Aeonian Sorrow – Into The Eternity A Moment We Are

Gli Aeonian Sorrow si rivelano il veicolo ideale per portare definitivamente alla luce il dirompente potenziale di un’artista a 360 gradi come Gogo Melone.

Uno dei rischi che si corrono nell’approcciarsi superficialmente ad un’opera di questo tipo è quello di derubricarla ad un normale album di gothic death doom con voce femminile, sulla falsariga di Draconian e band similari.

Commettere un errore del genere significherebbe non solo non rendere giustizia ad un disco meraviglioso come Into The Eternity A Moment We Are ma anche privarsi, per pigrizia o ignavia, di uno dei rari esempi di arte musicale in grado di toccare le giuste corde emozionali lungo l’intero scorrere dei brani.
Gli Aeonian Sorrow sono la creatura musicale di Gogo Melone, musicista greca che gli ascoltatori più addentro al genere avranno già avuto modo di conoscere in virtù della sua partecipazione a Destin, l’ultimo ep dei Clouds di Daniel Neagoe, offrendo nello specifico il suo magnifico contributo vocale nel brano In This Empty Room.
Gogo si è occupata in prima persona sia dell’aspetto compositivo, sia di quello lirico ed infine anche dell’aspetto grafico, essendo anche in quest’ultimo campo una delle più rinomate esponenti in circolazione: insomma, qui parliamo di un’artista a 360 gradi il cui talento viene finalmente svelato in tutto il suo dirompente potenziale grazie a Into The Eternity A Moment We Are.
Contribuiscono in maniera fondamentale alla riuscita del lavoro, accompagnando la musicista ellenica e collaborando fattivamente anche nell’arrangiamento dei brani, alcuni esponenti di comprovata esperienza della scena, partendo dal vocalist colombiano Alejandro Lotero (negli Exgenesis di Jari Lindholm) per arrivare al trio finnico composto da Saku Moilanen (batteria, Red Moon Architect), Taneli Jämsä (chitarre, Ghost Voyage) e Pyry Hanski (basso, ex Before The Dawn e live con Red Moon Architect): in particolare Lotero, con il suo profondo growl è l’ideale contraltare delle evoluzioni della cantante che, attenzione, non è la classica sirena dalla bella voce che parte con una tonalità e con quella finisce; Gogo Melone è “semplicemente” una vocalist formidabile, in grado di passare da timbriche cristalline e suadenti a lampi che riportano inevitabilmente a due giganti legati alla sua stessa terra come Diamanda Galas, naturale riferimento in quanto voce femminile, ed il mai abbastanza rimpianto Demetrio Stratos, che ben conosciamo per aver sviluppato la propria carriera in Italia, prima con i seminali Area e poi come vero e proprio sperimentatore e studioso dell’uso della voce umana.
Chi pensa che certi paragoni possano essere eccessivi deve solo ascoltare l’opener Forever Misery, finora l’unico brano reperibile in rete, che già di per sé sarebbe una canzone stupenda ma che, nella sua seconda metà, viene letteralmente segnata dai vocalizzi di Gogo poggiati su un tappeto sonoro drammatico; come prova del nove poi, chi verrà in possesso dell’intero album (che uscirà ad aprile), potrà pure passare alla conclusiva Ave End, uno dei pezzi più belli che abbia mai avuto la fortuna di ascoltare, con Alejandro a dominare la prima parte prima di lasciare spazio al canto drammatico e trasfigurato della vocalist, destinato infine a ricongiungersi al growl per un risultato d’assieme che conduce inevitabilmente alle lacrime.
Tutto ciò a livello esemplificativo, perché ovviamente resta tutto da godersi un corpo centrale dell’album che non è affatto da meno, oscillando da atmosfere più aspre (Thanatos Kyrie) ad altre più intimiste (Memory Of Love) per finire con tracce strutturate in maniera più canonica (Shadows Mourn, Under The Light, Insendia) ma dotate sempre di un’intensità superiore alla media grazie ad una scrittura di rara sensibilità.
E’ un delicato interludio pianistico (The Wind Of Silence) a condurre al capolavoro assoluto Ave End, che chiude l’album portando il coinvolgimento emotivo ad un livello tale da lasciare un tangibile senso di vuoto quando la musica cessa, invero in maniera quasi repentina: si tratta di pochi secondi, sufficienti però a realizzare che sì, la vita è un attimo rispetto all’eternità, come suggerisce il titolo del disco, ma spetta a noi darle un senso sviluppando al massimo un potenziale empatico che ci consenta di immedesimarci nella gioia e nel dolore altrui, marcando in maniera netta ed inequivocabile la differenza tra una minoranza fatta di persone senzienti e tutte le altre.
Dovendo per forza di cose fornire un riferimento musicale a chi legge, appare evidente, come già detto in fase introduttiva, che i Draconian dei primi album costituiscono un termine di paragone piuttosto attendibile, anche se gli Aoenian Sorrow possiedono un approccio più funereo, atmosferico e con una minore predominanza della chitarra, specialmente in veste solista, ma a fare la differenza con gran parte delle uscite del genere negli ultimi anni è una capacità innata di raggiungere il climax dei brani partendo sovente da passaggi più pacati ed intimisti.
Con un’opera di tale spessore gli Aoenian Sorrow vanno a collocarsi sullo stesso piano delle band citate nel corso dell’articolo, il che significa il raggiungimento dell’eccellenza assoluta, ottenuta anche e soprattutto tramite l’epifania di un talento artistico prezioso come quello di Gogo Melone.

Tracklist:
1.Forever Misery
2.Shadows Mourn
3.Under The Light
4.Memory Of Love
5.Thanatos Kyrie
6.Insendia
7.The Wind Of Silence
8.Ave End

Line-up:
Gogo Melone – Vocals, Keyboards, Songwriting, Lyrics
Saku Moilanen – Drums
Alejandro Lotero – Vocals
Taneli Jämsä – Guitars
Pyry Hanski – Bass

AEONIAN SORROW – Facebook

Apathy Noir – Black Soil

Un viaggio che ci fa astrarre per un’ora abbondante dalla spesso noiosa realtà.

C’è un’aria costante di intima empatia e al tempo stesso di sconfinata distruzione nella musica degli Apathy Noir, i
quali ritornano con Black Soil, due anni dopo l’uscita del loro ultimo disco.

Chi volesse avere un’idea di ciò che si appresta ad ascoltare, dovrebbe dare un’occhiata innanzitutto alla copertina, che è uno spettro chiarissimo delle emozioni che gli Apathy Noir hanno messo in questo lavoro: lo scenario scuro, deserto e malinconico che ricorderebbe più un’ambientazione in stile Nocturnal Depression o giù di lì, emana però un’energia particolare che ritroviamo esattamente nella musica della band svedese.
La durata dei brani è in media di sette minuti, un tempo che risulta perfetto per sviluppare ogni volta emozioni esplosive e mai scontate nell’ascoltatore. Nonostante questo, la band svedese non fa tanti calcoli a tavolino per costruire pian piano questi scenari emotivi o gestirli secondo uno schema, ma mette semplicemente in musica le sue chiare intenzioni dall’inizio alla fine di ogni pezzo. Ci riesce benissimo, e il risultato è quello di un viaggio vero e proprio che ci fa astrarre per un’ora abbondante dalla spesso noiosa realtà.
La chitarra in questo disco ha un doppio potere: sa essere tagliente e galoppante come i migliori Dissection, e l’attimo dopo catartica e un po’ spezzacuore come certi tratti dei Katatonia, e grande merito per questo va a al leader della band Victor Jonas.
Per concludere, lascia un bel po’ di amaro in bocca il fatto che una band di questo calibro abbia ancora relativamente poca considerazione e visibilità. D’altro canto, però, la musica di valore e di carattere è sempre stata di nicchia e forse questa è la sua fortuna.

Tracklist
1.The Glass Delusion
2.Samsara
3.Black Soil
4.The Void Which Binds
5.Bloodsong
6.Towers of Silence
7.Time and Tide

Line-up
Viktor Jonas – Guitars, Drum programming, Keyboards, Bass
Mattias Wetterhall – Vocals

APATHY NOIR – Facebook

Nadir – The Sixth Extinction

The Sixth Extinction si rivela opera di una band di sicuro spessore, composta da musicisti che hanno sempre sotto controllo lo sviluppo del sound, spesso sufficientemente accattivante e melodicamente mai scontato.

Nonostante si tratti di una band attiva da oltre un decennio, e addirittura dal secolo scorso se consideriamo la sua precedente incarnazione denominata Dark Souls, gli ungheresi Nadir credo proprio che siano degli emeriti sconosciuti dalle nostre parti.

Forse la loro particolare forma di death doom contaminato da pulsioni sludge e metalcore non rappresenterà qualcosa di epocale, ma non merita certamente d’essere del tutto ignorato.
Infatti, The Sixth Extinction, che è il settimo full length uscito con l’attuale monicker, si rivela fin da subito l’opera di una band di sicuro spessore, composta da musicisti che hanno sempre sotto controllo lo sviluppo del sound, spesso sufficientemente accattivante e melodicamente mai scontato, come dimostra per esempio una traccia magistrale come Fragmented, capace di segnare in maniera importante la prima parte del lavoro.
Dico questo perché, subito dopo la massiccia Mountains Mourn, prende vita la trilogia Ice Age in the Immediate Future (ispirata dal dramma The Tragedy of Man, composto dallo scrittore magiaro Imre Madach a metà dell’800) che sposta le coordinate del sound verso un qualcosa di più elaborato, anche se l’impronta catchy del sound dei Nadir non viene mai meno, con addirittura la terza parte, A Matter of Survival, che assume ritmi decisamente incalzanti prima di piombare poco dopo metà brano in un rallentato e distorto incedere.
Il bellissimo strumentale Les Ruines, infine, esibisce in modo esplicito le qualità compositive di questa ottima band, che mette in scena una traccia conclusiva solenne ed evocativa allo stesso tempo, grazie ad una splendida melodia chitarristica che stempera in più parti il rumorismo sui cui si appoggia un recitato in lingua francese.
Considerando anche che The Sixth Extinction, un lavoro ricco di intuizioni che non risultano troppo diluite all’interno di una durata di poco superiore alla mezz’ora, è collegato concettualmente al suo predecessore Ventum Iam ad Finem Est, potrebbe valere la pena di approfondire la conoscenza con questa band foriera di un’interpretazione del death doom sicuramente non banale.

Tracklist:
1. The Human Predator
2. The Debris Archipelago
3. Fragmented
4. Along Came Disruption
5. Mountains Mourn
6. Ice Age in the Immediate Future: I. Arctic
7. Ice Age in the Immediate Future: II. To Leave It All Behind
8. Ice Age in the Immediate Future: III. A Matter of Survival
9. Les Ruines

Line-up:
Viktor Tauszik – Vocals
Norbert Czetvitz – Guitars
Hugó Köves – Guitars
Ferenc Gál – Bass
Szabolcs Fekete – Drums

NADIR – Facebook

Hamferð – Támsins likam

Gli Hamferð completano la trilogia concettuale sulla morte e sulla perdita e lo fanno con un capolavoro nel quale la parte strumentale è perfettamente bilanciata tra ardore e intimismo, con la voce di Jón Aldará ad incendiare i nostri sensi.

E’ un’opera di cristallina bellezza il terzo disco degli Hamferð, giunti con Támsins likam alla chiusura della trilogia concettuale dedicata alla morte e alla perdita.

A cinque anni da un disco meraviglioso come Evst il sestetto faroese, che nel frattempo ha sostituito il bassista, ora Ísak Petersen, ci regala un vero e proprio capolavoro di intensità e disperazione quasi insostenibili.
La storia tratta di una famiglia distrutta dalla perdita di un figlio, vista sia dalla parte del padre che della madre , la quale, per sopperire al dolore cerca conforto in entità soprannaturale del folklore isolano.
Il tutto è emozionalmente molto straziante e viene reso dalla band con un suono perfettamente equilibrato tra parti intime e solenni; il cantato faroese si dimostra un valore aggiunto ed è ulteriormente esaltato dal canto intenso e sentito di Jón Aldará, a mio parere tra i migliori singer sulla scena, il quale variando timbriche e toni inanella una serie di interpretazioni di altissimo livello.
I sei brani creano un pathos, una spiritualità che non ha eguali e fin dalla prima traccia Fylgisflog si rimane senza parole, quando note delicate di chitarra e violoncello tratteggiano una atmosfera in cui le clean vocals di Jon colpiscono profondamente, prima che il brano si incendi in un death doom intenso, dove il growl alternato al pulito timbro solenne lacera il cuore dell’ascoltatore; la musica raggiunge cosi alti livelli di angoscia da turbare nel profondo, i musicisti sono molto concentrati e convinti, le chitarre non suonano melodie accattivanti, ma ricercano e creano atmosfere che possano definire il senso di mancanza, la tragedia, la disperazione provata dai genitori per la loro perdita (da vedere il video di Frosthvarv per riuscire a comprendere appieno il significato del disco).
La band in una intervista ha affermato che l’ascolto di alcuni musicisti classici (Mahler, Rachmaninoff) ha contribuito alla creazione di un perfetto bilanciamento tra “bellezza, dissonanza e disperazione” e tutto questo si evince dal complessivo ascolto dell’ opera dove non una sola nota è sprecata, ma tutto è coinvolgente, volto a creare un assoluto quadro di disperazione e angoscia.
Le atmosfere intime e inquietanti di Frosthvarv, il canto solenne ed evocativo di Aldará in Tvístevndur meldur, nutrono il cuore di calde e uniche sensazioni, l’aggressività ammantata di angoscia di Hon syndrast ci ricorda che il death doom sa regalare emozioni uniche e, infine, gli abbondanti dieci minuti di Vápn í anda ci gettano in profondi abissi di sconforto suggellando un capolavoro.

Tracklist
1. Fylgisflog
2. Stygd
3. Tvístevndur meldur
4. Frosthvarv
5. Hon syndrast
6. Vápn í anda

Line-up
Remi Johannesen – Drums
John Egholm – Guitars
Theodor Kapnas – Guitars
Esmar Joensen – Keyboards
Jón Aldará – Vocals
Ísak Petersen – Bass

Hamferð – Facebook

Ocean Of Grief – Nightfall’s Lament

Gli Ocean Of Grief raggiungono con questo album un livello di maturità che può sorprendere solo chi non ne avesse già scorto gli evidenti prodromi nell’ep d’esordio.

Poco meno di due anni fa mi ero espresso molto favorevolmente sugli esordienti Ocean Of Grief indicandoli come band dalle enormi prospettive.

Non che ci volesse un coraggio particolare per lanciarsi in simili previsioni, visto che il gruppo ateniese esibiva in maniera inequivocabile quelle stesse stimmate del talento esibito dai migliori act europei di death doom melodico, quali Enshine, Evadne, Frailty, When Nothing Remains e, ovviamente Swallow The Sun e Saturnus.
Chiaramente, essendo stato Fortress Of My Dark Self un ep, era lecito attendere gli esiti di un lavoro su lunga distanza, prima di decretare la nascita di una nuova stella capace di affiancare i nomi sopra citati nell’empireo di un genere che continua con regolarità a regalare grandi dischi, sia da parte delle band già affermate sia da quelle emergenti.
Sono sufficienti pochi secondi di In Bleakness per capire che Nightfall’s Lament terrà perfettamente fede alle aspettative: sopraffatti dall’afflato melodico di un chitarrista magnifico come Filippos Koliopanos, non resta altro che lasciarsi andare alla commozione ascoltando di brani di rara bellezza come Mourning Over Memories, Painting My Sorrow The Release of the Soul; ma si tratta solo di una preferenza dovuta a particolari infinitesimali, perché raramente la tracklist di un album può godere di una qualità cosi uniformemente elevata.
Proprio come Eshine, Saturnus o Doom Vs., il sound degli Ocean of Grief è condotto senza soluzione di continuità dalle linee melodiche tessute dalla chitarra solista e il risultato è ugualmente entusiasmante: il gruppo fondato nel 2014 dal già citato Koliopanos e dal bassista Giannis Koskinas raggiunge con questo album un livello di maturità che sorprenderà, appunto, solo chi non ne avesse già scorto gli evidenti prodromi nell’ep d’esordio; è vero, però, che il sound degli ellenici si è ulteriormente raffinato ed evoluto fino a raggiungere qualcosa di molto vicino alla perfezione formale e compositiva
Se qualcuno obietterà che, in fondo, gli Ocean Of Grief sono simili a questa o a quella band (che magari a sua volta attinge a piene mani da qualcun’altra) la noncurante risposta che gli si deve è che effettivamente c’è del vero, ma tra l’assomigliare ed il copiare c’è di mezzo non un mare bensì un “oceano di dolore” …
Gli Ocean Of Grief ottengono una meritata consacrazione già al full length d’esordio e, in effetti, Nightfall’s Lament è il classico album il cui ascolto diviene ogni volta sempre più irrinunciabile, nella sua funzione di catartico vettore.

Tracklist:
1.In Bleakness
2.Eyes of Oblivion
3.Mourning Over Memories
4.Fiend of the Overlord
5.Painting My Sorrow
6.The Breeding of Death
7.The Release of the Soul

Line-up:
Charalabos Babis Oikonomopoulos – Vocals
Filippos Koliopanos – Guitars
Dimitra Zarkadoula – Guitars
Giannis Koskinas – Bass
Aris Nikoleris – Keyboards
Thomas Motsios – Drums

OCEAN OF GRIEF _ Facebook

Faal – Desolate Grief

Desolate Grief è un lavoro ottimo, che rafforza nei Faal lo status di band di spessore ed emblema di una maniera coerente, efficace e non scontata di interpretare la materia funeral/death doom.

Gli olandesi Faal appartengono ad una scena che, in ambito funeral/death doom, conta su una tradizione consolidata.

L’ultima uscita della band di Breda risale al 2015, quando occupò la seconda meta di uno split album in compagnia degli Eye Of Solitude.
Il brano offerto in quell’occasione, Shattered Hope, era piuttosto rappresentativo del sound dei Faal, una band che, seppure ascrivibile a pieno titolo all’interno del funeral melodico, non rinuncia a a proporre spunti più robusti ed aspri, rendendo sicuramente meno prevedibile la proposta.
Restano però quale fulcro del lavoro le dolenti armonie che i Faal, mai come questa volta, riescono a rendere nel migliore dei modi, avvolgendo l’ascoltatore di una cappa di tristezza che non sfocia mai nella disperazione, lasciando spazio ad una malinconia che si sublima in una brano magnifico come Grief.
No Silence, invece, è esempio lampante di quanto il gruppo olandese riesca a fare quando aumenta i giri del motore, mantenendo alta la tensione e senza smarrire la componente melodica che sarà nostra fedele compagna fino al termine di Desolate Grief: è bellissimo in questa traccia (vicino ai dieci minuti così come le altre tre, escludendo l’intro) il lavoro chitarristico che punteggia prima un notevole crescendo emotivo e poi si lascia andare a quelle litanie funebri, che tanto amano gli appassionati del genere.
Una buona ma meno intensa (nonostante il titolo) Evoking Emotions fa da cuscinetto prima della degna conclusione dell’album con The Horizon, con il growl di William Nijhof che fa vibrare anche le casse, mentre fanno capolino gradite sfumature post metal che vanno ad intrecciarsi con ritmiche ingannevolmente rallentate, visto che a metà brano arriva una sfuriata che rappresenta un ultimo sussulto, quasi una reazione scomposta all’ineluttabile e penosa discesa agli inferi coincidente con la fine di un lavoro ottimo, e che rafforza nei Faal lo status di band di spessore ed emblema di una maniera coerente, efficace e non scontata di interpretare la materia funeral/death doom.

Tracklist:
1. Intro
2. Grief
3. No Silence
4. Evoking Emotions
5. The Horizon

Line-up:
William Nijhof – Vocals
Gerben van der Aa – Guitars
Pascal Vervest – Guitars
Remco Verhees – Drums
Vic van der Steen – Bass
Cátia Uiterwijk Winkel-André Almeida – Synths

FAAL – Facebook

Anatomia – Cranial Obsession

Cranial Obsession, se riferito a questa particolare interpretazione del death doom, è una delle cose migliori ascoltate ultimamente, nonostante le uscite di qualità nel settore non manchino di certo, e questo la dice lunga sul valore intrinseco dell’album e di chi l’ha concepito.

I giapponesi Anatomia sono in circolazione ormai da oltre quindici anni e, anche se Cranial Obsession è solo il loro terzo full length, hanno una discografia disseminata di split album che ne testimoniano un’incessante e non solo quantitativa attività.

Cranial Obsession dovrebbe riconciliare chiunque con il death doom, non quello melodico e intriso di malinconia tipico del vecchio continente, bensì con quello più aspro e diretto proveniente dall’altra parte dell’oceano: il malefico terzetto nipponico ci costringe ad un headbanging furioso con brani killer come Morbid Hallucination. per poi subito dopo rallentare i ritmi fino all’asfissia con Excarnated.
Se vogliamo, in questi quindici minuti centrali dell’album risiede la chiave di lettura dell’operato degli Anatomia, i quali, da una matrice death nel solco degli Autopsy, spaziano a loro piacimento in universo doom mai così distorto, cupo, ossessivo e poco rassicurante: tutto quanto viene fatto con una cura tipicamente giapponese senza che per questo la ruvidezza e la sporcizia ne risultino attenuate  a livello d’impatto sonoro.
Il sound dei nostri è istintivamente malsano, ma possiede una misteriosa capacità di avvolgere l’ascoltatore nelle proprie minacciose spire fino a renderne vana ogni possibile difesa: se Vanishment e Uncanny Descension sono l’equivalente di una navigazione a vista piena di mortali insidie , Absymal Decay descrive un’idea di funeral doom priva di spazio per recriminazioni o atti misericordiosi, mentre la dronica e sperimentale Recurrence ci anticipa il pianto e lo stridore di denti che attende tutti, si spera il più tardi possibile.
Cranial Obsession, se riferito a questa particolare interpretazione del death doom, è una delle cose migliori ascoltate ultimamente, nonostante le uscite di qualità nel settore non manchino di certo, e questo la dice lunga sul valore intrinseco dell’album e di chi l’ha concepito.

Tracklist:
1. Necrotic Incisio
2. Fiend
3. Vanishment
4. Morbid Hallucination
5. Excarnated
6. Uncanny Descension
7. Abysmal Decay
8. Recurrence

Line-up:
Jun Tonosaki – Bass, Vocals
Takashi Tanaka – Drums, Vocals
Yukiyasu Fukaya – Guitars, Vocals (backing)

ANATOMIA – Facebook

Monolithe – Nebula Septem

Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Sono passati quindici anni da quando i Monolithe pubblicarono il proprio album  d’esordio.

Ci volle relativamente poco perché la band francese, guidata da Sylvain Bégot, si ritagliasse un suo status di culto presso gli estimatori del funeral doom, soprattutto perché a livello concettuale, invece di ripiegarsi sulle sventure terrene, tentava di elevarsi verso un sentire cosmico con risultati ugualmente angoscianti, a ben vedere.
Ogg, ad accompagnare il leader, tra i membri originari è rimasto solo l’altro chitarrista Benoît Blin, visto che per la prima volta i Monolithe non si avvalgono della voce di Richard Loudin, cosicché in Nebula Septem le parti vocali sono state registrate da Sebastien Pierre (Enshine, Cold Insight), mentre in sede live il ruolo verrà assunto dal terzo chitarrista Remi Brochard.
Come si può intuire dal titolo siamo arrivati alla settima puntata su lunga distanza per la band transalpina (alla cui discografia vanno aggiunti anche i due Interlude, importanti Ep usciti tra Monolithe II e Monolithe III) e tale numero ricorre in maniera puntuale sia nel numero dei brani che nella loro durata, ma al di là di questi aspetti, è confortante constatare come la cadenza di uscite ormai annuale non abbia per nulla scalfito la qualità degli album.
Nebula Septem per certi versi sorprende, perché se in Epsilon Aurigae certe aperture progressive potevano far presagire un ulteriore incremento della componente melodica, il suono al contrario pare addirittura inasprirsi, senza che venga comunque mai meno la propensione atmosferica e l’afflato cosmico che è tratto distintivo dei Monolithe.
Se IV resta, anche a detta dello stesso Bégot nel corso dell’interessante documentario Innersight, l’album più riuscito nella discografia dei nostri, qui andiamo molto vicini al raggiungimento di quel livello, sebbene sia da mettere subito in chiaro che, per un’assimilazione soddisfacente, sono necessari diversi ascolti, in modo da riuscire a cogliere ogni volta sfumature diverse pur se racchiuse in un “monolite” sonoro molto compatto, eretto dalle tre chitarre e sostenute da un eccellente lavoro tastierisco, dal growl magnifico di Pierre e da una base ritmica molto più attiva e in evidenza rispetto alle abitudini del genere.
Del resto la collocazione dei Monolithe nell’ambito del funeral doom appare più una convenzione che non una reale fotografia delle loro attuali sonorità, definibili più correttamente come un metal estremo cosmico e avanguardista, non troppo distante per approccio neppure da certe forme di black/space atmosferico.
Nebula Septem, per come è strutturato, va assorbito nella sua interezza, perché parlare dei singoli brani sarebbe abbastanza inutile: basti sapere comunque che almeno i primi ventotto minuti sono superlativi (dovendo scegliere mi prendo l’accoppiata Burst in the Event Horizon / Coil Shaped Volutions), mentre l’incipit da videogame di Engineering the Rip potrebbe risultare spiazzante per cui è bene dire che il tutto dura ben poco, prima che la galassia musicale denominata Monolithe ricominci ad abbattersi come di consueto sull’ascolatore, fino a chiudere i giochi con lo strumentale Gravity Flood, spruzzato di elettronica all’avvio e poi melodico e dolente come da copione doom.
Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Tracklist:
1. Anechoic Aberration
2. Burst in the Event Horizon
3. Coil Shaped Volutions
4. Delta Scuti
5. Engineering the Rip
6. Fathom the Deep
7. Gravity Flood

Line-up
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums
Rémi Brochard – Guitars, Vocals
Matthieu Marchand – Keyboards

Sebastien Pierre – Vocals

MONOLITHE – Facebook

Into Coffin – The Majestic Supremacy Of Cosmic Chaos

Gli Into Coffin con questo album si elevano al livello dei più funesti cantori dei peggiori incubi dell’uomo.

Credo che una delle ipotesi più terrorizzanti per ogni essere umano sia l’eventualità di risvegliarsi all’interno di una bara collocata circa sei piedi sottoterra …

E’ normale, quindi, che una band denominata Into Coffin sia autrice di un sound annichilente, capace di rendere tangibile il senso di soffocamento e la disperata alternanza tra il parossismo ed il deliquio che precede una morte vera e mai cosi invocata.
Questi tre figuri provenienti da Marburg mettono in scena due lunghi brani per una mezz’ora scarsa di death/black doom asfissiante, spaventoso nel suo monolitico incedere: un qualcosa che davvero riesce a scuotere anche la coscienza più assopita, attirandola in un vortice di alienazione al quale non è possibile sottrarsi.
I rallentamenti morbosi sono propedeutici ad un crescendo inarrestabile, una colata di lava che pare risalire le pendici vulcaniche, partendo da uno stato semisolido per divenire incandescente e ridurre in cenere tutto ciò che incontra sul suo passaggio
The Majestic Supremacy Of Cosmic Chaos è un epche possiede quel quid in più rispetto ad offerte di simile tenore: devo ammettere che questa forma di doom, per quanto apprezzabile, l’ho sempre ritenuta alla lunga piuttosto prevedibile in virtù della totale assenza di sbocchi o aperture atmosferiche, ma gli Into Coffin vanno al di là di ogni tipo di considerazione di genere, perché l’intensità che viene espressa in ogni attimo del lavoro è a dir poco sorprendente, e probabilmente ineguagliabile in un’offerta di questo tipo.
In sede di presentazione il trio tedesco viene associato ad una band seminale come gli Winter ma, a mio avviso, il loro valore va ben oltre, e sono certo di non esagerare.
Gli Into Coffin con questo album si elevano al livello dei più funesti cantori dei peggiori incubi dell’uomo e a questo punto, per completare il luttuoso cammino, conviene fare un passo indietro andando a recuperare il full length del 2016 intitolato Into a Pyramid of Doom, uscito sempre per Terror Of Hell Records.

Tracklist:
1. Crawling In Chao
2. The Evanescence Creature From Nebula’s Dust

Line-up:
G. – Bass & Vocals
J. – Drums
S. – Guitars & Vocals

INTO COFFIN – Facebook

My Silent Wake – There Was Death

Tutta la vostra attenzione dovrà andare al puro ascolto per questo nuovo album. Non c’è tempo per discutere, i My Silent Wake, come sempre, pensano solo a produrre sensazioni, riuscendoci nuovamente.

C’è del marcio, ma non solo, in There Was Death dei My Silent Wake. Ebbene sì, perché questa band inglese dalla fama sempre maggiore, che ha fatto parlare di sé soprattutto con il riuscitissimo album del 2007, The Anatomy of Melancholy, non si chiude mai ad una sola via stilistica.

Anche in questo nuovo lavoro, l’impatto sonoro che ci viene restituito è molto difficile da etichettare con una definizione ben precisa. Gran punto a favore, certamente, perché l’unica cosa che ci resta da fare è semplicemente aprire le orecchie ed ascoltare. Per tutta la durata dell’album, così come è sempre stato nelle loro corde, c’è una fondamentale vena malinconica, a tratti disperata. Stavolta però, a differenza di tante produzioni precedenti, la malinconia è accompagnata dal vigore e dalla forza sonora a tutti gli effetti. Ma non illudetevi, perché anche quest’ultima è perfettamente in sintonia con l’animo di questa band, ed anzi accentua gli aspetti più crudi della tristezza.
Ascoltando brani come la traccia di apertura A Dying Man’s Wish o Ghost of Parlous Lives, è inevitabile avvertire la sensazione di un vuoto totale che si espande sempre di più. I My Silent Wake riescono ancora una volta a restituirci quest’immaginario al meglio possibile. C’è una grande componente eterea, inafferrabile, che scorre per tutta la durata dell’album.
In questo sta, ancora una volta, la grande forza espressiva oltre che tecnica di questa band.

Tracklist
1. A Dying Man’s Wish
2. Damnatio Memoriae
3. Killing Flaw
4. Ghosts of Parlous Lives
5. Mourning the Loss of the Living
6. There Was Death
7. Walls Within Walls
8. No End to Sorrow
9. An End to Suffering

Line-up
Ian Arkley: Guitar, Vox
Addam Westlake: Bass
Gareth Arlett: Drums
Mike Hitchen: Live guitar and Vox
Simon Bibby: Keys, Vox

MY SILENT WAKE – Facebook

Aporya – Dead Men Do Not Suffer

Dead Men Do Not Suffer, grazie al lavoro chitarristico di grande classe fornito da Cristiano Costa, pur essendo catalogabile alla voce death doom potrebbe rivelarsi molto appetibile anche per chi apprezza l’ heavy metal dai tratti più malinconici.

Il Brasile non sembrerebbe essere terreno fertile per il doom come per i generi più estremi o il metal classico, almeno a livello quantitativo; la qualità, invece, non può essere messa in discussione se pensiamo ad una scena capace di offrire nomi già consolidati come HellLight eMythological Cold Tower, o di più recente affermazione come i Jupiterian.

A provare ad inserirsi in tale novero provano gli Aporya, band nata solo scorso anno per l’impulso del chitarrista Cristiano Costa che ha poi trovato il suo ideale completamento nel vocalist Tiago Monteiro: Dead Men Do Not Suffer è il titolo del loro interessante esordio, all’insegna di un death doom melodico che a tratti ricorda i Tiamat epoca Clouds, specialmente in un brano come One More Day, forse anche a di un’impostazione vocale a tratti simile a quella utilizzata ai tempi da Edlund, con un growl non troppo profondo e a tratti quasi sussurrato.
Al di là di questo, si capisce che gli Aporya sono un progetto nato dalla mente di un chitarrista proveniente dal metal classico, visto l’abbondante quanto appropriato ricorso ad assoli dolenti e melodici che prendono piede, soprattutto, nella seconda metà dell’album, invero ingannevole al suo avvio con un brano death tout court (ma notevolissimo) come Cry of the Butterfly, che va a spezzare l’iniziale incantesimo creato dalla tenue intro Blood Rain.
Da The Sad Tragedy (I’m Crushed Down) in poi il lavoro comincia ad assumere le coordinate promesse, ovvero quelle di un death doom melodico, elegante ma dall’impatto emotivo che si mantiene sempre apprezzabile, grazie al connubio tra le linee chitarristiche, il soffuso supporto delle tastiere ed un’interpretazione vocale che non va a sovrapporsi in maniera eccessiva alle tessiture strumentali.
Dead Men Do Not Suffer prende quota ancora più nella sua parte finale, in coincidenza con quei brani nei quali Costa sfoga tutto il suo sentire melodico abbinato ad un tocco chitarristico di grande classe; anche per questo l’album, pur essendo catalogabile alla voce death doom, potrebbe rivelarsi molto appetibile anche per chi apprezza l’ heavy metal dai tratti più malinconici.
In definitiva gli Aporya si rivelano una gradita sorpresa e l’approdo alla configurazione di band vera propria, finalizzata alla riproposizione dal vivo dei brani contenuti nell’album, non potrà che rivelarsi un valore aggiunto nell’ambito di un percorso iniziato nel migliore dei modi.

Tracklist:
1. Blood Rain
2. Cry of the Butterfly
3. The Sad Tragedy (I’m Crushed Down)
4. Little Child in the Grave
5. One More Day
6. Pain and Loneliness
7. Dead Men Do Not Suffer

Line-up:
Cristiano Costa – Guitars (lead), Songwriting
Tiago Monteiro – Vocals, Lyrics

APORYA – Facebook

Druid Lord – Grotesque Offerings

Un lavoro che saggiamente mantiene la sua natura underground, rendendo i Druid Lord un gruppo da seguire, almeno per chi ama il genere ed il death metal rallentato e appesantito da cascate di watt che si trasformano in magma infernale.

Quando si avvicina la fine dell’anno succede spesso di ritrovarsi al cospetto di band notevoli, che in Zona Cesarini (come si dice in gergo calcistico), piazzano i loro splendidi lavori come un goal all’ultimo secondo di un’avvincente partita.

Quest’anno, parlando di death metal dalle chiare influenze doom, la plastica rovesciata che vale un campionato la fanno gli statunitensi Druid Lord con questo Grotesque Offerings, monumentale esempio di musica del destino potenziata da sua maestà il death e resa ancora più estrema ed affascinante da un concept horror preso in prestito dalla cultura cinematografica e fumettistica degli anni settanta.
Il quartetto nasce in Florida nel 2010 e di quell’anno è l’esordio sulla lunga distanza Hymns for the Wicked, seguito da una serie di ep e split che accompagnano la band fino al mastodontico Grotesque Offerings, che nasce e prende forma in qualche profondità infernale e torna in superficie a trasformare questo fine 2017 in una marcia inesorabile verso la perdizione ed il puro terrore.
Il lavoro saggiamente mantiene la sua natura underground, rendendo i Druid Lord un gruppo da seguire, almeno per chi ama il genere ed il death metal rallentato e appesantito da cascate di watt che si trasformano in magma infernale.
Composto da una serie di brani atmosfericamente perfetti per notti da incubi (l’opener House Of Dripping Gore, Night Gallery, il capolavoro doom/horror Evil That Haunts This Ground e la discesa nel pozzo delle anime dannate intitolata Last Drop Of Blood) l’album è una notevole opera estrema, lenta ed inesorabile e composta da attimi davvero suggestivi.
Immaginate gli Asphyx, i primi Cathedral e i primi Paradise Lost amalgamati con il doom classico di Pentagram e Candlemass, ed ispirati dai film della Hammer (la nota casa di produzione britannica, molto attiva negli anni settanta): ecco gli ingredienti che rendono Grotesque Offerings imperdibile.

Tracklist
1.House of Dripping Gore
2.Night Gallery
3.Spells of the Necromancer
4.Evil That Haunts This Ground
5.Black Candle Seance
6.Creature Feature
7.Into the Crypts
8.Murderous Mr. Hyde
9.Last Drop of Blood
10.Final Resting Place

Line-up
Pete Slate- Lead & Rhythm Guitar
Tony Blakk- Vocals & Bass
Ben Ross- Rhythm & Lead Guitar
Elden Santos – Drums

DRUIUD LORD – Facebook

Sorrowful Land – Where The Sullen Waters Flow

Un ep che conferma il nome Sorrowful Land come un qualcosa che va ben oltre lo status di progetto futuribile, trattandosi di una realtà alla quale si chiede solo di continuare su questa strada anche in futuro.

A distanza di circa un anno Max Molodtsov torna a farsi sentire con il suo progetto solista Sorrowful Land.

Avevo già parlato più che bene del full length d’esordio Of Ruins …, che metteva in mostra qualità sopraffine sia dal punto di vista compositivo che esecutivo, andando anche oltre a quanto di buono già fatto con la sua band principale, i gotici Edenian.
In occasione del lavoro su lunga distanza avevo fatto notare una devozione piuttosto marcata nei confronti degli When Noting Remains (con tanto di imprimatur derivante dalla partecipazione come ospite di Peter Laustsen) e tutto sommato con questo lungo ep intitolato Where The Sullen Waters Flow non sembra che le coordinate siano variate più di tanto e, ci tengo a ribadirlo, questo non è assolutamente da considerare un punto negativo.
Infatti, nei tre lunghi brani che si avvicinano complessivamente alla mezz’ora di durata, il polistrumentista ucraino conferma lo spessore del proprio talento naturale per la composizione di musica struggente e colma di melodia mai stucchevole, grazie ad un lavoro chitarristico elegante e sobrio allo stesso stesso tempo.
Niente da eccepire quindi su questo gradito ritorno in tempi relativamente brevi (per le abitudini in uso nel genere) con un trittico di brani di grande efficacia tra i quali, a mio avviso, spicca l’ultimo, The Night Is Darkening Around Me, nel quale avviene un parziale spostamento verso un sound ancor più legato al suono della chitarra solista, questa volta con Saturnus e Doom Vs. nel mirino.
Ripeto che la citazione dei vari riferimenti non deve essere intesa come un’accusa di derivatività, bensì quale tentativo di fornire un’idea di cosa attendersi a chi si avvicina all’ascolto di questo lavoro, con la certezza che chi ama questo genere musicale l’ultimo dei problemi che si pone è proprio quello dell’originalità, specialmente quando il pathos e l’intensità si mantengono sempre al livello offerto da Where The Sullen Waters Flow.
Un ep che conferma il nome Sorrowful Land come un qualcosa che va ben oltre lo status di progetto futuribile, trattandosi di una realtà alla quale si chiede solo di continuare su questa strada anche in futuro.

Tracklist:
1.As I Behold Them Once Again
2.Where The Sullen Waters Flow
3.The Night Is Darkening Around Me

Line-up
Maks Molodtsov

SORROWFUL LAND – Facebook

Shrine Of The Serpent / Black Urn – Shrine Of The Serpent / Black Urn

Lo split album favorisce la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della cover degli AIC, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Altro giro, altro regalo, altro split album.

La label polacca Godz Ov War Productions ha immesso sul mercato la versione in CD di questo lavoro che vede all’opera con due brani ciascuno le band statunitensi Shrine Of The Serpent e Black Urn; per amore di precisione va aggiunto che il lavoro è stato contemporaneamente edito in formato musicassetta dalla Caligari Records.
Gli Shrine Of The Serpent provengono da Portland e questa è la loro seconda uscita dopo l’ep omonimo del 2015: la band evidentemente si sta prendendo tutto il tempo necessario prima di fare il passo del full length, ma la strada intrapresa, benché lenta come la loro musica, pare rivelarsi quella giusta visto che il doom death catacombale esibito nelle monolitiche Desicrated Tomb e Catacombs of Flesh è molto vicino, per indole ed approccio, a quello di un album seminale per il genere come Foresto Of Equlibrium dei Cathedral, il tutto rivisto scremato dalla componente psichedelica. Ciò che viene offerto è un sound dal grande impatto e di altrettanta qualità, inclusa una produzione del tutto all’altezza della situazione.
I Black Urn arrivano invece da Philadelphia, hanno una storia non dissimile da quelle dei compagni di split sia per anzianità di servizio che di fatturato discografico, ed appaiono fin dalle prime note di Catacombs of Flesh propensi ad uno stile più vario, con un’alternanza ritmica marcata a fronte di un’incisività appena inferiore; il colpaccio però questi ragazzi lo piazzano con una micidiale cover di Junkhead, brano degli immensi Alice In Chains che si presta in maniera naturale ad una “doomizzazione” aspra ma che ne mantiene intatte le principali caratteristiche (a parte lo screming furioso che, rimpiazzando la magia vocale di Layne Staley, inevitabilmente può risultare spiazzante).
A livello di consuntivo resta sicuramente la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della citata cover, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Tracklist:
Side A
1. Shrine of the Serpent – Desicrated Tomb
2. Shrine of the Serpent – Catacombs of Flesh
Side B
3. Black Urn – My Strength Is Within Heavenless Plains
4. Black Urn – Junkhead

Line-up:
Shrine Of The Serpent
Todd Janeczek – Guitars, Vocals
Chuck Watkins – Drums
Adam DePrez – Guitars, Bass

Black Urn
Alex Onderdonk – Bass
Tim Lewis – Drums
Jordan Pierce – Guitars
Ryan Manley – Guitars, Vocals
John Jones – Vocals

SHRINE OF THE SERPENT – Facebook

BLACK URN – Facebook

Luna – Swallow Me Leaden Sky

Swallow Me Leaden Sky regala quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Su quest’ultimo lavoro della one man band ucraina Luna avei potuto più o meno fare un copia incolla di quanto scritto nelle precedenti occasioni: DeMort, titolare del progetto, continua imperterrito a sfornare un buon funeral doom atmosferico interamente strumentale e che trae ispirazione in maniera piuttosto marcata dal sound degli Ea, anche se Swallow Me Leaden Sky mostra una progressione importante, se non dal punto di vista dall’originalità, sicuramente da quello prettamente qualitativo.

D’altronde, come già detto parlando di Ashes to Ashes e On the Other Side of Life, i due full length usciti rispettivamente nel 2014 e nel 2015, il rifarsi al sound tipico della misteriosa band americana non è certo da considerarsi deprecabile, specialmente se si apprezza in toto questa espressione musicale che qui viene riproposta con competenza e buona ispirazione.
Il permanere della struttura interamente strumentale resta pur sempre un limite, anche se forse in questo genere lo è meno che in altri; d’altro canto, però, in questo ultimo lavoro, non si può fare a meno di notare che alcuni degli elementi di discontinuità inseriti nel bellissimo ep There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask, uscito a cavallo tra i primi due full length, vengono ripresi dal musicista ucraino riuscendo cosi a conferire al tutto un’aura più drammatica e solenne, specialmente nella seconda delle due lunghe tracce, la title track. E’ proprio qui che il sound acquista parecchi punti in personalità e profondità rispetto al pur buono brano iniziale Everything Becomes Dust, con l’aggiunta di una sorta di vocalizzo campionato che si fa gradevolmente ossessivo nella seconda metà della traccia: la chitarra diviene finalmente protagonista soppiantando le tastiere nel ruolo preponderante assunto fino ad allora, spostando il tutto su un piano più cosmico affine a quello dei Monolithe, altra importante fonte di ispirazione per la musica marchiata Luna.
Grazie a questo l’operato di DeMort acquista quello spessore che era mancato talvolta nei lavori precedenti, assurgendo ad una forma decisamente compiuta e ben diversa da quella di buon surrogato del già esistente, definizione che sembrava essere fino ad oggi quella più calzante per la one man band di Kiev.
Swallow Me Leaden Sky regala così quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Tracklist:
1.Everything Becomes Dust
2.Swallow Me Leaden Sky

Line-up
DeMort

Jupiterian – Terraforming

Dallo scrigno brulicante di inquietanti forme di vita musicali della Transcending Obscurity, eccoci arrivare questo secondo full length dei brasiliani Jupiterian, interpreti di un maestoso sludge death doom.

Dallo scrigno brulicante di inquietanti forme di vita musicali della Transcending Obscurity, eccoci arrivare questo secondo full length dei brasiliani Jupiterian, interpreti di un maestoso sludge death doom.

Ho notato che sia oggi che in passato questo gruppo paulista ha riscosso pareri decisamente discordanti, e io stesso avevo apprezzato ma senza esaltarmi il death doom offerto dai nostri circa tre anni fa con l’ep di debutto Archaic, ma credo che questo sia il destino chi non si limita ad offrire musica accondiscendente o banale: personalmente ritengo che Terraforming, oltre a costituire un’evoluzione sonora davvero decisa ed importante, sia pressapoco la miglior forma possibile di sludge che si possa offrire di questi tempi perché, se proviamo a prendere una band che interpreta il genere nella maniera più estrema ed incopromissoria possibile, come per esempio i Primitive Man, conferendole una quantità minima ma fondamentale di senso melodico, ecco venirne fuori l’essenza musicale dei Jupiterian.
E’ grazie a questo che l’album non ottiene solo l’effetto di opprimere l’ascoltatore perché, aprendosi a passaggi più fruibili nonostante non venga mai meno un’assoluta pesantezza, riesce ad attrarre irresistibilmente così come farebbe l’enorme massa gravitazionale del maggiore dei pianeti richiamato dal monicker della band.
Se Matriarch e Forefathers sono l’emblema del migliore è più compiuto sludge doom (con annessi accenni di ambient), in Unearthly Glow si fanno largo quelle insperate melodie che che paiono riportare il tutto su un piano più accessibile, e se nella title track lo sperimentatore Maurice De Jong (Gnaw Their Tongues) offre il suo contributo ad un notevole break ambientale/rumoristico, la successiva Us And Them dei Jupiterian non ha davvero nulla in comune con la ben più nota canzone pinkfloydiana, anche se alla fine la chitarra disegna passaggi gradevolmente cristallini, prima che Sol rada al suolo definitivamente quel poco che era rimasto barcollante in posizione verticale, con un riffing dal carico oppressivo difficilmente descrivibile.
A mio avviso la dote migliore dei Jupiterian sta essenzialmente nel loro non accontentarsi di picchiare soltanto, ricordando a noi e a molti dei propri colleghi di genere quanto sia fondamentale variare ed offrire di tanto in tanto agli ascoltatori degli appigli ai quali potersi aggrappare per non essere spazzati via dallo tsunami di riff che la band brasiliana non fa certo mancare.

Tracklist:
1. Matriarch
2. Unearthly Glow
3. Forefathers
4. Terraforming (ft. Maurice de Jong of GNAW THEIR TONGUES)
5. Us and Them
6. Sol

Line up:
V – Voices, Guitars, Percussions, Synths
A – Guitars
R – Bass
G – Drums

JUPITERIAN – Facebook

Svarthart – Emptiness Filling the Void

Una proposta come questa al giorno d’oggi non può essere minimamente competitiva, men che meno in un settore già di per sé di nicchia come quello del doom metal.

Emptiness Filling the Void è il disco d’esordio per questo duo di Anversa dedito a un death doom davvero minimale.

L’album è uscito nel 2016 ma viene riproposto ora dalla Sepulchral Silence, anche se sinceramente non vedo quale spazio possa trovare anche nell’ambito degli appassionati più accaniti del genere.
L’operato degli Svarthart è poco più che amatoriale: suoni scarni, produzione approssimativa e una coesione strumentale che pare essere tenuta assieme da colla scadente, senza che si abbia mai l’impressione di essere al cospetto di una costruzione musicale organica.
L’idea di death doom ci sarebbe pure, ma manca pressoché del tutto una trasposizione esecutiva all’altezza: il sound si trascina penosamente lungo le sette tracce, con le due chitarre che se ne vanno ognuna per proprio conto accompagnando un rantolo privo della minima espressività.
Spiace doverlo scrivere, perché comunque chi si dedica a questo genere riscuote la mia simpatia a prescindere, ma una proposta come questa al giorno d’oggi non può essere minimamente competitiva, men che meno in un settore già di per sé di nicchia come quello del doom metal.

Tracklist:
1 The Void
2 A Fading Image
3 Dark Visions From The Past
4 Almost Alive
5 Inside This Darkness
6 Deep Within
7 Disappearance
8 The Awakening

Line-up:
Zeromus – (Tom M) – All instruments
Svartr – (Dieter M)

SVARTHART – Facebook

Apotelesma – Timewrought Kings

Timewrought Kings è un lavoro aspro e piuttosto parco di spunti melodici, e nonostante il suo buon livello la sensazione è che gli Apotelesma non abbiano ancora dato per intero quanto sembra essere nelle loro possibilità, sperando che questo non sia davvero il loro ultimo atto.

Timewrought Kings è il primo album degli olandesi Apotelesma ma rischia d’essere anche l’ultimo, visto che subito dopo la sua realizzazione la band ha deciso di sospendere l’attività a tempo indeterminato.

Un peccato, perché questi ragazzi, partiti nel 2012 con il monicker Monuments, con il quale hanno prodotto un ep, paiono padroneggiare con buona disinvoltura la materia death doom e, non a caso, hanno attirato l’attenzione di una label specializzata in tali sonorità come la Solitude. Timewrought Kings è un lavoro aspro e piuttosto parco di spunti melodici, riconducibili a qualche fugace litania chitarristica o nei passaggi che accompagnano la voce pulita, per cui le uniche variazioni sul tema sono quelle ritmiche, sotto forma di momenti più liquidi e rarefatti che si trovano in queste quattro tracce principali (la terza, che dà il titolo all’album, è in realtà un breve episodio strumentale).
Rispetto alla scuola olandese gli Apotelesma hanno attinto qualcosa dagli Officium Triste, soprattutto nelle fasi più rallentate ed evocative, quando l’incedere si fa più dolente, ma della band di Blankenstein non possiedono lo stesso appeal melodico, il che rende l’album decisamente valido ma piuttosto avaro di sprazzi di autentica e dolorosa bellezza.
La tracklist è di valore piuttosto uniforme, con la più rocciosa The Weakest of Men che si fa preferire per la sua organicità unita a diversi ottimi spunti chitarristici, ma il tutto fa ritenere ragionevolmente che gli Apotelesma non abbiano ancora dato per intero quanto sembra essere nelle loro possibilità; a questo punto, non fosse altro che per verificare la fondatezza di questa impressione, non resta che sperare che il periodo di riflessione preso dalla band sia solo un momento di stand-by e non la fine definitiva di un avventura, in fondo, appena iniziata.

Tracklist:
1. Aural Emanations
2. The Weakest of Men
3. Timewrought
4. Our Blooming Essence
5. Remnants

Line-up
Martijn Velberg – Drums
Ruben – Guitars (lead)
Yuri Theuns – Guitars (rhythm), Vocals (backing)
Mitch van Meurs – Vocals (lead)
Dennis Tummers – Bass

APOTELESMA – Facebook

Ceased – Resurrection Of The Flesh

I Ceased si rivelano davvero bravi nel conferire al proprio sound umori diversi, a seconda delle sensazioni descritte attraverso testi diretti ma tutt’altro che scontati.

Resurrection Of The Flesh, il primo full length dei tedeschi Ceased arriva dopo una serie di singoli che sono confluiti nell’album, essendo peraltro legati tra loro da un valido concept lirico.

La band di Karlsruhe sviscera in maniera piuttosto profonda il rapporto del’uomo con la morte che va a cozzare con il desiderio di una vita eterna, andando ad alimentare le varie credenze religiose e tutto quanto ne consegue: il mezzo musicale per descrivere tutto ciò è un death doom piuttosto melodico e di buona fattura, con una Black Room che apre di fatto il lavoro andando a lambire sonorità non distanti dai Forgotten Tomb, mente con Virus Of The World il sound si fa molto più cupo e privo di luminosità.
Cambiano le cose, in tal senso, nella parte centrale grazie a due brani più rallentati e dolenti come Emptiness e Resurrection Of The Flesh , decisamente attraenti ne loro sviluppo melodico affidato ad una chitarra solista lineare ma molto efficace, mentre le conclusive Before The Law e Meaningless Words riprendono un ritmo più incalzante, esprimendo in maniera credibile la disillusione e la rabbia verso le molte esistenze sprecate nel percorrere una strada piena di speranza al termine della quale c’è solo un portone chiuso a doppia mandata.
I Ceased si rivelano davvero bravi nel conferire al proprio sound umori diversi, a seconda delle sensazioni descritte attraverso testi diretti ma tutt’altro che scontati, anche se, alla luce dei risultati ottenuti, fossi in loro spingerei maggiormente in futuro verso quella vena maggiormente evocativa che dimostrano d’avere ampiamente nelle corde.

Tracklist:
01. I – Denial
02. Black Room
03. Virus Of The World
04. II – Depression
05. Emptiness
06. Resurrection Of The Flesh
07. III – Acceptance
08. Before The Law
09. Meaningless Words

Line-up:
N – vocals
D – guitar
Y – guitar
E – bass

CEASED – Facebook