A Tear Beyond – Humanitales

Il talento nel saper costruire brani dal forte impatto emotivo, sorprendendo l’ascoltatore ad ogni passaggio, è l’arma in più di questa splendida realtà nostrana che richiama la scuola teatrale tedesca e ci trasporta per quasi un’ora nel suo mondo oscuro.

Gli A Tear Beyond avevano impressionato non poco il sottoscritto all’indomani dell’uscita del loro secondo album, Maze Of Antipodes, licenziato tre anni fa.

Il gruppo vicentino torna con un nuovo lavoro intitolato Humanitales, un’altra spettacolare e tragica opera dal sound che racchiude gothic, dark, extreme, industrial e symphonic metal e lo elabora secondo una personale  visione.
Capitanata dal cantante ed interprete Claude Arcano, la band rispetto al lavoro precedente (il primo album Beyond, diede inizio all’avventura nel 2012) accentua in parte l’atmosfera orchestrale e cinematografica su cui si poggia il proprio universo musicale che mantiene una forte componente teatrale, in un quadro nel quale i colori mantengono le tonalità del nero.
Il talento nel saper costruire brani dal forte impatto emotivo, sorprendendo l’ascoltatore ad ogni passaggio, è l’arma in più di questa splendida realtà nostrana che richiama la scuola teatrale tedesca e ci trasporta per quasi un’ora nel suo mondo oscuro.
Humanitales coniuga come da tradizione i generi citati e ci regala una nuova manciata di splendide trame su cui il singer costruisce un’altra performance da applausi, con l’ascoltatore che, chiudendo gli occhi, si ritroverà al cospetto di un palcoscenico sul quale gli A Tear Beyond danno vita alle atmosfere di brani capolavoro come Tale, quindici minuti di nobile e tragico metallo sinfonico, gotico e concettualmente estremo nel saper unire molte anime musicali dalle tinte dark.
Devil Doll, Rammstein e Moonspell fanno parte sicuramente del bagaglio musicale del gruppo che aggiunge una sua ormai consolidata e debordante personalità in un crescendo artistico sorprendente: per gli amanti di queste sonorità un’opera imperdibile.

Tracklist
1.Humanitales
2.Frolic
3.Sentence (Forgiveness act II)
4.So Deep Out There
5.Angels Out of Grace
6.Inugami
7.Damned Paradise
8.Inadequacy
9.Tale
10.The Frozen Night (rebirth bonus)

Line-up
Claude Arcano – Vocals
Ian – Guitars
Undesc – Guitars
Cance – Bass
Phil – Keybs and Orchestra
Skano – Drums

A TEAR BEYOND – Facebook

Graveshadow – Ambition’s Price

Symphonic metal d’ordinanza, senza grossi picchi ma pure senza cadute rovinose, abbastanza estremo per risultare vario nelle atmosfere che toccano parti thrash e death con discreta fluidità nel songwriting; il resto lo fa una voce femminile più rock nelle parti pulite, rispetto al solito cantato operistico, ma leggermente forzata nel growl.

Symphonic metal d’ordinanza, senza grossi picchi ma pure senza cadute rovinose, abbastanza estremo per risultare vario nelle atmosfere che toccano parti thrash e death con discreta fluidità nel songwriting; il resto lo fa una voce femminile più rock nelle parti pulite, rispetto al solito cantato operistico, ma leggermente forzata nel growl.

Sono questi pregi e difetti di Ambition’s Price, secondo lavoro sulla lunga distanza dei californiani Graveshadow, attivi dal 2012 e già sul mercato con l’ep omonimo di inizio carriera e nel 2015 con il primo album, Nocturnal Resurrection.
I Graveshadow nelle parti melodiche dimostrano buone intuizioni, specialmente nei refrain, in quelle metalliche affondano i colpi grazie ad un’ottima prova delle sezione ritmica, anche se, come detto il growl non è sicuramente il punto di forza del gruppo statunitense.
Poi tutto gira come previsto nel genere, le orchestrazioni fanno da tappeto sonoro alle varie tracce senza risultare troppo bombastiche, i brani più diretti come Hero Of Time o Liberator sono i meglio riusciti e l’ascolto prosegue senza sussulti sino alla fine.
Ambition’s Price è un lavoro di genere che rischia di passare inosservato, non perché sia brutto, ma proprio in quanto mancante di un paio di canzoni che facciano la differenza.
Le influenze sono da ricercare nel symphonic metal ma anche nel power thrash statunitense, quindi all’ascolto dell’album troverete tracce di Nightwish e Delain come di Iced Earth, non male in effetti anche se la sensazione è che il sound abbia bisogno ancora di una registrata per funzionare a dovere.
I Graveshadow sono un gruppo che, portato qualche aggiustamento e limato un paio di difetti, potrebbero ripagare gli amanti del genere, per ora arrivano alla sufficienza abbondante ma senza riuscire a convincere del tutto.

Tracklist
1.Doorway To Heaven
2.Widow And The raven
3.Ambition’s Price
4.Hero Of Time
5.The Gates
6.The Unspoken
7.Return To Me
8.Call Of The Frostwolves – I. Slave
9.Call Of The Frostwolves – II. Liberator
10.Call Of The Frostwolves – III. Warchief
11.Eden Ablaze

Line-up
Heather Michele – Vocals
Will Walker – R.Guitars
Aaron Robitsch – L.Guitars
Roman Anderson – Drums
Ben Armstrong – Bass

GRAVESHADOW – Facebook

Hertz Kankarok – Make Madder Music

Hertz Kankarok conferma e rafforza le impressioni destate in occasione dell’esordio, offrendo con questo nuovo ep intitolato Make Madder Music un’altra mezz’ora abbondante di sonorità fresche e imprevedibili.

Dopo un ep sorprendente come Livores, datato 2015, ritorna Hertz Kankarok con la sua proposta trasversale, inquieta e lontana dalla banalità.

Il musicista siciliano conferma e rafforza le impressioni destate in occasione dell’esordio, offrendo con questo nuovo ep intitolato Make Madder Music un’altra mezz’ora abbondante di sonorità fresche e imprevedibili, in quanto anche quando può sembrare che siano le ritmiche nervose del djent a prendere il sopravvento, in realtà troviamo sempre una linea melodica ben definita a guidarci nel labirinto musicale ideato da Hertz Kankarok, il quale, come nel precedente lavoro, si dedica esclusivamente ad una versatile interpretazione vocale lasciano ad Andrea Cavallaro (nei primi tre brani) e a Dario Laletta (nel quarto) l’onere di occuparsi dell’intera parte strumentale e degli arrangiamenti.
Per quanto anomali, questi connubi funzionano a meraviglia e questo nuovo ep si dimostra l’ulteriore sviluppo di un sound che era già apparso ampiamente evoluto in Livores: forse nel complesso la struttura dei brani è leggermente più arcigna, ma i cambi di scenario, talvolta repentini, che fanno approdare il sound su lidi molto più ariosi ed atmosferici, avvengono sempre con magistrale fluidità.
Nei quattro brani che vanno a comporre questo ep non c’è un solo momento di stasi, con i suoni che si rivelano ottimali sia quando al proscenio salgono riff secchi e taglienti sia quando il tutto assume connotati più melodici od evocativi.
Del resto, ascoltando più volte Make Madder Music, mi sono reso conto di quanto sia complesso provare a descrivere i brani, anche per la difficoltà oggettiva nell’individuare un termine di paragone o di ispirazione ben definita: volendo esemplificare al massimo, nel corso del lavoro di volta in volta si manifestano richiami che vanno  da Meshuggah a King Crimson, dai Nevermore ai Tiamat, dai Nine Inch Nails per giungere perfino ai Devil Doll, ma sono citazioni del tutto soggettive e che i,n quanto tali lasciano il tempo che trovano. Ma la cosa che maggiormente conta è il consuntivo finale, rappresentato in questo caso da un lavoro che convince e, in più di un passaggio, entusiasma, passando dalle nervose ruvidezze di una Cargo Cult alla stupefacente solennità del capolavoro Who Is Next, e con le irrequiete Deceive Yourself! e The Great Whirlpool (la cui seconda metà rappresenta la chiusura ideale per qualsiasi disco) a mostrare la capacità di cambiare veste in maniera vorticosa senza soluzione di continuità come i migliori dei trasformisti.
Hertz Kankarok per lavoro ha viaggiato molto ed ha vissuto in diversi paesi, anche extraeuropei: questa sua indole cosmopolita influisce nel suo percorso compositivo non tanto in maniera diretta, perché nella sua musica le pulsioni etniche appaiono ma non in maniera preponderante, quanto nella naturalezza con la quale i vari impulsi vengono assimilati e poi trasformati in sonorità che, pur non offrendo uno stabile punto di riferimento, non appaiono mai dispersive od ancor peggio ridondanti.
Tutto questo consente di affermare, senza tema di smentita, che questo musicista atipico è stato nuovamente in grado di offrire, a distanza di qualche anno, un’ulteriore testimonianza di una sound innovativo e progressivo nel senso più autentico del termine, con il decisivo valore aggiunto di una scrittura ficcante e sempre ben lontana da una sterile esibizione di tecnica, nonostante la possibilità di avvalersi di due compagni d’avventura di eccezionale bravura come Cavallaro e Laletta.
Resta solo da ottenere, per Hertz Kankarok, la consacrazione a questi livelli con un full length, auspicabilmente con l’aiuto decisivo di una label capace di promuoverne a dovere la musica.

Tracklist:
1. Deceive Yourself!
2. Cargo Cult
3. Who Is Next?
4. The Great Whirlpool

Line-up:
Hertz Kankarok – Vocals
Andrea Cavallaro – Guitars, bass, Synths on 1.2.3.
Dario Laletta – Guitars, bass, Synths on 4.

HERTZ KANKAROK – Facebook

Horrorgraphy – Season of Grief

Season of Grief  alla fine si lascia ascoltare ma, quasi ad avallare l’impietosità del confronto, la band greca piazza alla fine la cover di The Rise of Sodom and Gomorrah che definisce con chiarezza la distanza siderale che spesso intercorre tra i maestri di un genere ed i loro volenterosi epigoni.

La recente uscita dei Therion, viste le sue dimensioni inusuali, dovrebbe aver placato per un po’ la sete di symphonic gothic metal degli appassionati.

Diviene così ancora più difficile per le band minori trovare nuovi spazi in un settore che di suo è già sufficientemente inflazionato, figuriamoci poi se uno dei nomi di punta se ne esce con tre ore di musica inedita.
Ci provano ugualmente i greci Horrorgraphy a ritagliarsi uno spazio, con questo lavoro d’esordio che non nasconde in alcun modo la devozione nei confronti dell’opera di Christofer Johnsson.
Il tutto avviene, ovviamente, senza che a disposizione ci siano né i mezzi né il talento per avvicinare quei livelli, ma nonostante ciò il risultato finale non è affatto deprecabile.
Dimon’s Nigh, già incrociato con altri suoi progetti come Humanity Zero e Inhibitions, si occupa di tutta la parte musicale e si avvale di tre voci, quella femminile di Marialena Trikoglou e quelle maschili di Pain e Seek.
La configurazione, sia detto con il massimo rispetto, sembra quella di una sorta di Therion dei poveri e quello che ne deriva non può che essere inevitabilmente un discreto surrogato e nulla più.
A livello compositivo Season of Grief mostra buone intuizioni, mentre la perfezione sonora ed esecutiva delle opere johnssoniane è piuttosto lontana; meglio quindi allorché gli Horrorgraphy spingono in po’ più sull’acceleratore, dato che nelle parti più evocative e rarefatte certe carenze (voce femminile e chitarra solista in particolare) tendono ad emergere più nettamente.
Season of Grief  alla fine si lascia ascoltare ma, quasi ad avallare l’impietosità del confronto, la band greca piazza alla fine la cover di The Rise of Sodom and Gomorrah che definisce con chiarezza la distanza siderale che spesso intercorre tra i maestri di un genere ed i loro volenterosi epigoni.

Tracklist:
1. In a Dark Time
2. Ghosts
3. Hauted
4. The March of the Dead
5. Hounds of Hell
6. Her Violin Sings at Night
7. Join Me in Suicide
8. Season of Grief
9. The Rise of Sodom and Gomorrah (Therion cover)

Line up:
Dimon’s Night – All instruments, Songwriting
Pain – Vocals
Seek – Vocals
Marialena Trikoglou – Vocals (soprano)

The Chapter – Angels And Demons

Gli otto brani che vanno a comporre il lavoro sono tutti decisamente validi, ognuno equilibrato nel suo oscillare tra un’anima più pesantemente metallica e quella più malinconica e gotica.

I portoghesi The Chapter sono una delle non poche band formatesi nello scorso decennio che, dopo un’uscita d’assaggio, hanno atteso molto tempo prima di dare alla luce un primo full length.

La band di Lisbona prova ad inserirsi nel filone gothic dark, immettendo nel proprio sound la robustezza del doom, e lo fa con un buon risultato tenendo fede alla consolidata traduzione lusitana che prende vita dai Moonspell ma passa anche da nomi meno famosi ma ugualmente rilevanti come Heavenwood, Painted Black e A Dream Of Poe.
Il vocalist Pedro Rodrigues si disimpegna ottimamente piazzando nelle parti più ruvide un pregevole growl, mentre le clean ricordano quelle di Jonas Renkse dei Katatonia e anche certe aperture melodiche riportano al periodo (secondo me) d’oro di Tonight’s Decision e Discouraged Ones.
Se poi aggiungiamo che, quando il sound si sposta su lidi gothic doom, il piacevole riferimento a tratti sembrano diventare i migliori Evereve, il quadro che si presenta è quello di una band che cerca di trovare soluzioni in qualche modo meno prevedibili, proprio in quanto pare attingere da fonti meno scontate rispetto a quanto fatti da altri gruppi.
Gli otto brani che vanno a comporre il lavoro sono tutti decisamente validi, ognuno equilibrato nel suo oscillare tra un’anima più pesantemente metallica e quella più malinconica e gotica: sicuramente le due canzoni iniziali, la title track dalle molte sfaccettature e Shattered Emotions, più rarefatta e vicina al melodic death doom d’autore, squarciano il velo sul potenziale dei The Chapter, il cui operato si rivela convincente e sempre intriso di un buon grado di emotività, sia quando sono i Moonspell a fungere da faro (Aenima Vipera) sia sempre i Katatonia (For A Ghost, To Live For) proprio per la bravura della band di Setubal nello svincolarsi da un’interpretazione calligrafica inserendo frequenti variazioni di ritmo.
Una bella prova che ha la sola controindicazione di un connubio tra monicker (The Chapter) e titolo dell’album (Angels And Demons) che, dalla ricerca su Google, restituisce praticamente solo informazioni sul best seller di Dan Brown o sul film che ne fu tratto, e questo non giova certo ad una divulgazione efficace delle informazioni riguardanti la band; quando è però la musica a parlare, i lusitani mettono sul piatto una padronanza del genere non scontata, tale da far presupporre e sperare che questo sia solo il nuovo inizio un di un percorso musicale ripartito con il piede giusto.

Tracklist:
1. Angels And Demons
2. Shattered Emotions
3. Aenima Vipera
4. For a Ghost
5. This Scar
6. To Live For
7. The Past is Dead
8. The Librarian

Line up:
Eurico Mealha – Bass
João Gomes – Guitar
Pedro Almeida – Guitar
Pedro Antunes – Drums
Pedro Rodrigues – Vocals

Guests:
Micaela Cardoso – Vocals

THE CHAPTER – Facebook

Son Of Sorrow – Rulers of a Dying World

L’album scorre via senza creare la minima ombra di noia, sciorinando uno dopo l’altro brani dal grande impatto melodico e di rapida assimilazione, senza che questo vada a penalizzare la qualità intrinseca del tutto.

Rulers of a Dying World è l’esordio su lunga distanza degli spagnoli Son Of Sorrow, autori di un gothic metal di grande classe che non sfigura per nulla di fronte a quello proposto da band ben più celebrate.

In realtà uno dei fondatori della band, il vocalist Aklex Padina, sarebbe di nazionalità inglese, ma il suo incontro con il chitarrista Manu Piñeiro Sanchez è avvenuto sul suolo iberico dove di fatto oggi risiede in pianta stabile.
In tal senso il connubio tra questi due musicisti non poteva rivelarsi più opportuno: i Son Of Sorrow ai soliti incontentabili potranno anche apparire derivativi, perché è  fuor di dubbio che nel sound della band si manifestino palesemente influssi che riportano ai Paradise Lost come ai The Foreshadowing, per spingersi anche fino ai Sentenced e alla genia gotica finnica, ma resta il fatto che questo album scorre via senza creare la minima ombra di noia, sciorinando uno dopo l’altro brani dal grande impatto melodico e di rapida assimilazione, senza che questo vada a penalizzare la qualità intrinseca del tutto.
La voce di Padina è perfetta il genere: calda, evocativa e scevra da forzature od esagerazioni ai quali sono spesso soggetti gli emuli “eldritchiani”, fin dall’opener 1 a.m. ci trasporta lungo atmosfere certamente oscure ma mai eccessivamente plumbee, con la melodia che prevale sempre alla lunga nei confronti delle rare ma presenti pulsioni metalliche e moderniste; in tale contesto è forse Faith in Extinction, uno dei quattro brani dell’ep omonimo confluiti nel full length, a mostrare i tratti più cupi, anche se la successiva Cage non sembra essere da meno, grazie ad un prezioso lavoro chitarristico.
In effetti la differenza tra in brani dell’ep e quelli inediti è di fatto inesistente visto che il lasso di tempo trascorso tra le due uscite è di poco superiore all’anno, poco per dare il tempo di elaborare un’eventuale svolta stilistica in un senso o nell’altro, anche se i brani più catchy paiono appartenere tutti all’ondata più recente (1 a.m., Spiders, Since December).
Resta un episodio a parte la bonus track La Piel, brano cantato in spagnolo che potrebbe rappresentare una possibile strada da seguire alla ricerca di quella peculiarità la cui assenza, al momento, è l’unico appunto che si possa fare ai Son Odf Sorrow, dei quali piuttosto va apprezzata la disinvoltura con la quale offrono questi dieci brani scorrevoli e avvincenti, frutto di una vis compositiva caratterizzata da una certa eleganza e da sicura competenza nel trattare la materia. Tutto questo basta e avanza per rendere Rulers of a Dying World molto di più di un semplice ascolto gradevole.

Tracklist:
1. 1 a.m.
2. Spiders
3. Just to Get
4. Faith in Extinction
5. Cage
6. Always
7. Share the Light
8. Since December
9. Rulers (of a Dying World)
10. La Piel

Line-up:
Manu Piñeiro Sanchez – Guitars
Alex Padina – Vocals (lead)
Carlos Cano – Bass
Unai García – Drums
Ian Peréz – Guitars

SON OF SORROW – Facebook

Levania – The Day I Left Apart

Il gruppo ferrarese torna con un ottimo lavoro ed un sound in parte rinnovato, spostando le coordinate del metallo dalle reminiscenze gothic metal verso un più moderno e coinvolgente dark rock che si potenzia di elettronica industriale, valorizzato da una particolare cura per arrangiamenti e produzione.

La storia dei Levania si arricchisce di un altro capitolo: il nuovo ep licenziato dalla Sliptrick Records ed intitolato The Day I Left Apart.

Il gruppo ferrarese torna con un ottimo lavoro ed un sound in parte rinnovato, spostando le coordinate del metallo dalle reminiscenze gothic metal verso un più moderno e coinvolgente dark rock che si potenzia di elettronica industriale, valorizzato da una particolare cura per arrangiamenti e produzione.
Dei Lacuna Coil in versione industrial, divisi tra atmosfere estreme e parti più danzereccie che farebbero scatenare un branco di vampiri nel club di qualche oscura metropoli del film Underworld, questi sono i nuovi Levania e quello che sprigionano questi cinque brani racchiusi in The Day I Left Apart.
Still e Fade hanno portato qualcosa del loro progetto elettro/pop Deplacement nella musica dei Levania, l’elettronica quindi prende il sopravvento ma, mentre nella musica del duo si richiamavano il dark rock e la new wave anni ottanta, qui il sound è spogliato di quell’eleganza insita nella musica oscura suonata trent’anni fa per un approccio diretto e metallico, lasciando che l’ottima voce di Ligeia duetti con il growl, per un contrasto bianco/nero sempre in primo piano nei brani che compongono l’album.
I Levania hanno fatto centro e sono pronti a spiccare il volo: Rising, opener straordinaria, apre le danze nel vero senso della parola: tappeti industriali, ritornelli gothic, synth su cui è strutturata la song, fanno parte del mood che torna nei brani successivi, con una Trace dal ritornello che è una vera bomba melanconica, i ritmi forsennati e sintetici di Dried Blood, l’irresistibile ritornello di Total Recall e via fino all’ultima nota della conclusiva Your Eyes And My Fear, brano conclusivo di questa potenziale bomba commerxiale contenente industrial, alternative, dark e gothic metal.
Il sound del gruppo si è sicuramente trasformato non poco, diventando qualcosa di più diretto, moderno, ma dalla presa che risulta fatale, specialmente per chi esce la sera con una sete di sangue da soddisfare.

Tracklist
01. Rising
02. Trace
03. Dried Blood
04. Total Recall
05. Your Eyes And My Fear

Line-up
Ligeia – Lead vocals
Still – Keyboards & Vocals
Richie – Guitars
Fade – Bass
Markus – Drums

LEVANIA – Facebook

Paradise Lost – Host (Remastered)

Appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della discografia dei Paradise Lost, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo.

C’era una volta la sacra triade inglese del gothic death doom, massima espressione di un movimento che produsse tramite i suoi migliori esponenti una serie di capolavori che segnarono pesantemente la storia del metal più oscuro all’inizio degli anni ’90.

I primi ad abbandonare la tenzone furono gli Anathema, pubblicando nel 1996 il pinkfloydiano Eternity, disco comunque splendido che venne seguito dal magnifico Alternative 4 e, po,i dall’altrettanto validoJudgement, per arrivare infine al definitivo distacco dal metal avvenuto con A Fine Day To Exit.
Nel 1998 anche i più ortodossi del trio, i My Dying Bride, tentarono di inserire elementi elettronici nel loro sound con un disco strambo ma tutt’altro che deprecabile come 34.788%… Complete, salvo poi tornare precipitosamente sui propri passi con il successivo The Light at the End of the World e continuando a sfornare in serie altri buoni lavori, culminati con il bellissimo e ultimo Feel The Misery, del 2015.
Prima di quanto fatto dai loro concittadini, nel 1997 i Paradise Lost, dal canto loro, avevano già impresso una svolta al proprio sound pubblicando One Second, album che era pervaso da una fino ad allora insospettabile fascinazione nei confronti dell’operato dell premiata ditta Gore/Gahan, ma che aveva fornito a mio avviso un risultato molto intrigante, grazie ad una serie di brani ispirati (tra cui forse quella che si può considerare la vera e propria hit della band di Halifax, Say Just Words) per quanto decisamente spiazzante nei confronti dei puristi.
Ed arriviamo al 1999, anno in cui viene pubblicato il controverso Host: volendo giocare con i nomi delle band, se One Seoind poteva essere definito un disco dei Paradise Mode, quest’ultimo parto era più ragionevolmente attribuibile a degli ipotetici Depeche Lost, in quanto ogni pulsione metallica era pressoché sparita, rimpiazzata da un elettro gothic dark piuttosto annacquato.
Già, perché al di là dell’incapacità di molti fans nell’accettare il fatto che una band possa avere tutto il diritto di sperimentare nuove soluzioni ed abbracciare stili diversi, il problema di Host era sostanzialmente il fatto d’essere un lavoro fiacco, privo di brani realmente trainanti (personalmente salvo solo le più oscure In All Honesty e Deep) tanto che, a quel punto, perso per perso, conveniva andarsi a recuperare i lavori dei capostipiti del genere piuttosto che ascoltarne una sbiadita e poco convinta copia rappresentata dai Paradise Lost.
Alla luce di questa lunga premessa, appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della loro discografia, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo (tra l’altro, se proprio lo si voleva/doveva fare per incombenze di tipo commerciale o contrattuale, non era meglio attendere almeno il ventennale che sarebbe caduto l’anno prossimo?).
Ora, va detto che in epoca di revisionismo acrobatico, quello che spinge i più smemorati a riscrivere e stravolgere la storia a proprio uso e consumo, non mi meraviglierei di trovare qualcuno che vorrà riabilitare Host (mi riferisco solo al disco, i Paradise Lost non hanno certo bisogno d’essere riabilitati, ma semmai vanno ringraziati per quella che è stata la loro carriera nel complesso); io ho provato a riascoltarlo con la segreta speranza di cogliere qualcosa che magari mi ero perso all’epoca della sua uscita, ma devo ammettere d’essermi annoiato dalla prima all’ultima nota esattamente come mi accadde nell’ormai lontano 1999.
Per concludere la retrospettiva storica, resta da aggiungere che Mackintosh e soci ritrovarono la via maestra di un sound a loro più consono, solo con la pubblicazione del disco autointitolato del 2005, vero e proprio inizio di una progressiva rinascita culminata con un album ispirato e degno del blasone della band come il recente Medusa.
Inutile aggiungere che se a qualcuno avanzassero degli euro è meglio che li investa diversamente, relegando Host all’oblio riservato ai dischi poco riusciti che anche alle migliori band capita di produrre.

Tracklist:
1. So Much Is Lost
2. Nothing Sacred
3. In All Honesty
4. Harbour
5. Ordinary Days
6. It’s Too Late
7. Permanent Solution
8. Behind The Grey
9. Wreck
10. Made The Same
11. Deep
12. Year Of Summer
13. Host

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Lee Morris – Drums

PARADISE LOST – Facebook

Foredawn – Foredawn

I Foredawn ci travolgono, inarrestabili, con una tracklist che non conosce pause, urgente, diretta e senza fronzoli, uno schiaffo gotico e alternativo che non mancherà di lasciare il segno sui visi degli amanti del rock/metal nascosto tra le ombre della notte.

Album di debutto per questa alternative gothic metal band lombarda, che ci investe con tutta la sua elegante energia con Foredawn, lavoro omonimo licenziato dalla The Jack Music Records.

Il quartetto milanese è composto dai fratelli Franco (Irene e Ivan), rispettivamente cantante e batterista e dalle sei corde di Mattia “Tia” Stilo e Riccardo Picchi.
Una voce sinuosa ma anche potente e metallica, ritmiche sostenute e chitarre heavy che si lasciano ammaliare da sfumature gotiche ed impulsi alternativi si uniscono per dar vita ad un prodotto molto interessante.
Dall’ascolto dei dieci brani più la cover del classico ottantiano You Spin Me Round dei Dead Or Alive, esce allo scoperto una band coesa, con un sound di livello ed alquanto personale anche se, inevitabilmente, qualche accostamento con realtà più affermate non manca (Lacuna Coil ed Evanescence).
Rispetto a molti gruppi del genere i musicisti milanesi hanno un approccio più heavy, le chitarre sono presenti in modo massiccio e non solo ritmicamente parlando, ma assurgendo a ruolo di protagoniste con assoli che si conficcano in cuori metallici che pompano adrenalina sotto i colpi inferti da Eternal Flight, Insidious Dark o la cavalcata hard & heavy Nightmare, ultima traccia originale prima di lasciare il gran finale alla rocciosa cover che abbiamo citato in precedenza.
I Foredawn ci travolgono, inarrestabili, con una tracklist che non conosce pause, urgente, diretta e senza fronzoli, uno schiaffo gotico e alternativo che non mancherà di lasciare il segno sui visi degli amanti del rock/metal nascosto tra le ombre della notte.

Tracklist
1.Cliffs Of Moher
2.Eternal Fight
3.Insidious Dark
4.Tears Are Fallen
5.Buried Hopes
6.Nightfire
7.Stronger
8.I Stay Here
9.Signs
10.Nightmare
11.You Spin Me Round (Like a Record) – Dead Or Alive Cover feat. Emi (Wolf Theory/Mellowtoy)

Line-up
Irene “Ire” Franco – Vocals
Ivan Franco – Drums
Mattia “Tia” Stilo – Guitar
Riccardo Picchi – Guitar

FOREDAWN – Facebook

Lenore S. Fingers – All Things Lost On Earth

Un disco così profondo, intenso e nel contempo delicato, poteva scaturire solo dall’incontro tra il triste disincanto del gothic dark di matrice nordica ed il tepore mediterraneo, capace di sciogliere il ghiaccio trasformandolo in lacrime liberatorie.

Quando, nel 2014, uscì un album come Inner Tales, era apparso subito evidente che ci si trovava di fronte all’epifania di un talento unico e cristallino come quello della giovanissima musicista calabrese Federica “Lenore” Catalano.

Restava solo da confermare quanto di buono già mostrato in quel frangente ed è valsa, così, la pena d’avere atteso diverso tempo prima di poter ascoltare il seguito di quel bellissimo disco: All Things Lost on Earth è un’opera che riconcilia con il gothic contraddistinto da voce femminile chiunque avesse in uggia questo tipo di soluzione.
Già, perché qui non c’è nulla di scontato e pianificato a tavolino, solo una decina di canzoni splendide, interpretate da una cantante dalla voce particolare e personale, aiutata da una band perfetta nel proprio ruolo di robusto e, al contempo, atmosferico supporto.
Nel sound dei Lenore S. Fingers confluisce un’inevitabile serie di influssi provenienti da band differenti, ma aventi quale comune denominatore la capacità di produrre musica intrisa di malinconico trasporto (Novembre, Katatonia, The Gathering era Anneke, su tutte), e da ciò ne scaturisce un sound che produce il risultato tutt’altro che scontato di non assomigliare ad un modello specifico.
All Things Lost On Earth è un lavoro che possiede la forza di resistere ad una tripletta iniziale di brani talmente belli che renderebbe superfluo il prosieguo di qualsiasi altra tracklist: My Name Is Snow è una sorta di intro, con la voce di Federica che si appoggia sul tappeto strumentale creato dall’ospite Anna Murphy (un’altra splendida interprete che fornisce il suo prezioso contributo all’album solo in forma strumentale, attraverso le tastiere ed uno strumento tradizionale come la ghironda), seguita da Lakeview’s Ghost, dal superlativo chorus e con un’accelerazione finale che conduce a Rebirth, brano di struggente bellezza in ogni suo aspetto.
Così Ever After, con il suo incedere più lieve, funge da ideale cuscinetto tra la prima parte dell’album e quella conclusiva, assieme alla più elaborata Luciferines, unica traccia nella quale appaiono parti cantate in italiano, e la “novembrina ” Epitaph.
L’intensa My Schizophreniac Child recupera l’impatto emotivo impercettibilmente scemato nei brani appena citati, conducendo alla sognante Decadence Of Seasons, canzone nella quale Federica regala brividi a profusione, replicati in buona parte nella più ariosa title track, e affidando la chiusura alla breve e più cupa Ascension, finale degno di un disco di enorme valore.
I Lenore S. Fingers hanno perso buona parte di quelle sfumature doom messe in mostra all’esordio, approdando ad un gothic ricco di quel pathos mancante alla maggior parte degli album ascrivibili allo stesso ambito, spesso perfetti dal punto di vista formale ma scontati nelle soluzioni e incapaci di comunicare empaticamente nei confronti dell’ascoltatore; Federica e i suoi compagni ci aprono, invece, le porte di un microcosmo nel quale regna una malinconia soffusa, lontana sia dalla disperazione delle forme più estreme di doom, sia dall’enfasi dai tratti sinfonici del gothic più commerciale: un disco così profondo, intenso e nel contempo delicato, poteva scaturire solo dall’incontro tra il triste disincanto del gothic dark di matrice nordica ed il tepore mediterraneo, capace di sciogliere il ghiaccio trasformandolo in lacrime liberatorie.

Tracklist:
1. My Name Is Snow
2. Lakeview’s Ghost
3. Rebirth
4. Ever After
5. Luciferines
6. Epitaph
7. My Schizophreniac Child
8. Decadence Of Seasons
9. All Things Lost On Earth
10. Ascension

Line-up:
Federica Lenore Catalano: vocals, acoustic guitars, guitar synth
Patrizio Zurzolo: electric guitars, guitar synth
Natale Casile: bass
Gianfranco Logiudice: drums

Special Guest: keyboards, synth and hurdy-gurdy by Anna Murphy

LENORE S.FINGERS – Facebook

Asidie – Behind

Doom, gothic, death melodico e dark rock sono il bagaglio musicale che gli Asidie si portano appresso, creando un sound che, se perde qualche punto in originalità, spicca per il notevole impatto emotivo grazie all’attitudine melodica e ombrosa in linea con quella di come Sentenced, HIM e, in parte, Swallow The Sun.

Accompagnato da un artwork che ricorda le opere metalliche uscite dalla penisola scandinava, arriva sul mercato Behind, il primo full length degli italiani Asidie.

Il gruppo, nato da qualche anno, licenzia il suo debutto che è stato preceduto dal singolo Under The Snow, uscito un paio di mesi fa.
Behind, con le sue ritmiche corpose, le tastiere che ricamano tappeti melodici, qualche accelerazione di stampo melodic death ed una voce profonda che ricorda il Ville Laihiala dei Sentenced/Poisonblack, ci regala una piacevole mezz’ora di melodie melanconiche ed atmosfere dark.
Il doom, genere a cui la band è accostata, è sfiorato a tratti in After The Storm, stupendo brano impreziosito dalla voce di Chiara Tricarico (ex Temperance, Teodasia), e in Smile For Me, ma sono attimi atmosferici in un sound che punta tutto sulle sonorità oscure tipiche dalla scuola scandinava.
Appunto doom, gothic, death melodico e dark rock sono il bagaglio musicale che gli Asidie si portano appresso, creando un sound che, se perde qualche punto in originalità, spicca per il notevole impatto emotivo grazie all’attitudine melodica e ombrosa in linea con quella di come Sentenced, HIM e, in parte, Swallow The Sun.

Tracklist
1. Black Soul
2. Under The Snow
3. After The Storm
4. Smile For Me
5. Cold Rain

Line-up
Valerio-Vocals
Ivan-Guitars
Rob-Guitars
Pizzu-Bass
Giulio-Drums

ASIDIE – Facebook

Paragon Collapse – The Dawning

Per chi ha apprezzato in passato band come The Third And The Mortal, Stream Of Passion e, ovviamente, The Gathering era Anneke, The Dawning potrebbe rivelarsi una gradita sorpresa.

I Paragon Collapse sono una band rumena proveniente da Iasi, città che si trova vicino al confine con la Moldavia e piuttosto lontana geograficamente dalle zone più tradizionalmente foriere di band di un certo spessore come lo sono la capitale e la vicina Brasov, o Timisoara.

Forse anche per questo il sound del gruppo fondato dal chitarrista Alex Lefter si stacca parzialmente dalle forme di metal che, abitualmente, provengono dalla Romania, optando per un sound gothic doom dai tratti piuttosto pacati e che, pur non brillando per originalità, si fa apprezzare non poco per la propria limpidezza.
Aiuta senza dubbio in tal senso la voce cristallina di Veronica Lefter, vocalist e violinista che utilizza al meglio le proprie doti fornendo una prova misurata che ben si confa ad un sound per lo più soffuso, nel quale le accelerazioni sono rade così come i passaggi più robusti.
Nonostante siano al debutto, i Paragon Collapse hanno alle spalle una storia piuttosto lunga, per cui di sicuro non si ha a che fare con musicisti alle prime armi, cosa che si evince chiaramente dalla competenza nel trattare la materia, grazie alla quale riescono ad evitare certe stucchevolezze a rischio nel genere e rendere tutto sommato digeribile un lavoro della durata di quasi un ‘ora.
Volendo trovare qualche difetto alla proposta, non si può fare a meno di notare che la lunghezza dei brani, in certi casi oltre i dieci minuti, non agevola di sicuro la fruizione, così come una certa uniformità stilistica e la mancanza di un brano trainante impediscono a The Dawning di raggiungere un livello di assoluta eccellenza.
Detto ciò, l’operato deiParagon Collapse è decisamente piacevole e trova i suoi momenti migliori in due brani che in qualche modo mostrano i migliori aspetti della band: quello più rarefatto ed evocativo, con l’opener The Endless Dream, e quello più progressivo e robusto della conclusiva Deliverance.
Per chi ha apprezzato in passato band come The Third And The Mortal, Stream Of Passion e, ovviamente, The Gathering era Anneke, The Dawning potrebbe rivelarsi comunque una gradita sorpresa.

Tracklist:
1. The Endless Dream
2. The Stream
3. A Whisper of Destiny
4. Nirvana
5. Climbing the Abyss
6. A Winter Life
7. Deliverance

Line-up:
Ion Ciobanu – Guitars
Alex Lefter – Guitars
Veronica Lefter – Vocals, Violin
Vali Seciu – Bass
Codrin Murariu – Drums

PARAGON COLLAPSE – Facebook

Therion – Beloved Antichrist

Tirando le somme dell’operazione, appare evidente come Christofer Johnsson fosse uno dei pochi in possesso della caratura artistica e della credibilità necessarie per cimentarsi in un impresa di questa dimensioni: ciò che resta, però, è la sensazione d’essere al cospetto di una profusione di energie che ha prodotto un risultato di livello rispettabile, ma inferiore a quelle che potevano esser le ragionevoli aspettative.

Dopo una lunga gestazione, finalmente la rock opera che è sempre stata nelle corde e nelle intenzioni di Christofer Johnsson ha visto la luce con il titolo Beloved Antichrist, rappresentando il sedicesimo full length della brillante carriera dei suoi Therion.

Certo che, in questo caso, più che di full sarebbe il caso di parlare di “excessive length”, perché tre ore di musica spalmate su altrettanti cd sono un qualcosa che va decisamente in direzione ostinata e contraria alle modalità di ascolto e di consumo della musica in voga nel terzo millennio: del resto Johnsson è da tempi non sospetti un artista che volge il suo sguardo molto più al passato, perlomeno a livello di immaginario, e a questo va aggiunto il fatto che una simile operazione non possa essere tacciata in alcun modo di commercialità.
Confesso che l’idea stessa di parlare di un’opera di tali dimensioni crea diversi imbarazzi, perché per riuscire a raccontare con dovizia di particolari i contenuti di Beloved Antichrist è necessario un impegno orario complessivo che fa sicuramente e onore a chi ci ha provato: dal canto mio, più che di parlare di questa o quella traccia (essendocene ben 47 non sarebbe difficile citare, nel bene e nel male, 4 o 5 titoli presi a caso) preferisco tentare di fare un ragionamento più ampio, partendo dall’assunto di base che i Therion sono una delle creature musicali più importanti e peculiari della sorta del metal e, come tali, vanno trattati con la dovuta dose di rispetto e riconoscenza.
Però, prendendo in esame la storia della band svedese, se dovessi disegnare un grafico farei ascendere la linea fino al picco corrispondente a Theli, per poi farle iniziare una graduale discesa che ne mantiene le coordinate sempre al di sopra di un livello medio, con una nuova lieve impennata corrispondente all’accoppiata Lemuria / Sirius B.
E’ anche vero che lo steso Christofer Johnsson ci avverte che Beloved Antichrist non deve essere trattato alla stregua di un nuovo album dei Therion, bensì come una vera e propria rock opera sulla falsariga, almeno a livello di intenti, dei capolavori settantiani come Jesus Christ Superstar o Tommy. Un’affermazione che non deve essere letta come un atto di presunzione perché, probabilmente, il musicista svedese ha inteso puntualizzare come il lavoro possa trovare una sua dimensione più efficace nella trasposizione sul palco.
Beloved Antichrist in fondo scorre via piuttosto bene, considerata la lunghezza, ma manca di un brano capace di stupire l’ascoltatore per la sua bellezza (chi immagina che mi possa riferire a qualcosa di simile a The Siren Of The Woods ci ha preso in pieno, ma mi sarei accontentato anche di molto meno a livello di intensità emotiva).
Queste tre ore di musica scivolano, infatti, lasciando sensazioni complessivamente gradevoli, ma venendo meno quei due o tre elementi di traino fatico ad immaginare qualcuno che decida di ascoltare ogni giorno l’intera opera, ben sapendo che non vi rinverrà quei momenti topici che giustificano la presenza di tutto il restante contenuto; inoltre, trovandosi a dover assegnare una voce diversa a buona parte dei quasi trenta personaggi, a Johnsson è venuta meno l’intuizione (o semplicemente non ha ritenuto opportuno farlo) di affidare alcuni ruoli a vocalist di un certo nome, a differenza di quanto, magari un po’ ruffianamente, hanno fatto in passato i vari Lucassen o Sammet, lasciando campo libero a cantanti bravi ma sconosciuti (a parte Lori Lewis e Tomas Vikstrom, e Chiara Malvestiti limitatamente all’ambito italiano) e in quanto tali privi del carisma necessario per attirare ulteriormente l’attenzione dell’ascoltatore.
Tirando le somme dell’operazione, appare evidente come Christofer Johnsson fosse uno dei pochi in possesso della caratura artistica e della credibilità necessarie per cimentarsi in un’impresa di questa dimensioni: ciò che resta, però, è la sensazione d’essere al cospetto di una profusione di energie che ha prodotto un risultato di livello rispettabile, ma inferiore a quelle che potevano esser le ragionevoli aspettative.
Resta l’apprezzamento per il coraggio e la visionarietà del musicista scandinavo, oltre che per l’oggettiva bravura nell’essere riuscito a rielaborare in maniera attendibile la novella “Un breve racconto dell’Anticristo” dello scrittore russo Vladimir Soloviev, nonché a comporre una simile quantità di materiale senza mai scadere al di sotto di certi standard; come detto, se si considerasse Beloved Antichrist solo come un normale album (ma di fatto non può esserlo), il giudizio complessivo non potrebbe essere del tutto favorevole, mentre, provando ad immaginare a quale potrebbe esserne la resa a livello di vera e propria rappresentazione teatrale, allora le impressioni potrebbero essere riviste se non del tutto ribaltate.

Tracklist:
Disc 1 – Act I
1. Turn from Heaven
2. Where Will You Go?
3. Through Dust Through Rain
4. Signs Are Here
5. Never Again
6. Bring Her Home
7. The Solid Black Beyond
8. The Crowning of Splendour
9. Morning Has Broken
10. Garden of Peace
11. Our Destiny
12. Anthem
13. The Palace Ball
14. Jewels from Afar
15. Hail Caesar
16. What Is Wrong?
17. Nothing but My Name

Disc 2 – Act II
1. The Arrival of Apollonius
2. Pledging Loyalty
3. Night Reborn
4. Dagger of God
5. Temple of New Jerusalem
6. The Lions Roar
7. Bringing the Gospel
8. Laudate Dominum
9. Remaining Silent
10. Behold Antichrist
11. Cursed by the Fallen
12. Ressurection
13. To Where I Weep
14. Astral Sophia
15. Thy Will Be Done

Disc 3 – Act III
1. Shoot Them Down
2. Beneath the Starry Skies
3. Forgive Me
4. The Wasterland of My Heart
5. Burning the Palace
6. Prelude to War
7. Day of Wrath
8. Rise to War
9. Time Has Come / Final Battle
10. My Voyage Carries On
11. Striking Darkness
12. Seeds of Time
13. To Shine Forever
14. Theme of Antichrist

Line-up:
Christofer Johnsson – Guitars (rhythm), Guitars (baritone), Keyboards, Programming
Sami Karppinen – Drums (CD1 tracks 15, 16)
Björn Nalle Påhlsson – Bass, Guitars (rhythm), Guitars (baritone), Guitars (acoustic)
Thomas Vikström – Vocals (as Antichrist)
Christian Vidal – Guitars (lead), Guitars (rhythm), Guitars (12 string)
Chiara Malvestiti – Vocals (as Johanna)
Lori Lewis Vocals (as Helena)
Johan Kullberg – Drums

Role, Voice and Singer
Antichrist – Tenor – Thomas Vikström
Johanna – Soprano – Chiara Malvestiti
Helena – Soprano – Lori Lewis
Agnes – Mezzo – Ulrika Skarby
Mare – Soprano – Lydia Kjellberg
Sophia – Soprano – Melissa Verlak
Appolonius – Baryton – Markus Jupiter
Professor Pauli – Tenor Barytone – Linus Flogell
Satan – Bass – Erik Rosenius
Priest – Bass – Mikael Schmidberger
President – Tenor – Kaj Hagstrand
President’s wife – Mezzo – Matilda Wahlund
Male voter – Baritone – Samuel Jarreck
Female voter – Alto – Matilda Wahlund
Messenger – Dramatic soprano – Karin Fjellander
Pope – Barytone – Samuel Jarreick
Building Master – Tenor – Kaj Hagstrand
Female servant 1 – Sopran – Linnea Vikström
Female servant 2 – Mezzo – Matilda Wahlund
Male servant 1 – Baryton – Samuel Jarrick
Male servant 2 – Bass – Mikael Schmidberger
Lead Succubi – Mezzo – Matilda Wahlund
Woman/Congress – Mezzo – Matilda Wahlund
Congress woman 2 – Sopran – Linnea Vikström
Antichrist soldier – Barytone- Samuel Jarrick
Demon – Bass – Mikael Schmidberger
Angel – Dramatic soprano – Karin Fjellander
3 demons – Baritone – Mikael/Samuel/Linus

THERION – Facebook

Blut – Inside My Mind Part II

Inside My Mind Part II è una passeggiata tra le vie illuminate dalla fredda luce dei lampioni di una città oscura e decadente, trasformata da una mente malata in una città di creature bizzarre, un sorta di circo gotico presentato con estrema cura dal suo inventore e presentatore, Alessandro Schümperlin.

Questa creatura industrial/gothic chiamata Blut è il progetto del musicista Alessandro Schümperlin, che licenzia il suo secondo lavoro intitolato Inside My Mind Part II.

Quando ho letto Blut, la mia mente è andata agli Atrocity ed alla loro famosa opera dal concept vampiresco uscita nel 1994, ma di altra natura risulta questo lavoro, orchestrato su una base elettronica, campionamenti ed altre diavolerie per un risultato che tutto sommato può soddisfare gli amanti dei suoni sintetici, anche se il gruppo non manca di variare il sound e teatralizzare l’approccio.
Impreziosito dalla voce femminile della bravissima Marika Valli degli Eternal Silence, l’album si avvale di una buona alternanza di atmosfere dark, con qualche accenno alla new wave anni ottanta, (Depeche Mode) e da ombrose tinte gotiche, lasciando che il tappeto sintetico sia sempre l’assoluto protagonista.
Inside My Mind Part II risulta così una passeggiata tra le vie illuminate dalla fredda luce dei lampioni di una città tetra e decadente, trasformata da una mente malata in una città di creature freaks, un circo gotico presentato con estrema cura dal suo inventore e presentatore, Alessandro Schümperlin.
Intorno si aggirano personaggi e suoni che fanno da contorno alla voce del leader, mentre ci prende per mano e ci accompagna in un oscuro locale dove suonano dance anni ottanta ed elettronica tedesca.
L’album arriva alla fine senza grossi picchi ma neanche particolari cadute, riuscendo a non far perdere l’attenzione in chi ascolta, tra accenni ai soliti Rammstein quando la sei corde alza la voce.
Se la musica elettronica ed il gothic/dark fanno parte dei vostri abituali ascolti, Inside My Mind Part II potrebbe rivelarsi una sorpresa, altrimenti rivolgete le vostre attenzioni altrove, perchè My Naked Soul (splendida) e gli altri brani che compongono l’opera non fanno per voi.

Tracklist
1.Double Trouple
2.Reduplicative
3.Jerusalem Calls Me
4.A Matter of Choice
5.Kesswill 25-07-1875
6.Sigmun Freud ist mein Nachbar
7.Wind Ego
8.My Naked Soul
9.Folly of Two
10.Ekbom
11.Jerusalem Calls Me extended version

Line-up
Alessandro Schümperlin – voice, programming, backing voice, producer and (de)composer
Marika Vanni – Voice and backing vocals
Valentina Carlone – Dancer and performes
Fabio Attacco – Bass, backing vocals
Andrea “Ceppo” Faglia – Guitars
Alessandro Boraso – Drums

BLUT – Facebook

Ode In Black – Seeds Of Chaos

L’album si lascia ascoltare con un certo agio, lasciando una sensazione gradevole ma dalla durata nel tempo effimera come l’esistenza di una farfalla.

Non vi siete ancora rassegnati del tutto all’uscita di scena dei Sentenced e del loro personale approccio melodico e malinconico al gothic rock/metal ? Se vi accontentate dei surrogati potrebbe essere allora il caso di dare un ascolto al primo full length degli Ode In Black.

Seeds Of Chaos è il frutto finale di un percorso che ha preso il via all’inizio del decennio da parte di questa band (manco a dirlo) finlandese, la quale prende come riferimento la creatura che fu di Vile Laihiala e soci, ne ammorbidisce talvolta l’impatto guardando agli altri connazionali Him e The 69 Eyes e dal mix non può che venirne fuori un lavoro gradevole, orecchiabile ma ovviamente dalla ridottissima personalità.
Questo avviene non solo quando l’adesione ai modelli citati è pressoché totale (l’opener Fountain Of Grief parla chiaro al riguardo), ma anche nei momenti in cui gli Ode In Black provano a distaccarsene, mettendo in scena sia un brano piuttosto intenso per il suo crescendo come The Mirror, sia una più insipida Burden, con un chorus simil Ten che sembra appiccicato a forza, la sensazione d’avere già sentito qualcosa di molto simile chissà dove e quando è tangibile.
Il risultato di tutto questo è un album che si lascia ascoltare con un certo agio, lasciando una sensazione gradevole ma dalla durata nel tempo effimera come l’esistenza di una farfalla: se nel tirare le somme i brani migliori dell’album sono quelli che sembrano degli outtakes di The Cold White Light e The Funeral Album (Fountain Of Grief e Lullaby For The Innocent) è evidente come gli Ode In Black difficilmente potranno essere ricordati per la loro personalità.
Va detto che la band, comunque, prova ogni tanto ad immettere nel proprio sound iniezioni di più tradizionale hard rock e, quando ciò avviene in maniera più fluida, i risultati non sono affatto disprezzabili (la title track e Burn The Candle From Both Ends) lasciando aperta una strada che, pur essendo già stata calpestata da altre centinaia di band, non costringerebbe l’ascoltatore a fare dei paragoni con uno specifico gruppo storico nei riguardi del quale il confronto non può che risultare impari.

Tracklist:
1. Fountain Of Grief
2. The Sea In Which We Drown
3. Goodbye
4. Seeds Of Chaos
5. The Mirror
6. Burden
7. The Lone Wolf
8. Burn The Candle From Both Ends
9. Devil’s Kin
10. Of A Thousand Lies
11. Lullaby For The Innocent

Line-up:
Pasi Mäenpää – vocals
Iiro Saarinen – guitars & backing vocals
Juhani Saarinen – lead guitar
Ville Puustinen – bass
Taisto Ristivirta – drums

ODE IN BLACK – Facebook

Walk In Darkness – Welcome To The New World

Gli Walk In Darkness mantengono un approccio solenne al genere proposto, il concept sulla descrizione della condizione umana, vista dal mondo parallelo creato dal gruppo, conferisce all’opera una sorta di funzione di denuncia delle miserie umane, mentre il sound a tratti guarda al passato, ricordando ad un orecchio allenato le band gothic metal che muovevano i primi passi all’inizio degli anni novanta tra il Regno Unito e i Paesi Bassi.

Arrivano al secondo full lenght i misteriosi Walk In Darkness, band nostrana che lascia alle luci dei riflettori solo la bravissima cantante Nicoletta Rosellini, già splendida interprete del symphonic power metal dei Kalidia.

Nascosti nell’ombra, i musicisti di cui non si conoscono le generalità danno vita a questo ottimo lavoro intitolato Welcome To The New World, che segue di un solo anno il debutto In The Shadows Of Things.
E, come l’album precedente, questa fantomatica quanto enigmatica realtà nostrana ci delizia con un gothic metal dall’anima sinfonica, oscuro ed epico, estremo nella sua natura ma assolutamente godibile, anche per le straordinarie melodie epico-melanconiche di cui è composto.
Nicoletta Rosellini è protagonista di un’interpretazione intensa ed emozionale, dando non solo un volto al gruppo, ma diventando il centro su cui la musica si sviluppa, sempre in bilico tra melodie gotiche e rudezza estrema ben sottolineata dalla splendida Persephone’s Dance.
Gli Walk In Darkness mantengono un approccio solenne al genere proposto, il concept sulla descrizione della condizione umana, vista dal mondo parallelo creato dal gruppo, conferisce all’opera una sorta di funzione di denuncia delle miserie umane, mentre il sound a tratti guarda al passato, ricordando ad un orecchio allenato le band gothic metal che muovevano i primi passi all’inizio degli anni novanta tra il Regno Unito e i Paesi Bassi.
Welcome To The New World è un lavoro a tratti monumentale, composto da almeno una manciata di perle gotiche come l’opener Crossing The Final Gate, seguita dalla malinconica Sailing Far Away, l’epica Rome e Flame On Flame, sempre in bilico tra la raffinatezza del gothic/dark e l’irruenza del metal estremo.
Album imperdibile per gli amanti dei suoni oscuri e sinfonici, Welcome To The New World conferma il valore assoluto di questa misteriosa band nonché della scena gotica tricolore.

Tracklist
1. Crossing the Final Gate
2. Sailing Far Away
3. Welcome to the New World
4. Rome
5. I’m the Loneliness
6. Persephone’s Dance
7. Flame on Flame
8. A Way to the Stars

Line-up
Nicoletta Rosellini – Vocals

WALK IN DARKNESS – Facebook

Dreamgrave – Monuments

Musica da maneggiare con cura, forte, metallica ma allo stesso tempo delicata e melanconica, tanto da mostrare un lato gotico destabilizzato da sferzate di metal estremo progressivo.

Musica da maneggiare con cura, forte, metallica ma allo stesso tempo delicata e melanconica, tanto da mostrare un lato gotico destabilizzato da sferzate di metal estremo progressivo.

Tanta, tantissima carne al fuoco per questa band proveniente dall’Ungheria, al secolo Dreamgrave, quintetto arrivato al terzo lavoro con questo ep di tre brani inediti più un paio in versione live, tra cui la title track.
La band di Budapest festeggia quest’anno i dieci anni di attività, non molto prolifica invero con un solo full length alle spalle (Presentiment) ed un demo, prima di questo favoloso mini cd che ci presenta un gruppo davvero fuori dal comune.
Il metal progressivo mostra il lato più melanconicamente romantico con passaggi dark/gotici, stravolge lo spartito con inserti jazzati, con il tutto nobilitato dall’intervento del violino, strumento classico e di folklore per antonomasia della cultura musicale magiara; inoltre, l’uso ben dosato di voci che vanno da quella maschile pulita, al growl, fino a quella gotico operistica femminile crea un turbinio emozionale davvero suggestivo: tre brani per ventitré minuti di musica senza barriere né vincoli, all’insegna dell’originalità con il picco qualitativo negli undici minuti progressivi della magnifica The Passing Faith In Others.
Nello spartito di Monuments convivono Dream Theater, Nightwish, Opeth ma non solo, sta a voi scoprire le tante sfumature e sorprese che questa fantastica band ha in serbo per voi, aspettando un nuovo album sulla lunga distanza che si preannuncia un’opera da non perdere assolutamente.

Tracklist
1.Drop the Curtain
2.Monuments
3.The Passing Faith in Others
4.Monuments (live)
5.Black Spiral (live)

Line-up
Dömötör Gyimesi – Vocals, guitars
Mária Molnár – Vocals
Tamás Tóth – Drums
Krisztina Baranyi – Violin
Péter Gilián – Bass

DREAMGRAVE – Facebook

Beyond Forgiveness – The Great Wall

The Great Wall arriva tranquillo ad un’abbondante sufficienza, ma lo consiglio solo ai fans accaniti del genere e a chi ha confidenza con i primi vagiti di una scena nata ormai venticinque anni fa nel nostro continente, mentre per i giovani consumatori di symphonic metal bombastico trovo che l’album possa risultare alquanto ostico.

Un altro combo symphonic gothic metal si affaccia sulla scena metallica, questa volta a vele spiegate dal nuovo continente verso la vecchia Europa, terra più ricettiva per questi suoni.

La nave battente bandiera del Colorado ci porta la musica dei Beyond Forgiveness, quartetto attivo da un po’ di anni, ma arrivato sul mercato solo nell’ultimo periodo.
In due anni un singolo, l’ep The Ferryman’s Shore e questo ultimo lavoro, dal titolo The Great Wall, debutto sulla lunga distanza che nulla aggiunge e nulla toglie al genere ma piace per le molte sfumature folk, il sempre presente growl ad accompagnare la voce femminea ed operistica, ed un approccio dark/gotico che ricorda i primi Theatre Of Tragedy.
Il sound dell’album si avvicina alle opere uscite a metà anni novanta, non solo della band che fu di Liv Kristine ma anche quelle della scuola olandese che fanno capolino tra le trame di brani irrobustiti da una componente estrema che va dal growl alle ritmiche.
Una produzione che lascia le orchestrazioni in secondo piano, specialmente quando la sezione ritmica prende il sopravvento, ed una leggera prolissità in qualche brano (Imprisoned, I Will Fight Till The End) sono invece i difetti maggiori di un’opera che decolla per perdere quota a tratti e poi riprendersi lungo il tragitto.
The Great Wall arriva tranquillo ad un’abbondante sufficienza, ma lo consiglio solo ai fans accaniti del genere e a chi ha confidenza con i primi vagiti di una scena nata ormai venticinque anni fa nel nostro continente, mentre per i giovani consumatori di symphonic metal bombastico trovo che l’album possa risultare alquanto ostico.

Tracklist
1.End of Time
2.The Great Wall
3.Sanctuary
4.Imprisoned
5.Interlude
6.Moment of Truth
7.Never Before
8.Dream Before I Sleep
9.I Will Fight Till The End
10.Every Breath

Line-up
Michael Bulach – Drums
Greg Witwer – Guitars, Vocals (backing)
See also: Hell’s Eden, Vital Malice
Richard Marcus – Guitars, Vocals (backing)
Talia Hoit – Vocals

BEYOND FORGIVENESS – Facebook

Regardless Of Me – The Covenant

The Covenant è un album da non perdere, drammaticamente ruvido, oscuro e colmo di musica che rompe gli argini e sgorga libera dai vincoli di genere.

La Sleaszy Rider è una delle label che ultimamente hanno contribuito in maniera importante allo sviluppo del metal underground nella vecchia Europa, con uno sguardo sempre attento alla scena italiana, fucina di ottime realtà dal metal classico a quello estremo.

I lombardi Regardless Of Me, freschi di firma con l’etichetta greca, sono un quartetto attivo da una decina d’anni, con due full length alle spalle (The World Within del 2009 e Pleasures And Fear uscito sei anni fa) e hanno calcato i palchi assieme a nomi importanti del panorama metal mondiale come Meshuggah, Fear Factory, Children Of Bodom e molti altri, prima di arrivare all’importante contratto ed all’uscita di The Covenant.
La band nostrana ha un suo particolare approccio al dark/gothic metal, infatti il sound di The Covenant è in generale moderno e cool, ma non risparmia puntate estreme, un uso sagace della componente alternative, sconfinando in atmosfere trip hop, ed una buona dose di elettronica, che a tratti si nobilita di tappeti liquidi e sfumature dai richiami ai Lacuna Coil.
La bravura strumentale, che aiuta la band nelle parti più vicine al death metal progressivo, è la ciliegina sulla torta di un album originale e ben strutturato, vario nel suo mantenere la componente dark/gothic cercando di non soffermarsi troppo su soluzioni abusate e cercando sempre un proprio tocco personale.
Anche l’uso della doppia voce è perfetto, con la voce femminile di Arys Noir che si scambia o si accompagna con il growl di Mr.Dark, che non disdegna passaggi rap style, in un’atmosfera drammatica ed oscura che pervade le tracce di The Covenant.
Il singolo Losing You, Nothing Can Last Forever, la splendida ed estrema Amore Nero, l’alternative dark/rock violentato da dosi massicce di metal di This Broken World, con il gran lavoro chitarristico sotto forma di assoli di ispirazione heavy/prog, fanno di The Covenant un album da non perdere, drammaticamente ruvido, oscuro e colmo di musica che rompe gli argini e sgorga libera dai vincoli di genere
La data di uscita suggerita dall’etichetta è il 31 ottobre, un ottimo modo per accompagnare musicalmente la notte di Halloween …

Tracklist
1.The Covenant
2.We Are
3.Losing You
4.Nothing Can Last Forever
5.Neurotic Trains
6.A Different Way
7.Amore Nero
8.This Night
9.This Broken World
10.Weightless
11.Blue Apocalypse

Line-up
Arys Noir – Vocals
Mr Dark (Emiliano Sicilia) – Rap, Growls and Screams, Vocals,11 Strings Guitar, Programming
The Grand Duke (Niccolò Parrini) – Fretless Bass Guitar, 7 Strings Bass guitar, effects, piano and keyboards
Simon “Bullet” Whites – Drums, Percussions, Effects

REGARDLESS OF ME – Facebook