Sono le band come i Zaraza a riportare lodevolmente la barra verso quella che è la concezione più autentica di un genere che non può essere certo rivolto alle masse.
I Zaraza sono un nome relativamente conosciuto all’interno della scena industrial metal, in virtù anche di una loro militanza che è ormai vicina ai quindici anni.
Dopo oltre un decennio di silenzio il duo formato dal canadese Brian Meagher e dal polacco Jacek Furmackewicz torna a farsi risentire con Spasms of Rebirth, un album che non mostra cedimenti od ammiccamenti commerciali di sorta, ma semmai il contrario, spingendo il sound a livelli piuttosto ostici per chi oin frequenta con assiduità il genere.
La componente doom è sempre ben presente, come ottimamente evidenziato in Maskwearer, nell’ossessiva Inti Raymi e nella impietosa Roadkill to You, mentre l’industrial monolitico ed incompromissorio ben si sviluppa nell’opener Church of Gravity e in Blood.ov.Psychiatrists, prima che la conclusiva Wulkan, declamata in lingua madre da Jacek, si erga a sorta di manifesto sonoro degli attuali Zaraza, autori di un ritorno tutt’altro che superfluo nel suo essere del tutto aderente ai dettami dell’industrial più genuino e disturbante. Spasms of Rebirth indica una strada tortuosa e irta di spine per chi vuole dedicarsi all’industrial inteso nel suo significato più autentico e non quale pretesto per conferire un’aura sperimentale o avanguardista a suoni più urticanti nella forma che nella sostanza.
In questo caso, sono le band come i Zaraza a riportare lodevolmente la barra verso quella che è la concezione più autentica di un genere che non può essere certo rivolto alle masse.
Tracklist:
1. Church of Gravity
2. Maskwearer
3. Inti Raymi
4. Blood.ov.Psychiatrists
5. Roadkill to You
6. Wulkan
Line-up:
Jacek Damaged – vox, guitars, bass, programming
Brian Damage – keyboards, samplers, vocals
Synaptic Veil è un’opera varia e matura, nella quale i meandri del doom più estremo e nel contempo atmosferico vengono esplorati senza nessuna remora ma con i giusti dosaggi, passando da attimi più eterei ad altri intrisi di ineluttabile dolore.
Tre anni dopo l’esordio su lunga distanza, intitolato The Bearer of All Storms, ritornano i rumeni Descend Into Despair con il loro funeral/death doom melodico ed atmosferico.
Parlando del precedente lavoro, all’epoca della sua uscita ero rimasto perplesso su alcune scelte effettuate dai ragazzi di Cluj-Napoca, in particolare quella di riversare su disco una mole esorbitante di materiale, finendo per diluire quanto di buono era stato possibile riscontare tra le righe di un songwriting ancora relativamente acerbo: ebbene, il valore del nuovo album dimostra nel migliore dei modi che, quando c’è il talento, bisogna solo dare tempo al tempo perché questo si manifesti compiutamente. Synaptic Veil è infatti un’opera varia e matura, nella quale i meandri del doom più estremo e nel contempo atmosferico vengono esplorati senza nessuna remora ma con i giusti dosaggi, passando da attimi più eterei ad altri intrisi di ineluttabile dolore, grazie ad un lavoro chitarristico prezioso, esaltato per di più dal lavoro in studio affidato alle mani del musicista rumeno più noto nel settore, ovvero Daniel Neagoe (Eye Of Solitude, Clouds).
Il passaggio anche al microfono di Xander (che come chitarrista ha prestato i suoi servigi sugli ultimi due album dei Deos del duo Dehà/Neagoe, tanto per chiudere il cerchio) costituisce un ulteriore e decisivo passo avanti, visto che il suo growl è pressoché all’altezza di quello del suo connazionale ed anche le clean vocals convincono senza apparire mai forzate.
Con tutti questi ingredienti, Synaptic Veilsi rivela così un album superbo, che va elaborato con la giusta pazienza per consentire all’ascoltatore d’essere annichilito dalla dolente bellezza di brani come Alone with My Thoughts e Demise, con quest’ultima vero fulcro del lavoro in virtù di quasi un quarto d’ora in cui i Descend Into Despair esprimono lo stato dell’arte del genere, edificando un monumento di rara intensità e malinconico abbandono.
Momenti acustici, spunti corali e stupende melodie chitarristiche, che spesso vanno in crescendo nella parte finale dei brani, rappresentano in questo l’ideale per l’appassionato del genere che non verrà deluso neppure dalla profondità delle liriche, tutte opera del vocalist e già brillanti in The Bearer of All Storms, ulteriore punto di forza della band nel loro tentativo di sviscerare le complessità e le contraddizioni della psiche umana. Synaptic Veil consacra i Descend Into Despair come nuova e splendente realtà, espressione di un movimento metal underground rumeno che brulica di band di eccellente livello.
Tracklist:
1. Damnatio Memoriae
2. Alone with My Thoughts
3. Demise
4. Silence in Sable Acrotism
5. Tomorrow
La musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre.
Pochi mesi dopo l’ottimo ep Takituum Tootem, ecco giungere l’atteso nuovo full length dei The Ruins Of Beverast.
Alexander Von Meilenwald, il musicista tedesco che è dietro questo progetto, prosegue con questo suo quinto lavoro su lunga distanza l’opera di consolidamento di uno status derivante da un’espressione stilistica peculiare ed in costante evoluzione.
Rispetto all’ep vengono mantenuti i riferimenti etnici riferiti alla cultura dei nativi americani, che in più di un brano si manifestano tramite invocazioni rituali e vocalizzi femminili, il tutto all’interno di una struttura definibile black/doom solo per consentirne un’approssimativa identificazione.
In realtà, la musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre, in virtù di una capacità si scrittura non comune che consente a Von Meilenwald di piazzare, in ogni traccia, passaggi chiave capaci di attrarre fatalmente l’attenzione avvinghiando l’ascoltatore senza alcuna remissione.
Ne è l’esempio più eclatante la lunga title track posta in apertura, magnifico viaggio rituale di oltre un quarto d’ora nel quale le ossessive note in sottofondo si ripetono come un mantra, mentre la musica fluttua sovrapponendosi a voci salmodianti o a quella più canonica dell’autore, che invece in altri frangenti dell’album esibisce tonalità in scream e un growl.
Il resto di Exuvia si dipana così tra sentori sperimentali, sprazzi industriali, dissonanze che difficilmente si dissolvono in melodie compiute ma che mantengono sempre elevatissimo il carico di tensione, spingendosi oltre l’ora di durata, un qualcosa di molto vicino ad un suicidio artistico per chiunque non fosse in grado di esibire la stessa chiarezza d’intenti del musicista di Aachen .
L’album va ascoltato uscendo dalla logica del track by track, perché ne verrebbe sminuito l’impatto avvolgente, ed arrivare alla nuova versione di Takitum Tootem!, posta in chiusura, risulterà impegnativo quanto gratificante.
Così, come l’exuvia (l’esoscheletro abbandonato da diverse specie di crostacei, insetti e aracnidi dopo la muta), la musica targata The Ruins Of Beverast si trasforma dopo ogni ascolto in un involucro testimone di un estro compositivo che, nello stesso momento in cui viene rilevato si sta già trasferendo altrove, pronto ad mostrare ulteriori e visionari bagliori creativi.
Tracklist:
1.Exuvia
2.Surtur Barbaar Maritime
3.Maere (On A Stillbirth´s Tomb)
4.The Pythia´s Pale Wolves
5.Towards Malakia
6.Takitum Tootem (Trance)
The Second Fall si presenta come un’opera che senza tanti fronzoli ci investe dal primo minuto, travolgendo con il suo sound che esplode in riff potentissimi, brani influenzati dall’heavy metal classico e lenti rituali doom.
Religione e mitologia, oscure credenza ed altari musicali innalzati al doom metal classico: l’heavy metal continua malgrado le molte influenze ed ispirazioni moderniste ad essere la musica malvagia, epica e declamatoria per eccellenza.
Nella scena metal greca non sono poche le band devote alla musica del destino e gli ateniesi Mahakala sono una delle migliori proposte: il loro heavy doom metal, oltre ad essere pregno di atmosfere sabbathiane, porta in sé una forte componente heavy, così da creare un sound monolitico, epico e a tratti sconvolto da cavalcate devastanti.
Attivo dal 2005, il quartetto porta in dote un ep, un demo, la partecipazione ad un tributo agli Iron Maiden ed il primo full length uscito nel 2013 ed intitolato Devil’s Music. The Second Fall si presenta come un’opera che, senza tanti fronzoli ci investe dal primo minuto, travolgendo con il suo sound che esplode in riff potentissimi, brani influenzati dall’heavy metal classico e lenti rituali doom, con lente discese nel metal liturgico di Black Sabbath e Candlemass.
Lo zio Ozzy a suo tempo si è impossessato dell’anima di Jim Kotsis, bassista e cantante a tratti dalla tonalità vocale molto vicino al sacerdote sabbathiano, mentre la musica si riempie di malvagia epicità.
Non lontano (anche se il concept è molto diverso) dai Grand Magus, il gruppo è riuscito a creare un album fresco, godibilissimo nella sua potenza, mentre oltre al gran lavoro del singer, non mancano appalusi per le due chitarre (Chris Vlachos e John T.), puro acciaio fuso sull’altare del metal.
Da segnalare Sakis Tolis dei Rotting Christ ospite sulla granitica Wrath Of Lucifer (Infidels) e le bellissime Redemption Denied e Better to Reign in Hell (Than Serve in Heaven), doom metal song tra Candlemass e Trouble e picco qualitativo dell’album. The Second Fallrisulta così un altro gioiellino in arrivo dalla scena metal greca, consigliato agli amanti delle bands citate.
TRACKLIST
1. Army of the Flies
2. Redemption Denied
3. Purgatorium
4. Better to Reign in Hell (Than Serve in Heaven)
5. Darkness in Their Eyes
6. Wrath of Lucifer (Infidels) [feat. Sakis Tolis of Rotting Christ]
7. Unholy Fight
8. Blessed Are the Dead
9. War Against Mankind
LINE-UP
Jim Kotsis – bass, vocals
John Tsiakopoulos – guitars
Mikko Chris Vlachos – guitars
hector.d – drums
Interessante e molto ben riuscito blend di dark folk,doom e ambient che ci riporta indietro nel tempo,alle radici di un suono.
Molto, molto interessante e affascinante il secondo lavoro dei Völur, trio canadese di Toronto, dedito a un blend di folk ancestrale, doom, ambient assai intenso e ricco di sfumature.
La loro peculiarità si accentua ulteriormente visto che nel loro suono non è prevista alcuna chitarra, ma il tutto si dipana tra un suono di basso che si divide tra ruoli melodici e ritmici, un drumming lento ed evocativo e il violino che modula una moltitudine di ambientazioni, sfiorando anche la “chamber music”, che variano dal pastorale all’ancestrale creando atmosfere di pace e serenità, increspate da momenti di furore in cui emerge tutta l’oscurità e la drammaticità dei loro testi.
Questo Ancestors è il secondo capitolo di una serie di quattro opere incentrate sul vecchio mondo spirituale germanico ; il suono si dipana lento, oscuro, contemplativo in quattro lunghi brani in cui i tre musicisti intrecciano i loro strumenti per creare una miscela antica, che riporta alle origini di certo suono doom (non metal) in cui la potenza e la contemplazione convivono;
E’ come se un vecchio mondo magico tornasse alla luce dopo essere stato oscurato dalla nebbia del tempo; i suoni dell’ opener Breaker of Silence profumano all’ inizio di sapori antichi, polverosi per poi aprirsi, dopo una memorabile frase di basso, in tutta la loro suggestiva potenza: l’ultimo brano, Breaker of Famine, aggiunge anche vocalità black che accentuano la oscura tavolozza dei “colori” di questa opera.
Come sempre ripetuti ascolti giovano all’“innamoramento” di un disco che, forse, avrebbe dovuto essere pubblicato in una stagione non canicolare come l’estate; questi suoni hanno bisogno di scure notti e brevi giornate per poter entrare appieno nel cuore di chi vuole “sentire”.
TRACKLIST
1. Breaker of Silence
2. Breaker of Skulls
3. Breaker of Oaths
4. Breaker of Famine
LINE-UP
Lucas Gadke Bass, Vocals
Laura Bates Vocals, Violin, Effects
Jimmy P Lightning Drums, Percussion
I Fleshpress in poco più di mezz’ora scagliano nell’etere la loro personale visione musicale che non prevede soluzioni banali e neppure sconti particolari a chi si avvicina all’ascolto
I finnici Fleshpress sono una band dalla produzione già piuttosto corposa alle spalle, essendo attivi fin dagli ultimi anni del secolo scorso.
L’approccio musicale del gruppo di Lahti è quanto mai obliquo, vivendo di esplosioni di matrice black che si vanno ad intersecare con rallentamenti doom e disturbi sonici assortiti, risultando così di ardua definizione per la sua natura sperimentale.
Del resto in questa band milita in veste di drummer Mikko Aspa, meglio conosciuto invece come vocalist degli sperimentatori estremi Deathspell Omega, e un tale indizio non va affatto trascurato.
I Fleshpress in poco più di mezz’ora scagliano nell’etere la loro personale visione musicale che non prevede soluzioni banali e neppure sconti particolari a chi si avvicina all’ascolto: il loro black/doom è dissonante, carico di tensione, con diversi sconfinamenti dronici ai limite della cacofonia, quindi destinato per lo più a chi apprezza il versante avanguardistico del genere rappresentato, appunto dai vari Deathspell Omega, Blut Aus Nord, eccetera.
Pur essendo relativamente di breve durata, Hulluuden Muuri (nel quale i nostri si cimentano per la prima volta con la lingua madre) sembra molto più lungo per l’intensità disturbante che ne pervade le trame, e ovviamente i Fleshpress non fanno nulla per rendere in qualche modo più accativante la proposta.
Anzi, a rimarcare tutto ciò, il terzetto colloca come traccia conclusiva quella più lunga e forse emblematica del proprio sentire musicale, Voiman Täydellinen Toteutuminen, un crescendo martellante interrotto da urla belluine ed esplosioni soniche che vanno a definire un quadro di grande ed instabile vitalità.
Classico prodotto per un ristretto novero di ascoltatori, Hulluuden Muuricome già dettonon dovrebbe comunque faticare a trovare estimatori tra chi conosce le band citate come riferimento, oltre che negli appassionati di black e doom dalle vedute più ampie.
Tracklist:
1. Lunastuksen Ajan Veren Riitti
2. Hulluuden Viiltävä Lasipinta
3. Oikeamieliset
4. Siintävän Totuuden Häikäisevä Kajo
5. Voiman Täydellinen Toteutuminen
Line-up:
Mikko Aspa – Drums
Marko Kokkonen – Guitar, Effects, Vocals
Samuli – Guitars
Psykostarevoid offre una visione del doom che non ha nulla di rassicurante, rovistando incessantemente tra le viscere con il suo incedere distorto e fragoroso.
La Dead Seed Productions ha realizzato le versioni in vinile dei due album pubblicati nello scorso decennio dagli Hjarnidaudi, progetto solista drone doom del musicista norvegese Vidar “Voidar” Ermesjø, altresì noto per la sua militanza nei Koldbrann.
Quello che prendiamo brevemente in esame è il secondo dei due, nonché ultima uscita a nome Hjarnidaudi in ordine temporale, Psykostarevoid.
L’album si snoda lunga quattro tracce di natura strumentale, dalla lunghezza media di 10 minuti ed ovviamente il genere prescelto e lo stile con cui viene proposto non sono materia proprio per tutti.
Il doom, nella lettura di Ermesjø, è un qualcosa di ancora più criptico e disturbante rispetto a quanto normalmente siamo soliti ascoltare, e la sua bravura sta, a mio avviso, nel non indulgere in interminabili sperimentazioni droniche bensì nel lanciarsi in reiterazioni ossessive ma terribilmente avvolgenti, come avviene in maniera mirabile nella traccia II, autentico monolite di sofferenza dai suoni distorti, asfissianti ma non del tutto privi di una parvenza melodica.
Questa caratteristica rende peculiare la proposta anche nei restanti brani, che continuano ad offrire una visione del doom che non ha nulla di rassicurante, rovistando incessantemente tra le viscere con il suo incedere distorto e fragoroso.
Peccato che ormai da otto anni non pervenga più nuovo materiale marchiato con questo monicker, perché un album simile rappresenta una lettura del genere non convenzionale, pur senza sconfinare nella cacofonia; spesso, però, queste riedizioni sono propedeutiche al ritorno in auge di progetti accantonati da tempo, quindi non resta che sperare che questo possa valere anche per gli Hjarnidaudi.
Spiritus Immundus si rivela un lavoro che dovrebbe lasciare il segno in chi apprezza sonorità a cavallo tra il funeral ed il death doom più crudo.
Dopo quasi un ventennio di gestazione trova finalmente il proprio sbocco questo notevole progetto concepito da Kam Lee, storico singer dei seminali Massacre, nonché coinvolto in diverse altre band tra le quali spiccano i The Grotesquery, in compagnia di un altro stakanovista del metal estremo come Rogga Johansson.
Proprio da quest’ultima band è opportuno partire per definire il sound degli Akatharta: infatti, se già in occasione del sodalizio con il chitarrista svedese veniva mostrata una propensione ad un death dai frequeinti rallentamenti ed inserito in un immaginario orrorifico di ispirazione lovecraftiana, messosi in proprio Lee accentua la componente doom del sound, mentre a livello lirico l’attenzione si sposta alle EVP (Electronic Voice Phenomena) e alla possessione da parte degli “pneuma akatharta” (spiriti impuri) di biblica memoria.
Ne scaturisce così un album di grande compattezza, sviluppato su otto brani (più la cover di Dethroned Emperor dei Celtic Frost) morbosamente efficaci che trovano la loro apoteosi in tracce magnifiche come Pneumata, non a caso uscita precedentemente come singolo, e Nocturnal Interment, con la sua rituale evocazione dell “spirito immondo”; il resto non è comunque da meno e viene espresso tramite un death doom ottimamente equilibrato tra le due componenti con la ruvidezza e l’impatto della prima che confluisce con naturalezza nelle ritmiche bradicardiche della seconda.
Kam Lee, poi, va a nozze con tale sonorità, potendo esibire il proprio growl che porta a scuola molti dei suoi più giovani emuli, ben coadiuvato dal pregevole chitarrista/bassista Aaron Whitsell (assieme al vocalist anche nella band che ne porta il nome, oltre che nei Cropsy Maniac) e dal metronomico batterista Travis Ruvo (anch’egli nei Cropsy Maniac, e negli Echelon). Spiritus Immundus si rivela così un lavoro che dovrebbe lasciare il segno in chi apprezza sonorità a cavallo tra il funeral ed il death doom più crudo, trovandomi solo parzialmente d’accordo con le note di presentazione quando vengono accreditati, quali possibili riferimenti, Thergothon e Mournful Congregation, mentre ritengo perlomeno fuorviante citare i My Dying Bride (non c’è alcuna traccia del romanticismo gotico e decadente della band inglese) o addirittura gli Skepticism (cosa improbabile, non fosse altro che per l’assenza di uno strumento basilare nel sound dei finnici come l’organo).
Molto meglio farsi un’idea propria del contenuto dell’album ascoltandolo, e se si è appassionati di doom l’apprezzamento verrà naturale, perché qui il genere viene esibito da un gruppo di musicisti esperti e sufficientemente ispirati, capaci di maneggiare tutt’altro che banalmente la materia e restituendola sotto forma di una pesantissima ed opprimente pietra tombale …
Tracklist:
1. Macabre Reflections In The Dark
2. Onryō (Wrath Of A Vengeful Ghost)
3. Tenebrarum In Aeternum
4. Nocturnal Interment
5. Phantasmagories
6. Transpierce The Umbra
7. Possessione Diabolica
8. Pneumata
9. Dethroned Emperor (Celtic Frost Cover)
Line-up:
Kam Lee – vocals
Aaron Whitsell – guitars, bass
Travis Ruvo – drums
Un’orchestra di metal sinfonico e doom altro, con una fortissima presenza di strumenti e ritmi medievali, per un album che è una lenta e decadente danza sopra l’abisso.
Un’orchestra di metal sinfonico e doom altro, con una fortissima presenza di strumenti e ritmi medievali, per un album che è una lenta e decadente danza sopra l’abisso.
Durante il medioevo avevano ben presente la caducità, la velocità e la fragilità delle nostre vite, un’apocalisse con conseguenti dies irae era attesa, anzi data per sicura. La vita era descritta con toni cupi o esageratamente festosi, e di quelle descrizioni possiamo ritrovare molto in questo debutto degli svedesi Apocalypse Orchestra, fondati da Mikael Lindström e da Erik Larsson qualche anno or sono nella provincia svedese. Il loro incedere ha una costruzione fortemente medievale, con una poetica musicale con elementi vicini agli Opeth. specialmente per la voce, ma questo è solo un punto di partenza perché poi il risultato è molto originale e convincente. Ascoltando The End Is Nigh si ha l’impressione di stare su di un promontorio incolonnato con altre anime dannate verso il tuffo nel mare in tempesta, per sfuggire al giudizio divino, o molto peggio, è solo la descrizione di paradigmi umani che si coniugano dalla sofferenza e dalla inadeguatezza del nostro essere umani. Questi svedesi scavano in profondità, fanno della lentezza un punto di forza, prendendo qualcosa dal doom, ad esempio dei riff notevoli, ma poi si va oltre. Il disegno che sorregge questa opera è ampio e possente, anche grazie alle incursioni degli strumenti medievali, usati sempre in maniera molto adeguata. Non è un disco folk metal o un disco doom, è il debutto di un gruppo che ha delle ben precise caratteristiche e fa un discorso musicale ambizioso e molto forte, anche perché il talento è presente in abbondanza. Un disco da sentire assolutamente, perché è un qualcosa che piacerà a molti ascoltatori di generi diversi, ed è una delle cose più originali e ben fatte ascoltate quest’anno.
TRACKLIST
1.The Garden of Earthly Delights
2.Pyre
3.Flagellants’ Song
4.Exhale
5.Theatre of War
6.The Great Mortality
7.To Embark
8.Here Be Monsters
LINE-UP
Andreas Skoglund – Drums and percussions, backing vocals
Jonas Lindh – Guitars, backing vocals
Mikael Lindström – Hurdy gurdy, bagpipes, rauschpfeife, backing vocals
Rikard Jansson – Bass, backing vocals
Erik Larsson – Guitars, mandola, cittern, rauschpfeife, vocals
Quella degli In Tormentata Quiete è una magia che si perpetua da diversi anni con una frequenza che egoisticamente vorremmo maggiore ma che, come l’apparizione nella volta celeste di una cometa ad intervalli di decenni, continua a meravigliare ogni volta e, proprio per questo, porta con sé il dono dell’eccezionalità.
Quella degli In Tormentata Quiete è una magia che si perpetua da diversi anni con una frequenza che egoisticamente vorremmo maggiore ma che, come l’apparizione nella volta celeste di una cometa ad intervalli di decenni, continua a meravigliare ogni volta e, proprio per questo, porta con sé il dono dell’eccezionalità.
L’accostamento di un album come Finestatico ad un evento cosmico non è affatto casuale, visto che l’universo e le sue stelle sono protagonisti del racconto messo in musica dalla band, che procede sulla sua personalissima strada con sempre maggior fermezza e chiarezza d’intenti, in virtù di un talento compositivo che nel nostro paese ha ben pochi termini di paragone.
Il tema lirico affrontato dall’ensemble bolognese è affascinante anche grazie allo stratagemma di dar voce ai corpi celesti, attribuendo loro sentimenti umani che affiorano via via tra unioni indissolubili, allontanamenti, moti di orgoglio, sensi di isolamento e di frustrazione.
Tutto questo, poi, trova il suo naturale approdo in un tessuto musicale talmente vario e cangiante da mettere in crisi anche il più tenace e fantasioso dei classificatori: la realtà è che gli In Tormentata Quiete sono portatori di arte musicale con la a maiuscola, che può essere assimilata al metal per qualche retaggio estremo che oggi, tutto sommato è più che altro riscontrabile nello screaming di Marco Vitale, fondamentale nel creare il peculiare intreccio con le due voci pulite, maschile a femminile (rispettivamente affidate a Simone Lanzoni ed Irene Petitto).
L’idea stessa di provare a descrivere, sia pure a grandi linee, i contenuti di Finestatico, mi appare a tratti un esercizio vano se non addirittura un atto di presunzione: come si può raccontare a parole, infatti, quello che invece è un accumulo di emozioni e sentimenti derivanti dall’ascolto di un’opera che si dipana con magica fluidità tra black, death, folk, doom, cantautorato e symphonic metal, senza che nessuna di tali componenti prevalga mai nettamente sull’altra ?
Mi limiterò solo, quindi, a consigliare vivamente a chiunque voglia farsi un’idea dell’ennesimo capolavoro firmato dagli In Tormentata Quiete di guardare ed ascoltare lo splendido video di R136a1, che non è la canzone più bella dell’album semplicemente perché lo sono tutte (anche se è una di quelle che prediligo assieme a Sirio, brano nel quale la componente folk si manifesta in maniera più netta). Finestatico è un lavoro imprescindibile, offerto da una band unica il cui operato, in un paese normale, dovrebbe essere divulgato nelle scuole, invece di restare confinato ad un ambito underground, comunque mai così vivo e ricco di talenti che attendono solo ‘d’essere portati in superficie da una comunicazione più attenta e da un pubblico meno appiattito sui soliti nomi …
Tracklist:
1. Zero
2. Sole
3. R136a1
4. Eta Carinae
5. Sirio
6. RR Lyrae
7. Demiurgo
Line up:
Irene Petitto: Female Voice
Marco Vitale: Scream
Simone Lanzoni: Clean Vocals
Lorenzo Rinaldi: Guitars
Maurizio D’Apote: Bass
Antonio Ricco: Keyboards
Francesco Paparella: Drums
Special guests:
Clarinet by Irene Panfili
Music on “Demiurgo” by Luca Gherardi
Sin dal primo pezzo si capisce che questo disco è qualcosa di diverso, le immagini messe in musica sono forti e suscitano emozioni nell’ascoltatore.
Gli Avatarium sono un gruppo dai diversi punti forti, hanno una grande potenza e sanno bilanciare molto bene con un suono contaminato dagli anni 70 .
Il gruppo svedese ha saputo sviluppare una propria poetica molto appropriata nel trattare il doom classico, ma non c’è soltanto questo bensì una moltitudine di sensazioni e di musiche diverse, che entrano nel cuore dell’ascoltatore attraverso canzoni che lasciano il segno.
Questo disco è sicuramente un lavoro da sentire con molta cura e molta curiosità, perché nel panorama odierno l’offerta di questo tipo di musica non manca, ma la qualità degli Avatarium è assai difficile da trovare in giro. Sin dal primo pezzo si capisce che questo disco è qualcosa di diverso, le immagini messe in musica sono forti e suscitano emozioni nell’ascoltatore, la voce femminile di Jeannie-Ann Smith riesce a toccare vette molto alte, soprattutto nella drammatizzazione della musica. Una cosa che può sembrare ovvia, ma non lo è affatto, è la corretta e ottima pronuncia inglese della cantante che, a differenza di quanto accade in molti altri gruppi, riesce ad essere davvero credibile. Un altro elemento molto importante della musica degli Avatarium è l’organo, che dà un tocco di anni 70 sempre molto elegante ed incisivo, riesce a coinvolgere e trasforma le canzoni in qualcosa di unico. Troviamo anche nelle canzoni un pizzico di magia metal, nel senso di epicità della canzone, e momenti con melodie molto aperte ed epiche. Dentro questo gruppo convivono molti generi ma soprattutto il punto di forza degli Avatarium è il riuscire a fare un disco originale con elementi che non lo sono, ma che per essere proposti al meglio necessitano di un’ottima rielaborazione. Questo lavoro può essere ascoltato da persone con gusti differenti, perché una musica così può mettere tutti facilmente d’accordo, e il risultato è una vera e propria altalena di emozioni. Per rendersi conto della grandezza di questo disco basta ascoltare la traccia che dà il titolo al disco, Hurricanes And Halos, un manuale di cosa si può fare di veramente originale in un genere che dà possibilità, a chi ne ha il talento e la capacità, di creare determinate atmosfere. Questo disco è consigliabile a tutti quelli che vogliono sentire qualcosa di ben fatto e composto, non tanto per la tecnica ma quanto per il sentire, perché le sensazioni che offre sono quelle che ci fanno amare questo tipo di musica, sia esso doom o metal o blues, basta che questa fiamma bruci ancora.
TRACKLIST
01. Into The Fire / Into The Storm
02. The Starless Sleep
03. Road To Jerusalem
04. Medusa Child
05. The Sky At The Bottom Of The Sea
06. When Breath Turns To Air
07. A Kiss (From The End Of The World)
08. Hurricanes And Halos
LINE-UP
Jennie-Ann Smith: Vocals
Marcus Jidell: Guitar
Lars Sköld: Drums
Mats Rydström: Bass
Rickard Nilsson: Organ
As The Sun Sets On Life si sviluppa per poco più di un’ora, offrendo un death doom nel quale vengono rielaborati nel migliore dei modi gli influssi delle principali scuole, restituendoli impeccabilmente con personalità e brillantezza.
Il ritorno dopo due anni dei Soijl, band fondata dall’ex chitarrista dei Saturnus Mattias Svensson, non può che costituire una buona notizia per tutti gli amanti del death doom melodico.
Così come scritto all’epoca, in relazione all’album d’esordio Endless Elysian Fields, chi è stato parte in causa nella realizzazione di un capolavoro come Saturn In Ascension non può certamente ignorarne o ripudiarne i contenuti, per cui quella dei Soijl è un’interpretazione del genere che si avvicina per modalità a quella dei maestri danesi, pur senza aderirvi pedissequamente.
Infatti, il sound che il chitarrista svedese continua ad offrire è, in qualche modo, meno immediato rispetto a quello dei Saturnus, in virtù di un incedere a tratti più arcigno e che, comunque, non fa venire meno anche certe influenze provenienti dalla scena d’oltreoceano.
Proprio per questo As The Sun Sets On Life è un album che lascia qualche dubbio nel corso dei primi due-tre ascolti, per poi mostrare finalmente le sue vere sembianze, quelle di ottimo esempio di musica dolente ed emozionante. Rispetto al precedente full length Svensson non si è occupato di tutti gli strumenti, affidando la batteria al giovane Malphas e confermando, invece, alla voce l’ottimo Henrik Kindvall: in buona sostanza poco cambia, sia nelle caratteristiche di un sound che possiede coordinate chiare ed inequivocabili, sia nella qualità con la quale queste vengono seguite. As The Sun Sets On Life si sviluppa per poco più di un’ora, offrendo un death doom nel quale vengono rielaborati nel migliore dei modi gli influssi delle principali scuole, restituendoli impeccabilmente con personalità e brillantezza, con una menzione speciale per la terna Weapon Of Primordial Chaos, Salvation, Deception e Spiritual Asphyxiation, brani che uno dopo l’altro dimostrano senza lasciare dubbi la bontà del lavoro compositivo di Svensson.
Forse non si rinviene un progresso netto rispetto al precedente lavoro, anche perché la base di partenza era già comunque consistente, ma siamo senz’altro in presenza di una prova notevole, in grado di riaffermare una posizione di rilievo dei Soijl nella scala dei valori della scena, e non è poco.
Tracklist:
1. Death Do Us Part
2. Weapon Of Primordial Chaos
3. Salvation, Deception
4. Spiritual Asphyxiation
5. On Antediluvian Shores
6. Alive In A Sea Of Dying Flowers
7. The Abyss, My Tomb
Line-up:
Henrik Kindvall – Vocals & lyrics
Mattias Svensson – Guitars, bass, keyboards & music
Johan Mathisson – Drums
I Bretus con questo disco si confermano un ottimo gruppo doom che non sbaglia un disco.
Ritornano i calabresi Bretus, una delle migliori band italiane in ambito doom.
La loro proposta musicale è un doom classico, cantato con timbro chiaro e possente, e poche distorsioni strumentali, seguendo la lezione di St.Vitus e Pentagram.
Per fare questo genere minimale e renderlo interessante devi avere delle specifiche caratteristiche che non sono alla portata di tutti. I Bretus tengono incollato l’ascoltatore alla poltrona dall’inizio alla fine, non lasciando mai scendere la tensione, come nelle storie horror che loro adorano. Ispirati nella loro opera dal sommo vate di Providence, per questo nuovo disco esplorano i territori di …From The Twilight Zone, una serie televisiva americana del 1959 che esplorava in maniera incredibile la fantascienza e l’orrore, tenendosi sempre vicina alla sottile linea che divide il nostro mondo da altri mondi e multiversi. Il doom dei Bretus in questo disco si addolcisce leggermente e va a bagnare gli strumenti nei fiumi ottantiani del doom americano ed inglese, trovando una formula vincente, perché ogni canzone è interessante e godibile. Il disco è oscuro ma non è una tenebra fine a se stessa, bensì è una luce diversa per capire la realtà in un’altra maniera, o per cominciare a scorgere le altre che ci circondano. Ascoltare dischi come …From The Twilight Zonesmuove qualcosa nel cuore di chi ama il doom e più in generale la musica oscura ma fatta bene. In alcuni momenti ritornano all’orecchio reminiscenze dei grandi del doom, come i Candlemass ad esempio, ma ascoltando il disco si comprende la via personale adottata dai Bretus, un modo originale di fare doom. Il disco può anche essere goduto come un film, poiché c’è un filo conduttore nella narrazione. I Bretus con questo disco si confermano un ottimo gruppo doom che non sbaglia un disco.
TRACKLIST
01. Terror behind the mirror
02. In the vault
03. Old dark house
04. Danza Macabra
05. The murder
06. The creeping flash
07. Lizard woman
LINE-UP
Ghenes – High/Low Guitars and Fx
Zagarus – Vox and Harmonica
Azog – Bass
Striges – Drum
Per i Martyrdoom un gran bell’esordio, di quelli che magari non cambieranno la vita ma la miglioreranno senz’altro a chi si nutre di tali sonorità.
Dopo qualche anno di rodaggio contrassegnato da uscite dal minutaggio ridotto, i polacchi Martyrdoom giungono al full length d’esordio con il quale ci riportano bruscamente nell’ultimo decennio del secolo scorso, a colpi di feroce e malsano death doom.
Non siamo, quindi, dalle parti del versante più melodico e melanconico del genere, bensì su quello decisamente sbilanciato verso la prima delle due componenti, andando ad attingere principalmente, a livello di ispirazione, alle band autrici appunto di un death morboso e spesso rallentato.
Pertanto, più che alla vecchia Europa i ragazzi di Varsavia volgono il loro sguardo oltreoceano, focalizzandolo su capisaldi del genere quali Obituary, Incantation ed Immolation, tutti gruppi che cominciavano ad incidere pesantemente sulla scena quando i nostri, nella migliore delle ipotesi, erano ancora innocui bimbetti in età scolare.
Questa riscoperta dei suoni cosiddetti old school non deve apparire necessariamente uno stratagemma per sfuggire alla mancanza di spunti innovativi, e i Martyrdoom in tal senso dimostrano ampiamente che è possibile rileggere il passato facendolo in maniera ugualmente personale.
Per fare questo è necessario immettere nella propria musica una dose massiccia di convinzione e devozione alla causa, esattamente ciò che avviene in questo corrosivo ed oscuro Grievous Psychosis: la voce aspra, in stile John Tardy, di Sociak conduce nei meandri putridi di un sottobosco estremo che continua a lanciare segnali importanti che non possono esser ignorati.
Leggendo di titoli come Lucifer Rise, Oldshool Death, Corpsefuck e Bloody Incarnations non è difficile intuire dove si andrà a parare, ma che siano accelerazioni sempre abbastanza controllate o rallentamenti che lasciano spazio a qualche pregevole passaggio chitarristico, il bello di un album come questo è che non stanca e non annoia mai, anche se la varietà stilistica non può essere annoverata certo tra i suoi punti di forza.
Chi se ne importa, però, quanto tutto è suonato con l’onestà e la competenza di questo quintetto polacco che, in meno di quaranta minuti, completa la sua notevole opera regalando un brano dai tratti parzialmente diversi come Corpsefuck, più doom oriented rispetto al resto della tracklist, tanto per ricordare che la ragione sociale non è affatto campata per aria, nonostante una chiusura ritmicamente furiosa.
Per i Martyrdoom un gran bell’esordio, di quelli che magari non cambieranno la vita ma la miglioreranno senz’altro a chi si nutre di tali sonorità.
Tracklist:
1. Betrayed Trust
2. Bloody Incarnations
3. Oldschool Death
4. Lucifer Rise
5. Drowned in Void
6. Face Without a Person
7. Psychosis
8. Corpsefuck
Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte dei Red Moon Archiect, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del funeral death doom melodico.
Se può essere inutile rimarcare come la Finlandia sia, per distacco, la patria delle sonorità più oscure e melanconiche, non lo è affatto continuare ad esaltare la qualità che le diverse band provenienti dalla terra dei mille laghi, alle prese con la materia funeral death doom, offrono ad ogni uscita.
In questo caso il lavoro preso in esame è il terzo dei Red Moon Architect, nati nel 2011 come progetto solista del talentuoso Saku Moilanen e poi trasformatisi nel tempo in una band a tutti gli effetti: Concealed Silence (2012), infatti, vedeva accreditato il solo musicista di Koivolua con l’ausilio di diversi ospiti, tra i quali la sola vocalist Anni Viljanen è rimasta a costituire il tratto d’unione tra quel lavoro e quelli successivi della band, ovviamente assieme al suo mastermind.
Se Fail, uscito nel 2015, consolidava il valore e lo status dei Red Moon Architect, questo nuovo Return of the Black Butterflies ha tutte le carte i regola per innalzare ulteriormente il livello della band finlandese e portarla a riempire un certo vuoto lasciato dai Draconian, dopo la svolta verso sonorità più morbide attuata da questi ultimi nell’ultimo decennio.
Certo, rispetto alla band svedese i nostri si spingono con più frequenza verso lidi prossimi al funeral, ma il connubio tra la voce femminile della Viljanen ed il growl del nuovo arrivato Ville Rutanen riporta automaticamente in quell’ambito, avendo in comune lo stesso senso drammatico ed evocativo che contraddistingueva le prime opere della creatura di Johan Ericsson.
Saku Moilanen si conferma compositore di grande spessore, offrendo una cinquantina di minuti di sonorità plumbee ma intrise di melodie dolenti che, come da copione, assumono sembianze drammatiche in coincidenza con il growl per poi aprirsi malinconicamente con l’entrata in scena della voce femminile.
Questo fa capire che non c’è da aspettarsi proprio nulla di nuovo ma, paradossalmente, tale aspetto si rivela la pietra angolare sul quale i Red Moon Architect erigono il loro magnifico monumento al dolore che, comunque, non assume mai un aspetto monocorde perché, pur tra gli scostamenti ridotti consentiti dal genere, il funeral opprimente esibito in maniera magistrale in End of Days è, per esempio, ben diverso sia dal gothic di Tormented sia dall’atmospheric doom di NDE. Return of the Black Butterfliessegna un’altra prova magistrale da parte della band finlandese, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del genere.
Tracklist:
1. The Haunt
2. Tormented
3. Return of the Black Butterflies
4. Journey
5. End of Days
6. NDE
Line up:
Saku Moilanen – Schlagzeug & Keyboard
Ville Rutanen – Gesang
Matias Moilanen – Gitarre
Anni Viljanen – Gesang
Jukka Jauhiainen – Bass
Chi ama il genere non resterà affatto deluso, mentre chi volesse ricercare elementi di novità passi pure oltre: questo è “solo” buonissimo doom, suonato come le divinità marine comandano …
In occasione della sua riedizione nel corso dell’estate, dopo la firma con Wormholedeath, riproponiamo quanto scritto nello scorso dicembre a proposito di Of Gods and Heroes.
I Desolate Pathway vengono fondati da Vince Hempstead più o meno contestualmente alla sua uscita dai Pagan Altar, avvenuta nel 2014.
Rispetto alla band che fu del defunto Terry Jones, i Desolate Pathway spostano le coordinate del loro doom su un versante più epico non solo a livello compositivo ma anche lirico, cosa che ben si evince sia dalla notevole copertina sia dal titolo eloquente scelto per il lavoro (Of Gods and Heroes), proseguendo la strada intrapresa fin dal precedente Valley Of The Kings, risalente a due anni fa.
Quando viene maneggiata da musicisti esperti e competenti, la materia in questione ben difficilmente delude, e ciò vale anche per Hempstead, il quale, accompagnato dalla batterista Mags e da un quartetto di ospiti ad occuparsi delle parti di basso, offre tre quarti d’ora di doom fedele alla tradizione ma sicuramente godibilissimo. Of Gods and Heroes si snoda secondo copione tra vocals stentoree e sufficientemente evocative ed un lavoro chitarristico apprezzabile per la sua spontaneità: volendo trovargli una collocazione meglio definita, il sound dei Desolate Pathway potrebbe essere inquadrabile a meta strada tra Doomsword e Capilla Ardiente, risultando sempre coinvolgente pur nella sua essenzialità.
Chi ama il genere non resterà affatto deluso, mentre chi volesse ricercare elementi di novità passi pure oltre: questo è “solo” buonissimo doom, suonato come le divinità marine comandano …
Tracklist:
1. Intro
2. The Old Ferryman
3. The Perilous Sea
4. Medusa’s Lair
5. Into the Realms of Poseidon
6. Enchanted Voices
7. Gods of the Deep
8. The Winged Divinity
9. Trojan War
Una riedizione utile e curata di Damnatio Memoriae, album che con la sua uscita ha sicuramente consolidato lo status acquisito dai My Silent Wake in virtù di una carriera lunga, produttiva e, a tratti, piacevolmente imprevedibile.
Non essendoci stata l’occasione di parlare di Damnatio Memoriae, ottavo album in studio degli inglesi My Silent Wake, all’epoca della sua uscita nel 2015, ne approfittiamo per farlo brevemente grazie alla riedizione in vinile appena licenziata dalla Minotauro Records.
La band fondata da Ian Arkley nel 2005 è una tra le più prolifiche in assoluto tra quelle dedite al death doom, genere dal quale hanno anche derogato più volte, andando ad esplorare lidi acustici o ambient, così come è avvenuto, del resto, nella loro recente release Invitation To Imperfection. Damnatio Memoriae resta, quindi, in ordine temporale, l’ultima testimonianza del genere principalmente trattato con buoni risultati dai My Silent Wake; rispetto ai lavori del passato, l’album esibisce partiture più robuste e diversi brani nei quali, specie nella parte iniziale, il sound appare decisamente pesante e meno votato alla ricerca di melodie malinconiche e dolenti: quando ciò avviene, ne scaturisce una traccia magnifica come And So It Comes To An End, ma non è che le cose vadano male neppure allorché la spinta propulsiva pare giungere dai primi Paradise Lost e Anathema (con The Innocent a lambire gli suoni che furono di The Silent Enigma).
Ottima anche la lunga The Empty Unknown, che mostra coordinate più canonicamente doom, mentre si vira nuovamente su un gothic piuttosto andante con Chaos Enfolds Me, traccia che chiudeva la prima stesura del disco e che, invece, nella nuova, è seguita dalla riproposizione di And So It Comes To An End, Now It Destroys e Of Fury arricchite dalle tastiere di Simon Bibby: i brani in questione non cambiano volto più di tanto ma, specialmente gli ultimi due, vengono gradevolmente ammorbiditi in questa versione.
Una riedizione utile e curata di Damnatio Memoriae, album che con la sua uscita ha sicuramente consolidato lo status acquisito dai My Silent Wake in virtù di una carriera lunga, produttiva e, a tratti, piacevolmente imprevedibile.
Tracklist:
1. Of Fury
2. Highwire
3. Now it Destroys
4. Black Oil
5. And so it Comes to an End
6. The Innocent
7. The Empty Unknown
8. Chaos Enfolds Me
Bonus tracks on 2017 release:
9. And so it Comes to an End (with keys)
10. Of Fury (with keys)
11. Now it Destroys (with keys)
Line up:
Ian Arkley – vocals and guitar
Addam Westlake – bass
Gareth Arlett – drums
Mike Hitchen – live rhythm guitar
Guests:
Simon Bibby – keys
Greg Chandler – additional keys, vocals
Martin Bowes – synth
Gli Obscura Amentia riescono con la loro musica a trasmettere compiutamente un senso di inquietudine che prende forma man mano che si procede con gli ascolti, e questo più di altri è un indicatore affidabile della profondità compositiva che pervade The Art Of The Human Decadence.
A cinque anni da Ritual ritornano gli Obscura Amentia, duo italiano che all’epoca avevamo lasciato alle prese con una buona interpretazione di un black metal di matrice svedese.
In questo lasso di tempo le cose sono decisamente cambiate, e sicuramente in meglio, anche per quanto riguarda la maggiore peculiarità del sound proposto: oggi, infatti, gli Obscura Amentia sono una solida realtà dedita ad un doom ovviamente intriso di una massiccia componente black.
Gli stessi aspetti che non mi avevano convinto al 100% nel precedente lavoro hanno visto senz’altro un importante progresso: l’abrasivo screaming di Hel appare del tutto appropriato allo stile proposto e anche la produzione favorisce un maggiore equilibrio tra voce e strumenti.
Il lavoro di Black Charm con chitarra, basso e tastiere è lo specchio di un notevole sforzo compositivo, atto a rendere evocativo e malinconico il sound senza fargli perdere le sue ruvide connotazioni estreme. Volendo fare per forza un paragone, utile ad inquadrare meglio i contenuti di The Art Of The Human Decadence, si può azzardare a livello di umori una certa vicinanza all’ormai datato ultimo album dei Valkiria, anche per un lavoro chitarristico similmente volto alla ricerca di melodie di grande impatto ma con il tutto, come detto, maggiormente inserito all’interno di ritmiche dal passo più spedito.
Di quest’album non si può non apprezzare l’intensità che traspare da ogni singola nota e difficilmente chi predilige i due generi che ne costituiscono l’impalcatura potrà restare indifferente. The Art Of The Human Decadence non è certo opera per puristi, capaci di godere solo della perfezione formale senza neppure provare a grattare una superficie la cui rugosità preserva, ad un ascolto distratto, una profondità non comune. Oltretutto il lavoro si snoda in costante crescendo, trovando i momenti più alti nella sua seconda metà a fronte di una prima che gli è comunque di poco inferiore: infatti, se Ocean, Entropy, la title track e Agony sono brani che già da soli riescono a comunicare quale sia il valore dell’album, dopo l’intermezzo strumentale Broken si susseguono tracce dal magnifico impatto melodico e drammatico allo stesso tempo, inaugurate da una eccellente Apathy, che lascia poi spazio allo struggente incedere della magnifica Sentenced e all’impatto apocalittico di King, episodio che, prima dello strumentale di chiusura Ananke, ben rappresenta gli umori di un lavoro che verte liricamente sulla decadenza inarrestabile di un’umanità impegnata in un’ottusa quanto inarrestabile corsa verso l’autodistruzione.
Gli Obscura Amentia riescono con la loro musica a trasmettere compiutamente un senso di inquietudine che prende forma man mano che si procede con gli ascolti, e questo più di altri è un indicatore affidabile della profondità compositiva che pervade The Art Of The Human Decadence.
Tracklist:
01. Ocean
02. Entropy
03. The Art Of The Human Decadence
04. Agony
05. Broken
06. Apathy
07. Sentenced
08. King
09. Ananke
Line up:
Hel – Vocals
Black Charm – All and drum programming
Titolo immaginifico per un’opera estremamente atmosferica che proietta verso l’ignoto.
La fertile scena tedesca genera un’ altra piccola gemma di arte nera: gli Hexer, band di Dortmund di recente nascita (2014), dopo un EP (Holodeck Sessions) del 2015, esplode letteralmente con il full Cosmic Doom Ritual, dal suggestivo e grandioso titolo in cui esplora la propria idea della materia doom ammantandola di visioni psichedeliche, stoner e creando un’atmosfera insana, surreale, proiettata in uno vuoto cosmico sempre affascinante da esplorare.
Il loro suono cresce lentamente, senza fretta, increspato da note di cupo synth, creando un mood ritualistico con melodie sempre evocative come nel primo brano, Merkaba, dove millenarie tempeste di sabbia si abbattono su rovine perdute di mondi antichi immersi in deserti roventi: gli Hexer possono ricordare gli Esoteric per il loro incedere ipnotico anche se non raggiungono la loro pesantezza
Il secondo brano Pearl Snake profuma di intensa essenza orientale iniziando come un “raga” indiano, per poi incendiarsi in note stoner e doom che planano su templi abbandonati dove antichi culti sono stati celebrati: un brano veramente particolare denotante una visione personale della materia; l’ ultima traccia Black Lava Flow, dopo un inizio funeral, prosegue con note heavy doom ipnotiche e incessanti, per poi planare ancora su suggestioni orientali e, infine, come nuovi Hawkwind proiettarsi verso il cosmo. Decisamente una bella scoperta, con un buon guitar sound sempre ispirato, le melodie create dal synth e le influenze orientali a dare un tocco personale ed originale. Da seguire con attenzione.
La ricchezza di questo disco risiede nella varietà di sensazioni che riesce a dare, rimanendo sempre ben ancorato alla pesantezza e alla possente lentezza del doom.
Tenebrosi echi di Danzig, Candlemass in un satanico amplesso di sludge e doom.
Prendete New Orleans e impiantatela a Madrid, ed ecco che potete iniziare a strisciare lentamente per tombe ed anfratti.
Il suono dei MotherSlot è un potentissimo doom con inserti sludge, voce in stile doom classico tipo Candlemass, e in tutto ciò spunta qui e là il fantasma del nostro blues bianco, ovvero il grunge. Quest’ultimo non è forse sopravvissuto come genere tout court, ma è uno degli abitanti più importanti della periferia musicale di molti gruppi. Come il blues per la musica nera e non solo, il grunge è un substrato molto potente, che è entrato nell’anima della musica pesante, e non se ne può fare a meno. In questo disco è un elemento importante ma non certo unico, anche perché il piatto è molto ricco. Oltre all’incedere doom il gruppo sa creare benissimo atmosfere molto particolari, ora claustrofobiche, ora con grande melodia, come in The Firemill per esempio. Alternare momenti alla Crowbar, con i quali hanno suonato recentemente, e altri in pieno stile Candlemass non è da tutti ed in più i MotherSlot fanno molto altro. Un disco che va ascoltato con cura, perché propone un sacco di cose che ad un ascolto superficiale potrebbero passare inascoltate. La ricchezza di questo disco risiede nella varietà di sensazioni che riesce a dare, rimanendo sempre ben ancorato alla pesantezza e alla possente lentezza del doom.
TRACKLIST
1. Shadow Witch
2. Once Human
3. The Firemill
4. Doomsday Cyborg
5. Wish for Dawn
6. Moon Omen