Fungus – The Face of Evil in the Sealed Room

Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete

Cominciamo con un mea culpa: nonostante siano miei concittadini ho scoperto l’esistenza dei Fungus solo in seguito ad una loro breve esibizione risalente alla scorsa estate, in occasione del Festival delle Periferie in quel di Genova Cornigliano.

Vero è che la scena progressive/rock la seguo ormai da tempo un po’ a macchia di leopardo, ma la lacuna resta, specie in questi tempi bizzarri, nei quali magari si finisce per conoscere vita morte e miracoli di gruppi della Papuasia ma si ignora l’esistenza di chi vive ed opera a pochi chilometri da casa tua, nel senso vero del termine se pensiamo che uno dei primi parti discografici dei Fungus è la registrazione di un concerto tenutosi nel 2005 a Murta, amena frazione collinare del comune di Genova limitrofa a quella dove risiedo.
Detto questo, mi concedo un ultimo (spero) luogo comune piazzando un bel “meglio tardi che mai”: per fortuna l’arte non conosce prescrizione ed avvalersi della bellezza di un disco come The Face of Evil, a due anni abbondanti dalla sua uscita, non sminuisce affatto il piacere dell’ascolto e della scoperta.
L’occasione per parlarne deriva dalla pubblicazione in doppio vinile dell’album in questione, arricchito del lungo brano The Sealed Room, uno degli ultimi lasciti dell’indubbio genio compositivo di Alejandro J Blissett, chitarrista e fondatore della band, prematuramente scomparso nel 2014.
Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete: se vogliamo fare un parallelismo, magari audace, con una band dei giorni nostri, qualche similitudine la si può trovare con i Bigelf, rispetto ai quali le sonorità sono sicuramente meno robuste a fronte di affinità notevoli nel saper maneggiare con gusto ed inventiva certi suoni del passato (in primis quelli tastieristici).
E’ chiaro che hard rock, progressive ed una spruzzata di folk sono gli ingredienti di base di una ricetta vincente, che potrà scontentare solo chi pensa che volgere lo sguardo all’indietro sia esclusivamente una soluzione nostalgica e priva di sbocchi: nulla di più falso, la bravura dei Fungus nell’elaborare il tutto in maniera piuttosto personale è innegabile e se qualcuno li vorrà snobbare trovandoli derivativi o eccessivamente retrò è affar suo.
In realtà ogni brano nasconde sviluppi ben poco prevedibili e direi che questo compensa non poco qualsiasi altra perplessità che possa sorgere nei confronti del lavoro: certo, magari The Sun (brano conclusivo della versione originale di The Face Of Evil) non è forse la traccia ideale per chiudere un album così impegnativo, a causa dei suoi continui cambi di scenario conditi di improvvisazioni e sperimentalismi vari, uniti ad una lunghezza considerevole, e la stessa bonus track, di durata ancor più corposa, nulla aggiunge alla bontà di un’opera che vede altrove i suoi picchi. Al termine dell’ascolto, infatti, a restare impresse sono soprattutto la magnifica Rain, con la chitarra di AJ Blissett a livelli di assoluta eccellenza, la folkeggiante The Key of the Garden, ma anche Better Than Jesus e la title track, senza dimenticare la delicata Gentle Season, traccia che ricorda non poco il Peter Hammill più intimista.
Detto dello scomparso chitarrista e della bontà del suo operato, da rimarcare il tocco tastieristico del bravissimo Claudio Ferreri e le doti interpretative di Dorian Deminstrel, vocalist magari non dotato di un’estensione fuori dal comune, ma sicuramente versatile e, soprattutto, capace di trasmettere adeguatamente all’ascoltatore le sensazioni e le emozioni connesse ad una proposta musicale decisamente affascinante, benché talvolta intricata.
Senz’altro un bella (ri)scoperta in attesa del prossimo lavoro con il quale, peraltro, andrà verificato come i Fungus siano riusciti a metabolizzare, sia dal punto di vista compositivo che da quello prettamente personale, una perdita pesante come quella del loro compagno di avventura.

Tracklist:
1. The Face of Evil
2. Gentle Season
3. The Great Deceit
4. Rain
5. The Key of the Garden
6. Shake Your Suicide III
7. Angel with No Pain
8. Better than Jesus
9. Requiem
10. The Sun
11. The Sealed Room

Line-up:
Dorian Deminstrel – voce, chitarre acustiche
Alejandro J Blissett – chitarre, theremin
zerothehero – basso, flauto
Claudio Ferreri – tastiere
Caio – batteria

FUNGUS – Facebook

Bed Of A Nun – Waiting For A Visit

Profondo e maturo, scritto da musicisti di indubbia esperienza e talento, Waiting For A Visit lascia che le emozioni ci invadano

Arrivano all’esordio tramite Pure Rock Records, costola della label tedesca Pure Steel dedicata al rock, i Bed Of A Nun, creatura di quel genio musicale che è Günter Maier, ex chitarrista e leader degli Stygma IV prima e Crimson Cult poi, accompagnato in questa poetica avventura da Lem Enzinger ex Schubert e No Bros alla voce, Peter Bachmayer alle pelli e Alex Hilzensauer al basso.

Dimenticatevi il metallo progressivo dei clamorosi Stygma IV o il sound doom classico dei Crimson Cult, la nuova identità del chitarrista sposta le coordinate della sua musica verso lidi rock, molto poetici e melanconici, interpretati dal tono sofferto e cantautorale del singer, per un viaggio nella mente di un malato, solo con il suo dolore, i ricordi e la prossima vicinanza alla morte.
Trame acustiche che riempiono di suoni intimisti e tragici i brani, l’elettricità della sei corde che entra, con dolcezza nel sound altrimenti drammaticamente lieve del disco, sono le caratteristiche principali di quest’opera, che ha momenti davvero intensi, d’autore, molto emozionali nella sua tristezza di fondo.
A tratti la rabbia per quello che non è stato prende il sopravvento e ne escono song dal taglio rock velatamente progressivo (la bellissima Downstairs) e si esprime in tutta la sua potenzialità l’enorme talento di Maier, questa volta solo ed esclusivamente al servizio dei brani di Waiting For A Visit.
Ancora Deathless While, altro brano dall’elevata elettricità che scaturisce in ritmi sincopati, ed aperture melodiche spazzate via dal solos heavy di Maier, ma rimangono episodi di un lavoro che poggia le sue fondamenta sulla romantica poesia che, le trame acustiche e l’interpretazione vocale sono le indiscusse protagoniste, regalando tragiche perle come Rebel Boy, Autumn Train e The Last Song, terzetto dall’alto potenziale melanconico e chiusura di un album animato da sentimenti ed emozioni, al quale l’uomo magari non dà peso nel corso della propria vita, ma con cui prima o poi ci si deve confrontare.
Profondo e maturo, scritto da musicisti di indubbia esperienza e talento, Waiting For A Visit lascia che le emozioni ci invadano: un album che propone musica atmosfericamente forte, ancora più intensa proprio per la capacità di far male rimanendo legata a suoni acustici, ma dall’impatto emozionale di un carro armato.
Dove compare il chitarrista austriaco c’è sempre grande musica, bentornato Günter.

TRACKLIST
1. frozen
2. Jesus on a bicycle
3. Howl
4. face in the clouds
5. what is…
6. downstairs
7. marble beauty
8. deathless while
9. bullet thoughts
10. rebel boy
11. autumn train
12. the last song

LINE-UP
Günter Maier – guitars
Lem Enzinger – vocals
Peter Bachmayer – drums
Alex Hilzensauer – bass

BED OF A NUN – Facebook

Slivovitz – All You Can Eat

In questa civiltà fatta di tanto a poco o di poco a tanto, il valore delle cose si è perso, come negli all you can eat che ormai riempono ogni luogo di questa nostra nazione.

Eppure qualcosa di valoroso e di tenace c’è ancora, soprattutto nella musica. Ad esempio questo disco degli Slivovitz, ensemble napoletano di gran valore. Nati nel 2001 sono il collettore per molti tipi di musica, dal free jazz, al prog più moderno, addirittura qualcosa di easy listening. Il tutto composto e suonato con grande sagacia e bravura, in totale controllo nell’esplorazione di anfratti conosciuti all’interno delle nostre ovvie esistenze. Ascoltandoli, ed ognuno nella musica può e deve sentirci ciò che più gli aggrada o gli pare, mi fanno venire in mente un incrocio tra Indukti, Ozric Tentacles e il free jazz. Insomma, situazioni nuove e musica che ti porta dove non sai e sarà bellissimo. I partenopei incidono per la newyorkese Moonjune Records, una Tzadik molto più malleabile e varia. All You Can Eat è molto bello e davvero free da tante cose, libero di essere ascoltato e gustato.
Il disco è stato stampato grazie ad una raccolta fondi su Musicraiser.

TRACKLIST
1. Persian Night
2. Mani In Faccia
3. Yahtzee
4. Passannante
5. Barotrauma
6. Hangover
7. Currywuster
8. Oblio

LINE-UP
PIETRO SANTANGELO: tenor & alto sax
MARCELLO GIANNINI: electric & acoustic guitars
RICCARDO VILLARI: acoustic and electric violin
CIRO RICCARDI: trumpet
DEREK DI PERRI: harmonica
VINCENZO LAMAGNA: bass guitar
SALVATORE RAINONE: drums

SLIVOVITZ – Facebook

Lucid Recess – Alive And Aware

Siamo in territori cari al moderno rock alternativo, mantenendo però un mood progressivo, come capita in molte delle band uscite negli ultimi tempi e che prendono spunto dalle opere di Tool e dei gruppi alternative più maturi

L’India non è solo paese di metal estremo o classico, ma nell’underground, vivono e si generano realtà musicali che si dedicano ad ogni genere di cui si può vantare il metal/rock e infatti ecco che, a portare alta la bandiera dell’alternative ci pensano i bravissimi Lucid Recess, band di Guwahati al secondo lavoro, che segue il debutto Engraved Invitation di cinque anni fa.

Il trio è composto dai fratelli Barooa, Amitabh voce e basso e Siddharth alla sei corde e responsabile di registrazione, mixaggio e masterizzazione di questo Alive And Aware.
Completa la line up il batterista Partha Boro,per una band che risulta un’autentica sorpresa, dall’alto di un songwriting ispirato e maturo, dal sound che mantiene per tutta la sua durata un approccio molto intimista ed elegante, non mancando di elettrizzare con buone sfuriate che si avvicina al metal.
Siamo in territori cari al moderno rock alternativo, mantenendo però un mood progressivo, come capita in molte delle band uscite negli ultimi tempi e che prendono spunto dalle opere di Tool e dei gruppi alternative più maturi (gli indimenticabili Creed, per esempio, o gli A Perfect Circle) creando musica che, con calma e il dovuto tempo per essere assimilata, lascia la piacevole sensazione di essere al cospetto di un gruppo di buon spessore.
Si può scrivere di tutto su questo lavoro, ma è indiscutibile la voglia dei Lucid Recess di uscire da spartiti banali, per un approccio intellettuale alla materia, i brani, anche nei momenti leggermente più metallici, mantengono quel quid di progressiva eleganza che affascina, accompagnati dall’interpretazione al microfono di Amitabh molto sentita, senza strafare, ma artisticamente perfetta.
Gli strumenti in mano ai musicisti indiani, si trasformano nelle calde voci di sirene ammaliatrici e veniamo così ipnotizzati per un’oretta di musica sognante, sempre in bilico tra l’urgenza del rock alternativo e le atmosfere dilatate del rock progressivo, in un viaggio musicale dove non mancano le sorprese, senza però uscire dai binari del genere suonato.
Non mancherà di piacere questo lavoro ai rockers moderni, magari lascerà qualcosa indietro per i fans del classico prog, ancorati allo scoglio che li lega a vecchi dinosauri settantiani, ma brani come The Clock That Is Us, Metamorphosis, Island e la conclusiva suite Sphere of Nothingness, dimostrano come il gruppo, riesce nell’intento di rispecchiare il rock moderno, staccato da cordoni ombelicali ormai obsoleti, creando musica non solo suonata bene, ma che emoziona … provateli, meritano.

TRACKLIST
1. Dead Deep End
2. The Clock That Is Us
3. Wireless Junkies
4. Madness
5. Metamorphosis
6. You May Have Everything
7. Time Walk
8. What Made This Burn
9. Island
10. Changes Are Sold
11. Sphere of Nothingness

LINE-UP
Amitabh Barooa – Vocals, Bass
Siddharth Barooa – Guitars, Backing Vocals
Partha Boro – Drums, Percussion

LUCID RECESS – Facebook

Tarot – The Warrior’s Spell

Un disco per chi ha ancora nelle orecchie il rock duro vecchia scuola, una stupefacente macchina del tempo che porta indietro negli anni fino ai primi settanta, per risalire di un po’ ma senza superare i primi anni del decennio successivo.

The Warrior’s Spell è una compilation che riassume, in quasi settanta minuti di musica, il credo del musicista australiano, conosciuto come The Hermit, che in questa mastodontica opera di hard rock d’ispirazione purpleiana, raccoglie i suoi tre mini cd usciti finora per la Heavy Chains Records.

Non solo profondo porpora, ma Rainbow ed Uriah Heep, sono le fonti primarie da cui il musicista si abbevera, costruendo su di loro un sound totalmente devoto alla causa del rock dal sapore vintage.
Un disco per chi ha ancora nelle orecchie il rock duro vecchia scuola, una stupefacente macchina del tempo che porta indietro negli anni fino ai primi settanta, per risalire di un po’ ma senza superare i primi anni del decennio successivo.
Produzione ad hoc per non scendere a compromessi e via tuffandosi in questo trip temporale che vi porterà tra i solchi di In Rock o Salisbury, Machine Head o Rising, imprigionati in questa gabbia di suoni che anche le band citate non suonano più da anni.
Rimane l’alto fascino che una proposta del genere suscita, almeno in chi queste avventure musicali le ha più o meno vissute e con un po di nostagia ritrova quei suoni che poi sono i colpevoli dell’amore incondizionato per la musica dura e tutto il rock in generale.
Certo è che il polistrumentista australiano ci sa fare, ed i brani sono molto belli e non si fatica ad arrivare in fondo alla tracklist, seguendo percorsi musicali che se non portano a camminare sulla Starway To Heaven, seguono arcobaleni di Blackmoriana memoria, in un susseguirsi di suoni capitanati da tasti d’avorio lordiani e perle che da Very’eavy Very’umble, primo straordinario lavoro degli Uriah Heep, prendono linfa vitale.
Non manca una certa vena psichedelica, che rende le songs una bellissima colonna sonora per tirare fuori dal vecchio sacchetto in pelle, cartine ed un po di quella vecchia erba rinsecchita, ormai dimenticata, ma compagna di lunghe serate in compagnia di questi suoni, vecchi amici ed ispiratori di una ribellione intima che non muore neanche dopo tanto tempo, risvegliata dalle note di Eyes In The Sky, Leaving This Place, Life And Death, inni ad un’era passata e da molti dimenticata.
Un’opera che aldilà del valore musicale è un tributo ad uno dei periodi più fruttosi a livello qualitativo della storia del rock, ascoltatelo.

TRACKLIST
1. The Watcher’s Dream
2. Twilight Fortress
3. The Wasp
4. Eyes in the Sky
5. The Warrior’s Spell
6. Street Lamps Calling
7. Leaving This Place
8. Mystic Cavern
9. Dying Daze
10. Life and Death
11. Sound the Horn
12. Vagrant Hunter
13.Take A Look Around
14. Leaving This Place

LINE-UP
The Hermit Vocals, Guitars, Organ, Keyboards

Ape Machine – Coalition Of The Unwilling

La produzione è sontuosa e tutto funziona alla perfezione, e il quartetto di Portland ci regala la sua migliore prova.

Suono potente e psichedelico totalmente calato negli anni settanta, eseguito con grande passione e talento. Ma se ci fermasse a questo piano sarebbe fare un’ingiustizia agli Ape Machine.

La loro musica è fortemente anni settanta ma è rielaborata da un gusto moderno che la arricchisce ancora di più. La psichedelia pesante la fa da padrone in Coalition Of The Unwilling, insieme ad uno stile compositivo di ampio respiro che rende questo disco un piccolo gioiello per gli amanti di certe sonorità che vengono da lontano ma che non si sono mai perdute.
Negli Ape Machine convivono elementi dei Clutch con scatti alla Mastodon, e schitarrate più pro, il tutto in salsa psych.
La produzione è sontuosa e tutto funziona alla perfezione, e il quartetto di Portland ci regala la sua migliore prova.
Disco da meditazione psichedelica.

TRACKLIST
1. Crushed From Within
2. Disband
3. Give What You Get
4. Under This Face
5. Ape’N’Stein
6. Never My Way

LINE-UP
Caleb Heinze – Vocals
Ian Watts – Guitar
Brian True – Bass
Damon De La Paz – Drums

APE MACHINE – Facebook

Dead Girl Diamonds – I’m Going To Stop Killing And Start Giving Birth

Sotto il cielo buio di Rauma, risplende tra i boschi suburbani un diamante, la cui luce dipana un’effimera energia, da spiazzare il fumo delle industrie nella zona portuale.

E non soltanto dal 27 marzo, ma da quando Mia Skön, dieci anni, fa debutta con l’ep “pilota” Dead Girl in versione DIY, stile che oltre a calzarle come un guanto battezza la sua crescita.
Album, questo, impegnativo e verace, classico e ben realizzato che conferma, una volta ascoltati su bandcamp i precedenti, la realizzazione artistica indipendente da qualsiasi altro cliché.
Già lo si intuisce dall’epos che si impone nell’ouverture di War Bonnet, in cui Lauri Palonen si presenta felicemente nella sua versatilità tonale. Non è affatto un album scontato, e così continua da Heather in avanti: accordi severi raddolciti da arpeggi stranianti scuotono i luoghi comuni che allontanano i paragoni dagli oramai lontani Sonic Youth.
A mio parere, all’interno della cornice delle canzoni, si combinano diverse reazioni da elementi molto basici ed è proprio in questo che la riuscita dell’album in questione vive, respira e illumina l’ascoltatore.
C’è un motivo che porta a riascoltare più volte i 10 veri e propri diamanti estratti dal quartetto finlandese: il sottile e intrigante fascino dell’innamoramento.
Ottimo il mixaggio di Markus Pajakkala e la registrazione di Vesa Sillvan che probabilmente saranno confermati per la prossima uscita, in gennaio, di un ep necessario per chiudere l’enciclica saga. Questo ha il significato di un asso di diamante e ben altro..

TRACKLIST
1 War Bonnet
2 Heather
3 Only let it be no war
4 Another girl Done Gone
5 How Long
6 God’s great Blow Job
7 Beyond Your eyes
8 Library man
9 Sea Blind
10 I’m Going To Stop Killing And Start Giving Birth

LINE-UP
Mia Skön – voce , synth e chitarra ritmica
Lauri Palonen – Chitarra solo
Kosti Uusi-Kartano – Basso
Karoliina Laukola – Batteria, cori

DEAD GIRL DIAMONDS – Facebook

Haunted By Destiny – Aria For An Angel

Aria For An Angel piace al primo ascolto e fa innamorare: come con le sirene di Ulisse, i più deboli finiranno nelle grinfie degli Haunted By Destiny e saranno perduti.

Non credo che questi ragazzi rimarranno per tanto dentro ai confini dell’uderground, troppo appeal sprigiona la loro musica, così ricca di melodie pop/metal/rock da far muovere il fondo schiena di una statua.

Esordio dunque che più riuscito di così non si può, un perfetto e patinato esempio di hard rock moderno ed irresistibile, tremendamente radiofonico forse anche troppo.
Intendiamoci, Aria For An Angel è il classico disco rock che può tranquillamente far strage di cuori, anche quelli poco avvezzi a sonorità colme di elettricità, la band ha tutto per sfondare, dal songwriting esagerato, colpevole di un lotto di brani indiscutibilmente accattivanti, una bella e brava vocalist e quell’amalgama riuscita in pieno di varie sonorità, che vanno dal metal, al pop, passando a salutare l’alternative in voga in questi ultimi anni.
Il gruppo svedese punta tutto sulla voce splendida e perfetta per il genere proposto di Evelina Eliasson e su di essa costruisce un sound che pesca dal symphonic rock, come dal metal alternative, divagazioni elettroniche, ed un gusto pop da classifica che è il colpevole dell’appeal esagerato di queste dodici canzoni.
Da Healthy Girl, opener dell’album è un susseguirsi di melodie vincenti, ottimi inserti elettronici, e chitarre che all’occorrenza sanno graffiare, mantenendo una media potenza e dando spazio, molto, alla voce che grintosa e suadente si insinua nella testa dell’ascoltatore per non lasciarla più.
Brani da cantare sotto la doccia, chorus che creano dipendenza, tutto costruito per piacere in modo smisurato, lasciando poco all’istinto ed è qui che Aria For An Angel perde qualche punto, perdendo in spontaneità quello che acquista in appeal.
Un dettaglio discutibile senz’altro e che molti di voi non troveranno, persi in questo arcobaleno di melodie che alla lunga tendono ad assomigliarsi in tutta la durata dell’album, ma che sicuramente piacciono.
Difficile trovare una songs che spicca sulle altre, la media è alta e su questo non ci piove, sappiate che tra le note di questa raccolta di brani c’è tanto del metal/rock degli ultimi anni, Evanescence, Lacuna Coil, un pizzico di Halestorm nelle parti più grintose e tanto pop.
Aria For An Angel piace al primo ascolto e fa innamorare: come con le sirene di Ulisse, i più deboli finiranno nelle grinfie degli Haunted By Destiny e saranno perduti.

TRACKLIST
01. Healthy Girl
02. Turning Pages
03. For You
04. Freakshow
05. The Road
06. Gravity
07. Follow
08. Tear (It’s dead)
09. Stand My Ground
10. Someone to die for
11. Secret delight
12. Aria for an angel

LINE-UP
Johan Söderhielm-Guitar
Simon Weston-Guitar
Evelina Eliasson-Vocals
Christian Gardefuhr-Drums
Marcus Karlsson-Johansson-Bas

HAUNTED BY DESTINY – Facebook

Lola Stonecracker – Doomsday Breakdown

Non fatevi mancare l’ascolto di Doomsday Breakdown, regalatevi un po’ di divertimento, ogni tanto ….

Eccoci al cospetto di un’altra band made in Italy dalle potenzialità enormi, una macchina rock’n’roll senza freni che, pescando dall’hard rock degli ultimi trent’anni, rifila una serie di hit esagerati e confezionando un album divertente, passionale, stradaiolo e dannatamente cool.

Nati come cover band dei Guns’n’Roses, i Lola Stonecracker hanno debuttato nel 2011 con un Ep omonimo e da allora incendiano i palchi europei e nostrani in compagnia di nomi altisonanti del rock’n’roll più energico come Faster Pussycat, Reckless Love, la band di Steven Adler (ex drummer dei migliori gunners) e le maestà John Corabi e Gilby Clarke.
Doomsday Breakdown regala un’ora abbondante di street, hard rock a tratti grungizzato da ritmiche grasse, un viaggio saltando dagli eightees al decennio successivo, tra brani di trascinante rock che non dimentica la melodia e neanche i suoni del nuovo millennio.
Quindici brani sono tanti ma l’adrenalina scorre a fiumi in questa raccolta di canzoni che bombardano l’ascoltatore, elettrizzato e sconvolto dal proprio corpo che si dimena suo malgrado, sotto l’effetto dell’opener Jigsaw, Witchy Lady e Generation On Surface, tre brani che scaraventano al tappeto e dai quali in parte ci si rialza con Secret Of The Universe, semi ballad che mi ha ricordato non poco i Candlebox.
Si riparte sull’ottovolante Lola, per altri quattro brani da infarto su cui la title track spicca alla grande, ed è già tempo di riposarci con un’altra incantevole semiballad, All This Time.
Space Cowboys invita al rodeo forte di un riff in slide e c’è ancora tempo, tra le altre, per la cover di Relax, storico hit degli anni ottanta ad opera dei Frankie Goes To Hollywood e Shine, una classica ballad in Bon Jovi style, tanto per ribadire la varietà dei nostri nel miscelare così tante influenze sotto la bandiera dell’hard rock.
Forti di un vocalist (Alex Fabbri) personale e bravissimo nell’interpretare le varie sfumature di un lavoro che definire vario è un eufemismo, i Lola Stonecracker stupiscono, spaziano, si divertono e fanno divertire miscelando le varie influenze e risultando a loro modo originali.
Nel frattempo la band ha fIrmato un accordo con la Atomic Stuff, punto di riferimento per l’hard rock tricolore, che si occuperà della promozione dell’album dando vita ad una partnhership che promette scintille.
Non fatevi mancare l’ascolto di Doomsday Breakdown, regalatevi un po’ di divertimento, ogni tanto ….

Tracklist:
01. Jigsaw
02. Witchy Lady
03. Generation On Surface
04. Secret For A Universe
05. Perils For A Man From The Past
06. Jekyll & Hyde
07. Doomsday Breakdown
08. Mc Kenny’s Place
09. All This Time
10. Space Cowboys
11. Psycho Speed Parade
12. Mistery Soul Maverick
13. Relax
14. Shine
15. Using My Tricks

Line-up:
Alex Fabbri – Vocals
Lorenzo Zagni – Guitars
Giovanni Taddia – Guitars
Diego Quarantotto – Bass
Christian Cesari – Drums

LOLA STONECRACKER – Facebook

Armonight – Who we really are

Come ripartenza non c’è male, i nuovi Armonight vanno a rimpinguare il nutrito numero di band hard rock di spessore del panorama nazionale

Strano il modo del metal/rock, così vario e colmo di strade da intraprendere, tutte non facili sia chiaro, ma stimolanti specialmente per chi sa apprezzare ogni sfumatura che questo meraviglioso mondo riesce a regalare.

Come un cubo di Rubik ogni faccia si interseca perfettamente a quello che dovrebbe per tutti essere lo spirito giusto: fare musica, lasciando da parte disquisizioni superficiali su generi e atmosfere che questa crea per arrivare al cuore della gente ovunque essi siano.
Ecco che una realtà, partita come symphonic gothic band, negli anni si trasforma, cambia pelle, ma il risultato non cambia, buona musica per chi ha orecchie per sentire, più semplice di così!
I vicentini Armonight attivi dal 2007 e con tre album alle spalle, lasciano definitivamente la strada intrapresa ad inizio carriera per rinascere completamente trasformati in una rock’n’roll band.
Per il gruppo è sicuramente un nuovo inizio, per noi ascoltatori dovrebbe essere probabilmente, la scoperta dell’anima finora nascosta degli Armonight, quella più sfacciatamente stradaiola, dove esce tutta la carica e la grinta di cui i musicisti del gruppo sono capaci e a colpi di hard rock ottantiano e americanizzato ci fanno partecipi in questa quarantina di minuti di musica del diavolo a tratti davvero coinvolgente.
Hard rock, blues e tanta attitudine rock’n’roll che sprigiona da questi dodoci brani adrenalinici, dalla voce tremendamente rock della vocalist Sy e dai riff corposi di Fjord e Lara creati dove nasce il Mississipi e sul letto del grande fiume, in viaggio verso il delta si trasformano in incendiarie scale hard rock.
Frens al basso e Hokuto alle tastiere completano la line up e Who We Really Are è pronto per riempire una cinquantina di minuti circa della vostra vita con una raccolta di buone songs, che si rincorrono sulle superstrade americane per un album che trasuda on the road da tutti i pori.
Enorme il riff che introduce Staggering Drunk, ottimo il refrain di The Luck Of Heroes, enorme l’atmosfera blueseggiante della micidiale My Best friend, divertente il rock di Stray Dog Blues e perfetto il solo sul singolo Gypsy Girl, insomma la nuova veste di questa band convince e diverte, lasciando che le ispirazioni per il proprio sound facciano serenamente capolino tra i solchi dei brani( AC/DC, Aerosmith e il dirigibile zeppeliniano sopra a tutti).
Come ripartenza non c’è male, i nuovi Armonight vanno a rimpinguare il nutrito numero di band hard rock di spessore del panorama nazionale, non mi rimane che consigliarvelo e augurare il meglio al gruppo vicentino.

TRACKLIST
1. Boring day
2. Staggering drunk
3. Waiting for tonight
4. The luck of heroes
5. My best friend
6. The stray dog blues
7. Keep out the darkness
8. Gypsy girl
9. So stupid
10. Stay away from me
11. Don’t waste your time
12. Who we really are

LINE-UP
Sy: Vocals
Fjord: Guitar
Lara: Guitar
Frens: Bass
Hokuto: K-board

ARMONIGHT – Facebook

Skip Rock – Take it or Leave it

Un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera

Duri a morire, il film del regista Sam Raimi, vedeva un nutrito numero di pistoleri duellare in un fantomatico torneo ad eliminazione in una imprecisata cittadina di confine, tra polvere sudore, cowboy dalla mano veloce e palloni gonfiati dalla fine segnata.

Al primo tocco di campana le pistole fumavano ed il risultato era sempre lo stesso, un morto in più e il vincitore che passava il turno in un susseguirsi di confronti da dead or alive.
La colonna sonora di questo western che richiamava non poco la tradizione tutta italiana nel genere, conosciuta come spaghetti western, avrebbe potuto essere tranquillamente questo album, il secondo dei tedeschi Skip Rock, hard rock band che unisce il genere di estrazione classica alla AC/DC e richiami al southern rock e alla tradizione western.
Il gruppo tedesco si definisce metal cowboys, ed in effetti la loro musica richiama le colonne sonore dei film di genere, rafforzata da ruvide iniezioni di rock’n’roll direttamente dalla terra dei canguri e classiche atmosfere southern.
Una Band da raduno, musica per rudi bikers di frontiera, portatori di un’attitudine che fonda le sue radici nella libertà e nella cultura on the road, quaranta minuti da ascoltare con il boccale sempre pieno e la bottiglia di whiskey per finire di bruciare gole arse dal fumo e dalla polvere, sopravvissute a chilometri macinati sulle calde strade di frontiera.
Molto più divertente e scorrevole quando il gruppo ci va pesante, alzando il volume dei propri strumenti( Death or Glory, Motorcycle Man II, Hell Is On Fire) meno quando il sound guarda troppo all’ovest e la musica si avvicina pericolosamente al puro southern rock ( non basta un richiamo al nostro Morricone, o semplici e poco emozionali semiballad, per suonare ottima musica southern/western).
Insomma un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera, una buona band da da raduni tra omaccioni barbuti, donzelle borchiate, birra a fiumi e colt sempre cariche.

TRACKLIST
1. Intro
2. Tell me why
3. Death or Glory
4. Jesse James
5. Outlaws
6. Motorcycle Man II
7. Rich’n’Nazty
8. Hell is on Fire
9. Too Young
10. Take it or leave it

LINE-UP
Marc Terry – Vocals
Darius Dee – Guitars
Patrick Paul – Bass
Jan Skirde – Drums

SKIP ROCK – Facebook

Mutonia – Wrath Of The Desert

Wrath Of The Desert conferma tutto quello che di buono si era detto e scritto sul gruppo laziale in occasione del primo lavoro

Magari vi siete lasciati sfuggire il debutto di questa band laziale, uscito lo scorso anno, un ottimo esempio di stoner rock, legato ancora da un filo sottilissimo al rock alternativo, secondo amore del gruppo, dopo gli esordi come band punk.

Magari siete esterofili incalliti e pensate che nel nostro paese lo stoner non viene suonato come negli States.
Magari questa volta, incuriositi e convinti dalle mie umili righe, darete un ascolto a Wrath Of The Desert, secondo lavoro dei Mutonia, trio della provincia di Frosinone, con un talento innato nel creare atmosfere desertiche, stonate e allucinate.
Non hanno perso tempo i Mutonia, e dopo i buoni riscontri del precedente Blood Red Sunset, tra Aprile e Giugno di quest’anno si sono rinchiusi in studio, per continuare il viaggio, persi nel deserto della Sky Valley in compagnia delle anime perdute che, all’imbrunire, sotto l’effetto del sole e di erbe dalle proprietà terapeutiche, ma dagli effetti collaterali stonati, compaiono tra i rovi portati dal vento caldo, o tra i pugni di sabbia che scivola tra le dita, mentre le note grasse dei brani di Wrath Of The Desert, invitano a danzare ciondolanti tra scorpioni e serpenti a sonagli.
Il trio non perde un’oncia della sua carica rock, ma, rispetto al primo lavoro, è forte l’atmosfera rituale che aleggia nelle songs che compongono quest’altro bellissimo omaggio al rock statunitense degli ultimi anni, interpretato da tre musicisti, Matteo De Prosperis (chitarra e voce), Fabio Teragnoli (basso) e Maurizio Tomaselli (batteria) che in quanto a feeling e attitudine ne hanno da vendere.
E allora ecco che questa raccolta di nuovi brani, spazza il deserto come la tromba d’aria che raffigurata nella copertina( illustrata da Sara Terpino), mette in subbuglio il lento trascorrere del tempo, quasi fermo nel luogo invivibile per antonomasia, almeno per l’uomo.
To Three To Four, aperta dal basso pulsante ed ipnotico del buon Teragnoli, ci invita ancora una volta lungo l’arida terra dove la band trae ispirazione, subito è tangibile la totale metamorfosi del gruppo, che lascia alle spalle come detto gli ultimi accenni all’alternative e si ripresenta come una perfetta macchina stoner, confermata dal singolo Lonely Soul, un brano che sprizza Queen Of The Stone Age da tutti i pori.
Come nel primo album la sensazione di jam si insinua in noi come un serpente nella tana di un ratto, si succedono brani dal forte impatto come Meth e Thunderstone, ma il flash sabbatico e rituale di Among The Gale And The Desert, risulta il colpo mortale all’ultimo neurone sano, bruciato da questo magnifico trip, che lento e inesorabile sale alla testa e porta con se immagini allucinate di chi visse quei luoghi, ed ormai è perso tra la polvere portata dal vento.
Coward alterna agitazione ritmica a frenate doom settantiane, mentre il finale dell’album è lasciato a The Prodigal Son, hard rock stonato e devastante ed una delle song più lineari del disco.
Wrath Of The Desert conferma tutto quello che di buono si era detto e scritto sul gruppo laziale in occasione del primo lavoro, ora tocca a voi supportare questi figli del deserto, che hanno tutte le carte in regola per non far rimpiangere i maestri americani, ottima conferma.

TRACKLIST
1. To Three To Four
2. Lonely Soul
3. Still (Yourself)
4. M.E.T.H.
5. Thunderstorm
6. Among The Gale And The Desert
7. Meat For Voltures
8. Coward
9. The Prodigal Son

LINE-UP
Matteo De Prosperis – guitar/vocals
Fabio Teragnoli – bass
Maurizio Tomaselli – drums

MUTONIA – Facebook

Isaak – Sermonize

Sermonize è l’avanguardia della Genova Pesante e lo sarà per un bel pezzo.

Tornano impetuosamente gli Isaak, gran gruppo genovese di stoner rock e tanto altro.

Sermonize è a partire dalla fantastica copertina di Richey Beckett un disco potente e fresco, con un fortissimo gusto di southern. Personalmente quando ascolto gli Isaak mi sembra che siano stati fra i pochissimi gruppi che abbiano recepito pienamente la lezione dei Kyuss, ovvero rendono benissimo la sensazione di deserto che era nella musica degli americani. Infatti questo disco ha un groove desertico e caldo che lo rende speciale. Di gruppi stoner o dintorni ve ne sono moltissimi, ma la sensazione di movimento e di compattezza che hanno questi genovesi lo hanno in pochi. La loro musica compie evoluzioni melodiche immersa nella calda sabbia del deserto e quando meno te lo aspetti scatta fuori dalla sua tana per azzannarti alla gola, ed ucciderti dolcemente. Già il disco di debutto era stato ottimo, ed ancora prima i Gandhi’s Gunn, la loro incarnazione pre Isaak, erano passi avanti. Sermonize porta il discorso ad uno se non due livelli superiori, sia per la composizione diventata più dura e personale, che per l’esecuzione più intensa che mai.
Gli Isaak hanno acquistato malizia e scaltrezza, riuscendo a rendere il disco un fortino senza punti deboli, dove tutti fanno il loro compito alla perfezione suonando uno stoner rock che in Italia non fa nessuno e che avrà sicuramente molta eco anche all’estero, visti anche i numerosi concerti fuori dai nostri confini che hanno fatto.
Sermonize colpisce a fondo e come un’endorfina ne vorresti ancora ed ancora.
Melodie e compattezza, sono questi i punti di forza del disco, che si può ascoltare su livelli differenti, ponendo l’accento su di un giro di chitarra o su una rullata particolare, se non sulla gran voce di Giovanni Boeddu in costante crescita . Da registrare l’entrata nel gruppo di Gabriele Carta al basso al posto di Massimo “ Maso “ Perasso, l’uomo Taxi Driver che proprio insieme agli Isaak fa parte di quel gruppo di persone che hanno fatto tanto per la Genova pesante, portando grandi gruppi e proponendo ottima musica in maniera accessibile a tutti.
Sermonize è l’avanguardia della Genova pesante e lo sarà per un bel pezzo.

TRACKLIST
1 – Whore Horse
2 – The Peak
3 – Fountainhead
4 – Almonds & Glasses
5 – Soar
6 – Showdown
7 – Yeah (Kyuss)
8 – Lucifer’s Road (White Ash)
9 – Lesson n.1
10 – The Frown Reloaded
11 – The Phil’s Theorem
12 – Sermonize

LINE-UP
Giacomo H Boeddu :Vocals
Andrea Tabbì De Bernardi : Drums / Vocals
Francesco Raimondi : Guitars
Gabriele Carta : Bass

ISAAK – Facebook

Reds’ Cool – Press Hard

Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.

Per chi ha troppi capelli bianchi sulla lunga chioma, o addirittura gli anni hanno lasciato il segno con larghe stempiature al posto dei riccioli neri, sa che anni fa era praticamente impossibile parlare di rock o metal guardando ad est dell’Europa.

Le prime band che si affacciarono sul mercato, furono viste con curiosità e molte volte ironia, uno scherzo parlare di musica del diavolo proveniente dalla madre Russia, o dagli stati vicini, il rock era americano o, al massimo anglosassone, certamente non figlio della steppa.
Le cose negli ultimi anni sono cambiate notevolmente e i paesi dell’est ormai tutti globalizzati, hanno cominciato a sfornare gruppi, molti davvero bravi, in ogni genere di cui il rock ed il metal si nutrono, passando agevolmente da ottime realtà estreme a gruppi di rockers dal riff facile.
I Reds’Cool, fanno parte di quella grossa fetta di musicisti immersi totalmente nell’hard rock, pescando a piene mani dalle due scuole tradizionali; quella americana e quella britannica e confezionando un buon album, chiaramente poco originale, ultra conservatore, ma splendido a livello di sound, piacevole, melodico e sanguigno il giusto per essere consigliato a tutti i fans dell’hard rock classico.
All’ascolto di questa raccolta di brani, confezionati dal quintetto di San Pietroburgo, vi passeranno davanti almeno una trentina d’anni di musica dura, sempre in bilico tra durezza e melodie, ottime songs dall’andamento cadenzato e sanguigni voli verso l’America, facendo scalo in Gran Bretagna, tra Whitesnake, Great White, UFO e compagnia di rockers.
D’altronde quando il lettore comincia a riprodurre le varie  Dangerous One, Brand New Start e Strangers Eyes, il senso di deja’vu è forte, ma viene ben bilanciato dalla buona vena dei musicisti e dall’ottima performance del vocalist, perfetto singer di razza, forgiato alla scuola dei migliori interpreti del genere(Slava Spark).
Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.
Press Hard merita senz’altro l’interesse dei rockers dai gusti old school, a cui va il mio invito all’ascolto.

TRACKLIST
1.Dangerous One
2.My Way
3.The Way I Am
4.Brand New Start
5.Strangers Eyes
6.Call Me
7.One Night
8.Love Behind
9.No More

LINE-UP
Slava Spark: vocals
Sergey Fedotov: guitar
Ilya “Lu” Smirnov: guitar, backing vocals
Dmitry “Dee” Pronin: bass, backing vocals
Andrey Kruglov: drums

REDS’ COOL – Facebook

Mad Hornet – Would You Like Something Fresh?

Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad

Andiamo con ordine: i rockers pugliesi Mad Hornet, tra split e reunion sono attivi da quasi dieci anni, un passato demo ne aveva iniziato l’attività per poi, bloccarsi fino a due anni fa e riprendere le danze con una formazione rinnovata, che gira intorno al chitarrista Salvatore Destratis alias Ken Lance.

I ragazzi dell’Atomic Stuff, come falchi a caccia di prede, non si sono fatti sfuggire l’occasione di averli nella loro famiglia e così, questo ottimo esordio sulla lunga distanza, esce sotto l’etichetta bresciana, come sempre molto attenta alle realtà hard rock dalle buone potenzialità.
E il gruppo di Maruggio, paesino in provincia di Taranto, non delude con la sua proposta fatta di tanto hard rock statunitense sempre in bilico tra grinta e melodia, molto anni ottanta, ma fresco come il cocktail raffigurato in copertina, ultimo ricordo di un’estate ormai lontana, ed un inverno che Would You Like Something Fresh? scalderà a colpi hard rock.
Un’esplosione di watts e riff trascinanti si scambiano il testimone con ariose melodie, proprio come il genere vuole e noi non possiamo che sbattere la testa a ritmo delle dinamitarde Your Body Talks, Free Rock Machine e Game Of Death o innondare di lacrime nostalgiche il nostro viso con le bellissime Walking With You (In The Afternoon) e la conclusiva Roses Under The Rain, il tutto suonato alla grande e cantato con passione e bravura dall’ottimo Mic Martini.
Il gruppo ci sa fare, la sei corde di Lance, infiamma cuori e produce energia come un vulcano in eruzione, quando decide che è il momento di rockare, mentre la sezione ritmica il suo lavoro lo fa egregiamente, precisa e senza sbavature la prova del motore della band (El Piamba al basso e Neats Frank alle pelli).
Le influenze sono tutte da riscontrare nel periodo d’oro per i suoni hard & heavy d’oltreoceano, nel decennio ottantiano, anni di pantaloni di pelle che fasciavano ragazze dalle chiome leonine, e quel rock style mai dimenticato, frutto di vite vissute pericolosamente sul Sunset Strip.
Nostalgici? Forse, ma il feeling prodotto da songs come Blue Blood, o la carica di brani alla nitroglicerina come Raise’N’ Do It e la Van Halen oriented Pink Pants School sono patrimonio da conservare gelosamente per ogni rocker degno di questo nome.
Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad.
Rimane la soddisfazione di incontrare realtà nostrane sempre più sul pezzo quando si tratta di suoni hard rock classici, bravi!

TRACKLIST
1. Would You Like Something Fresh?
2. Your Body Talks
3. Dyin’ Love
4. Blue Blood
5. Free Rock Machine
6. Game Of Death
7. Raise ‘N’ Do It
8. Walking With You (In The Afternoon)
9. Pink Pants School
10. What Is Love [Haddaway cover]
11. Roses Under The Rain

LINE-UP
Mic Martini – Voice
Beats Frank – Drums
El Piamba – Bass
Ken Lance – Guitars

MAD HORNET – Facebook

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Blind Marmots – Blind Marmots

Il disco omonimo dei Blind Marmots potrebbe piacere agli amanti di vari generi, ma soprattutto a chi vuole divertirsi ascoltando musica che non appesantisce.

Nella vita bisognerebbe , almeno in teoria, prendere una decisione e schierarsi.

I Blind Marmots lo hanno fatto con decisione : fanno musica pesante e rumorosa, si drogano bevono e soprattutto sono molto autoironici. I ragazzi in questione sono veterani della scena alternativa padovana, e come loro stessi affermano erano partiti per suonare stoner rock e hard rock anni 70, poi gli abusi hanno preso il potere ed il tutto è diventato CrossStoner…
Cosa sarebbe lo crosS toner ? E’ un miscuglio di stoner, sludge, noise, grunge e qualcos’altro, suonato veloce e senza generi inibitori.
Sia quel che sia è la musica che fanno i Blind Marmots, ed è molto divertente e piacevole.
Nonostante molti cambi di formazione, e diverse vicissitudini i nostri sono arrivati a pubblicare questo primo disco, mettendolo in download gratuito sul loro bandcamp .
Come valore aggiunto i nostri sono molto auto ironici e ciò si riflette sui testi, che sono divertenti come la musica e soprattutto c’è aria di spensieratezza, e non è poco.
Il disco omonimo dei Blind Marmots inoltre potrebbe piacere agli amanti di vari generi, ma soprattutto a chi vuole divertirsi ascoltando musica che non appesantisce.
Un buon debutto.

TRACKLIST
1.LETHAL CYCLE OF THE MARMOT
2.TE SACO LA MIERDA
3.DESPISE
4.EAT THE MAGGOTS
5.INSIDE THE WOOD
6.KILL YOUR PARENTS
7.KALEIDOSOUP – MADCHILDREN

LINE-UP
carlo toffano – lead guitar
thomas corelli – guitar
ale “teuvo” segantin – voice
luca campagnaro – drums
pietro gori – bass guitar

BLIND MARMOTS – Facebook

She Past Away – Narin Yalnizlik

Felice ritorno del duo turco in cui Volkan Caner e Doruk Ozturkcan riportano definitivamente la vena dark in onda, dopo un precedente tentativo da manifesto perfettamente riuscito: “Belirdi Gece”.

Effettivamente sembrano apparsi dalla notte per riappropiarsi delle voci spettrali in danze rituali oramai evaporate con l’uscita dalle scene dei co-fondatori. Dei Clan Of Xymox ritroviamo in questo album l’ossessivo beat elettronico delle tastiere e dai Cure gli arpeggi di chitarra ancora più puliti e raffinati dei precedenti lavori, tre in toto con l’Ep “Kasvetli Kutlama” del 2010. E’ finora il disco della maturità, ben cablato ed equalizzato nel suono che cristallino e cristallizzato riporta tutti quanti per strade nebbiose che 30 anni fa percorrevano cappe nere ed anfibi. L’album suona minimale eppure è perfetto perché completo: non potrebbe avere più concentrazione di quella che già emana dalla struttura dei brani , anche se in nome di uno stilema, perde qualche minore e quinta tonale, facendo più spettrale tutto ciò finora prodotto. Cosa permane è l’intreccio bilanciato tra la sensazione di malinconica caducità e l’atmosfera romantica come leitmotiv che finora brilla in ogni singola traccia scritta, cantata ed eseguita ad Istanbul, dopo il trasferimento da Bursa come paese nativo. Sarà la dissonanza e l’anacronismo spazio-temporale, ma questa formazione ha davvero tanto da proporre e nulla da invidiare a multiple realtà sparse in scene stereotipate per i sobborghi inglesi o polacchi dove la ripetizione rischia di debordare in un basso clichè che non regge affatto il significato originario di wave , dark o goth ovvero passione, pulsione e pozione.
Undici brani per 45 minuti in cui le delicate solitudini finiscono per ammorbidirsi in compagnia di qualcun’altra anima per trascendere le mancate compagnie durate anni. Grazie a li Turchi, mamma!

Tre date in Italia assieme ai Lebanon Hanover:
18.12.2015 Roma, Metamorfosi
19.12.2015 Torino, Cafe Liber
20.12.2015 Padova, Work In Progress

Tracklist
1.Soluk
2.Asimilasyon
3.Uzakta
4.Narin Yalnızlık
5.Hayaller?
6.Katarsis
7.Uçtu Belirsizliğe
8.Gerçekten Özleyince
9.Yanımda
10.Kuruyordu Nehir
11.İçe Kapanış II

Line-up:
Volkan Caner
Doruk Ozturkcan

SHE PAST AWAY – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Ypq4Rz5qMqY

Ten – The Dragon And Saint George

Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Dopo moltissimi anni dall’ep che portava come titolo “Fear The Force”, opener del capolavoro “Spellbound” del 1999, i Ten dopo i due ottimi full length, usciti a distanza di sei mesi tra il 2014 e quest’anno (“Albion” e “Isla De Muerta”), confermano una ritrovata voglia di riprendersi lo scettro di regnanti sul melodic hard rock, tornando con questo altro lavoro breve, che ha il suo perno in The Dragon And Saint George, stupendo brano tratto dall’ultimo album.

Il nuovo lavoro è composto da sette tracce, di cui tre inediti, la title track e altri brani usciti come bonus sugli ultimi due album.
La nostra attenzione non può che cadere sulle nuove canzoni, che impreziosiscono e danno un senso a questa operazione, dall’alto della qualità superiore della musica composta dal buon Gary Hughes, tornato ai fasti dei primi lavori in quanto al valore del songwriting.
Musketeers: Soldiers Of The King sembra uscita dalle sessions di The Robe: epica, melodica, interpretata alla grande da uno Hughes stratosferico, tanto che mi chiedo come possa essere stata lasciata per un’uscita “minore”.
Hard rock dalle ritmiche grintose risulta Is There Anyone With Sense, dove Hughes entra con la sua calda voce, prima che uno dei ritornelli più belli degli ultimi anni alzi centimetri di pelle d’oca sulle braccia dell’ascoltatore.
Le chitarre (Dann Rosingana, Steve Grocott e John Halliwell) sono le protagoniste dei nuovi brani ed anche l’ultimo inedito (The Prodigal Saviour) lascia ad un riff fuso nell’acciaio, i primi secondi del brano, che risulta ritmicamente vario, prima che un refrain AOR torni all’hard rock ipermelodico, dove i Ten non trovano avversari.
Le altre tracce riempiono di splendida musica rock, questa mezzora scarsa di hard rock melodico tornato a risplendere nello spartito del gruppo britannico, una band fuori dal comune, anche quando la magia folk/epica di Albion Born (dal penultimo “Albion”) ci disegna nella mente verdi colline, dove guerrieri impavidi riposano le membra dopo una lunga giornata di battaglia, tra castelli a guardia di cristallini laghi persi nella bruma.
Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Tracklist:
1.The Dragon And Saint George
2.Musketeers: Soldiers Of The King
3.Is There Anyone With Sense
4.The Prodigal Saviour
5.Albion Born
6.Good God In Heaven What Hell Is This(12 inch Picture Disc exclusive)
7.We Can Be As One (European Exclusive track to Isla De Muerta)

Line-up:
Gary Hughes – vocals, guitars, backing vocals
Dann Rosingana – Lead guitars
Steve Grocott – Lead guitars
John Halliwell – Rhythm Guitars
Darrel Treece-Birch – keyboards, Programming
Steve Mckenna – Bass guitar
Max Yates – drums and percussion

TEN – Facebook

88 Mile Trip – Through the Thickest Haze

Nove tracce che formano una dannata e pesante jam attraversata da vene dove scorre il blues più marcio e stravolta, come da copione, da dosi illegali di erbe e funghi.

Il Canada è terra di foreste che si perdono per chilometri, inverni che non finiscono mai, con il freddo che attanaglia ed una natura a suo modo difficile, in molti casi estrema, come il deserto, lontano migliaia di miglia, ma mai così vicino, raccontato dallo stoner rock degli 88 Mile Trip.

Il gruppo di Vancouver licenzia il suo primo album sulla lunga distanza dopo aver dato alle stampe un ep omonimo nel 2013 (anno di fondazione del gruppo) e addirittura un live album, sempre dello stesso anno e dal titolo “Live in the DTES”.
Giunge il momento, anche per loro, di sfornare il primo full length e Through the Thickest Haze arriva puntuale in questa metà dell’anno travolgendoci con la sua carica rock stonata, molto settantiano nell’approccio, senza grossi picchi ma lineare e dalla buona fruibilità.
Senza nessuna concessione alla psichedelia, l’album risulta un monolite di ritmiche hard rock desertiche; le canzoni tengono ad assomigliarsi un po’ troppo tra loro (forse l’unico difetto dell’album), ma le atmosfere da viaggio allucinato tra fumo e alcool, persi nelle desolate lande dove sole e caldo annebbiano la mente più che un joint, sono assicurate dall’ottima attitudine del quintetto canadese che, da buon Caronte, ci accompagna per le strade bruciate dell’America più vera, quella che noi amiamo di più.
Nove tracce che formano una dannata e pesante jam attraversata da vene dove scorre il blues più marcio e stravolta, come da copione, da dosi illegali di erbe e funghi, è ciò che ci propongono gli 88 Mile Trip, fieri paladini del rock settantiano amalgamato ai suoni desertici degli anni novanta.
E’ così che, tra le note dei vari capitoli di questo viaggio tra le nebbie della mente, vi imbatterete in richiami alle band cardine del genere, dagli stranominati (quando si parla di stoner) Black Sabbath, ai Kyuss e Fu Manchu.
Le canzoni scorrono piacevolmente e non ci si annoia tra le spire di questo Through the Thickest Haze, fino ad arrivare al capolavoro Song Of The Dead, stoner blues da applausi in cui l’hammond crea un alone di mistico discendere nei meandri di un rito stonato, che band come gli 88 Mile Trip continuano imperterrite a consumare.
Per concludere, un buon lavoro, gli amanti del genere sono invitati all’ascolto e troveranno di che crogiolarsi tra le note di Through the Thickest Haze.

Tracklist:
1. The Repressed
2. 20 & 8
3. Serpent Queen
4. Call to Rise
5. Burn the Saints
6. The Awakening
7. I’m Not Mad (I’m Just Disappointed)
8. Song of the Dead
9. Sacred Stone

Line-up:
Darin – Bass
Eddie – Drums
Hugo – Guitars
Casey – Guitars
Dave – Vocals

88 MILE TRIP – Facebook

Motörhead – Bad Magic

Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motorhead.

Difficile, se non impossibile, parlare di una band storica come i Motörhead di mister Lemmy Kilmister senza cadere nel banale o nel già scritto.

Troppi anni ad incendiare palchi e licenziare album (quest’anno ricorre il 40° anniversario della nascita del gruppo), troppe righe scritte su un uomo sempre in bilico sulla “sottile linea bianca”, ma probabilmente vera ed indiscussa icona del vivere rock’n’roll.
Eppure solo pochi mesi fa sembrava che il buon Lemmy dovesse lasciare le scene, il troppo stroppia anche per lui ed invece, a quasi settantanni, radunata la banda, torna con un nuovo lavoro.
Bad Magic è il ventiduesimo album dei Motörhead, con la coppia Campbell – Dee ad affiancare Lemmy in quello che probabilmente è l’album più riuscito degli ultimi anni.
Prodotto da Cameron Webb nei NRG Studios, l’album parte alla grande con Victory Or Die e non si ferma più, un razzo di rock’n’roll dinamitardo, un pugno in faccia che stordisce, come ai vecchi tempi, grazie a brani travolgenti e dall’impronta live.
Sarà dura per il gruppo scegliere le canzoni da lasciar fuori dalla scaletta dell’imminente tour mondiale, che vedrà il trio di questi inesauribili vecchietti prima girare gli States e poi sbarcare in Europa a novembre, vista la qualità complessiva di Bad Magic.
I primi otto brani sono cavalcate hard & roll tremendamente efficaci e bisogna arrivare alla semi-ballad Till The End per riuscire a tirare un po’ il fiato; Lemmy, con la sua voce sporcata da una vita al limite, continua a dispensare carisma ed i suoi degni compari lo seguono in questa nuova avventura, anche loro in forma splendida,(Phil Campbell è protagonista di un lavoro disumano alla sei corde, mentre Mikkey Dee si conferma picchiatore inesauribile).
L’ospite Brian May sulla roboante The Devil e l’omaggio agli Stones con la cover dell’immortale Sympathy For The Devil, sono le novità di un album dal sound nuovamente votato all’impatto live che ha caratterizzato i migliori lavori di una band che sembra essere rinata dopo un paio di opere zoppicanti come “The Wörld Is Yours” (2010) e “Aftershock”, di due anni fa.
Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motörhead.
C’è da divertirsi e tanto tra i solchi di Bad Magic, stravolti e cotti da canzoni dinamitarde come Thunder & Lightning, Electricity, l’oscura e “diabolica” Choking On Your Screams e l’esplosiva When The Sky Comes Looking For You.
Dopo un’estate passata a riempire le tasche a bolsi fenomeni da baraccone, è l’ora di tornare a fare sul serio: Bad Magic riconcilia il sottoscritto con i troppi gruppi storici ormai diventati patetiche cover band di se stessi e rifila una lezione di rock’n’roll a cui dovete assolutamente assistere … lunga vita a Lemmy Kilmister.

Tracklist:
1.Victory Or Die
2.Thunder & Lightning
3.Fire Storm Hotel
4.Shoot Out all of Your Lights
5.The Devil
6.Electricity
7.Evil Eye
8.Teach Them How To Bleed
9.Till The End
10.Tell Me Who To Kill
11.Choking On Your Screams
12.When The Sky Comes Looking For You
13.Sympathy For The Devil

Line-up:
Lemmy Kilmister – Bass, Vocals
Phil Campbell – Guitars
Mikkey Dee – Drums

Motörhead – Facebook