Ottimo lavoro da parte di Astaroth Merc (già conosciuto con i Raventale) che, sotto il monicker ChapterV:F10, ci consegna un album black metal di buon spessore.
Syndrome è il primo lavoro dei Chapter V:F10, creatura di Astaroth Merc, conosciuto per essere il membro unico degli ucraini Raventale, attivi da una decina d’anni e protagonisti della scena con ben sei album all’insegna di un black metal atmosferico.
Anche in questa occasione il nostro si cimenta con tutti gli strumenti ma è accompagnato nell’avventura dalla voce di Howler, già suo compagno nei Den Of Winter. Syndromeè un buon lavoro di genere, glaciale e composto da ottime canzoni, ora strutturate su ritmiche cadenzate ora spazzate da sfuriate metalliche fredde come il vento del nord.
Il musicista di Kiev se la cava alla grande con gli strumenti, così come il suo partner si rivela dotato di un ottimo scream: le atmosfere, che si mantengono gelide e diaboliche e fanno da contorno al black metal che ha nella vecchia scuola la fonte a cui abbeverarsi, a tratti vengono lacerate da frustate di nero metallo, altre volte sono contornate invece da una vena epica ed evocativa che trasporta l’ascoltatore in paesaggi di deserto ghiacciato, lande ai confini del mondo dove l’inferno è ad un passo.
Sono proprio queste le parti in cui Syndromeoffre il suo meglio, con note che si avvinghiano allo stomaco, atmosfericamente da applausi pur mantenendo una violenza di fondo che si libera quando gli elementi scatenano una danza infernale.
Le ritmiche tengono il passo, passando da mid tempo a veloci mitragliate, come nella superba Progression, che apre il lavoro e con la quale Chapter V:F10 sparano già le loro migliori cartucce.
Invero proprio la prima e l’ultima traccia sono quelle che più lasciano all’ascoltatore un ottimo ricordo, con Ending, posta in chiusura, bellissimo strumentale con digressioni che oserei definire, a tratti, progressive.
Nel mezzo il black metal tout court di Reclaim, Nectar e sopratutto Mercury convince donandoci ottimi esempi di metallo nero, assolutamente consigliato agli adepti del genere a cui va l’invito ad ascoltare questo gioiellino di metallo oscuro e maligno.
La bontà del lavoro risiede nella capacità dei Miellnir di far confluire nel lavoro con innata fluidità gli influssi black, viking, folk e gothic.
Buon album d’esordio per gli ucraini Miellnir, combo dedito ad un viking fok metal dalle sembianze smaccatamente scandinave.
Nulla di male in tutto ciò, sia chiaro, dato che il genere lì è nato ed è prosperato: infatti, l’interpretazione fornita dalla band dell’est risulta così credibile e competente che si fatica a credere di non trovarsi al cospetto di musicisti norvegesi o finlandesi.
Ciò che rende Incineration Astern un disco meritevole di ogni attenzione è lo spiccato gusto melodico che lo pervade in ogni sua parte: aperture epiche e ariose vanno a contrapporsi alle vocals efferate, ora in screening, ora in growl, ma senza che vengano disdegnati neppure efficaci passaggi in clean da parte di Frozensoul.
Il disco a tratti appare davvero trascinante nella sua epica solennità e la sola, piccola, caduta di tono di Ugar Buhlo, traccia all’insegna di un folk alcoolico simil-Korpiklaani, non scalfisce quanto di buono messo in mostra nella gran parte degli altri frangenti.
Infatti, canzoni intense come Prey, che si va ad agganciare perfettamente ad un immaginario epico-cinematografico, e il picco assoluto dell’album, Journey Through the Nine Worlds, non è così scontato poterle ascoltare con grande frequenza.
La bontà del lavoro, in fondo, risiede proprio nella capacità dei Miellnir di far confluire nel lavoro con innata fluidità gli influssi black, folk e gothic in un’espressione sempre molto ricca di contenuti, attestando la band su un livello ben superiore a quelli dei semplici epigoni di Turisas, Fintroll e compagnia epico-folkeggiante …
Un album perfetto per chi apprezza queste sonorità, ma anche sufficientemente accattivante e scorrevole per attirare nuovi adepti.
Tracklist:
1. Incineration Overture (Intro)
2. Prey
3. Legends of the Fallen
4. Stand Against
5. Journey Through the Nine Worlds
6. Ugar Buhlo
7. Embraced by Ire
8. Jörð
9. The Gallows Tree
10. Valhalla Awaits
“Mondi Sospesi” conferma le qualità dei Veratrum che, con questo lavoro, dovrebbero guadagnarsi il meritato supporto degli appassionati.
I Veratrum sono una band bergamasca dedita ad un black/death nel quale, nella sua forma alquanto estrema, non viene dimenticata l’importanza delle melodie: cantano in lingua madre e sono al secondo lavoro sulla lunga distanza, dopo un demo d’esordio (“Sangue” del 2010) ed un full-length (“Sentieri Dimenticati” del 2012).
Mondi Sospesirisulta un buon ascolto per chi sbava per le sonorità scandinave, qui amalgamate da parti estreme riconducibili alla scena dell’Est con i Behemoth in testa: i musicisti, tecnicamente sul pezzo con i propri strumenti, ed una produzione all’altezza fanno il resto, così che il sound estremo della band esplode apparendo a tratti devastante.
Non un assalto senza soluzione di continuità, ma l’aggressione a tratti ragionata e i piccoli dettagli melodici rendono l’ascolto vario; l’uso della lingua italiana forse frenerà un po’ la band a sul mercato estero, ma trovo la scelta, se non ancora perfettamente oliata, sicuramente coraggiosa.
La band quando parte a razzo fa davvero male, le chitarre sparano a velocità della luce solos melodici e la sezione ritmica crea un muro sonoro notevole, ma gli inserti sinfonici, presenti in buon numero, ed i continui cambi di atmosfere e velocità riescono a tenere alta la tensione per tutto il lavoro.
Ottime tra le canzoni presenti sull’album, Il Culto Della Pietra, dove la band alterna death/black, ad una parte sinfonica dal piglio epico e declamatorio, con un riff portante in pieno stile scandinavo che ricorda i primi vagiti della scena melodic death, così come l’intro della devastante Il Tempo Del Cerchio, poi violentata da squarciante metallo oscuro e furibondo.
La seguente Quando in Alto vince la palma del brano più estremo del lotto, con il suo death metal al limite del brutal nelle ritmiche e nel growl animalesco e profondo, rivelandosi un pesantissimo macigno estremo e di notevole impatto. Mondi Sospesi conferma le qualità dei Veratrum che, con questo lavoro, dovrebbero guadagnarsi il meritato supporto degli appassionati.
Tracklist:
1. Intro
2. Un Canto
3. Il Culto Della Pietra
4. Etemenanki
5. Il Tempo Del Cerchio
6. Quando In Alto
7. Davanti Alla Verità
8. H Nea Babylon
Stuzzicante split proposto dalla SixSixSix, che propone tre progetti solisti dediti al black metal ma con approcci piuttosto differenti.
Stuzzicante split proposto dalla SixSixSix, che propone tre progetti solisti dediti al black metal ma con approcci piuttosto differenti.
I primi due brani vedono all’opera i Nebel Über Den Urnenfeldern del tedesco C.: con il suo progetto di nascita recentissima il musicista della Bassa Sassonia si cimenta con uno stile non lontano dal depressive che, nonostante qualche imperfezione tecnica, denota una spiccata capacità di tessere melodie di qualità e soprattutto poco scontate.
Nelle sue dichiarazioni di intenti C. intende riprodurre le sonorità dei primi Nocte Obducta: come detto, dal punto di vista melodico/evocativo la strada è sicuramente quella giusta, c’è sicuramente da lavorare ancora un po’ sulla pulizia del suono, ma i due brani, Asche über dem Leidensweg (specialmente) e Ein Riss im ewigen Kreis, possono sicuramente soddisfare chi nel genere cerca più i contenuti che non la forma.
La seconda coppia di tracce è appannaggio del cileno Tons con i suoi Eternal Spell: anche qui trattasi di un progetto dalla genesi molto recente, per cui i margini di miglioramento sono ovviamente molti.
In questo caso il black del musicista sudamericano prende le mosse dal black’n’roll in stile ultimi Darkthrone, nel quale affiorano anche diversi elementi punk, inclusi certi passaggi vocali. Come spesso accade per questo particolare sottogenere i brani scorrono via piacevoli ma senza lasciare un segno tangibile, all’insegna del palla lunga e pedalare che lì per lì non annoia ma che, alla lunga, lascia poche tracce nella memoria.
Gli ultimi due brani riportano su un altro livello il lavoro, trattandosi del contributo allo split dei Chiral, progetto dell’omonimo musicista italiano che abbiamo già avuto modo di conoscere in occasione delle sue ottime precedenti uscite.
Il fatto stesso che il nostro, rispetto ai compagni di avventura, abbia già alle spalle una discografia più rilevante, si sente nello sviluppo delle due tracce, Queste Voci Ch’Eclissano La Luce I e II, che mettono in mostra un black metal atmosferico di elevata qualità e maturità.
Il primo brano è pressoché perfetto nel suo bilanciamento tra aggressione e melodia, rivelandosi un ulteriore passo avanti nella progressione artistica di Chiral, mentre il secondo si muove inizialmente in maniera un po’ sghemba, ma il suo affascinante incedere al quale contribuisce una suono di chitarra piuttosto inusuale per il black (a tratti sembra provenire da ipotetiche session di “Pornography”, tanto per capirci …) lo rende alla fine soddisfacente quanto il precedente.
Lo split si rivela quindi ricco di spunti di interesse, con la piacevole conferma sui alti livelli dei Chiral, le notevoli potenzialità ancora da sgrezzare per i Nebel Über Den Urnenfeldern e l’auspicio della ricerca di una strada leggermente più personale per gli Eternal Spell.
Tracklist:
1. Nebel Über Den Urnenfeldern – Asche über dem Leidensweg
2. Nebel Über Den Urnenfeldern – Ein Riss im ewigen Kreis
3. Eternal Spell – Black Mysticism
4. Eternal Spell – Forces of Occult
5. Chiral – Queste Voci Ch’Eclissano La Luce I
6. Chiral – Queste Voci Ch’Eclissano La Luce II
Line-up: Nebel Über Den Urnenfeldern
C. – All Instruments, Vocals
Il metal occulto di scuola italiana e una consistente spruzzata di black in salsa mediterranea sono gli ingredienti di base che rendono “Cimiterivm” un gran bel disco.
La genesi dei Filii Eliae va ricercata molto indietro nel tempo: erano infatti gli anni 80 quando i fratelli Maurizio e Roberto Figliolia muovevano i primi passi nella scena metal campana con le loro band dai monicker come Mayhem ed Enslaved, che vennero poi resi famosi ad altre latitudini, .
Dopo un lunghissimo silenzio la nuova creatura, che prende il nome dalla latinizzazione del cognome dei nostri, si manifesta con l’ottimo “Qvi Nobis Maledictvm Velit”, album capace di riscuotere unanimi consensi a livello di critica.
La ritrovata vena creativa di Martirivm ed Ossibvs Ignotis (nomi d’arte adottati dai due) porta la band salernitana a produrre, a meno di un anno di distanza, un nuovo lavoro, Cimiterivm, che ne sancisce in tutto e per tutto l’innegabile valore.
Il sound dei fratelli campani, che si avvalgono al basso dell’ausilio di Vastvm Silentivm, si può definire a buona ragione come black/doom, poiché del primo assimila le ritmiche nei passaggi più veloci mentre dal secondo attinge soprattutto al suo saper essere solenne, epico e allo stesso tempo, pesante come un macigno.
Allo stesso modo non è azzardato intravvedere negli Abysmal Grief un nobile influsso per quanto riguarda i tratti più funerei dell’album, contrassegnati da un uso piuttosto simile delle tastiere, come pure un minimo debito nei confronti del maestro The Black, non fosse altro che per il ricorso ai testi in latino, anche se, va detto subito, lo stile dei Filii Eliae è molto più composito e ricco di sfumature.
Non a caso, Martirivm si rivela musicista di grande spessore sia quando tesse atmosfere macabre con le tastiere e la chitarra, con la quale si lascia andare con gradita frequenza ad assoli intrisi di melodia, sia con uno screming/growl alla Sakis, mai superfluo e sempre incisivo pur nella difficoltà di interpretare i testi nell’antica lingua.
Per capire quali siano gli intenti dei Filii Eliae basta ascoltare il primo brano, lo strumentale Introitvs, che si rivela tutt’altro che una consueta intro, costituendo invece il primo dei tre splendidi strumentali che esplicitano, senza lasciare alcun dubbio, le doti compositive ed il gusto melodico non comune della band salernitana.
La successiva title-trackè la virtuale partenza di un rituale che si snoderà tra una serie di brani avvincenti, vari e perfettamente eseguiti (anche da una sezione ritmica che svolge il suo compito in maniera essenziale ma efficace); il metal occulto di scuola italiana e una consistente spruzzata di black in salsa mediterranea sono gli ingredienti di base che rendono Cimiterivmun gran bel disco.
Tra le tracce (ognuna di eccellente livello, qui di filler non se ne parla neppure) mi sentirei di segnalare ancora la furiosa Tabvula Rasa e la migliore del lotto, Odivm Aeternvm, episodio dai ritmi che avvincono apparendo un’ipotetica e mirabile fusione tra i Rotting Christ ed i Satyricon di “K.I.N.G.” ma risultando, invece, la ciliegina sulla torta messa sull’album da una band dai tratti del tutto personali come i Filii Eliae.
Tracklist:
1. Introitvs
2. Cimiterivm
3. Cinis Cineri
4. Tabvla Rasa
5. Exeqviae
6. Plvrimvm Sangvinis
7. Ivs Vitae Ac Necis
8. Fvneralis
9. Odivm Aeternvm
10. Extrema Pars
L’ennesima prova maiuscola di una grande band, con un album inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista.
Per comprendere il valore effettivo dei Forgotten Tomb è sufficiente fare un ripasso mentale delle proprie conoscenze musicali cercando di ricordare quante siano le band che, nell’arco di oltre quindici anni di carriera ed almeno sette album all’attivo, abbiano mantenuto costantemente uno standard qualitativo così elevato.
Ben poche, immagino, e tra queste la creatura di Herr Morbid è una tra quelle che sono tutt’oggi attive senza alcuna intenzione di mollare la presa, come dimostra un lavoro eccellente come Hurt Yourself And The Ones You Love.
Come ebbi già occasione di dire in occasione del precedente “… And Don’t Deliver Us From Evil”, i Forgotten Tomb hanno cambiato pelle rispetto alle asperità degli esordi, eppure, paradossalmente, non sono mai stati pesanti come oggi, con un sound riconoscibile in ogni passaggio e capace di attingere da svariati generi mantenendo un’impronta oscura e tutt’altro che che rassicurante dalla prima all’ultima nota.
Rispetto al precedente album i brani appaiono ancor più profondi e la componente doom forse spicca come non mai nella pur abbondante produzione della band piacentina: le chitarre suonano corposamente distorte e, a tale approdo, potrebbe non essere del tutto estranea l’esperienza di Herr Morbid con i Tombstone Highway, band che lo ha visto alle prese con una formidabile proposta di southern “doomizzato”.
Non a caso i due brani che maggiormente impressionano sono proprio quelli che trasportano questo seme: prima Bad Dreams Come True, specie nella sua fase iniziale, visto che in seguito si apre ad una delle rare quanto impressionanti sfuriate di black melodico, poi soprattutto la monolitica Dread the Sundown, traccia che segna probabilmente uno dei momenti più elevati dell’intera discografia del gruppo emiliano, con il suo riff dalla pesantezza quasi estenuante che, specie nella parte conclusiva, provoca un effetto straniante difficile da spiegare se non provandolo di persona.
L’opener Soulless Upheaval, la title track, Mislead the Snakes e la più orecchiabile (relativamente, si intende) King of the Undesirables, portano al loro interno le stimmate di un sound che mai come oggi rasenta le perfezione, grazie al mirabile e graduale inserimento di elementi che lo hanno traghettato dal depressive black dei primi album fino a questa forma di metal che ne mantiene inalterato lo spirito, pur senza esibirlo in maniera cruda e diretta come avveniva al’inizio dello scorso decennio.
Il malinconico ambient di Swallow the Void mette la parola fine su un album inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista.
Fuori dai nostri confini i Forgotten Tomb ci vengono invidiati un po’ da tutti; sarebbe il momento di dimostrare finalmente che anche in Italia un numero consistente di persone è in grado di apprezzare forme artistiche più estreme, come già avviene da tempo in molti altri paesi …
Tracklist:
1. Soulless Upheaval
2. King of the Undesirables
3. Bad Dreams Come True
4. Hurt Yourself and the Ones You Love
5. Mislead the Snakes
6. Dread the Sundown
7. Swallow the Void
Due tra le migliori realtà italiane in ambito post metal vengono riunite per questo split album edito dalla Drown Within Records.
Due tra le migliori realtà italiane in ambito post metal vengono riunite per questo split album edito dalla Drown Within Records.
Dementia Senex e Sedna, band entrambe di stanza a Cesena, si sono già messe in luce nel recente passato con ottime prove: i primi con l’ep “Heartworm” del 2013, i secondi con l’album omonimo dello scorso anno che è stato considerato da gran parte della critica come uno dei migliori lavori in assoluto del 2014.
I due brani presenti nello split sono stati incisi entrambi lo scorso anno ma, mentre per i Dementia Senex si tratta di una nuova produzione successiva allo scorso Ep, per i Sedna bisogna risalire a qualche settimana prima dell’inizio delle registrazioni dell’album; inevitabilmente ciò comporta per i primi una sostanziale evoluzione rispetto a quanto prodotto in precedenza, mentre per i secondi resta ben impresso il sound che poi sarebbe confluito nel lavoro su lunga distanza.
Indubbiamente i Dementia Senex denotano una rabbia veicolata in maniera più diretta, pur senza trascurare la componente melodica, nell’ambito di una traccia come Blue Dusk che sembra spostare comunque l’asse compositiva verso un sound meno aspro, mentre l’approccio dei Sedna, che affonda maggiormente le proprie radici in una forma molto personale di black metal impastato dallo sludge e da ampie sfumature post hardcore, anche con Red Shift si dimostra in qualche modo più avvolgente pur essendo piuttosto contiguo a quello dei compagni di split.
In entrambi i casi la manipolazione della materia è di primissima qualità in maniera tale che, forse, mai prima d’oggi le due band concittadine si sono trovate così vicine anche dal punto di vista stilistico; in tal senso, se non si può fare a meno di constatare quanto l’intensità mostrata dai Sedna sia qualcosa difficilmente avvicinabile per chi si cimenta in questo genere musicale.
Nonostante ciò i Dementia Senex non escono certo ridimensionati dall’arduo confronto, confermando e rafforzando le doti messe in mostra all’epoca di “Heartworm”; va rimarcato però, a tale proposito, che dopo l’uscita dello split la band ha dovuto subire la defezione del vocalist Cristian Franchini e questo potrebbe intralciarne momentaneamente la progressione.
Detti ciò, Deprivedè un uscita di pregio che riporta l’attenzione su due band destinate a dare ulteriore lustro alla scena metal nazionale.
Tracklist:
1. Dementia Senex – Blue Dusk
2. Sedna – Red Shift
Davvero convincente questo split album che vede coinvolte due band asiatiche, gli indiani Dormant Inferno ed i pakistani Dionysus.
Davvero convincente questo split album che vede coinvolte due band asiatiche: gli indiani Dormant Inferno e i pakistani Dionysus: due realtà giovani e dalle enormi potenzialità, per di più piuttosto diverse tra loro nonostante vengano inserite entrambe nella famiglia death-doom.
Francamente sono rimasto molto impressionato dai Dormant Inferno, band che ha all’attivo un Ep (“In Sanity”) risalente al 2011; il trio di Mumbai è autore di una prova magnifica, con il picco rinvenibile nella seconda traccia Deliverance, dove viene esibita un’interpretazione del genere trascinate, melodica, ottimamente eseguita e arricchita da una versatile interpretazione vocale. Notevoli anche l’iniziale Veil of Lunacy e la perfetta rielaborazione di A Once Holy Throne, cover dei maestri statunitensi Incantation.
I pakistani Dionysius, reduci dall’Ep del 2012 “A Hymn to the Dying”, vengono parzialmente penalizzati da una produzione non all’altezza di quella che ha gratificato non poco l’operato dei compagni di split: il loro sound, però, sembrerebbe più riconducibile ad un black/death melodico alla Children Of Bodom, sia per le ritmiche più sostenute sia per lo stesso screaming del vocalist riconducibile allo stile di Alexis Laihio.
I due brani proposti, Beneath the Skies of War e Rain, sono comunque abrasivi il giusto e mettono in mostra una band preparata e dalle idee molto chiare, con l’aggiunta di una naturale predisposizione per soluzioni sonore catchy e di grande efficacia.
In sintesi: i Dormant Inferno hanno, a mio avviso, tutti i numeri per esplodere fragorosamente alla prossima occasione, mentre dai Dionysus mi aspetto quell’ulteriore salto di qualità necessario per emergere un contesto molto più affollato come quello relativo al genere da loro proposto.
Peraltro il lavoro è disponibile anche in versione limitata con un bonus CD contenente i precedenti lavori di entrambe le band: un’ottima occasione per ascoltare qualche minuto in più di buona musica e di verificare, dati alla mano, il grado di maturazione mostrato dai due gruppi nel corso di questi ultimi anni.
Tracklist:
1. Dormant Inferno – Veil of Lunacy
2. Dormant Inferno – Deliverance
3. Dormant Inferno – A Once Holy Throne (Incantation)
4. Dionysus – Beneath the Skies of War
5. Dionysus – Rain
Quella dei Negură Bunget è, oggi come ieri, musica dal respiro universale, che affonda profondamente le proprie radici nella tradizione popolare rumena.
Sarà un modo di dire abusato, ma mai come nel caso della storia recente dei Negură Bunget si può affermare a buon diritto che non tutti i mali vengano per nuocere.
La separazione, tutt’altro che indolore e priva si strascichi, verificatasi nello scorso decennio tra i componenti storici della band rumena, ha prodotto alla fine due realtà sicuramente contrapposte dal punto di vista personale ma unite da una qualità musicale non comune.
Quest’ultimo lavoro dei Negură Bunget di Negru (Gabriel Mafa) ha avuto una gestazione piuttosto lunga, se pensiamo che il precedente lavoro “Vîrstele Pămîntului” risale al 2010 ma, come spesso accade , tale attesa è stata ampiamente ripagata. L’intesa attività live intercorsa in quest’ultimo periodo, peraltro, ha consentito il consolidamento della line-up e l’ulteriore coesione dei vari musicisti, portando quei benefici che i cinquanta minuti di Tăudimostrano ampiamente.
Il primo dei lavori della prevista trilogia dedicata alla Transilvania quale simbolo di natura e spiritualità (nulla anche vedere, quindi, con le ben note leggende dalle tematiche vampiresche) possiede quasi i crismi dell’evento, tale è la peculiare qualità esibita dal combo rumeno.
Quella dei Negură Bunget, infatti, è oggi come ieri musica dal respiro universale, che affonda profondamente le proprie radici nella tradizione popolare rumena, rimodellando in maniera ispirata quelle sonorità ancestrali che non possono neppure essere definite folk nel senso più classico del termine, se non per gli l’umori di cui è intriso un brano come Împodobeala Timpului: una traccia, questa, che rappresenta una sorprendente incursione nella musica balcanica (molto meno caciarona di quella che ci viene abitualmente proposta, sia ben chiaro) ma che, non a caso, si dimostra l’episodio più debole del disco, soprattutto se rapportato alla capacità riconosciuta a Negru e soci nel portare la componente etnica del loro sound su un piano ben più elevato.
La componente black metal, comunque, è tutt’altro che scomparsa, ma, con la sola eccezione di Tărîm Vîlhovnicesc (brillante e comunque eclettica traccia che ospita alla voce Sakis dei Rotting Christ), non costituisce più la base bensì l’arricchimento di un sound che, grazie all’uso di una strumentazione estremamente variegata e al contributo di altri ospiti provenienti dai più disparati generi musicali, rende Tău uno dei migliori lavori usciti finora bel 2015, con la concreta chance di restare tale anche tra una decina di mesi.
A tale proposito, può rivelarsi fuorviante catalogare la band di Timișoara in un ambito estremo senza porre le opportune distinzioni del caso, alla luce del rischio di indurre in errore chi vi si dovesse avvicinare ignorando una parabola artistica capace di segnare gli ultimi ultimi vent’anni della musica europea in senso lato, non solo in ambito metal.
La bellezza struggente di brani come Nămetenie e Izbucul Galbenei mette subito il lavoro sui giusti binari sgombrando il campo da ogni equivoco: i Negură Bunget sono tornati per riaffermare il loro primato e la loro diversità ed il crescendo dell’opener è, a tratti, di uno splendore abbacinante.
Ma è difficile trovare un momento nel disco che non rientri in tale definizione, salvo appunto Împodobeala Timpului, non tanto per il suo valore intrinseco, quanto perché, come detto, si rivela piuttosto in contrasto con un’atmosfera complessiva che, quando non è bucolica, pervade l’intera opera con una certa aura di drammaticità. La Hotaru Cu Cinci Culmi é un’altra perla che, assieme a Curgerea Muntelui, rende la prima metà dell’album qualcosa che da tempo non era dato ascoltare; il fisiologico e leggero calo di intensità della sua seconda metà (ma le conclusive Picur Viu Foc e Schimnicește sono brani che il 90% delle band utilizzerebbe quali pietra angolare dei propri lavori) non inficia il giudizio complessivo di disco magnifico, da ascoltare più e più volte in un ambito rigorosamente silenzioso e pervaso da una pace che, forse, si può rinvenire solo se immersi nei luoghi magici evocati dai video della band.
Ennesima prova magnifica per una realtà musicale unica …
Tracklist:
1. Nămetenie
2. Izbucul galbenei
3. La hotaru cu cinci culmi
4. Curgerea muntelui
5. Tărîm vîlhovnicesc
6. Împodobeala timpului
7. Picur viu foc
8. Schimnicește
Line-up:
Negru – Drums, Percussion, Dulcimer, Xylophone, Horns
Ovidiu Corodan – Bass
Adi “OQ” Neagoe – Guitars, Vocals, Keyboards
Petrică Ionuţescu – Pan Flute, Pipes, Horns
Tibor Kati – Vocals, Guitars, Keyboards, Programing
Vent’anni di attività per i Crest Of Darkness celebrati con questo ottimo Ep.
Nell’occasione del ventennale della fondazione, i Crest Of Darkness pubblicano per My Kingdom questo Ep intitolato Evil Messiah, che si rivela un gradito cadeau per i fan della band guidata dall’immarcescibile Ingar Amlien.
In teoria non ci sarebbe molto da dire su questo lavoro della durata di poco superiore ai venti minuti, se non che qui viene offerto un black metal che, come nelle corde del musicista norvegese, fonde mirabilmente la tradizione del genere con un approccio improntato ad una certa orecchiabilità. I brani, quindi, sono delle classiche e robuste cavalcate fornite di un notevole groove oltre che di una spiccata componente death, e scorrono così in maniera piacevolissima facendo rimpiangere la brevità del lavoro. Evil Messiah, Armageddon ed Abandoned by God sono tre brani davvero ottimi, essenziali, efficaci e diretti quanto basta per farci approvare senza alcuna remora questa operazione, la cui ciliegina sulla torta è costituita dalla cover di Sick Things di Alice Coooper, resa ottimamente nel suo rivestimento estremo che non va a stravolgere del tutto la struttura melodica portante.
Ma ciò che conta di più, facendo meritare ad Amlien il plauso di ogni appassionato, è l’ennesima dimostrazione di coerenza stilistica che non deve essere intesa come mancanza di ispirazione od originalità, bensì quale esemplare prova di competenza nel maneggiare il genere, qui reso fruibile senza che venga dispersa la sua abituale aggressività.
Buon compleanno e lunga vita ai Crest Of Darkness!
Tracklist:
1. Evil Messiah
2. Armageddon
3. Abandoned by God
4. Sick Things (Alice Cooper cover)
I Cvinger si rivelano come una delle realtà più interessanti e in costante evoluzione nel panorama del black metal europeo.
Più o meno un anno e mezzo fa mi esprimevo in questi termini nei riguardi dei Cvinger, parlando del loro Ep “Monastery Of Fallen” : “Il potenziale espresso è davvero interessante, per cui appare più che lecito attendersi qualcosa di importante dal trio sloveno nell’immediato futuro”
Nel frattempo il trio è diventato un quartetto, con Obscurum a raggiungere i due fondatori Lucerus e Bagot e, inoltre, c’è stato anche un avvicendamento alla batteria, con Morgoth a sostituire Krieg Maschine; detto questo, per una volta le premesse sono state mantenute da una band alla quale era stato pronosticato un brillante futuro.
Checché ne possano pensare i soliti incontentabili, The Enthronement Ov Diabolical Souls è esattamente ciò che vorrebbe ascoltare oggi un appassionato del black più ortodosso, specie se orientato verso quello di scuola svedese: i ragazzi sloveni mettono sul piatto un album di tutto rispetto, cupo, cattivo, ottimamente suonato e prodotto, insomma ciò che serve per corrodere l’animo dei benpensanti ed evocare sentimenti morbosamente oscuri.
I Cvinger, salvo i tre brevi Chapter e le loro litanie, non indulgono in fronzoli o passaggi interlocutori: qui il black viene sparato in maniera diretta ma, nel contempo, tutt’altro che banale, visto che i brani risultano sufficientemente elaborati e per nulla scontati.
E’ evidente che la band di Domžale, per cercare di emergere dalla massa, invece di introdurre elementi innovativi nel proprio sound, ha optato invece per una sua estremizzazione, provando a risultare più violenta e corrosiva rispetto alla concorrenza, un progetto che per certi versi appare ancor più ambizioso e di difficile realizzazione che non quello di cercare strade alternative.
Per quanto mi riguarda la missione è compiuta: The Enthronement Ov Diabolical Souls è stata la colonna sonora perfetta per le mie festività natalizie, l’antidoto ideale per riuscire a sopravvivere senza restare invischiati nelle tonnellate di ipocrita melassa che ci viene scaraventata addosso ogni anno in questo periodo.
La prestazione vocale di Lucerus, capace di alternarsi tra screaming e growl sempre con esiti eccellenti, si rivela fondamentale per la resa di due brani come Reclaim the Crown, mid tempo miciadele, e Anguish in Ossuary, assolutamente travolgente con una chitarra a delineare una notevole lineaa melodica, inframmezzandola con rallentamenti mortiferi: sono questi, a mio avviso, gli episodi migliori di un album che, nel complesso, non tradisce le attese proponendo i Cvinger come una delle realtà più interessanti e in costante evoluzione nel panorama del black metal europeo.
Tracklist:
1. Chapter I: Charons Passage To The World Beyond
2. Anno Inferni
3. Summonig
4. Eikmus Manifestation
5. Bogs Of The Ancient Ones
6. Reclaim The Crown
7. Chapter II: Pass The Seventh Gate
8. Anguish In Ossuary
9. Vile Flesh
10. The Enthronement Ov Diabolical Souls
11. Chapter III: Amen II
Ottimo esordio per i polacchi Mortual: black/death, gothic e dark al servizio di un’opera sognante e di non facile catalogazione.
Siamo ormai giunti alla fine di questo anno, l’inverno si sta prendendo il suo dovuto spazio nel ciclo continuo delle stagioni, i colori si spengono, ed il buio ci accompagna attraverso i mesi più freddi: una stagione perfetta, intrisa di atmosfere plumbee che invogliano ad ascoltare opere dai connotati melanconici, introspettivi, dark.
In nostro aiuto viene l’amato mondo metallico che, con i suoi svariati generi ha di che tenerci compagnia quando le giornate si fanno corte e la tristezza accompagna la voglia di fuggire dal mondo esterno, magari ascoltando opere sognanti e malinconiche come Autumn Requiem dei polacchi Mortual.
Lavoro ambizioso quello della band di Trzebenica, un concept incentrato sulla vita e le battaglie introspettive di un poeta e, per questo, molto drammatico, operistico, e sognante.
Tutto meno che monocorde, l’album musicalmente è composto da un’ottima commistione di vari generi, dai più estremi come il black/death nelle parti più drammatiche, al gothic/dark nei numerosi ed emozionanti passaggi dove i suoni rallentano per far sognare, con ottimi interventi classici mai pomposi.
Le atmosfere cangianti rendono questo lavoro di difficile catalogazione e i brani mediamente lunghi ne fanno un disco da assaporare lentamente, per far nostre tutte le varie sfaccettature che compongono un songwriting molto maturo per una band all’esordio.
Bellissimi gli innumerevoli interventi pianistici e l’uso delle voci, che passano dal growl al recitato fino all’ottima voce femminile (Marta Wolak), elegante, delicata ed ugualmente dai tratti dark.
Continui e ripetuti cambi di tempo, danno ad Autumn Requiem quel tocco prog che alza la qualità di un lavoro davvero bello, emozionante, almeno per chi, delle atmosfere di cui è pregno il lavoro, ne apprezza l’enorme potenziale poetico, ammantato di una malinconia che, a tratti, si fa tragica come i temi di cui il giovane ed immaginario poeta si fa cruccio (amore, morte, fede).
Più di un’ora di musica che è un viaggio nell’io del protagonista ma che potrebbe benissimo essere il nostro, almeno quello di chi ha la sensibilità di confrontarsi con argomenti troppe volte lasciati in sospeso per rincorrere la vita di tutti i giorni, lasciando la nostra vera essenza in balia dei mille problemi di una vita spesso fatta di una superficialità esasperante.
Tra i brani, magnifici risultano i sedici minuti di The Crucible: Prologue, Rainy Ballad e la lunghissima ed affascinante title-track; l’intero album si rivela comunque di assoluto livello ed i Mortual sono decisamente una band dalle potenzialità enormi, migliorabile forse nelle parti più tirate, ma perfetta in quelle atmosferiche.
Fatevi un favore, ascoltateli.
Tracklist:
1. Lisa’s Memory
2. Anhedonia
3. My Apocalypse
4. The Crucible: Prologue
5. Rainy Ballad
6. Lullaby of the Damned
7. Lethargy
8. Autumn Requiem
Line-up:
Michal Zuk – Drums, Tambourine, Glasses, Seashells (Track 4; Scene III, Tracks 6,8)
Wojtek Michalowski – Vocals, Keyboards
Piotrek Bocian – Guitars, Bass
Czarek Michalkiewicz – Guitars
Marta Wolak-Female – Vocals
I Lilyum preferiscono essere piuttosto che apparire e questo loro quinto album convince per l’adesione ad uno stile consolidato ma reso affascinante da un’interpretazione sentita e personale
I Lilyum sono parte integrante dello zoccolo duro del black metal, quello fatto di sonorità dirette, ritmiche veloci, suoni crudi e privi di particolari fronzoli, il tutto inserito in un contesto pervaso da un’aura fortemente oscura e misantropica.
Per molti questo può costituire un limite dovuto alla riproposizione di sonorità indubbiamente datate, ma molto più prosaicamente ritengo che la musica debba trasmettere qualcosa all’ascoltatore e ciò va ben oltre gli stili e gli spunti innovativi.
Sperimentare senza andare in una direzione precisa è inutile e talvolta serve solo per gettare fumo negli occhi e mascherare persino carenze tecniche o compositive; molto meglio, allora, fare nel migliore dei modi musica priva di particolari sorprese, ma proposta con competenza e con la giusta attitudine. I Lilyum preferiscono essere piuttosto che apparire e questo loro quinto album convince per l’adesione ad uno stile consolidato ma reso affascinante da un’interpretazione sentita e personale, capace di regalare brani trascinanti come Dark Holocaust e Veins Of Stone, senza dimenticare una traccia più avvolgente, con i suoi ritmi meno parossistici, come la title-track; Kosmos Reversum e Lord J. H. Psycho svolgono il loro lavoro in maniera ottimale, mentre Xes (vocalist anche dei potentini Infernal Angels) fornisce un minimo elemento di discontinuità rispetto agli stilemi del genere rinunciando all’abusato screaming e optando invece per un efficacissimo growl. Alla fine qualcuno si potrà chiedere se sia utile pubblicare oggi lavori con queste caratteristiche: la mia risposta è sì, perché il valore di un album non si misura con un ipotetico “novitometro” bensì attraverso ben altri parametri, gran parte dei quali ovviamente del tutto soggettivi, come lo è per esempio il fatto che io consideri tempo decisamente ben speso quello impiegato per ascoltare Glorification Of Death …
Tracklist:
1. Transgressus Absconditus / Through Gateways Unseen
2. Christ Will Fall
3. Mater Pestis
4. Dark Holocaust
5. Glorification of Death
6. Veins of Stone
7. Torchbearer of the Cadaverous Dawn
8. Extinction
9. Necrosis
10. Todessendung 013
Line-up:
Kosmos Reversum – Guitars, Percussion, Programming
Lord J. H. Psycho – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards
XeS – Vocals
Ciò che stupisce in “Cromagia” è un senso melodico che non viene mai meno,trasformandosi nel vero filo conduttore di un lavoro che è spettacolare tanto musicalmente quanto a livello lirico.
Il terzo album degli In Tormentata Quiete si rileverà una delle consuete croci per chi tenta chi catalogare la musica come se si trattasse di riordinare dei libri in una biblioteca, rispettando un rigoroso ed ineluttabile ordine alfabetico.
L’ensemble bolognese, ed è questo ciò che conta, regala l’ennesima perla di una carriera che, come spesso accade dalle nostre parti per chi tenta di fare musica nella sua accezione artistica più elevata, è destinata più allo status di culto che non a quello di realtà di successo.
Del resto, non credo che gli In Tormentata Quiete si siano mai posti prioritariamente quest’ultimo obiettivo, soprattutto operando e vivendo in un paese come l’Italia nel quale se non appari non esisti e dove, se proponi musica che costringe ad essere ascoltata e non semplicemente sentita, sei irrimediabilmente destinato a restare nel cuore di pochi fortunati.
All’interno di Cromagiapossiamo trovare folk, prog, black e cantautorato italiano, una ricetta che parrebbe, messa giù così, dannatamente intricata, eppure tutto scorre senza che nessuna di queste componenti prevarichi mai l’altra, stupendo per l’equilibrio raggiunto, quasi come quando si osservano quei folli funamboli che attraversano i canyon camminando su una sottile fune tesa sopra baratri profondi centinaia di metri …
Per una volta mi trovo piuttosto d’accordo con le note di presentazione, nelle quali si accenna a nomi quali Solefald, Ulver e Devil Doll, riferimenti che, francamente, potrebbero risultare controproducenti al momento del dunque: nonostante ciò i nostri si rivelano del tutto degni, se non proprio a livello di sonorità sicuramente per attitudine, dell’accostamento a questo manipolo di geniali sperimentatori.
Ciò che stupisce ulteriormente, con tali premesse, è un senso melodico che in Cromagianon viene mai meno, trasformandosi nel vero filo conduttore di un lavoro che è spettacolare tanto musicalmente quanto a livello lirico, con il suo concept incentrato sulle emozioni ed i sentimenti associati ai singoli colori.
L’intreccio vocale è un ulteriore aspetto capace di elevare gli In Tormentata Quiete sul resto della concorrenza: due voci pulite, l’una maschile, l’altra femminile, si scambiano continuamente i ruoli “disturbate” da uno screaming acido che opera per lo più con la funzione di controcanto, quasi a voler sporcare, con le sue efferate incursioni, quelle tessiture melodiche che, a lungo andare, si insinuano nella mente e nel cuore di chi ascolta.
Bastano dodici minuti, quelli nei quali si sviluppa l’accoppiata iniziale Blu / Il Profumo del Blu, a chi non avesse mai ascoltato una nota degli ITQ, per capire d’essere al cospetto di una realtà unica nel panorama italiano e per attendersi ulteriori meraviglie sonore (tra le quali spiccano l’elegia di Verde ed il black/folk di La Carezza Del Giallo) nel corso dei restanti tre quarti d’ora.
Ma, intanto, il destino di talenti trasversali come questi è quello d’essere capiti da pochi: troppo colti per chi ha bisogno di musica usa e getta, troppo metallici per i tolemaici del progressive (mi pare di sentirli “ …. ah, quella voce gracchiante …”), troppo melodici per i metallari, infine troppo superiori alla media per poter diventare, anche solo per sbaglio, un fenomeno di massa.
Quei pochi che, appunto, non si sono mai adeguati al minimalismo spastico degli sms e riescono a leggere almeno tre righe di una mail senza avvertire un calo di attenzione, provino a dare una chance agli In Tormentata Quiete …
Tracklist:
1. Blu
2. Il Profumo del Blu
3. Rosso
4. Il Sapore del Rosso
5. Verde
6. Il Sussurro del Verde
7. Giallo
8. La Carezza del Giallo
9. Nero
10. La Visione del Nero
11. InVento
Line-up:
Maurizio D’Apote – Bass
Francesco Paparella – Drums
Lorenzo Rinaldi – Guitars
Antonio Ricco – Keyboards
Marco Vitale – Vocals (harsh)
Irene Petitto – Vocals
Simone Lanzoni – Vocals
Al quinto album di una discografia che negli anni non ha accusato alcuna caduta di tono, Cadaveria con la sua band continua a regalare opere oscure con disarmante naturalezza.
Torna la regina del metal estremo, Cadaveria, con la sua band omonima.
Ormai lontani gli esordi con gli Opera IX, la vocalist dal 2002, anno dell’esordio (“The Shadow’s Madame”) con il progetto a suo nome, continua imperterrita a sfornare opere di metallo estremo dalle sfuriate black e fascino gotico di assoluta qualità, ed il nuovo parto dal titolo Silencenon tradisce le attese, confermando la band biellese come una delle realtà più floride del panorama nazionale nonché una tra le più conosciute anche fuori dai patri confini.
Al quinto full-length di una discografia che negli anni non ha accusato alcuna caduta di tono, il gruppo continua a regalare opere oscure con disarmante naturalezza, ormai modello per qualsiasi giovane band si avvicini al genere, capitanata dalla regina nera sempre in piena forma. Silence offre quanto di meglio la band poteva donare ai propri fan, rivelandosi un album sempre in bilico tra gotiche atmosfere, cavalcate death/black e sfuriate thrash, il tutto sostenuto da emozionanti ed oscuri passaggi, nei quali cala la violenza ma nel contempo l’aria si fa gelida e i brividi fanno tremare corpi e menti, tale è il clima orrorifico che si respira tra i solchi di queste nuove undici canzoni. Cadaveria è sempre qui, tra un growl da strega malefica ed ambigue parti nelle quali le nenie terrorizzano ancora di più: spettacolare nella sua teatralità, rende questo viaggio nel mondo oscuro un incubo dal quale, però, non ci si vuole svegliare, ammaliati, affascinati, ipnotizzati come in un incantesimo da tanto malefico rituale.
I musicisti che accompagnano la singer, formano come sempre un team ultravincente, con la sezione ritmica composta da Killer Bob al basso e Marcelo Santos (ovvero Flegias dei Necrodeath) alla batteria, perfetti dove le ritmiche accelerano vertiginosamente, e la coppia d’asce Frank Booth e Dick Laurent i quali, ispiratissimi, sono protagonisti di una prova spettacolare colmando di solos melodici e riffoni thrash il sound dell’album.
Ottimamente prodotto, Silenceregala perle di metallo oscuro come Carnival Of Doom e Free Spirit, e va in crescendo con il passare dei minuti, regalando il meglio di se nelle ultime tre tracce, Almost Ghostly, Loneliness e Strangled Idols, in un’orgia di suoni estremi ed atmosfere dark davvero da antologia.
Un album che conferma il talento di Cadaveria e dei suoi degni compari, tornati per riprendere il trono tra le band del genere ed il ruolo di guida ed influenza per qualsiasi realtà nostrana che voglia approcciarsi al metal più oscuro.
Tracklist:
1. Velo (The Other Side of Hate)
2. Carnival of Doom
3. Free Spirit
4. The Soul That Doesn’t Sleep
5. Existence
6. Out Loud
7. Death, Again
8. Exercise1
9. Almost Ghostly
10. Loneliness
11. Strangled Idols
Line-up:
Cadaveria – Vocals
Killer Bob – Bass
Marcelo Santos – Drums
Frank Booth – Guitars
Dick Laurent – Guitars
“Where The Mountains Pierce The Nightsky” è un’operazione decisamente riuscita, che può rivelarsi utile per provare a far conoscere ad ancor più persone questi due progetti guidati da musicisti dotati di una sensibilità compositiva non comune.
HaatE e Chiral sono i progetti solisti di due musicisti italiani che dovrebbero essere già conosciuti a chi si aggira su queste pagine, visto che abbiamo avuto occasione di commentare nei mesi scorsi i loro recenti lavori.
Ben venga, quindi, questo split album che consente in un sol colpo di ascoltare due realtà differenti ma ugualmente contigue, più orientata verso un dark/ambient la prima e catalogabile come black atmosferico la seconda.
Per l’occasione i due sfruttano in parte il materiale già edito: HaatE, infatti, ripropone la splendida Crystal e la prima parte di As The Moon Painted Her Grief, tratte dall’omonimo album, regalando comunque una buona traccia inedita quale The Crystal Pathway, mentre Chiral, di fatto, rielabora in maniera decisamente interessante alcuni dei temi già proposti in “Abisso”, presentandoli in una sola lunga traccia di venti minuti intitolata Everblack Fields of Nightside.
Appare inevitabile, quindi, parlare positivamente di questi due musicisti, sia per la qualità del loro operato, ribadita in quest’occasione, sia per la tenacia e la convinzione con la quale cercano di proporre al pubblico generi musicali sicuramente non per tutte le orecchie .
Per HaatE c’è la conferma di un modus operandi molto vicino a nomi quali Lustre o i Wolves In The Throne Room sperimentali dell’ultimo “Celestite”, mentre Chiral mostra un volto più atmospheric/ambient riducendo di molto rispetto ad “Abisso” la componente estrema del suo sound, quasi in ossequio al compagno di split e, soprattutto, ad un concept che viene ben rappresentato da queste due diverse entità: se la prima parte (HaatE) verte sul viaggio di un essere spirituale, la seconda (Chiral) narra del peregrinare terreno di una creatura mortale ma, per entrambe, nonostante diverse finalità e modalità, la fine del percorso coincide con il termine dell’esistenza. Where The Mountains Pierce The Nightsky è un’operazione decisamente riuscita, che può rivelarsi utile per provare a far conoscere ad ancor più persone queste due realtà musicali guidate da musicisti dotati di una sensibilità compositiva non comune.
Tracklist:
HaatE
1. The Crystal Pathway
2. Crystal
3. As The Moon Painted Her Grief
Questo è un disco che non vi farà stare meglio e non potrà consolarvi mentre state male, è sale sulle ferite, è un dolore lento ed insinuante che vi penetra in profondità senza lasciarvi requie.
Se il nome della band prende spunto da Sedna, dea del mare per gli Inuit, raffigurata nella copertina di questo debutto omonimo, mi piace pensare che ci possa essere in parte anche un rifermento al planetoide di scoperta relativamente recente, al quale è stato attribuito questo stesso nome e che compie un’orbita ellittica attorno al Sole impiegandoci circa 11.000 anni.
La musica dei Sedna, in fondo, ben rappresenta la furia della dea ma si nutre anche dell’inquietudine provocata dalla comparazione tra la nostra limitata permanenza su questo pianeta ed il moto pressoché eterno di tutti i corpi celesti, in quello spazio sterminato che ogni uomo è incapace di immaginare senza restare schiacciato dalla propria insignificanza.
Il black/sludge metal della band romagnola è l’ideale colonna sonora del tormento, del disorientamento, con le sue sfuriate alternate a momenti di calma che sottendono quasi sempre una riesplosione di riff violenti, di urla impietose che vanno ad infrangersi nella nostra incapacità di comprendere tutto ciò che è incommensurabilmente più grande di noi.
Questo è un disco che non vi farà stare meglio e non potrà consolarvi mentre state male, è sale sulle ferite, è un dolore lento ed insinuante che vi penetra in profondità senza lasciarvi requie.
Proprio quando il chiodo conficcato nella carne pare essersi arrestato nel suo tentativo di farsi ulteriore spazio, arriva in Life _ Ritual la voce dell’ospite Stefania Pedretti, sorta di Diamanda Galas portata alle estreme conseguenze, a far ripiombare nella più cupa alienazione anche l’ascoltatore più disincantato.
A parte quest’episodio a sé stante, i tre Sons(Of The Ocean, Of Isolation, Of The Ancients) sono brani di un’intensità difficilmente descrivibile, nei quali le rare aperture melodiche sono l’ultimo vano respiro per chi sta annegando o l’illusoria visione di un’oasi per chi si è perso nel deserto.
Certo, questo genere musicale ad alcuni potrà anche apparire ripetitivo e privo di sbocchi, ma tutto sta nell’avere ben chiaro cosa si vuole ascoltare dalle band alle prese con queste sonorità; per quanto mi riguarda, ciò che propone il trio cesenate con questo suo primo passo su lunga distanza, è esattamente ciò che serve per intraprendere un opprimente viaggio nelle più recondite profondità, che siano queste rappresentate da abissi oceanici oppure da quelle ben più perigliose della psiche umana, poco importa: i Sedna hanno meravigliosamente assolto a questo loro compito.
Tracklist:
1.Sons of the Ocean
2.Sons of Isolation
3.Life _ Ritual
4.Sons of the Ancients
L’ultimo disco dei Betlehem, pur non essendo imprescindibile, mostra un progresso rispetto al materiale più recente pubblicato dalla storica band tedesca.
Nell’ascoltare il settimo album dei Bethlehem, a vent’anni di distanza esatti dall’esordio “Dark Metal”, non si può fare a meno di cogliere quanto la band tedesca abbia mutato nel frattempo le proprie coordinate stilistiche.
Il black-doom degli esordi è lontano nel tempo ma è anche vero che, paradossalmente, il sound ha subito gran parte delle proprie mutazioni nel corso del primo decennio, mentre il gap stilistico tra l’ultimo full-length originale (“Mein Weg”, del 2004) e quest’ultimo parto è decisamente più ridotto, non volendo tener conto della breve parentesi di fine decennio con Kvarforth al microfono, culminata con la controversa riedizione del “S.U.I.Z.ID. album” e il successivo rigurgito black dell’Ep “Stönkfitzchen”. Hexakosioihexekontahexaphobiaè un disco che mostra sicuramente un volto più raffinato e maturo dei Bethlehem: infatti, qui il leader e unico superstite della formazione originale, Jürgen Bartsch, si preoccupa soprattutto di presentare, assieme alle immancabili tracce dai tratti sperimentali, brani soprattutto in grado di catturare l’attenzione senza sforzi sovrumani da parte degli ascoltatori.
Questo almeno è quanto avviene per le prime due tracce (Ein Kettenwolf greint 13:11-18 e Egon Erwin’s Mongo-Mumu), all’insegna di un dark metal piuttosto sinuoso che l’idioma tedesco rende ancor più decadenti nel loro incedere, ma indubbiamente è il quarto brano, Gebor’n um zu versagen, che si candida come uno dei picchi dell’album, grazie ad un refrain decisamente azzeccato. Nazi Zombies mit Tourette-Syndrom (titolo notevole), riporta la band su territori sperimentali con risultati altalenanti, mentre Spontaner Freitod, dopo un furioso avvio, si trasforma ben presto in un limaccioso brano dai tratti doom.
La bella ed evocativa Höchst alberner Wichs riporta l’album ad un sound in linea con la sua parte iniziale, e l’azzeccato strumentale Ich aß gern’ Federn e la più intimista Letale Familiäre Insomnie confermano la bontà di tale scelta.
Dopo una non troppo efficace Kinski’s Cordycepsgemach, è Antlitz eines Teilzeitfreaks che ha il compit di chiudere un album che sicuramente trae giovamento dalla buona prestazione vocale di Guido Meyer de Voltaire, valido sia nelle parti pulite sia in quelle “harsh”
In definitiva, quando una band, che in passato ha fatto dell’originalità della proposta il proprio vessillo, risulta più convincente proprio nella parti maggiormente fruibili è inevitabile porsi qualche domanda ma, come detto in fase di introduzione, proprio la maturità esibita dal trio finisce per compensare, senza però riuscire a rimpiazzarla, la carica innovativa degli esordi facendo sì che, in effetti, i brani più ambiziosi ed intricati nella loro costruzione alla fine risultino soprattutto cervellotici.
In questo senso l’assimilazione del lavoro non viene agevolata da una durata che supera l’ora, anche se nel complesso si può affermare che Hexakosioihexekontahexaphobianon è certo un disco deludente e, in ogni caso, mostra un passo avanti rispetto al materiale più recente pubblicato dai Bethlehem.
Buono, ma non imprescindibile, quindi, con nota di demerito per una copertina francamente insulsa oltre che di pessimo gusto …
Tracklist:
1. Ein Kettenwolf greint 13:11-18
2. Egon Erwin’s Mongo-Mumu
3. Verbracht in Plastiknacht
4. Gebor’n um zu versagen
5. Nazi Zombies mit Tourette-Syndrom
6. Spontaner Freitod
7. Warum wurdest du bloß solch ein Schwein?
8. Höchst alberner Wichs
9. Ich aß gern’ Federn
10. Letale familiäre Insomnie
11. Kinski’s Cordycepsgemach
12. Antlitz eines Teilzeitfreaks
Line-up:
Jürgen Bartsch – Guitars, Electronics, Bass, Keyboards
Florian “Torturer” Klein – Drums, Samples
Guido Meyer de Voltaire – Vocals, Bass
Musica oscura,adulta, i Necroart ci consegnano un album da ascoltare senza riserve, per i fans di Sadness,Samael e My Dying Bride.
Fautori di un metal estremo che negli anni novanta spopolava, i Necroart arrivano al terzo full-length di un percorso artistico iniziato all’alba del nuovo millennio, che li ha portati a licenziare tre demo nei primi quattro anni e due album, “The Opium Visions” nel 2005 e “The Suicidal Elite” nel 2010. Lamma Sabactani punta su un sound più diretto e aggressivo, pur mantenendo le coordinate stilistiche del combo lombardo, votate ad un dark metal doom, a tratti progressivo e dalle sfuriate black, oscuro e malato, una manna per i fan orfani di tali sonorità che, diciamolo, ridicolizzano tante gothic band di questi anni, con i loro suoni puliti e dalle belle fanciulle in copertina ma, in quanto ad attitudine, neanche paragonabili a gruppi come i Necroart.
Iniziando dalla copertina, di una semplicità pari ad un impatto blasfemo disarmante, la band vomita suoni oscuri e voci malate dall’impatto dark e scream di matrice black che si rincorrono su tutto l’album, le melodie toccano emozioni ormai sopite, travolte dai suoni bombastici di questi ultimi anni, come solo le grandi band di metà anni novanta sapevano regalare, ancora influenzate dal dark ottantiano e dal doom/death. E’ un piacere riscoprire tra i solchi della title-track, di Agnus Dei, di Redemption, echi dei Sadness di “Ames De Marbre” e “Danteferno”, il dark doom dei My Dying Bride e le sfuriate black dei primi Samael; teatrali e malvagiamente neri come la pece, i brani di questo album conquistano fin da subito, anche per una vena progressive che rende il tutto molto maturo. Con la loro musica oscura e adulta, i Necroart non scherzano e ci consegnano un lavoro da ascoltare e far vostro senza riserve, degni eredi di un modo di suonare musica estrema che continua ad affascinare, in barba alle mode dettate dalle regole del mainstream!
Tracklist:
1. Lamma Sabactani
2. Magma Flows
3. The Demiurge
4. Agnus Dei
5. Redemption
6. Joining the Maelstrom
7. Stabat mater
8. Of Ghouls, Maggots and Werewolves
9. Cyanide and Mephisto
Quarto album a base di bombardamenti death/black/thrash da parte del progetto solista dell’australiano Disaster.
Attivo dal 2002, questo progetto del polistrumentista australiano Disaster (vero nome Louis Rando, conosciuto anche come drummer degli Impiety), continua a martellare arrivando con Impending Revelation al quarto album, niente male per un musicista che con il monicker The Furor, dal 2004, anno di uscita del debutto “Invert Absolute”, mantiene con coerenza le coordinate stilistiche di un black/death devastante.
“Advance Australia Warfare” del 2005, “Assault By Fire”, Ep del 2008, “War Upon Worship del 2011 e l’altro Ep “Sermon of Slaughter” di due anni fa completano la discografia precedente di questo demonio dalle mille risorse.
Niente di inascoltato, ci mancherebbe, ma il nuovo disco in quanto ad impatto non ha nulla da invidiare a nessuno, travolgendo l’ascoltatore dall’inizio alla fine senza soluzione di continuità, rivelandosi un monumento al death/black con l’aggiunta di mitragliate thrash che spazzano via con inumana violenza tutto ciò che gravita attorno.
Davvero bravo il musicista di Perth con tutti gli strumenti, ma ovviamente in particolare alle pelli, dove risulta una macchina da guerra spaventosamente efficace; molto valido anche lo scream da vocalist di vaglia, assolutamente sul pezzo ad ogni passaggio vomitando odio apocalittico e disprezzo verso tutto e tutti.
Le influenze maggiori vanno ricercate nei primi Slayer, Destruction e nelle band old school dei generi estremi come Deicide e Darkthrone, per una miscela esplosiva di suoni estremi dall’impatto immane, foriera di distruzione e di guerra totale.
Per gli amanti delle band sopra indicate il disco è assolutamente consigliato, unico neo il songwriting che, alla lunga, risulta monocorde: si astenga dunque chi non è amante di queste sonorità, anche se brani spaccaossa come Inferno Fortification, Seven Trumpets, Black Sorcerer of Sadism e la cover slayeriana Show No Mercy sono vere chicche per gli amanti dei generi suonati a cavallo tra gli anni ottanta e il decennio sucessivo.
Tracklist:
1. Hammer Hierarchy
2. Inferno Fortificaion
3. Summoned Obscurity
4. Seven Trumpets (Ceaseless Armageddon)
5. Corpse Eclipse
6. Diabolic Liberation
7. Black Sorcerer of Sadism
8. Show No Mercy
9. The Pentagram Prevails