente fallimentare o comunque da evitare accuratamente, ma in fondo così non è perché, nell’insieme, il tutto acquista un suo esecrabile fascino purché l’ascoltatore non anteponga la resa sonora di un lavoro ai suoi contenuti, visto che There Is a Goddess in the Forest soffre di una produzione che ne preserva una certa purezza di intenti ma, d’altra parte, finisce per inficiarne non poco la fruizione.
Probabilmente, smussando qualche asperità e migliorando sensibilmente la resa sonora, il progetto Sanguine Pluit potrebbe fare un buon balzo in avanti, ma francamente non so se questo sia poi l’intento di Polus, anche alla luce del fatto che un sound di questo tipo, per quanto lo si possa tirare a lucido, non è che possa divenire appetibile alle masse. Per cui, questo è There Is a Goddess in the Forest, e chi apprezza il black/ambient lo ascolti e faccia le proprie opportune valutazioni.

Tracklist:
1. Nature Rising
2. In Silent Astonishment
3. Vibrant Mist
4. Aural Enchantment
5. Transcendent Forest
6. Aural Enchantment 2
7. Magnetic Pathways
8. Elements In Sync
9. Fields
10. Never Ending Winter
11. The Secret Oath
12. Fall
13. Winter Passage 2
14. Astral Sorrow
15. Raw Darkness

Line up:
Polus

SANGUINE PLUIT – Facebook

Onirism – Sun

La ragion d’essere di Sun risiede essenzialmente nel suo buon gusto melodico, esaltato da un bel suono di chitarra ed attraversato da tastiere che non sempre paiono essere altrettanto efficaci.

Eccoci alle prese con un nuovo progetto solista, denominato Onirism, appartenente alla scuderia Naturmacht Productions.

Come gran parte del roster della label tedesca, anche la creatura del canadese Antoine Guibert va ad esplorare territori contigui al black metal, nello specifico quelli maggiormente imparentati con sonorità ambient ed atmosferiche.
In tal senso, questo ep intitolato Sun, che arriva dopo un full length ed un altro ep, non apporta particolari novità e la sua ragion d’essere risiede essenzialmente nel suo buon gusto melodico, esaltato da un bel suono di chitarra ed attraversato da tastiere che non sempre paiono essere altrettanto efficaci, apparendo talvolta un po’ “plastificate”.
Nel complesso Sun è comunque un lavoro valido, specie se si apprezzano scelte stilistiche di questo tipo, la cui essenza è basata su tenui melodie appena sporcate dallo screaming e da qualche accelerazione: in effetti la manifestazione d’intenti esibita con un simile monicker viene ampiamente realizzata nei fatti, mettendo sul piatto una mezz’ora abbondante di musica sognante e talvolta dal sentore cinematografico.
Dallo scrigno della Naturmacht negli ultimi tempi è uscito decisamente di meglio, ma il confronto risulta sfavorevole al bravo Antoine più per meriti altrui che per demeriti propri: To The Unknown e la title track sono per esempio due ottimi brani, dalle atmosfere ariose impreziosite da ottimi spunti solisti che depongono a favore delle doti di questo musicista del Quebec, al quale fa difetto forse solo qualche punto in più di “cattiveria”.
Sun è un’opera senz’altro gradevole e a tratti gratificante, ma l’eccellenza dista ancora diversi gradini.

Tracklist:
01.Floating
02.To the Unknown
03.Heart of Everything
04.Attraction
05.Sun

Line-up: Vrath

ONIRISM – Facebook