Sojouner – Empires of Ash

Un lavoro valido, basato su un black metal epico e atmosferico, che non stravolge le gerarchie del genere rivelandosi, però, degno di ascolto e di attenzione per chi apprezza simili sonorità.

Empires of Ash è il full length d’esordio dei Sojourner, una band piuttosto anomala per composizione, visto che è formata da due neozelandesi, da un’inglese ed uno spagnolo, con l’aggiunta di un batterista italiano entrato in organico dopo l’uscita del disco.

È vero però che il nucleo della band è rinvenibile a Dunedine, in quell’emisfero australe dove risiedono abitualmente Mike Wilson e Mike Lamb, che assieme compongono l’interessante progetto doom Lisythea, raggiunti dalla britannica Chloe Bray che di Lamb è la consorte; probabilmente senza averlo costretto ad estenuanti trasvolate oceaniche, i tre hanno ingaggiato un vocalist piuttosto noto in ambiente doom come lo spagnolo Emilio Crespo (Nangilima) e da questo incontro è nato un lavoro davvero valido, basato su un black metal epico e atmosferico, che non stravolge le gerarchie del genere rivelandosi, però, degno di ascolto e di attenzione per chi apprezza simili sonorità.
Empires of Ash, in effetti, è uscito più di un anno fa per Avantgarde Music ed è stato rimesso in circolazione nello scorso mese di marzo, da parte della Fólkvangr Records, nel sempre più diffuso ed appetibile formato in musicassetta: viene fornita quindi una buona occasione per riascoltare brani dal notevole impatto evocativo come Heritage of the Natural Realm, Aeons of Valor e la lunghissima title track, chiusura degna di un’opera interessante e di buona fruibilità.

Tracklist:
Side A
1. Bound by Blood
2. Heritage of the Natural Realm
3. Aeons of Valor
4. The Pale Host
Side B
5. Homeward
6. Trails of the Earth
7. Empires of Ash

Line-up
Mike Wilson – Bass
Mike Lamb – Drums, Guitars, Piano, Synth
Chloe Bray – Guitars, Tin whistle, Vocals (female)
Emilio Crespo – Vocals

SOJOURNER – Facebook

Grima – Tales of the Enchanted Woods

Un lavoro che squarcia il velo sul talento di questi due ragazzi, per i quali mi piace pensare che il comune sentire causato dalla loro condizione gemellare abbia realmente fatto la differenza.

Uno degli aspetti negativi dell’essere più o meno sommersi da materiale proveniente da ogni parte del globo è quello di rischiare di trascurare dischi di enorme valore: ecco perché ci ritroviamo a parlare di questo secondo album dei russi Grima a ben otto mesi dalla sua uscita nonostante si riveli, alla prova dei fatti, uno dei migliori album di black metal atmosferici usciti nel corso dell’anno.

Del resto bisognerebbe anche fidarsi delle etichette che promuovono questi lavori, in questo caso la Naturmacht che di colpi, oggettivamente, ne sbaglia ben pochi: qui però il centro è pieno, perché Tales of the Enchanted Woods è una delle espressioni più fresche ed entusiasmanti del genere che ci sia stato dato modo di ascoltare in tempi recenti.
I Grima sono un duo siberiano formato dai gemelli Gleb e Maxim Sysoev (membri anche degli Ultar), qui con i nickname Vilhelm e Morbius, i quali annichiliscono ed emozionano con il loro black metal epico e maestoso, capace di prendere il meglio dalla scena scandinava e tedesca, iniettandovi una sognante componente cascadiana, splendide venature folk grazie all’inserimento della fisarmonica ed un velenoso screaming che rimanda parzialmente ai Cradle Of Filth.
Tutte queste componenti si amalgamano alla perfezione dando vita ad un lavoro che si sviluppa su cinque tracce portanti più tre strumentali; se l’ascolto, come a volte accade, inizia in maniera un po’ distratta, i Grima impiegano poco per catalizzare l’attenzione con un brano ottimo come The Moon And Its Shadows e, successivamente, con il capolavoro Ritual, grazie al suo enorme carico evocativo dovuto ad una stupefacente capacitò del duo di creare melodie di rara solennità. Never Get Off The Trail , The Grief (con trame chitarristiche che ne illuminano il finale), The Shepherds Of The sono altre perle che trasportano l’ascoltatore all’interno delle maestose e gelide foreste siberiane, protette da uno spirito che ne tutela gli abitanti e che punisce severamente chi non ne rispetta le forme di vita animale e vegetale (forse è l’unico tipo di divinità della quale ci sarebbe veramente bisogno …).
I Grima regalano quasi tre quarti d’ora di magnificenza oscura ed atmosferica, con un ispirazione ed una freschezza che fanno passare sopra a qualche piccola sbavatura esecutiva e l’assenza di un batterista in carne ed ossa.
Inezie, se rapportate al valore complessivo di un lavoro che squarcia il velo sul talento di questi due ragazzi, per i quali mi piace pensare che il comune sentire causato dalla loro condizione gemellare abbia realmente fatto la differenza

Tracklist:
1. The Sentry Peak
2. The Moon And Its Shadows
3. Ritual
4. Wolfberry
5. Never Get Off The Trail
6. The Grief
7. The Shepherds Of The
8. The Sorrow Bringer

Line-up
Morbius – Guitars
Vilhelm – Vocals, Guitars, Programming

GRIMA – Facebook

Profundum – Come, Holy Death

Ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare.

I Profundum sono una di quelle misteriose band che periodicamente sbucano da qualche oscuro anfratto esibendo in maniera magnifica sonorità disperatamente malsane e funeree.

Come spesso avviene in questi casi, tra l’altro, le uniche notizie certe sono la provenienza statunitense (San Antonio), il fatto che Come, Holy Death sia il loro full length d’esordio che segue l’ep dello scorso anno What No Eye Has Seen, e che si tratta di un duo formato dai misteriosi LR e R, anche se diversi indizi mi fanno ragionevolmente ritenere che quest’ultimo sia, in effetti, il Ryan Wilson titolare del pregevole monicker The Howling Void.
Inoltre, le note promozionali ci fanno sapere che i Profundum traggono la loro ispirazione dai fondamentali primi lavori degli Emperor per poi sviluppare un’idea di musica oscura, ferale e nel contempo maestosa.
Indubbiamente, chi ha ben presente le sonorità di In The Nightside Eclipse può trovarsi d’accordo con tale affermazione, fermo restando che il sound dei californiani propende in maniera decisiva verso il funeral doom, lasciando che le sfuriate di matrice black siano solo una delle componenti del sound e non quella preponderante.
Fatte le debite premesse, si può tranquillamente dichiarare Come, Holy Death come una delle sorprese dell’anno quando si parla di sonorità in grado di evocare un senso di struggimento misto ad angoscia e ottundente dolore: mi spingo oltre, affermando che forse mai nessuno, almeno nell’ultimo decennio, è riuscito a realizzare con tale efficacia il connubio atmosferico tra il black metal ed il funeral.
L’album non è particolarmente lungo, con i suoi otto brani dalla durata media di cinque minuti ciascuno che vanno a creare, però, un flusso unico nel corso del quale soffocanti rallentamenti si legano in un abbraccio mortale alle repentine accelerazioni grazie alla solennità delle tastiere: la voce di LR è un growl che sovente si tramuta in uno screaming mai troppo esasperato, comunque restando sempre nei limiti di una certa intelligibilità.
Come, Holy Death, proprio per tutte queste caratteristiche,  non possiede picchi né punti deboli, perché non c’è un solo secondo sprecato indugiando in passaggi interlocutori: qui ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare. Obbligato a scegliere un brano emblematico, opto per Unmoved Mover, abbellito da un misurato tocco pianistico, ma ribadisco che anche le altre sette tracce non sono affatto da meno.
Profundum è un altro nome da segnare con il circoletto rosso in egual misura, sia per per gli appassionati di black atmosferico sia per quelli di funeral doom.

Tracklist:
1. Sentient Shadows
2. Unmoved Mover
3. Antithesis
4. Tunnels to the Void
5. Storms of Uncreation
6. Into Silences Ever More Profound
7. I Have Cast A Fire Upon The World
8. Illuminating The Abyss

Line-up:
LR – vocals
R – all instruments

PROFUNDUM – Facebook

Raventale – Planetarium

Planetarium contiene quattro tracce splendide, nelle quali la componente estrema è brillantemente stemperata da un’ispirazione melodico/atmosferica spinta al suo massimo livello.

Quello dei Raventale non è certo un nome sconosciuto per gli osservatori più attenti della scena estrema dell’est europeo.

La one man band ucraina, il cui titolare è Astaroth Merc, con Planetarium arriva all’ottavo full length in una dozzina d’anni di attività contraddistinta da una qualità media elevatissima, offrendo una personale interpretazione del black metal che, a mio avviso, con questo ultimo album trova la sua sublimazione.
Planetarium contiene quattro tracce splendide, nelle quali la componente estrema è brillantemente stemperata da un’ispirazione melodica spinta al suo massimo livello, come si può facilmente evincere dall’ascolto dell’iniziale Gemini – Behind Two Black Moons, traccia talmente ariosa che talvolta finisce per lambire il post black e persino il progressive, nel momento in cui si palesa uno struggente assolo di chitarra.
Del resto non si scopre oggi il fatto che Astaroth Merc sia un musicista di classe cristallina ed ogni strumento che passa per le sue mani è trattato con maestria, lasciando come di consueto ad un ospite (in questo caso l’ottimo Atahamas, suo compagno anche nei Balfor e nei Deferum Sacrum) il compito di interpretare le linee vocali.
Dopo la splendida prima traccia, il sound si fa ancor più solenne e maestoso con il capolavoro Bringer Of Celestial Anomalies, brano più aspro e ritmato ma trascinante come di rado accade ascoltare: un furioso blast beat viene per lo più sovrastato da pennellate tastieristiche che conferiscono al tutto una magica aura cosmica capace in questi casi di fare la differenza.
Dopo tanta bellezza è oggettivamente difficile fare meglio, e At The Halls Of The Pleiades offre un volto più arcigno, con il suo riffing profondo che non penalizza però una componente atmosferica la quale, anzi, si riprende ampio spazio nelle fase centrale del brano; la chiusura è invece affidata a New World Planetarium, altro episodio che supera i dieci minuti, complessivamente più compassato senza che venga meno il mood che ha contraddistinto l’album lungo la precedente mezz’ora.
Volendo fare un parallelismo magari audace, Planetarium potrebbe rappresentare l’ideale prosecuzione del discorso che gli Arcturus portarono avanti inizialmente con Constellation e poi con Aspera Hiems Simfonia, prima di abbandonare tale vena prog/atmosferica per virare su sonorità avanguardiste, visto che di quelle pietre miliari l’opera targata Raventale possiede lo stesso suggestivo respiro cosmico. A questo quadro va aggiunto che il black metal proposto da Astaroth Merc è anche contraddistinto da una componente doom, forse oggi più attitudinale che non espressa con particolari rallentamenti: ma non è un caso, però, il fatto che il musicista ucraino sia stato chiamato ad esibire le doti della sua creatura al recente Doom Over Kiev, festival che ha visto all’opera la massima espressione del doom death atmosferico europeo con Saturnus, Swallow the Sun, Clouds e Eye Of Solitude. Tutto ciò rende l’idea di quale considerazione godano i Raventale in patria e, alla luce di questo, non sarebbe male che gran parte degli estimatori del black/doom al di fuori di quei confini desse il giusto risalto ad un progetto guidato da un musicista che, come pochi altri, è riuscito a produrre con una tale continuità album di assoluto valore.

Tracklist:
1 Gemini – Behind Two Black Moons
2 Bringer Of Celestial Anomalies
3 At The Halls Of The Pleiades
4 New World Planetarium

Line-up:
Astaroth Merc – All Isntruments
Athamas – Vocals

RAVENTALE – Facebook

Onirism – Sun

La ragion d’essere di Sun risiede essenzialmente nel suo buon gusto melodico, esaltato da un bel suono di chitarra ed attraversato da tastiere che non sempre paiono essere altrettanto efficaci.

Eccoci alle prese con un nuovo progetto solista, denominato Onirism, appartenente alla scuderia Naturmacht Productions.

Come gran parte del roster della label tedesca, anche la creatura del canadese Antoine Guibert va ad esplorare territori contigui al black metal, nello specifico quelli maggiormente imparentati con sonorità ambient ed atmosferiche.
In tal senso, questo ep intitolato Sun, che arriva dopo un full length ed un altro ep, non apporta particolari novità e la sua ragion d’essere risiede essenzialmente nel suo buon gusto melodico, esaltato da un bel suono di chitarra ed attraversato da tastiere che non sempre paiono essere altrettanto efficaci, apparendo talvolta un po’ “plastificate”.
Nel complesso Sun è comunque un lavoro valido, specie se si apprezzano scelte stilistiche di questo tipo, la cui essenza è basata su tenui melodie appena sporcate dallo screaming e da qualche accelerazione: in effetti la manifestazione d’intenti esibita con un simile monicker viene ampiamente realizzata nei fatti, mettendo sul piatto una mezz’ora abbondante di musica sognante e talvolta dal sentore cinematografico.
Dallo scrigno della Naturmacht negli ultimi tempi è uscito decisamente di meglio, ma il confronto risulta sfavorevole al bravo Antoine più per meriti altrui che per demeriti propri: To The Unknown e la title track sono per esempio due ottimi brani, dalle atmosfere ariose impreziosite da ottimi spunti solisti che depongono a favore delle doti di questo musicista del Quebec, al quale fa difetto forse solo qualche punto in più di “cattiveria”.
Sun è un’opera senz’altro gradevole e a tratti gratificante, ma l’eccellenza dista ancora diversi gradini.

Tracklist:
01.Floating
02.To the Unknown
03.Heart of Everything
04.Attraction
05.Sun

Line-up: Vrath

ONIRISM – Facebook

Skognatt – Ancient Wisdom

Alla luce della bontà del sound offerto in due tracce come Ancient Wisdom e Xibalba, è maturo il momento per puntare alla pubblicazione di un lavoro a nome Skognatt dal minutaggio più consistente.

Skognatt è il progetto solista di Danijel Zambo, musicista tedesco molto attivo come compositore sia a proprio nome sia anche in ambito pubblicitario e cinematografico; il suo background comunque resta quello metal, ambito al quale si è dedicato negli ultimi anni anche con un’altra sua one man ban deominata Derailed.

In quel caso la materia trattata era un doom/post metal mentre, invece, in Ancient Wisdom , secondo ep come Skognatt, Zambo si dedica ad un black metal atmosferico e, almeno nel caso di questo ep, dai toni piuttosto soffusi.
Le due tracce presentate sono entrambe molto belle, ma in effetti il black metal risiede per lo più in qualche accelerazione e nello screaming del musicista di Augsburg, visto che l’utilizzo prevalente della chitarra acustica e le atmosfere evocative riportano addirittura ai primi Tiamat: niente male, considerando che tra tutti i vari influssi che le band odierne cercano di assorbire dal passato questo non è certo uno dei più saccheggiati.
Danijel Zambo si dimostra un compositore di vaglia, riuscendo peraltro a districarsi con disinvoltura tra album di metal, dai tratti comunque pesanti, ed una ricca produzione solista che svaria dall’elettronica all’industrial fino a più recenti puntate nel trip hop; una versatilità che, comunque non impdisace al nostro di mettere sul piatto un lavoro di metallica qualità, seppur molto breve.
Si può concludere dicendo che, alla luce della bontà del sound offerto in due tracce come Ancient Wisdom e Xibalba, è maturo il momento per puntare alla pubblicazione di un lavoro a nome Skognatt dal minutaggio più consistente.

Tracklist:
01.Ancient wisdom
02.Xibalba

SKOGNATT – Facebook

Sorrow Plagues – Homecoming

Homecoming è un lavoro che non mostra cedimenti e riesce a mantenere sempre un invidiabile equilibrio tra le diverse componenti del sound.

Sorrow Plagues è il nome del progetto solista di David Lovejoy, musicista inglese che ha iniziato questa sua avventura nel 2014, pubblicando diversi ep e singoli fino ad approdare all’esordio su lunga distanza l’anno scorso, per giungere infine a questo suo secondo full length intitolato Homecoming.

L’ambito entro il quale si muove il ragazzo britannico è un black atmosferico con spiccata propensione verso lo shoegaze: una soluzione che abbiamo già incontrato più volte ma che si rivela sempre gradevole ed opportuna, in special modo se esibita con il buon talento e la sensibilità che contraddistinguono questo album.
La malinconia di fondo che pervade il lavoro è percepibile anche dai titoli dei brani che non lasciano molto spazio all’immaginazione: David si dimostra anche un musicista a tutto tondo, esibendo un buon gusto dal punto di vista tastieristico ed un bel tocco chitarristico, mentre come da copione nel genere la voce viene un po’ sopraffatta dagli strumenti a livello di produzione.
Continuo a pensare che questa soluzione stilistica abbia un senso solo quando proviene dai bassifondi dell’underground musicale, come avviene appunto in questo caso, rivelandosi frutto di un’espressione spontanea, fresca e ricca di spunti eccellenti, ben lontana dai tentativi di rendere più fruibile, con solo il risultato di farlo apparire artefatto, un sottogenere che per finalità e tematiche dovrebbe posizionarsi esattamente agli antipodi di ogni tentazione commerciale (ogni riferimento agli ultimi Ghost Bath è del tutto voluto …).
Del resto David fa propri gli insegnamenti del maestro Neige e ne sviluppa in maniera competente e spesso emozionante le coordinate tipiche, grazie ad ariose ed ampie aperture melodiche che vengono sporcate solo da uno screaming di stampo DSBM.
Homecoming è un lavoro che non mostra cedimenti e riesce a mantenere sempre un invidiabile equilibrio tra le diverse componenti del sound, trovando il suo picco ideale nella più lunga e magnifica Disillusioned ed il suggello con una title track che vede anche l’utilizzo di parti di sax, a testimoniare la volontà di Lovejoy di non rendere troppo monodimensionale la proposta.
Al momento il nostro ha chiamato a sé altri musicisti per poter offrire anche dal vivo la propria musica: una scelta condivisibile e che, spesso, consente ai titolari di one man band di ampliare ulteriormente i propri orizzonti con ricadute ovviamente positive anche sull’approccio compositivo; già così, comunque, i Sorrow Plagues si dimostrano una delle migliori espressioni odierne dello shoegaze abbinato al black atmosferico.

Tracklist:
1. Departure
2. Disillusioned
3. Isolated
4. Irreversible
5. Relinquish
6. Homecoming

Line up:
David Lovejoy – All Instruments

SORROW PLAGUES – Facebook

Kval – Kval

Kval è un lavoro che a molti potrà apparire obsoleto ma che, in realtà, racchiude molto dell’essenza di quelli che furono i primi passi del black metal atmosferico, e questo è già di per sé un buon motivo per ascoltarlo, se non bastasse un impatto melodico tutt’altro che trascurabile.

Se si dovesse trovare un album che esemplifichi per i neofiti cosa sia il black metal atmosferico, credo che questo primo passo autointitolato della one man band finnica Kval sia perfetto in tal senso.

In realtà, a ben vedere, questo non sarebbe a tutti gli effetti il full length d’esordio, visto che si tratta della versione ri-registrata dell’album Kuolonkuu, edito con il nome Khaossos nel 2015 e oggi rimesso in circolazione dalla Hypnotic Dirge con una nuova copertina e l’aggiunta di una breve traccia strumentale.
Da quanto premesso, si capisce quanto sia stata opportuna questa operazione, visto che qui siamo al cospetto di un’interpretazione del genere senz’altro ossequiosa dei dettami di Burzum e Forgotten Woods, come da note di presentazione, ma che va anche oltre offrendo una serie di brani capaci di catturare l’attenzione e di avvolgere con il loro approccio molto tradizionale e ricco di ottime intuizioni melodiche appoggiate sul classico ronzio di sottofondo, caratteristica di gran parte delle produzioni novantiane.
Kval strepita in lingua madre testi colmi di negatività sopra un tappeto di black che fa della sua linearità il proprio punto di forza: la produzione che opprime la voce è la normalità, in un lavoro che si snoda su ritmi costantemente compassati, con brani segnati da spunti melodici che vengono reiterati fino ad ottenere l’assuefazione desiderata: il musicista finlandese, però, sa anche fermare la sua ragionata corsa inserendo qualche passaggio acustico o piazzando tastiere minimali ma irresistibili come in quella che fu la title track nella prima stesura, Kuolonkuu.
L’album vede come fulcro quattro tracce che da sole vanno ben oltre la mezz’ora di durata (oltre a quella appena citata, la magnifica Sokeus, Harheinen e Polkuni Vailla Suuntaa) visto che, assieme allo strumentale inedito Kaiku Tyhjyydesta, in chiusura ed apertura si trovano due brani ambient (Usva e Toisella Puolen): Kval è un lavoro che a molti potrà apparire obsoleto ma che, in realtà, racchiude molto dell’essenza di quelli che furono i primi passi del black metal atmosferico, e questo è già di per sé un buon motivo per ascoltarlo, se non bastasse un impatto melodico tutt’altro che trascurabile.

Tracklist:
1 – Usva
2 – Sokeus
3 – Harheinen
4 – Kaiku Tyhjyydesta
5 – Polkuni Vailla Suuntaa
6 – Kuolonkuu
7 – Toisella Puolen

Line up:
Kval

KVAL – Facebook

Nyss – Princesse Terre (Three Studies of Silence and Death)

Dischi come questo sono un arricchimento culturale ed un estremo oscuro piacere per gli amanti del genere, perché qui ci troviamo a livelli altissimi.

Black metal esoterico, atmosferico e maledettamente affascinante.

I Nyss sono un duo francese che dopo aver pubblicato quattro ep arriva al debutto per Avantgarde Music, ed è un gran disco di black metal moderno e sperimentale. I pezzi sono tre, la presentazione è molto semplice, la musica viene messa in primo piano ed occupa lo spazio più importante del progetto, tanto che si hanno pochissime informazioni sul gruppo, come nella tradizione dei gruppi francesi di black metal. Ascoltando il loro debutto intitolato Princesse Terre (Three Studies Of Silence And Death) si apre un mondo popolato di dolore e di verità negate, un affondare nella nostra maledizione, il tutto reso con un black di taglio atmosferico molto debitore alle origini ed all’ortodossia del genere. Il risultato è un disco eccezionale, moderno e sperimentale ma soprattutto sovraccarico di emozioni, in un continuo rollio di tempi ed atmosfere. I tre pezzi sono altrettante piccole nere sinfonie legate fra loro dal filo comune della sofferenza, mediate da una composizione al di sopra della media, con un piglio che solo i grandi gruppi black hanno, soprattutto nei crescendo con chitarre e tastiere molto presenti nel disco. Le tre lunghe suite hanno migliaia di sorprese in serbo, come un vecchio castello abbandonato infestato dagli spiriti, ma quel vecchio castello è la nostra anima. I Nyss confermano e superano quanto di buono avevano fatto nelle precedenti uscite, ed appartengono di diritto a quell’aristocrazia black metal atmosferica che sta contando ottime uscite, come potete bene vedere nel catalogo della stessa Avantgarde Music. Dischi come questo sono un arricchimento culturale ed un estremo oscuro piacere per gli amanti del genere, perché qui ci troviamo a livelli altissimi.

Tracklist
I
II
III

Line-up
Þórir Nyss ~ Instruments of the art
L.C. Bullock ~ Invocations

NYSS – Facebook

Astarium – Drum-Ghoul

La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.

Ho avuto occasione nelle scorse settimane di parlare della one man band siberiana Astarium, prima con l’ep Epoch Of Tyrants e poi con lo split assieme a Burnt e Scolopendra Cingulata.

Vista l’iperproduttivita di SiN, l’uomo che sta dietro a tutto questo, per evitare di esser nuovamente sorpassato dall’attualità mi precipito a scrivere due righe anche su quello che, per ora, sembra essere l’ultimo parto dell’instancabile musicista di Novosibirsk, il full length Drum-Ghoul.
Se nelle precedenti occasioni avevo apprezzato la genuinità dell’operato da parte del nostro, ritenendo nel contempo un po’ troppo scolastico il risultato dal punto di vista prettamente musicale, devo dire che quelli che nella precedente occasione mi apparivano come insanabili difetti, questa volta acquisiscono una loro funzione essenziale.
La chiave di volta è il suono delle tastiere, che in un ambito dichiaratamente orrorifico come quello di Drum-Ghoul, con il loro timbro minimale, a tratti vicino a quello delle mitiche tastierine Bontempi (i miei connazionali meno giovani capiranno di cosa sto parlando), si rivelano più funzionali alla creazione di un’atmosfera profondamente malata e nel contempo surreale.
La lunghissima opener Hill Of Scape-Gallows (oltre un quarto d’ora di durata) funge da prova del nove per l’ascoltatore: chi riesce ad arrivare senza fatica alla sua fine, da qual momento in poi potrà godersi un lavoro strambo quanto si vuole, ma decisamente affascinante; la voce continua ad essere uno screaming piuttosto piatto alternato ad un growl effettato ma, tutto sommato, contribuisce a creare quell’alone straniante che ha comunque nel suono della tastiere il suo principale artefice.
Dread Asylum è piuttosto gobliniana nel suo snodarsi melodico, e in fondo pensare a quest’album come un’ipotetica soundtrack di un film horror è un’ipotesi tutt’altro che peregrina, mentre Hospitality Of Demon si snoda in maniera più canonica mantenendo comunque le caratteristiche sonore delle altre tracce, con Pernicious Elixir a chiudere le macabre danze con il suo reiterato giro di tastiera, preludio di un finale che si stempera con uno pseudo-violino.
La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.
SiN è portatore di una concezione della musica lontana diversi anni luce lontana da qualsiasi parvenza di commercialità, e solo anche per questo si merita un certo credito, al di là di tutte le altre considerazioni.

Tracklist:
01. Hill Of Scape-Gallows
02. Dread Asylum
03. Hospitality Of Demon
04. Pernicious Elixir
Line up:
SiN – All instruments, Vocals

ASTARIUM – Facebook

Sun Of The Sleepless – To The Elements

Echi di Empyrium e The Vision Black si inseguono e si fondono in una nuova ed ancora più oscura veste, dando vita ad una forma di black metal che va a toccare vette difficilmente superabili.

Quando ci si approccia all’ascolto dell’album di una band poco conosciuta penso che tutti, istintivamente, provino a raccogliere qualche notizia sui musicisti che ne fanno parte e sulla sua discografia passata: questo, inevitabilmente, rischia di creare un pregiudizio (nel senso letterale di giudizio preventivo) nel bene o nel male, quando invece i nomi coinvolti nell’opera sono ben noti.

Confesso che, quando è partito To The Elements nel mio lettore stracolmo di album in mp3 da ascoltare per poi provare a descriverne il contenuto nel migliore dei modi, dei Sun Of The Sleepless ricordavo solo che mi erano arrivati via Prophecy Productions ma, aiutato anche da quest’ultimo indizio, ho impiegato ben poco per capire che il musicista coinvolto in questo progetto era Markus Stock, alias Ulf Thodor Schwadorf: per chi ha amato fin dalla prima ora gli Empyrium ed ha apprezzato non poco l’operato del nostro anche con i The Vision Bleak, non è difficile riconoscere l’impronta di uno degli autori maggiormente peculiari tra quelli dediti al lato più oscuro del metal.
Ed ecco scattare il pregiudizio: da quel momento in poi ti attendi di ascoltare qualcosa di speciale, capace di costringerti ad un’attenzione superiore alla media per cogliere al meglio ogni sfumatura, cosa che, per carità, si prova sempre a fare ma con risultati altalenanti, trovandosi spesso di fronte a lavori anche buoni a livello esecutivo e compositivo ma non sempre stimolanti.
Però uno come Markus Stock non può deludere, perché troppo è il talento che madre natura gli ha concesso, regalandoci  con questo suo progetto solista nato alla fine dello scorso secolo la sua personale interpretazione di un black metal che, se già di solito in terra germanica viene interpretata in maniera ben diversa e più ricercata rispetto al resto del mondo, in questo caso tocca vette difficilmente superabili; ovviamente il musicista bavarese non si dimentica d’essere il padre degli Empyrium e certi episodi più rarefatti o acustici lo stanno a dimostrare (The Burden, il cui testo è tratto dall’opera shakespeariana la Tempesta, e Forest Crown), ma nei restanti cinque brani fa sciogliere il face painting a una moltitudine di ragazzotti di buona volontà, esibendo qualcosa che rasenta lo stato dell’arte del genere, almeno per quanto riguarda il suo aspetto più atmosferico ed evocativo.
Bastano pochi secondi di Motions per immergersi nell’atmosfera austera che il marchio Sun Of The Sleepless regalerà lungo lo spartito creato per To The Elements: questo brano è uno dei più belli ascoltati nel genere negli ultimi anni, e il piede batte ai ritmi parossistici dei blast beat mentre mentre lo spirito si lascia trasportare da un crescendo melodico che si vorrebbe interminabile.
Echi di Empyrium e The Vision Black si inseguono e si fondono in una nuova ed ancora più oscura veste, passando per la superba The Owl dedicata al meraviglioso rapace notturno, per arrivare alla conclusiva Phoenix Rise, che si ammanta di una più malinconica melodia per poi chiudersi con una citazione tolkeniana tratta da La Compagnia dell’Anello.
Da un musicista di questo spessore non ci poteva attendere nulla di meno, ma ogni volta che si palesa un album di simile livello qualitativo si rinnova quel momento magico che è il piacere della scoperta e la voglia di riascoltare queste note non appena se ne avrà l’occasione …
Là fuori c’è davvero tanta grande musica, gran parte della quale il popolo degli appassionati è destinato ad ignorare stante l’impossibilità fisica di ascoltarla tutta: uno dei nostri compiti è anche far emergere ciò che davvero non può e non deve essere ignorato, come appunto questo primo full length dei Sun Of The Sleepless del  bravissimo Markus Stock.

Tracklist:
1. The Burden
2. Motions
3. The Owl
4. Where in My Childhood Lived a Witch
5. Forest Crown
6. The Realm of the Bark
7. Phoenix Rise

Line up:
Ulf Theodor Schwadorf – Everything

SUN OF THE SLEEPLESS – Facebook

Astarium – Epoch Of Tyrants

Circa 25 uscite nell’arco di una decina d’anni costituiscono un fatturato che ormai non sorprende neppure più di tanto, specialmente quando ne è autore un singolo musicista che può dare sfogo alle proprie pulsioni compositive senza doversi confrontare con altre teste pensanti.

E’ questo il caso del siberiano SiN , l’iperattivo titolare del progetto Astarium, che con questo Epoch Of Tyrants si rende autore di un buon black metal atmosferico e dalle tematiche guerresche, ricco di spunti interessanti ma non privo neppure di difetti.
In qualche modo questi due aspetti tendono ad annullarsi rendendo così il lavoro gradevole ma non imprescindibile: se, infatti, diverse intuizioni melodiche ed un buon gusto per gli arrangiamenti si palesano con frequenza nel corso dell’ep, non si può fare a meno di notare che un uso della voce approssimativo ed un suono di tastiera in certi tratti troppo plastificato finiscano per affossare, a tratti, quanto di buono viene messo in campo da SiN.
Un peccato, visto che il musicista di Novosibirsk affronta la materia con buona padronanza, svariando tra sfumature atmosferiche, sinfoniche e folk, anche se il tutto appare a volte assemblato in maniera forzata; Epoch Of Tyrants rimane comunque un lavoro ben al di sopra della sufficienza, alla luce anche di episodi di notevole spessore come l’epico strumentale Of Valour and Sword e la successiva e drammatica Bloodshed Must Goes On!
Continuo a pensare che, ad eccezione di rarissimi casi, gli stakanovisti delle sette note siano personaggi degni della massima stima, perché dalla lor iperproduttività non può che trasparire una passione smisurata per la musica, ma nel contempo appare inevitabile una dispersione energie che, meglio canalizzate, potrebbero fornire risultati ben superiori, sia dal punto di vista della cura dei particolari sia dello stesso songwriting.
Ovviamente, nel tempo di ricevere dalla lontana Siberia la copia di Epoch Of Tyrants, ascoltarlo e scrivere due righe di commento, il buon SiN non è certo rimasto con le mani in mano, sicché sono già da un po’ in circolazione uno split album con i Burnt e gli Scolopendra Cingulata ed un nuovo full length, Drum-Ghoul, dei quali si parlerà prossimamente.
In attesa di scoprire cosa né è scaturito, dare un ascolto a questo Ep non è affatto tempo sprecato, fermo restando che di margini per fare ancora meglio ce ne sono molti.

Tracklist:
1. Bloody Surf
2. SS (Satanic Squadron)
3. Passion of War
4. Bone Crushers
5. Of Valour and Sword
6. Bloodshed Must Goes On!
7. In Twilight of the Gods
8. Heroic Saga

Line up:
SiN – All instruments, Vocals

ASTARIUM – Facebook

Vials Of Wrath – Days Without Names

Un bellissimo esempio di musica oscura, dalle sfumature drammatiche ma sempre godibile da un punto di vista melodico, attingendo sicuramente alla scuola statunitense che ha sempre avuto come caratteristica principale quella di porre al centro delle opere la forza e l’immensità della natura, in questo caso specifico vista però come segno tangibile della maestosità del creato.

Parlare di black metal di ispirazione cristiana rischia seriamente d’essere una contraddizione in termini, se si pensa che questo genere musicale nacque, semmai, con lo scopo di riscoprire le radici del paganesimo e contrastando con forza (non solo musicalmente, come ben sappiamo) quella religione cattolica che venne imposta alle popolazioni scandinave agli albori del precedente millennio.

Se c’è un qualcosa, però, su cui mi sono sempre auto imposto di soprassedere, allorché devo valutare o godermi un disco, è la sua componente religiosa o politica, facendo eccezione in quest’ultimo caso solo per chi prova a propugnare in maniera esplicita certe ideologie che sono già state ampiamente giudicate e condannate, non da me ma dalla storia.
Questa introduzione è necessaria per far sì che non venga snobbato dai puristi il secondo album dei Vials Of Wrtah, progetto solista del musicista statunitense Dempsey “DC” Mills, autore di un’interpretazione davvero di buon livello del black metal nella sua forma più atmosferica ed eterea. La bontà di Days Without Names, al di là ovviamente del non possedere alcun elemento innovativo, risiede sostanzialmente in una certa varietà stilistica che fa oscillare il sound tra sfuriate vicine al depressive, ampie aperture atmosferiche ed accenni folk, senza dimenticare che la chitarra può esser utilizzata anche per suonare ottimi assoli (Burning Autumn Leaves).
L’album consta di sei brani mediamente abbastanza lunghi, oltre a due più brevi tracce strumentali, e gode di una produzione abbastanza pulita per la media del genere, il che valorizza soprattutto le parti più intimiste e, appunto, il buon lavoro chitarristico, sia elettrico sia acustico, senza affossare la voce che, magari non sarà un punto di forza ma non diviene neppure un elemento di disturbo come talvolta accade.
In buona sostanza Days Without Names si rivela un bellissimo esempio di musica oscura, dalle sfumature drammatiche ma sempre godibile da un punto di vista melodico, attingendo sicuramente alla scuola statunitense che ha sempre avuto come caratteristica principale quella di porre al centro delle opere la forza e l’immensità della natura, in questo caso specifico vista però come segno tangibile della maestosità del creato.
Il lavoro va goduto nel suo insieme ed è fortemente consigliato a chi apprezza il black metal in questa sua forma, trovando i propri picchi nella parte centrale con Burning Autumn Leaves e The Path Less Oft Tread, senza comunque mostrare cenni di debolezza in alcuna sua parte; le liquide note acustiche che chiudono A Cleansing Prayer lasciano davvero un bel retrogusto oltre alla consapevolezza del fatto che il genere, nelle sue varie forme e sfumature, continua ad avere risorse infinite.

Tracklist:
1. That Which I’ve Beheld
2. Journey Beyond the Flesh
3. Revival of the Embers
4. Burning Autumn Leaves (Under a Harvest Moon)
5. The Path Less Oft Tread
6. Silhouettes Against the Sun
7. A Cleansing Prayer

Line-up:
Dempsey “DC” Mills – All instruments, Vocals

VIALS OF WRATH – Facebook

Bereft of Light – Hoinar

Quella marchiata Bereft Of Light è musica dal grande impatto emotivo, che non può lasciare indifferenti per la sua aura tragica stemperata dalle frequenti rarefazioni acustiche.

Quello di Daniel Neagoe è un nome caro a tutti gli appassionati del funeral/death doom più atmosferico e melodico, genere che ha contribuito a spingere verso vette qualitative difficilmente superabili con gli Eye Of Solitude prima, e con i Clouds più recentemente.

Il musicista rumeno è, però, un artista nel senso più autentico del termine e la sua ispirazione pare attingere ad un pozzo senza fondo, anche quando il genere non è quello che gli ha dato la maggiore visibilità.
Del resto il nostro non è nuovo ad incursioni nel black metal, prima con i Sidious assieme ad altri suoi compagni negli Eye Of SOlitude, poi nei Vaer assieme al suo storico sodale Déhà e, infine, in un precedente progetto solista denominato Colosus, che però, probabilmente è stato soppiantato da questo nuovo denominato Bereft Of Light.
In Hoinar, Daniel prende dichiaratamente le mosse dalla corrente cascadiana che è stato uno degli sviluppi recenti più efficaci e segnanti in ambito black, rendendo peculiare e ben riconoscibile il sound in gran parte della scena nordamericana: ovviamente il tutto viene eseguito da uno che ha scritto un album di rara drammaticità come Canto III e l’umore del lavoro non può non risentirne, portandosi appresso ben delineato il proprio marchio stilistico e conferendogli più d’una sfumatura depressive, a partire dalla scelta di uno screaming disperato che solo nella meravigliosa Freamăt trova un suo contraltare nelle clean vocals.
L’opera consta fondamentalmente di tre brani portanti (Legamânt, Freamăt e Tarziu), oltre a due tracce strumentali di ambient atmosferico (Uitare e Pustiu), esibendo anche un giusto senso della misura ed evitando di saturare l’ascoltatore con una durata eccessiva.
Del resto, quella marchiata Bereft Of Light è musica dal grande impatto emotivo, che non può lasciare indifferenti per la sua aura tragica stemperata dalle frequenti rarefazioni acustiche, eseguite in maniera limpida quanto lineare e propedeutiche ai tipici crescendo che sono parte integrante dello stile di Neagoe, resi ancor più evocativi dall’utilizzo compatto e all’unisono di tutta la strumentazione assieme alla voce. Detto di Freamăt , resa più meoldica e relativamente accessibile proprio dalle parti di cantato pulito, Legamânt e Tarziu sono brani intrisi di una drammaticità a tratti parossistica, nei quali il dolore tracima da un songwritibng sempre ad altissimo livello.
Del resto il doom ed il depressive black sono solo due maniere leggermente diverse per esprimere la propria sensibilità artistica da parte di un musicista come Daniel Neagoe che, davvero, oggi può essere considerato uno dei due (l’altro è Déhà, ma che ve lo dico a fare …) più influenti ed attivi in un settore musicale che sarà pure di nicchia (sicuramente lo è in Italia, purtroppo) ma che resta ugualmente uno degli strumenti di elezione per raccontare le paure, le sofferenze e le miserie dell’umana esistenza.

Tracklist:
I – Uitare
II – Legamânt
III – Pustiu
IV – Freamăt
V – Târziu

Line-up:
Daniel Neagoe – everything

BEREFT OF LIGHT – Facebook

Neve – Tales From The Unknown

Prima uscita discografica per i napoletani Neve, autori di un black atmosferico e melodico dalle buone prospettive ma ancora da rifinire e limare in più di un aspetto.

Prima uscita discografica per i napoletani Neve, autori di un black atmosferico e melodico dalle buone prospettive ma ancora da rifinire e limare in più di un aspetto.

Clouds of melancholy ci accoglie riportandoci di peso alle sonorità dei primi Old Man’s Child, band di quel Galder che poi diverrà membro stabile dei ben più famosi Dimmu Borgir, però già a metà del brano si coglie la volontà dei ragazzi partenopei di non accodarsi ad un modello precostituito, provando ad inserire qualche variazione sul tema, rarefacendo il sound e preparando il terreno alla successiva traccia This Ancient Cliff, episodio dai tratti sognanti e contraddistinto da un bell’impatto melodico.
Indubbiamente è proprio questo il punto di forza sul quale i Neve dovrebbero sviluppare poi tutto il resto della loro idea compositiva, perché il potenziale evocativo che si riesce a cogliere in diversi passaggi, disseminati nei vari brani, viene talvolta affossato da un’esecuzione ancora perfettibile e da una produzione che va di pari passo.
Interessante, in Tales From The Unknown, si rivela peraltro l’utilizzo del basso, molto più in evidenza rispetto ai normali parametri del genere, assieme ad un approccio volto a ricercare soluzioni tutt’altro che scontate (emblematica in tal senso la componente acustica evidenziata in Perpetual Nightmare).
In sintesi, questo primo passo dei Neve, al netto delle screpolature evidenziate, mostra più di un dato incoraggiante, in particolare perché in questo caso quello che deve essere rifinito non è tanto lo sviluppo compositivo quanto la sua messa in pratica, un aspetto destinato a progredire naturalmente con il passare del tempo e l’acquisizione di ulteriore esperienza.

Tracklist:
1.Clouds Of Melancholy
2.This Ancient Cliff
3.The Night
4.So Many Times
5.Perpetual Nightmare
6.Pure

Line-up:
Raffaele Ferrara – Vocals, lyrics, keyboard, drum programming
Emanuele Landri – Guitars
Alessandro Stasio – Bass

The Committee – Memorandum Occultus

Dietro alle identità celate c’è una band che maneggia a suo piacimento una materia sempre delicata come il black metal, plasmandolo e trasformandolo in un venefico ed annichilente flusso.

Sono passati circa tre anni dall’uscita di Power Through Unity, primo full length del misterioso combo denominato The Committee, composto da musicisti della scena black metal provenienti da diverse nazioni.

La band, nata come solo project del vocalist igor Mortis, ha la sua base in Belgio, ma al di là della collocazione geografica, ciò che importa è, in effetti, la qualità enorme del black metal prodotto da questo gruppo capace di unire tematiche poco rassicuranti dal punto di vista sociale ad un sound cupo e allo stesso tempo melodico, con più di un momento che va a lambire i confini più epici del genere.
Memorandum Occultus, rispetto al suo predecessore che presentava un contenuto lirico pervaso dall’ossessione per la guerra, riporta la barra sulla contemporaneità mettendo in luce senza falsi moralismi il lato più cinico ed oscuro dei potenti ed i diversi strumenti da costoro utilizzati per soggiogare le masse, mentre lo stile musicale si mantiene saldamente ancorato ad un black strutturato su mid tempo avvolgenti, dall’ampio impatto atmosferico ed evocativo, sicuramente tutt’altro che asettico come il concept potrebbe invece indurre a pensare.
Sei ottimi brani si susseguono così nel raccontare una realtà dalla quale siamo più portati a distogliere lo sguardo per il nostro quieto vivere, risultando piuttosto uniformi nel loro incedere ritmico e, tutto sommato, anche melodico, ma terribilmente convincenti e alo stesso tempo ammantati di un oscura inquietudine.
Se è magnifica Treacherour Teachings – Weapons Of Religion, con tanto di vocalizzi femminili arabeggianti, non sono da meno le altre tracce, nel corso delle quali questi ottimi interpreti del genere non mollano mai la presa, offendo fino alla fine momenti di sicuro impatto emotivo.
I The Committee si confermano molto più di un progetto estemporaneo, capace di colpire soprattutto per l’identità dei suoi membri che si celano anche in versione live presentandosi al pubblico incappucciati: in realtà, dietro ai paraventi c’è una band che maneggia a suo piacimento una materia sempre delicata come il black metal, plasmandolo e trasformandolo in un venefico ed annichilente flusso.

Tracklist:
1. Dead Diplomacy – Weapons Of War
2. Synthetic, Organic Gods – Weapons Of Genocide
3. Golden Chains – Weapons Of Finance
4. Treacherour Teachings – Weapons Of Religion
5. Flexible Facts – Weapons Of History and Chronology
6. Intelligent Insanity – Weapons Methodology And Duality

Line-up:
Igor Mortis – Guitar – Vocals
William Auruman – Drums – Percussion
Aristo Crassade – Guitar – Vocals
Marc Abre – Bass
Urok – Keyboards
Navigator – Guest Vocals

THE COMMITEE – Facebook

Les Chants du Hasard – Les Chants du Hasard

Un ascolto che diventa un’esperienza originale, per un album che sicuramente affascina e divide; quindi o lo si ama alla follia o lo si odia, ma sicuramente non va ignorato, almeno per chi ha il coraggio di confrontarsi con qualcosa di diverso senza pregiudizi.

Ancora oggi, a più di vent’anni dalla loro uscita, i primi due album degli Elend (Leçons de Ténèbres nel 1994 e Les Ténèbres du Dehors due anni dopo), sono considerati come dei capolavori di musica dark ambient e classica, nei quali l’attitudine estrema era assolutamente concettuale e la musica manteneva una sua perfetta connotazione fuori dagli schemi del metal.

Allora qualcuno parlava più di nuova musica classica che di sottogenere metal e non a torto, vista la totale mancanza di strumenti tradizionalmente rock.
Questo nuovo progetto, anch’esso di provenienza transalpina, si avvicina non poco allo stile del magico gruppo franco/austriaco, una one man band che vede il compositore Hazard alle prese con un’affascinate musica orchestrale, profondamente dark e dall’animo black metal, che si evince dall’uso dello scream, nei passaggi vocali, mentre le tastiere disegnano arabeschi sinfonici e drammatici.
Leggermente meno mistica ed occulta rispetto a quella degli Elend, la musica di Hazard è sicuramente più teatrale, creando un’opera che, chiudendo gli occhi, prende forma nella mente come trasposizione artistica sul palco di un teatro dell’orrore.
I sei capitoli seguono un percorso metaforico su dilemmi esistenziali, dunque lasciando ad altri sterili colonne sonore di film fantasy, mentre piano piano la musica di Hazard si fa spazio tra i meandri dell’inconscio, facendosi ad ogni ascolto sempre più profonda, oscura e a suo modo estrema.
Un ascolto che diventa un’esperienza originale, per un album che sicuramente affascina e divide; quindi o lo si ama alla follia o lo si odia, ma sicuramente non va ignorato, almeno per chi ha il coraggio di confrontarsi con qualcosa di diverso senza pregiudizi.

TRACKLIST
1. Chant I – Le Théâtre
2. Chant II – Le Soleil
3. Chant III – L’Homme
4. Chant IV – L’Enfant
5. Chant V – Le Die
6. Chant VI – Le Vieillesse

LINE-UP
Hazard – Orchestrations

LES CHANTS DU HASARD – Facebook

A Mournful Path – From The Wreckage Of Humiliation

Gli A Mournful Path sono un duo di black metal da Newcastle, Australia, e il loro black metal non vi lascerà tregua, figlio maledetto della scuola australiana, con quella saturazione dello spazio sonoro che rende bellissimo questo viaggio tra l’atmospherical e il black più tendente al death.

Questa traccia che vi proponiamo è un appunto, un piccolo assaggio di qualcosa che vi atterrerà nelle orecchie entro la fine dell’anno.

Gli A Mournful Path sono un duo di black metal da Newcastle, Australia, e il loro black metal non vi lascerà tregua, figlio maledetto della scuola australiana, con quella saturazione dello spazio sonoro che rende bellissimo questo viaggio tra l’atmospherical e il black più tendente al death. Il duo ha rilasciato questa traccia per la Inverse Records che pubblicherà il loro mini di debutto. Gli A Mournful Path si inseriscono in quel novero di gruppi che riescono a dare al black metal un significato di liberazione, un mezzo per andare verso il cielo o verso il centro della terra a vostra preferenza. Il male ed il disagio escono a mille all’ora dalla voce di Michael Romeo, con il fratello David che fa tutto il resto, ed ad ascoltarli non sembrano davvero un gruppo esordiente. I due fratelli Romeo respirano e suonano come fossero un’unica entità e ciò lo si sente molto bene anche da quest’unica traccia.
Un piccolo raggio nero che preannuncia una tempesta molto interessante e pesante.

TRACKLIST
1. From The Wreckage Of Humiliation

LINE-UP
David Romeo: Song writing and all instruments
Michael Romeo: Words and voice

A MOURNFUL PATH – Facebook

Violet Cold – Anomie

Cinquanta minuti di musica gradevole e complessivamente sognante, senza che si vada a sprofondare in abissi di oscurità e disperazione.

Violet Cold è il progetto solista dell’azero Emin Guliyev, un tipo piuttosto prolifico, musicalmente parlando, visto la quantità di singoli ed ep (più di una trentina) pubblicati in circa 4 anni di attività, oltre a quattro full lenght dei quali l’ultimo, intitolato Anomie, è quello che prendiamo in esame

Ferma restando la mancanza del tempo materiale per andare a rivangare quanto proposto nel passato dall’iperattivo musicista di Baku, quello che si può affermare con certezza è che viene offerto in questa occasione un black atmosferico con una forte propensione per lo shoegaze, solo inasprito dalle vocals in stile depressive, andando a collocare il sound da qualche parte tra i primi Alcest ed i Ghost Bath nelle loro recenti sembianze più leggiadre.
Inquadrato in qualche modo l’operato del buon Emin, non resta che immergersi in questi oltre cinquanta minuti di musica gradevole e complessivamente sognante, senza che si vada a sprofondare, quindi, in abissi di oscurità e disperazione: ciò che aleggia, piuttosto. è una malinconia di fondo esaltata dall’abilità del nostro nel costruire melodie a loro modo lineari ma dal sicuro impatto.
Evidentemente da un lavoro del genere deve tenersi alla larga chi considera questo approccio alla materia una degenerazione del black metal e reagisce al termine blackgaze come un vampiro di fronte ad una croce; in compenso, però, Anomie sarà oltremodo gradito da chi ricerca sonorità fluide, solo un pizzico urticanti ma dotate a modo loro di una certa profondità.
Se si fa eccezione per la title track, che apre l’album non proprio con il piede giusto, andando a rivangare temi musicali già sentiti in diverse salse, Guliyev offre in seguito una serie di brani nei quali riesce a sopperire ad una certa uniformità stilistica grazie alla sua capacità di comporre melodie indubbiamente belle, con l’aggiunta di divagazioni etniche che vengono amplificate nella bellissima e conclusiva No Escape From Dreamland.
Chiaramente, nel tempo di ricevere il promo, ascoltarlo qualche volta e scrivere due righe di commento, sono già usciti a nome Violet Cold uno split, una compilation ed un ep, quindi in questo caso la cronaca fatica a tenere il passo con la realtà, e questo si rivela un dato ancor più sorprendente se si pensa (magari sbagliando) che una tale dispersione di energie possa precludere risultati anche migliori di quelli già ottimi raggiunti in quest’occasione.
A livello di consuntivo ritengo infatti che, volendo fare un parallelismo, Anomie sia senz’altro superiore all’ultimo parto dei citati Ghost Bath, proprio perché qui tutto appare molto più spontaneo alla luce dello spirito naif con il quale Guliyev persegue i propri intenti, in antitesi ad una forma stilistica analoga ma che appare inevitabilmente edulcorata dall’approdo alla grande distribuzione e, di conseguenza, ad un bacino d’utenza ben più vasto.

Tracklist:
1.Anomie
2. She Spoke Of Her Devastation
3.Lovegaze
4. My Journey To Your Space
5.Violet Girl
6. No Escape From Dreamland

Line-up:
Emin Guliyev

VIOLET COLD – Facebook