Secondo incontro con i francesi The Lumberjack Feedback, già recensiti poco meno di un anno fa in occasione dell’uscita del loro ep Noise In The Church, gustoso antipasto comprendente due tracce (anche video) registrate live all’interno di una chiesa.
Alla prima prova su lunga distanza il gruppo di Lille consolida, nel bene e nel male, quanto fatto intravedere in quell’occasione: uno sludge doom possente ma sufficientemente ricco di sfaccettature si scontra con l’assenza di parti cantate, impedendo di fatto un’ulteriore progressione di un sound che parrebbe avere molte frecce al proprio arco.
Infatti, a differenza di molte band accomunate ai nostri da questa particolare scelta stilistica, Blackened Visions si lascia ascoltare senza molta fatica riuscendo a non annoiare praticamente mai, questo grazie ad una pesantezza che dona ulteriore profondità senza tralasciare più docili aperture verso il post metal (emblematica in tal senso l’ottima title track) .
In fondo non ci sono punti deboli nella proposta dei The Lumberjack Feedback: No Cure (for the Fools) e Salvation (già presente nel citato ep) brillano per la loro intensità ritmica, IMereMortal è l’episodio più estremo ma non per questo meno intrigante, mentre la coppia finale Dra till helvete e Mah Song offre forse il meglio del lavoro: la prima con il suo incedere più doom e relative spruzzate di post metal, la seconda rivelandosi un magnifico esempio di sludge avvolgente ed in costante crescendo grazie ad una chitarra solista che si libera, infine, delle pastoie ritmiche lasciando un ottimo ricordo di sé.
Il ricorso alla doppia batteria si apprezza maggiormente nei passaggi più tirati, ma immagino che si riveli moto più efficace e peculiare in sede live ed il resto della band svolge al meglio il proprio fangoso dovere; rimane il limite (che per me resterà sempre tale, indipendentemente dai protagonisti) di una proposta esclusivamente strumentale, ricordandomi molto quello di una squadra di calcio che esibisce un gioco spettacolare ma non la butta mai dentro: il pubblico durante la partita magari si diverte, ma alla fine, a vincere, sono altri …
Tracklist:
1. No Cure (for the Fools)
2. Blackened Visions
3. IMereMortal
4. Salvation
5. Dra till helvete
6. Mah Song (Horses of God)
Anche se non si tratta del capolavoro che mi sarei aspettato, il voto comunque elevato corrisponde in toto al valore oggettivo di … To Depart.
Scommetto che, se foste dei tifosi del Barcellona, quando Leo Messi segna in una partita meno di due goal o, comunque, non si esibisce in una di quelle azioni in cui dribbla tutti gli avversari (e già che c’è anche qualche omino delle bibite), uscireste dallo stadio velatamente delusi.
Quando mi trovo a che fare con Déhà e Daniel Neagoe mi sento più o meno come i sostenitori blaugrana nei confronti della “Pulga” argentina, e così la pubblicazione di un nuovo album che li vede entrambi protagonisti rischia di scontentarmi relativamente pur risultando vincente.
Il secondo disco a nome Deos, il progetto funeral che vede i due corresponsabili ciascuno al 50% dello sforzo compositivo, è appunto una dimostrazione ineccepibile di come si debba interpretare il genere, ma non è il capolavoro che mi sarei atteso.
Questo perché, dei quattro brani che vanno a formare la tracklist di … To Depart, solo due sono le perle che possono scaturire da poche altre menti oltre a quelle del geniale duo, mentre sia la traccia di apertura (The Vigil), sia quella di chiusura (The Emptiness) non si rivelano all’altezza di cotanto splendore.
Ovviamente questi due brani farebbero la fortuna di molte band, che li utilizzerebbero ben volentieri per edificarvi attorno un intero album, ma rispetto al precedente disco sia il ricorso molto più frequente delle clean vocals, sia una rarefazione che rende più interlocutorio il sound, indeboliscono parzialmente l’impatto emotivo del lavoro.
In fondo le caratteristiche citate sono presenti anche in The Last Journey e The Silence, ma ciò avviene in maniera più organica in alternanza ai momenti ricchi di pathos provocati dall’irrobustimento del sound, associato al mortifero growl di Daniel: il titolo della prima delle due tracce calza davvero ad un andamento capace di evocare sensazioni dolorose difficili da descrivere a parole (per aiutarvi provate a pensare ai migliori Ea, ma molto più bravi tecnicamente ed ulteriormente rallentati), mentre la seconda è, se possibile, ancor più drammatica nel suo incedere ma viene stemperata da aperture melodiche con clean vocals che, qui, sono molto più funzionali alla causa rispetto ad altri frangenti.
Se vogliamo, si può trovare un certo parallelismo tra le accoppiate Fortitude, Pain, Suffering – … To Departe Gaia – IV Mythologiae degli Slow, progetto solista di Déhà, nel senso che in entrambi i casi l’album più recente vede una parziale attenuazione delle ruvidezze ed un incremento contestuale delle parti ambient e di quelle cantate con voce pulita. In tutto ciò, poi, finiscono inevitabilmente e giustamente per confluire anche le altre esperienze musicali dei due, a partire dai Clouds, dai quali vengono attinti certi passaggi pianistici di stampo intimista, che del resto ritroviamo anche negli stessi Eye Of Solitude.
In buona sostanza … To Depart è, come detto in fase introduttiva, un bellissimo lavoro, anche se il suo predecessore mi aveva offerto sensazioni ancor più dolorosamente lancinanti; non posso escludere a priori che dietro a tutto ciò possa esserci una sorta di pregiudizio affettivo, visto che fu proprio grazie a Fortitude, Pain, Suffering che scoprii l’esistenza di Déhà e Daniel, due tra i musicisti che più stimo al giorno d’oggi, e forse “accontentarsi” di un album come … To Depart è la cosa migliore da fare: non stupisca, quindi, un voto piuttosto elevato, visto che corrisponde in toto al valore oggettivo di quanto ascoltato.
Da citare, infine, e non solo per dovere di cronaca, il prezioso contributo alla resa finale del disco del chitarrista rumeno Alex Cozaciuc dei Descend Into Despair.
Tracklist:
1.I The Vigil
2.II The Last Journey
3.III The Silence
4.IV The Emptiness
Line-up:
Daniel N. – All instruments, Vocals
Déhà – All instruments, Vocals
Alex Cozaciuc – Guitars
Bellissimo disco ed ennesima conferma del valore di un musicista che sarebbe delittuoso sottovalutare.
Ho seguito Jacobo Córdova con il suo progetto Majestic Downfall fin dal full-length d’esordio Temple Of Guilt, risalente al 2009, e già quei primi passi riuscirono a convincermi attraverso la proposta di un death-doom piuttosto aspro ma decisamente bilanciato, ben eseguito e dal livello compositivo sempre al di sopra della media.
Lo split dello scorso anno con The Slow Death, poi, aveva messo in evidenza un’ulteriore maturazione in virtù di una manciata di brani molto efficaci e per certi versi più diretti che in passato, rendendolo così propedeutico alla pubblicazione di un album in grado di elevare il nome Majestic Downfall all’altezza delle migliori band del genere. … When Dead, quarto full-length per Córdova, centra il bersaglio senza per forza di cose soggiacere ad una ammorbidimento del sound, anzi, il musicista messicano continua a martellare i timpani con un death doom sovente orientato sulla prime delle due componenti, senza tralasciare di inserire pregevoli passaggi chitarristici di stampo heavy, ad infiorettare un album di notevole valore.
Il quarto d’ora di Escape My Thought rappresenta la quintessenza del disco, grazie ad uno sviluppo che va ad abbracciare tutte le sfumature stilistiche compatibili con il genere proposto, contribuendo a collocare i Majestic Downfall su un piano molto vicino ad un altro interessantissimo progetto solista come quello dei Doomed del tedesco Pierre Laube: a differenza del suo collega teutonico, Jacobo Córdova pare possedere una maggiore propensione a repentine aperture melodiche che, per esempio, riescono ad dare respiro magnificamente, nel suo finale, ad un brano a lungo piuttosto tetragono come The Brick, the Concrete.
Se Doors è ottimamente in linea con le tracce precedenti (fa eccezione la breve quanto evocativa intro atmosferica …When Dead), The Rain of the Dead chiude l’album rappresentando il death doom più ortodosso e rallentato. ma senza che si rinunci mai a quelle caratteristiche accelerazioni che impediscono al songwriting di avvitarsi su sé stesso.
Bellissimo disco ed ennesima conferma del valore di un musicista che sarebbe delittuoso sottovalutare.
Tracklist
1. …When Dead
2. Escape My Thought
3. The Brick, the Concrete
4. Doors
5. The Rain of the Dead
Un primo passo più che positivo, per il prossimo si auspica essenzialmente un graduale distacco dai propri modelli stilistici.
A tre anni dal singolo Memories Of Flesh, gli statunitensi Fin’amor si presentano sulla scena death doom con questo full length d’esordio intitolato Forbidding Mourning.
Al contrario di quanto accade di solito alle band d’oltreoceano, che spesso prendono spunto da quella che è la loro migliore espressione nel settore, ovvero i Daylight Dies, il gruppo newyorchese volge il proprio sguardo verso la vecchia Europa, nello specifico in Finlandia prendendo come punto di riferimento soprattutto i Swallow The Sun.
Non che i nostri siano una fotocopia dei maestri del death doom melodico, tutto sommato i Fin’amor ci mettono del loro per cercare di differenziarsi, a partire da un uso più cospicuo del pianoforte rispetto agli standard del genere, certo è che, quando il sound decolla esprimendo del tutto la sua corposa drammaticità, le somiglianze con Raivio e soci sono evidenti.
Poco male, in fondo, visto che l’offerta dei ragazzi di Brooklyn si attesta su un buon livello medio, compensando la relativa originalità con un’apprezzabile vena compositiva evidenziata in tracce cariche di pathos come Oasis e la lunga Natura, senza dimenticare episodi più rarefatti ma non meno efficaci come Memories Of Flesh o Porcelain Swan.
Da rimarcare la buona prova vocale di Benjamin Meyerson, fondatore dei Fin’amor assieme al chitarrista Julian Chuzhik e al tastierista Nodar Khutortsov, dotato di un growl potente ed una voce pulita profonda ed intonata; inoltre, l’attuale configurazione della band a sei elementi arricchisce non poco il sound, rendendo ancor più efficaci i passaggi più robusti.
In definitiva un primo passo più che positivo, per il prossimo si auspica essenzialmente un graduale distacco dai propri modelli stilistici.
Tracklist:
1.Bleed the Ocean
2.Oasis
3.I Am Winter
4.Memories of Flesh
5.Natura
6.Porcelain Swan
7.Valediction
Per i neofiti questo lavoro degli Ēōs potrebbe risultare decisamente indigesto, mentre chi conosce in maniera più approfondita il genere trattato troverà probabilmente più di un motivo di interesse.
Seconda prova per gli statunitensi Ēōs, dopo un demo di assaggio uscito l’anno scorso.
La band di Olympia propone un funeral doom piuttosto ortodosso e privo di particolari orpelli ma, rispetto ad uscite trattate di recente l’esito appare più organico e meno minimale, anche perché, per una volta, l’esecuzione non è appannaggio di un solo elemento ma avviene per mano di un gruppo vero e proprio.
Il sound deglj Ēōs prende spunto dalle radici del genere, partendo dai Thergothon e passando per gli act più estremi, nel senso del rallentamento dei ritmi, sulla scia degli Worship; il tutto viene eseguito senza esaltare ma facendo intravedere una buona padronanza della materia ed offrendo due brani ampiamente nella media per la loro capacita di evocare sofferenze assortite.
Per i neofiti questo lavoro degli Ēōs potrebbe risultare decisamente indigesto, mentre chi conosce in maniera più approfondita il genere trattato troverà probabilmente più di un motivo di interesse.
Chiaramente, poco più di venti minuti non possono essere esaustivi riguardo alle alle caratteristiche di una band, ma sono sicuramente indicativi di potenzialità non trascurabili.
Gli Ēōs sono quindi da attendere alla riprova su più lunga distanza.
Tracklist:
1. Umwelt
2. Pain Came Before and Will Never End
Line-up:
S. Laughton – Bass
Alex Mody – Drums, Vocals
A. Doherty – Guitars
E. Camp – Guitars
S. Radovsky – Keyboards
Un ascolto interessante, che va a costituire un buon corollario a quello che per il musicista transalpino resta comunque il progetto principale per qualità e peculiarità, ovvero Abysmal Growls Of Despair.
Dopo aver parlato dell’ultimo album targato Abysmal Growls Of Despair, facciamo un passo indietro andando ad esaminare un lavoro uscito nella scorsa primavera con il monicker Plagueprayer, altro progetto solista dell’iperattivo Hangsvart.
Rispetto a quella che, personalmente, ritengo essere l’incarnazione migliore del musicista francese, questo Forgotten Witchery mostra tratti più sperimentali, pur conservando quelli catacombali strettamente connessi al genere funeral.
La componente ambient è infatti piuttosto corposa e si manifesta un po’ in tutti i brani, occupando per intero l’intro autointitolata e la ben più lunga Dead Town posta in chiusura del lavoro; nelle altre tracce vengono fatte convivere le due anime, che finiscono per integrarsi piuttosto bene evidenziando nel complesso un sound riconducibile a tratti ai seminali Worship, specie nei due episodi migliori, quali Dark Arcane e Germ Deliverance, dove una tremebonda vena melodica umanizza un sound la cui registrazione lo fi è sintomatica di una vis compositiva claustrofobica e ripiegata su sé stessa.
La scelta di ricorrere allo screaming rispetto al più consueto growl (che Hangsvart presta anche agli ottimi Arrant Saudade) aumenta il senso di straniamento provocato da questa prima uscita a nome Plagueprayer.
Un ascolto interessante, che va a costituire un buon corollario a quello che per il musicista transalpino resta comunque il progetto principale per qualità e peculiarità, ovvero Abysmal Growls Of Despair.
Tracklist:
1.Plagueprayer
2.Dark Arcane
3.Villagers’ Fear
4.Purification
5.Germ Deliverance
6.Contamination
7.Dead Town
Line-up:
Hangsvart – all lyrics, music, voices, concept
Album d’esordio per i portoghesi Carma all’insegna di un funeral doom sui generis ma ricco di sfumature interessanti.
Album d’esordio per i portoghesi Carma all’insegna di un funeral doom sui generis ma ricco di sfumature interessanti.
Il gruppo di Coimbra arriva a questo suo primo passo dopo qualche anno di attività e, in effetti, il lavoro non risente dei difetti e delle ingenuità che talvolta affliggono le prime uscite discografiche.
Su uno sviluppo relativamente breve, Carma si estrinseca in sei brani validi e soprattutto vari, che passano da aperture di ambient atmosferica ad accelerazioni che si spingono fino a ritmiche black; detto di una scelta stilistica certo non monocorde, per contro ai lusitani manca il colpo del campione, nella fattispecie il brano capace di inchiodare alla sedia l’ascoltatore schiacciandolo sotto un peso emotivo insostenibile.
In effetti ci andrebbe piuttosto vicino una traccia come Reflexo, i cui spunti, se ben sviluppati, potrebbero consentire in futuro un importante salto di qualità, ma alla fin fine le note dell’album che si imprimono maggiormente nella mente sono quelle della conclusiva Adeus, strumentale semplice nella sua struttura ma indubbiamente dotato di una certa carica evocativa, nel suo andare anche ad attingere dalla pregevole tradizione folk della nazione iberica.
Pur se non indimenticabile l’album rappresenta una prima prova di indubbio interesse e, quindi, foriera di buoni sviluppi futuri.
Buon split album proveniente dalla sempre attiva scena dell’est europeo, con protagoniste due realtà del funeral doom minori, ma non per questo trascurabili come Поезд Родина e Funeral Tears.
Buon split album proveniente dalla sempre attiva scena dell’est europeo, con protagoniste due realtà del funeral doom minori, ma non per questo trascurabili come Поезд Родина e Funeral Tears.
La prima band (la cui traslitterazione nel nostro alfabeto diventa Poezd Rodina) è un duo formato dal russo Andrey T., che si occupa di tutti gli strumenti, e dall’ucraino Eugene, che presta il proprio aspro screaming; nel caso dei Поезд Родина parlare di funeral doom è forse un po’ forzato, visto che nel loro sound affiorano non pochi elementi che riportano direttamente al depressive più malato e melanconico.
Un discorso che tutto sommato si può fare in parte anche per la one man band Funeral Tears del russo Nikolay Seredov che, sebbene si muova su territori più propriamente doom, mantiene comunque quei tratti disperati tipici del DSBM
Detto questo, per amor di precisione e per non ingenerare equivoci di sorta in chi si apprestasse all’ascolto, Frozen Tranquillity si rivela un lavoro ispirato, capace di esibire un mood doloroso, spesso in maniera lancinante e sempre con una certa continuità; mediamente più lunghi, i brani dei Поезд Родина sono più atmosferici e dall’impatto maggiormente drammatico, mentre quelli dei Funeral Tears sfruttano frequentemente il contributo della chitarra solista per spingere sul lato malinconico del genere proposto, con una prestazione vocale da parte di Seredov che si fa preferire rispetto a quella del suo dirimpettaio.
Nel complesso, i brani migliori di ciascuna band sono forse i primi in scaletta, Ледяная Голгофа e Разливая по венам усталость, ma se non vengono raggiunti picchi memorabili va detto che il livello medio si mantiene sempre su standard piuttosto buoni, facendo sì che entrambi i nomi entrino di diritto tra quelli da tenere sotto stretta osservazione in occasione di un prossimo full length.
Tracklist:
1.Поезд Родина – Ледяная Голгофа
2.Funeral Tears – Разливая по венам усталость
3.Поезд Родина – Всего лишь смерть
4.Funeral Tears – Eternal Tranquility
5.Поезд Родина – Мертві квіти
6.Funeral Tears – Hope
Line-up: Поезд Родина
Andrey T. – All instruments, Lyrics
Eugene – Vocals
Ogni riff è un chiodo piantato nelle carni con metodica lentezza, e noi masochisticamente non ci accontentiamo, desiderando che il supplizio prosegua all’infinito.
Dopo diversi EP ed un split album, gli scozzesi Of Spire & Throne decidono finalmente di realizzare il loro primo full length, mettendo a serio repentaglio la salute mentale dei loro potenziali ascoltatori con uno sludge/doom al quale la definizione di “pachidermico” va persino un po’ stretta.
Il lato fangoso e caliginoso del genere viene qui portato alle estreme conseguenze ma il tutto, quasi magicamente, nel corso della sua oretta scarsa di durata riesce a non annoiare mai, complice un impatto ruvidamente spontaneo che provocherà al massimo qualche mal di testa dovuto al pesante oscillare della scatola cranica e di tutto il suo nobile contenuto.
Qui ogni nota è ribassata e distorta all’ennesima potenza ma, grazie alla produzione di Chris Fielding e alla masterizzazione di James Plotkin, la resa sonora è perfettamente commisurata agli intenti bellicosi della band di Edimburgo (ovviamente se siete alla ricerca di suoni leccati passate comunque oltre …): tre brani lunghissimi (il quarto, Fathom, è leggermente più breve e dai tratti sperimentali, ma non per questo meno pernicioso), nei quali affiora di tanto in tanto una voce che non fa presagire alcunché di rassicurante, inchiodano l’ascoltatore alla poltrona esibendo senza mediazioni il frutto di anni di escavazioni all’interno degli anfratti più putridi.
In fondo non c’è molto altro da raccontare di quest’opera monolitica, in grado di oscurare in un attimo anche gli scenari più bucolici: ogni riff è un chiodo piantato nelle carni con metodica lentezza, e noi masochisticamente non ci accontentiamo, desiderando che il supplizio prosegua all’infinito.
Nel corso di alcuni (presunti) barlumi di lucidità ho pensato che se Lee Dorrian e Gary Jennings non fossero già stati nella fase iniziale del loro trip psichedelico, forse Forest Of Equilibrium avrebbe potuto suonare molto simile a Sanctum in the Light, di sicuro come pesantezza questo lavoro non è da meno, anche se in quel caso si parla sempre e comunque di una pietra miliare del genere: però non è che gli Of Spire & Throne ci vadano poi così lontani, provare per credere ….
Tracklist:
1.Carrier Remain
2.Fathom
3.Upon the Spine
4.Gallery of Masks
Line-up:
Matt Davies – bass, vocals
Ali Lauder – guitar, vocals, bass, synth, harmonium
Graham Stewart – drums, guitar, synth
Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del funeral-death doom.
Nuovo album per i georgiani Ennui, da qualche anno alla ribalta nella scena doom con il loro sound di matrice funeral/death doom e dei quali ho avuto il piacere e l’opportunità di seguire il percorso musicale fin dai primi passi corrispondenti con l’album d’esordio Mze Ukunisa del 2012.
A questo punto della loro storia, David Unsaved e Serj Shenghelia non potevano più nascondersi in quanto da loro era lecito attendersi un album che non solo desse continuità a quanto già fatto, ma che garantisse un decisivo e definitivo salto di qualità.
Per fare questo i due musicisti di Tblisi, passati nel frattempo dalla MFL Records di Evander Sinque, che ha avuto il grande merito di sdoganarli, alla Solitude Productions, intanto hanno ritenuto di avvalersi in pianta stabile di un terzo elemento che si dedicasse alla sezione ritmica e individuato, niente meno, che in Daniel Neagoe, sua maestà “il growl” nonché mastermind degli Eye Of Solitude, dei Clouds e coinvolto in mille altri progetti di livello assoluto (peraltro, il musicista di origine rumena ha anche curato personalmente masterizzazione e mixaggio dell’album).
Ma David e Serj non si sono accontentati dell’ingaggio di un nome così pesante, anzi … : scorrendo la lista degli ospiti che hanno fornito il loro contributo alla riuscita del disco troviamo gente come Greg Chandler (Esoteric), Don Zaros (Evoken), Sameli Köykkä (Colosseum) e AKiEzor (Abstract Spirit e Comatose Vigil), quasi a voler chiamare a raccolta, simbolicamente, i nomi storici della scena a fornire una sorta di imprimatur all’opera.
Questo spiegamento di forze ha prodotto il risultato sperato: Falsvs Anno Domini è l’album definitivo degli Ennui, quello che consentirà loro di passare dallo status di ottima band futuribile a quello di realtà consolidata in grado di riscrivere la storia del genere negli anni a venire.
Rispetto all’ultimo lavoro il sound si è spostato maggiormente verso un death dooom dai toni aspri ma non privo di aperture melodiche e atmosferiche: l’aura che avvolge il sound degli Ennui appare però molto più cupa e minacciosa che in passato, in ossequio ad un contenuto lirico che non lascia soverchie speranze riguardo alle redenzione di un’umanità avviata all’ineluttabile autodistruzione, ancor più morale che materiale. Forbidden Life apre l’album in maniera invero piuttosto anomala, con un suono di chitarra che ricorda maledettamente quello di The Figurhead dell’immortale capolavoro Pornography targato Cure: un caso ? Forse, ma non c’è dubbio che nessuno meglio di Smith ha preconizzato, all’inizio degli anni ottanta, l’inizio del decadimento dell’umanità, raccontando il disagio di chi a vent’anni si sentiva un centenario precoce.
Il brano poi si apre in maniera più canonica, mantenendo un andamento piuttosto malinconico , ma è con la successiva The Apostasy che Falsvs Anno Domini prende definitivamente quota, grazie a sonorità molto vicine a quelle dei Colosseum dell’indimenticato Juhani Palomaaki: momenti più aspri si alternano a funerei rallentamenti e ad ampie aperture nelle quali la chitarra tesse magnifiche e dolenti melodie.
Con TheStones Of The Timeless arriviamo al fulcro dell’intero album, laddove viene espresso oltre un quarto d’ora di pura disperazione, con uno screaming che prende il posto del più canonico growl ed una parte finale in cui, inconsciamente o meno, l’ingresso di Daniel negli Ennui si fa sentire tramite un crescendo melodico che è tipico marchio di fabbrica degli Eye Of Solitude: in definitiva, una meraviglia …
Dopo questi quaranta minuti di doom ai suoi massimi livelli, ce ne attendono circa altrettanti certamente non da meno per intensità e capacità evocative, con in particolare altre due tracce splendide come No Home Beneath the Stars, sedici minuti che volano via tra ricami chitarristici in un’atmosfera, almeno inizialmente, un po’ meno da tregenda ed un altro finale da brividi, e la title track, più vicina per sonorità alla scuola ex sovietica con i suoi toni cupi e solenni allo stesso tempo: la chiusura ossessiva sta a simboleggiare l’annientamento di ogni vana speranza, una sorta di reiterazione all’ennesima potenza della rabbia che assale chi si trova al cospetto di un degrado apparentemente senza limiti.
Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del genere: Falsvs Anno Dominiè un altro grandissimo album in un settore musicale che, pur trattando prevalentemente della morte, è paradossalmente più vivo che mai, in un “anno domini” che ha visto il ritorno, dopo anni di silenzio, di giganti quali Shape Of Despair e Skepticism, oltre che dei meno noti Tyranny; la band georgiana dimostra che le nuove leve sono già all’altezza della situazione e in grado di alimentare nel migliore dei modi un genere capace di fornire emozioni uniche.
Tracklist:
1. Forbidden Life
2. The Apostasy
3. The Stones of the Timeless
4. When our Light Dies Forever
5. No Home Beneath the Stars
6. Falvs Anno Domini
Line-up:
David Unsaved – guitars, vocals, keyboards.
Serge Shengelia – guitars, vocals.
Daniel Neagoe – drums, bass.
Un sentore di perenne tragedia aleggia su un lavoro che letteralmente si trascina per una cinquantina di minuti, materializzando l’immagine di un’anima dal penoso incedere provocato dal peso insostenibile dell’esistenza.
L’aria che tira in Finlandia dev’essere sicuramente particolare: del resto il funeral doom è nato in quelle lande per mano dei Thergothon ed è stato poi perfezionato e codificato prima dagli Skepticism e poi da una serie di band eccezionali quali Shape Of Despair, Colosseum e, più recentemente, Profetus.
Più d’uno probabilmente può essersi dimenticato di un disco uscito nel 2005, intitolato Tides of Awakening, per oltre un decennio rimasta la sola testimonianza su lunga distanza dei Tyranny, band che proprio ai Profetus è collegata per la comune appartenenza di Matti Mäkelä, colui che con Lauri Lindqvist condivide le sorti di questa band ritornata improvvisamente alla ribalta con un nuovo album. Aeons in Tectonic Intermentriprende il discorso esattamente dal punto in cui si era bruscamente interrotto: il funeral dei Tyranny non è evocativo come quello di Skepticism o Shape Of Depair, ma in qualche modo va a colmare il vuoto lasciato dai Colosseum del compianto Juhani Palomäki: un sentore di perenne tragedia aleggia su un lavoro che letteralmente si trascina per una cinquantina di minuti, materializzando l’immagine di un’anima dal penoso incedere provocato dal peso insostenibile dell’esistenza.
La voce di Lindqvist è appropriatamente inumana e si fonde con le lente partiture capaci di avvolgere in una spira di disperazione dagli effetti venefici: ma ecco che, a tratti, sporadici squarci di melodia creano angusti varchi nella spessa coltre di negatività, ove si vanno ad innestare fugaci barlumi di speranza, ancor più terribili per la loro ingannevole essenza.
La chitarra di Mäkelä non si limita a produrre riff mortiferi nella loro pachidermica lentezza ma regala anche perle di struggente dolore come nell’opener Sunless Deluge e nel meraviglioso finale di Bells of the Black Basilica, brano a dir poco monumentale per la sua terrificante bellezza.
I Tyranny rischiavano di restare derubricati allo status di band di culto, per di più in un settore che di suo è già sufficientemente di nicchia, ma con questo magnifico lavoro entrano di diritto nel gotha del funeral finlandese, il che equivale a dire mondiale, vista la già citata importanza della nazione dei mille laghi per lo sviluppo del genere.
Tracklist:
1. Sunless Deluge
2. A Voice Given unto Ruin
3. Preparation of a Vessel
4. The Stygian Enclave
5. Bells of the Black Basilica
Line-up:
Matti Mäkelä – Guitars, Vocals, Samples
Lauri Lindqvist – Vocals, Bass, Keyboards
Quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione
Cosa può spingere un band dedita ad un genere di nicchia come il doom ad uscire con un triplo album nell’anno domini 2015, in un periodo storico di vacche più scheletriche che magre dal punto di vista commerciale?
È vero, i SwallowThe Sun sono forse oggi, tra tutte le band di riferimento del genere, quella che possiede comunque un minimo di appeal commerciale, viste le aperture a sonorità più gotiche e melodiche evidenziatesi magnificamente nel precedente Emerald Forest and the Blackbird; in più, aggiungiamo che i finnici escono oggi sotto l’egida della Century Media, a suggellare l’impressione di un’operazione comunque pianificata con cura e ben lungi da rappresentare l’espressione di un’insana bulimia creativa ma, detto ciò, la fruizione di quasi tre ore di musica di tale fatta resta comunque affare per pochi.
Se nutrire qualche dubbio sulla resa finale complessiva di una simile mole di lavoro appare più che lecito, la sua strutturazione finisce per provocare qualche rimpianto a causa di alcune scelte non del tutto condivisibili di Raivio e soci.
Il contenuto dei tre cd, infatti, è suddiviso in maniera netta in base allo stile musicale proposto, per cui troviamo un disco 1 (intitolato Gloom) che ricalca le orme dell’ultimo full length, con le sue ampie aperture melodiche ed atmosferiche, un disco 2 (Beauty) completamente acustico ed un disco 3 (Despair) che porta i Swallow The Sun a battere un terreno ostico ed esplorato solo in parte nei primi due album, come quello rappresentato dal funeral-death/doom.
Per fortuna la montagna creativa dei nostri non ha partorito un topolino, nel senso che Songs from the North I, II & III è un’opera che resterà sicuramente impressa nella memoria degli appassionati come una delle migliori dell’anno, ma non si può sorvolare sul fatto che il disco acustico si rivela il classico vaso di coccio racchiuso in mezzo a due monumentali espressioni artistiche quali Gloom e Despair.
Bastano i 9 muniti di With You Came the Whole of the World’s Tears per capire che i Swallow The Sun sono tornati senza alcuna traccia di appannamento dovuta ai tre anni trascorsi da Emerald… : l’impronta compositiva di Raivio è un marchio di fabbrica in grado di amplificare la portata emotiva delle digressioni melodiche, mentre Kotamäki è ormai una certezza assoluta anche con le clean vocals, facendo sì che l’alternanza con il growl ed uno screaming usato con maggiore parsimonia non appaia mai forzata.
Almeno fino a Heartstrings Shattering il primo disco è di livelli irraggiungibili per molti, mentre la seconda metà è lievemente meno coinvolgente, pur risultando ugualmente di altissimo spessore.
Dopo un’ora di emozioni a profusione, Beauty rappresenta un inevitabile calo di tensione: impeccabile dal punto di vista esecutivo, il secondo cd difetta proprio in quell’afflato evocativo che dovrebbe essere insito in musica prevalentemente acustica, per evitare di renderla alla lunga inoffensiva; purtroppo la sola Songs from the North si rivela all’altezza della situazione, grazie anche al contributo in lingua madre della brava Kais Vala, mentre il resto scorre in maniera anche piacevole ma senza lasciare un segno davvero tangibile.
Con le prime note di The Gathering of Black Moths, che inaugura il disco conclusivo denominato Despair, veniamo scaraventati in atmosfere plumbee, in cui solo dosati spunti melodici rappresentano una fievole fiammella di speranza.
L’interpretazione del funeral da parte dei Swallow The Sun risente comunque dell’anima gotica connaturata al loro stile musicale, per cui l’andamento è sì dolente ma mai troppo claustrofobico, e la disperazione evocata dal titolo fornito al cd appare tangibile proprio nella sua malinconica ineluttabilità.
I finnici scendono così sul terreno preferito dei campioni del genere in questi ultimi anni, sto parlando degli Eye Of Solitude, e la battaglia è tutt’altro che impari, visto che Raivio tira fuori dal cilindro un pacchetto di brani magnifici, che si sublima nella straordinaria Abandoned by the Light: qui chitarra e tastiera (sempre ad opera del bravissimo Aleksi Munter) si alternano nel proporre partiture dolenti e capace di far rabbrividire le anime che si abbeverano di queste note.
Alla fine di questa sorta di prova di resistenza all’ascolto, ciò che resta di Songs From The North è molto e non sarà facile cancellare dalla memoria la bellezza di diversi brani contenuti nella trilogia.
Volendo fare gli incontentabili, come è giusto che sia al cospetto di quella che io considero una delle band migliori in assoluto del panorama, un disco doppio sarebbe stato il giusto mezzo che ci consentirebbe di parlare di quest’opera come di un qualcosa prossimo al capolavoro: così non è perché purtroppo, anche se lo si vorrebbe ignorare, il cd acustico c’è e non lo si può omettere ai fini della valutazione complessiva.
Però, sia chiaro, quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione da parte degli estimatori di questa splendida realtà musicale chiamata Swallow The Sun.
Disc 1 – Gloom
1. With You Came the Whole of the World’s Tears
2. 10 Silver Bullets
3. Rooms and Shadows
4. Heartstrings Shattering
5. Silhouettes
6. The Memory of Light
7. Lost & Catatonic
8. From Happiness to Dust
Disc 2 – Beauty
1. The Womb of Winter
2. The Heart of a Cold White Land
3. Away
4. Pray for the Winds to Come
5. Songs from the North
6. 66°50’N, 28°40’E
7. Autumn Fire
8. Before the Summer Dies
Disc 3 – Despair
1. The Gathering of Black Moths
2. 7 Hours Late
3. Empires of Loneliness
4. Abandoned by the Light
5. The Clouds Prepare for Battle
Line-up:
Juha Raivio – Guitars
Matti Honkonen – Bass
Markus Jämsen – Guitars
Aleksi Munter – Keyboards
Mikko Kotamäki – Vocals
Juuso Raatikainen – Drums
Chi ama il gothic doom avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .
Malta è una delle nazioni più piccole d’Europa ma a livello di doom metal possiede una tradizione piuttosto radicata: non a caso nell’incantevole isola del Mediterraneo si svolge fin dal 2009 un rinomato festival dedicato a questo sottogenere musicale.
Gli Weeping Silence esplorano la parte più malinconica e melodica del doom ovvero quella ammantata di atmosfere gotiche, con la consueta dicotomia tra voce maschile e femminile.
Chiaramente, con questo tipo di premesse, chi sperava in qualcosa di particolarmente innovativo può pure passare oltre, visto che l’affollata band maltese, composta da 7 elementi, non fa altro che riproporre le sonorità portate ai massimi livelli espressivi da nomi quali Draconian o primi Within Temptation, tanto per citarne due particolarmente pesanti.
Ma Opus IV Oblivion merita ben più di un distratto ascolto perché, a fronte di una relativa orecchiabilità, la materia è trattata nel miglior modo possibile, il che si traduce in una raccolta di brani avvincenti ed emozionanti: tutto quanto è giusto attendersi da un gruppo esperto, del resto, con già altri tre full length all’attivo nel corso di una storia musicale ultracedennale.
In effetti la componente prettamente doom si rinviene più a livello attitudinale che non stilistico: qui, infatti, non troveremo rallentamenti asfissianti od atmosfere particolarmente plumbee, complici un songwriting lineare quanto efficace e la soave (ma non stucchevole) voce di Diane Camenzuli, la quale, proprio senza andare mai fuori dalle righe, ci conduce piacevolmente lungo questo cammino malinconico ma privo di eccessive ruvidezze.
Il valore dell’album risiede appunto nella sua gradevolezza che non viene mai meno, salvo una leggera opacizzazione nella parte centrale con i due episodi forse meno brillanti, In Exile e Stormbringer, e contrassegnata da aperture improvvise nel corso delle quali gli strumenti si liberano raggiungendo picchi evocativi non trascurabili: Eyes Of The Monolith, Hidden from the Sun, Bury My Fairytale possiedono appunto queste caratteristiche, anche se la ciliegina sulla torta i nostri la collocano proprio in chiusura, con la teatrale e drammatica Gothic Epitaph, splendida ed autentico manifesto sonoro del sound della band maltese.
A corollario di una tracklist di buon livello va aggiunta la prova di spessore dell’intera band: detto della vocalist, il growl di Dario Pace Taliana ha il pregio di completarne i vocalizzi senza risultare invadente, mentre il resto della truppa erige un dolente accompagnamento sonoro, impreziosito dall’ottimo lavoro alla chitarra solista di Manuel Spiteri, oltre che da una produzione di assoluta eccellenza.
In definitiva, chi ama questo genere avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .
Tracklist:
1. Oblivion – Darkness in My Heart Anno XV
2. Ivy Thorns upon the Barrow
3. Eyes of the Monolith
4. Hidden from the Sun
5. In Exile
6. Stormbringer
7. Transcending Destiny
8. Bury My Fairytale
9. Gothic Epitaph
Line-up:
Diane Camenzuli – Vocals (female)
Dario Pace Taliana – Vocals
Mario Ellul – Guitars
Manuel Spiteri – Guitars (lead)
Sean Pollacco – Bass
Alison Ellul – Keyboards
Angelo Zammit – Drums
Tra i solchi, ma specialmente nelle atmosfere del nuovo lavoro dei Black Oath, passano davanti a noi spiriti riporati dall’aldilà, incantatori e ministri di altari esoterici che hanno ispirato band del calibro di Death SS, The Black e Paul Chain.
Non è la prima volta che parlando di un album mi ritrovo a fare riferimento alla scena dark italiana, una fonte di ispirazione inesauribile, nella musica come nel cinema, specialmente negli anni settanta e ottanta, con artisti diventati oggetto di culto in tutto il mondo e punto di riferimento per chi non si accontenta di opere usa e getta, ma affascinato dall’arte,esplora l’underground, in questo caso quello del metal doom, colmo di riferimenti all’oscuro mondo dell’occulto.
L’Italia (fortunatamente) non è solo il paese dei talent show o dei film dei Vanzina, nel suo dna risiede una forte tradizione mistico occulta, esplosa negli anni settanta con registi che hanno fatto scuola, insegnando cinema horror a tutto il mondo.
Se poi, come in questo caso si parla di musica, l’importanza delle nostre band, nel dark/prog così come nel metal classico ed estremo diventa esponenziale.
I milanesi Black Oath portano avanti la tradizione italica nel genere da quasi dieci anni, il loro esordio omonimo uscì due anni dopo la fondazione in formato ep, poi altri lavori minori e due full length The Third Aeon del 2011 e Ov Qliphoth and Darkness licenziato due anni fa.
Metal classico, accenni al doom e tanta atmosfera dark sono le principali caratteristiche del sound di questo bellissimo lavoro, che affonda le radici nel dark metal prog nazionale, colmo di stupende ed oscure melodie vintage, un viaggio mistico nella musica esoterica, presi per mano dalla splendida voce di A.Th, sarcedote di questa liturgia occulta che per quasi un’ora ipnotizza e seduce.
Molto scorrevole, complice un songwriting maturo ed ispirato, To Below And Beyond è la classica opera senza tempo, lontana da facili estremismi, ma ben consolidata nella parte oscura dell’heavy metal classico, dove torna ad avere importanza nel sound, sua maestà il riff, potente e melodico, cadenzato nel suo lungo incedere e valorizzato da solos che escono dal mondo oscuro ammalianti e tragici.
Non un brano che scende sotto una media che rimane altissima per tutta la durata del lavoro, tenendo l’ascoltatore incollato alle cuffie, perso nelle atmosfere messianiche di songs come I Am Athanor, l’enorme Flesh To Gold, la più doom oriented del lotto e la grandiosa title track, monumento all’heavy/dark esoterico e occulto.
Tra i solchi, ma specialmente nelle atmosfere del nuovo lavoro dei Black Oath, passano davanti a noi spiriti riportati dall’aldilà, incantatori e ministri di altari esoterici che hanno ispirato band del calibro di Death SS, The Black e Paul Chain.
Un’opera nera che non deluderà gli amanti del genere , il più underground ed affascinante di tutte le varie anime della musica metallica.
TRACKLIST
1. Donum Dei
2. Wicked Queen
3. I Am Athanor
4. Mysterion
5. Flesh to Gold
6. Sermon Through Fire
7. Healing Hands of Time
8. To Below and Beyond (Ars Diaboli)
LINE-UP
A.Th Vocals, Guitars, Bass
Chris Z. Drums
B. R. Guitars
Strange Rites of Evil non delude, grazie ad un pacchetto di brani eccellenti che, pur restando entro schemi consolidati, regalano il tipico olezzo dolciastro dei fiori in decomposizione in piccoli cimiteri dimenticati e si rivelano l’ideale accompagnamento musicale di una danza macabra dei quali i nostri gli sono gli interpreti d’elezione.
Ritornano i necrofori del doom per riportarci di peso nel bel mezzo dell’umana tragedia connessa con l’ineluttabile momento del trapasso.
La formula della cult band genovese è ormai ben consolidata, tanto da costituire un ormai riconoscibilissimo marchio di fabbrica: le macabre tastiere di Labes C.Necrothytus occupano la scena punteggiata dallo stile vocale dello stesso, sorta di versione deviata di McCoy.
In quest’album, però, anche la chitarra di Regen Graves si ritaglia diversi nonché apprezzabili spazi solisti, in ossequio ad un mood per certi versi più diretto e meno ostico, pur con tutte le dovute distinzioni del caso: la sensazione è che gli Abysmal Grief releghino le proprie pulsioni sperimentali alle uscite di più breve minutaggio (EP o split) per rendere i full length mirati ad una fascia di ascoltatori che, oltre agli appassionati di doom, possa comprendere anche chi è avvezzo a sonorità horror-dark o a quelle progressive di matrice esoterica. Strange Rites of Evil, quindi, non delude, grazie ad un pacchetto di brani eccellenti che, pur restando entro schemi consolidati, regalano il tipico olezzo dolciastro dei fiori in decomposizione in piccoli cimiteri dimenticati e si rivelano l’ideale accompagnamento musicale di una danza macabra dei quali i nostri gli sono gli interpreti d’elezione.
Gli Abysmal Grief in questi ultimi anni hanno intensificato la propria attività, sia in studio che dal vivo e, a tale proposito, segnaliamo che il ventennale della loro fondazione verrà onorato da un un tour europeo che partirà ad aprile in compagnia dei veneti Epitaph.
Tracklist:
1. Nomen omen
2. Strange Rites of Evil
3. Cemetery
4. Child of Darkness*
5. Radix malorum
6. Dressed in Black Cloaks
Line-up:
Regen Graves – chitarra, synth
Labes C. Necrotytus – voce, tastiera
Lord Alastair – basso
Lord of Fog – batteria
Gli elementi dronici si alternano ad un sound che è costantemente ripiegato su se stesso, chiuso in una posizione fetale
Hangsvart è un musicista francese che sicuramente non soffre di sterilità compositiva: con il suo progetto funeral doom Abysmal Growls Of Despair è già arrivato al sesto full length in circa due anni, oltre ad altrettante uscite tra ep e spilt album.
Se a questi aggiungiamo, poi, che il nostro tiene in vita altre one man band quali Plagueprayer, Catacombs e Hangvart, oltre a prestare la propria voce agli Ancient Lament e agli ottimi Arrant Saudade, il termine di stakanovista del funeral doom glielo possiamo benevolmente affibbiare.
Che non si faccia l’errore, però, di pensare ad una sorta di Buckethead del genere specifico: nel caso di Hangsvart non si tratta di mera logorrea compositiva come per il simpatico “testa di secchio”, bensì di un’indubbia prolificità che, per una volta, non porta ad alcuna dispersione di energie; Between My Dead è una dolorosa ed estrema espressione di disagio esistenziale che non lascia spazio alcuno a slanci melodici od aperture atmosferiche: l’orribile rantolo del musicista transalpino è la voce di una mente imprigionata negli abissi più profondi di una psiche in avanzato stato di decomposizione.
Il lavoro risulta inevitabilmente faticoso nel suo incedere e la conoscenza approfondita della materia è conditio sine qua non per la sua fruizione ma, fatte le dovute premesse, questa è una delle forme di funeral più essenziali e nel contempo ortodosse che si possano ascoltare.
Gli elementi dronici si alternano ad un sound che è costantemente ripiegato su se stesso, chiuso in una posizione fetale; due tracce mostruose, in tutti i sensi, come The End of Previous Life e The Feast, senza che vada trascurato il resto, bastano e avanzano per fare di questo disco un piccolo gioiello, sia pure nel suo risultare opacizzato ed oscurato dall’atmosfera caliginosa in cui è stato deliberatamente abbandonato.
Una prova micidiale, rivolta senz’altro a pochi audaci, ma vale davvero la pena di lasciarsi portare alla deriva dai mostri evocati da Hangsvart.
Tracklist:
1. Misanthropy
2. The End of Previous Life
3. New Begining
4. The Feast
5. Wake Up
Aion possiede una sensibilità diversa, una sonorizzazione incessante di emozioni e di pensieri antichi sentiti da una persona appartenente alla civiltà cosiddetta moderna.
I Wows sono una creatura dalle molte teste e da un suono unico e ben definito. Un gruppo di persone, quando vuole fare musica e mettersi in gioco ha fondamentalmente due strade : copiare o innovare.
Certamente nessuno può fare musica nuova al cento per cento ed essere minimamente orecchiabile, ma certamente ci si può creare un proprio suono. I Wows appartengono decisamente a questa seconda categoria, nel senso che il suono è pressoché unico. I veronesi, attivi dal 2008, nascono nella grande famiglia esoterica del post metal, ma dentro la loro musica vi sono varie proposte sonore, che permettono all’ascoltatore di imbarcarsi in un viaggio molto particolare.
Dimentichiamoci toni pesanti o chitarre estremamente ribassate, qui a dominare è l’aulicità, un epico ricercare note e vie lontane dallo stomaco ma vicino alla mente. All’interno di Aionpossiamo trovare la via per meditare ascoltando un disco di musica moderna. Dentro questo disco vi sono moltissime cose, se avete la giusta disposizione, qui si va in controtempo, non c’è velocità bensì sostanza, non ci sono inutili pesantezze bensì il percorso di sentieri aperti da sciamani come i Neurosis e pochi altri. Aionpossiede una sensibilità diversa, una sonorizzazione incessante di emozioni e di pensieri antichi sentiti da una persona appartenente alla civiltà cosiddetta moderna.
Il disco è splendidamente rappresentato dalla copertina dipinta da Paolo Girardi, è un vortice nel quale è dolce perdersi, abituati ai vortici delle nostre quotidiane follie. Come ogni gran disco cresce enormemente alla distanza e noi lievitiamo con lui.
Nel mondo degli Halter c’è ben poco spazio per immagini colorate e buoni sentimenti: la realtà prefigurata dalla band russa è intrisa di un pessimismo che sfocia sovente in una cruda ed aspra misantropia.
Nel mondo degli Halter c’è ben poco spazio per immagini colorate e buoni sentimenti: la realtà prefigurata dalla gruppo russo è intrisa di un pessimismo che sfocia sovente in una cruda ed aspra misantropia.
Giunta al secondo album dopo Omnipresence of Rat Race del 2013, la band, se non muta sostanzialmente il proprio atteggiamento nei confronti dell’umanità e delle sue miserie, compie un deciso balzo in avanti dal punto di vista prettamente musicale, giacché il death doom scarno ed asciutto ma anche privo di particolari slanci, del precedente album, lascia posto ad una forma più elaborata con diverse aperture melodiche o riff relativamente fruibili, in grado di attrarre l’attenzione più agevolmente.
Nulla di nuovo, va sottolineato, ma con For The Abandonedgli Halter si allineano al livello medio delle produzioni del genere nel loro paese, che è decisamente elevato.
Dei 6 brani che compongono l’album due in particolare spiccano sugli altri: First Snow, che stempera la durezza di base del sound con passaggi più ariosi ed evocativi, e Keepers of Persistent War, che gode invece di una struttura per certi versi accattivante e che è la riprova di quanto sia in grado di fare la band russa nel momento in cui decide di aprirsi parzialmente a sonorità meno claustrofobiche.
Ma è tutto l‘album che si dimostra decisamente di un altro livello rispetto al predecessore (niente male anche l’incipit della conclusiva Ode To Abandoned); tutto sommato gli Halter riescono a differenziarsi dalle altre realtà del genere almeno a livello concettuale, laddove un atteggiamento complessivo in cui traspare una certa “pietas” nei confronti di chi è oggetto di un ineluttabile destino, viene in questo caso sopraffatto da un sorta di cinico disgusto nei confronti di un’umanità allo sbando.
Tracklist:
1. …of the Part of Nature
2. Hunters’ Brotherhood
3. First Snow
4. Pain Which Never Sleeps
5. Keepers of Persistent War
6. Ode to the Abandoned
Line-up:
Wad – Bass
VanesS – Drums
Igor – Guitars
Mid – Guitars
Alex – Vocals
Ritorno per Miguel Santos con i suoi A Dream Of Poe, giunti con An Infinity Emerged al secondo full length.
Il musicista portoghese, oggi di stanza ad Edimburgo, opera di fatto in maniera prevalentemente autonoma, avvalendosi solo del contributo di Paulo Pacheco per la stesura dei testi, di un vocalist (che, benchè non sia citato nelle scarne note a mia disposizione, dovrebbe essere il britannico Kaivan Saraei) e del tocco tastieristico del ben noto ospite Kostas Panagiotou (Pantheist).
Il sound degli A Dream Of Poe è un gothic doom che ha l’indubbio pregio di sfuggire ad alcuni dei cliché del genere, a partire proprio dall’uso della voce che, contrariamente alle attese, è agli antipodi dei canonici vocioni baritonali o dai tratti gutturali, attestandosi invece su tonalità decisamente suadenti e delicate.
Il tutto funziona piuttosto bene anche se, alla lunga, un minimo di fatica nell’ascolto affiora: infatti, se l’opener Egregore gode di splendide linee melodiche, impreziosite per di più da un bellissimo assolo di chitarra, i brani che seguono sono meno brillanti e qui, probabilmente, sarebbe servito davvero un timbro vocale più deciso rispetto a quello indubbiamente bello ma a tratti un po’ lamentoso esibito dal pur bravo Sarei.
Non escludo che la mia valutazione derivi da una forma involontaria di intergralismo, tipica dell’appassionato devoto ad un genere specifico, ma in un ambito sonoro come quello proposto dagli A Dream Of Poe fatico non poco a degirerire vocalizzi alla Bellamy come quelli che si manifestano in The Isle Of Cinder.
Detto questo, l’album è decisamente valido, pur se non scorrevolissimo, ma non dimentichiamo che abbiamo a che fare con un genere come il doom, per cui un po’ di fatica in più nel recepire la proposta musicale deve essere messa in preventivo.
L’ultima traccia, Macula, si rivela una nuova ottima testimonianza dell’abilità compositiva di Santos, che in questa occasione specifica riesce ad esibire compiutamente i diversi umori che vanno a comporre un quadro complessivo plumbeo ma nel contempo piuttosto delicato; le atmosfere evocate sono più malinconiche che disperate e sono volte al tratteggio di una tristezza diffusa ma non per questo meno logorante.
Proprio per questi aspetti, in generale l’approccio al genere di Santos non è affatto scontato e di questo gli va dato senz’altro atto; tutto sommato, An Infinity Emerged, per le sue carattersthe parrebbe più adatto a mio avvisi ai fruitori del doom di stampo classico che non agli estimatori del versante gothic death del genere.
Intrigante, avvolgente, formalmente ineccepibile, ma non ancora imprescindibile.
Tracklist:
1. Egregore
2. Lethargus
3. The Isle Of Cinder
4. Lighthouses For The Dead
5. Macula
Line-up:
Miguel Santos – All Instruments
Paulo Pacheco – Lyrics
Questa non è una recensione, bensì un tentativo di sensibilizzare i nostri lettori affinchè contribuiscano alla raccolta fondi attivata dagli Eye Of Solitude e dalla Kaotoxin Records per aiutare le famiglie delle vittime della disgrazia avvenuta a Bucarest nella notte tra il 30 e 31 ottobre.
Questa non è una recensione, bensì un tentativo di sensibilizzare i nostri lettori affinchè contribuiscano alla raccolta fondi, promossa dagli Eye Of Solitude e dalla Kaotoxin Records, per aiutare le famiglie delle vittime della disgrazia avvenuta a Bucarest nella notte tra il 30 e 31 ottobre; infatti, durante il concerto dei Goodbye to Gravity in programma al Colectiv Club, 32 persone hanno perso la vita e 179 sono rimaste ferite a causa di un incendio provocato da alcuni fuochi artificiali e propagatosi rapidamente all’interno del locale.
Le sostanze tossiche rilasciate dai rivestimenti in poliuretano e l’impossibilità per gran parte dei convenuti (circa 400 persone, visto che l’evento era oltretutto gratuito) di abbandonare rapidamente la sala a causa della presenza di una sola uscita di sicurezza, hanno provocato questa terribile tragedia che ha scosso tutti gli appassionati di metal in ogni parte del mondo.
Ha colpito e commosso, inoltre, la sorte di questi due autentici eroi, Adrian Rugina (batterista dei Bucium) e Claudiu Petre (fotografo e blogger), che hanno perso la loro vita dopo averne salvate molte altre; non a caso il Presidente della Repubblica li ha insigniti alla memoria del grado di Cavalieri dell’Ordine Nazionale (messaggio ai benpensanti: quando pensate con disprezzo ai “metallari”, accomunandoli per comodità o ignoranza a quelle masse di decerebrati che si autodistruggono ogni fine settimana a forza di droghe sintetiche, tenete ben impressa l’immagine di questi magnifici ragazzi …)
La mobilitazione da parte della label di Lille e della doom band inglese, guidata dal musicista rumeno Daniel Neagoe, è stata immediata e ha fornito come frutto questo (manco a dirlo) splendido brano inedito che è disponibile per il download sul bandcamp della Kaotoxin (http://listen.kaotoxin.com/album/lugubrious-valedictory-charity-single): i proventi ottenuti tramite le offerte libere, rilasciate per l’acquisto, verranno interamente devoluti alle famiglie delle vittime della tragedia.
Per quel che vale, garantisco personalmente sulla trasparenza e sulla sincerità dell’operazione, avendo avuto la possibilità di apprezzare in questi anni la serietà e la sensibilità di ottime persone quali Nicolas Williart e Daniel Neagoe.
Di seguito trovate il comunicato della Kaotoxin e degli Eye Of Solitude: appassionati di doom, e non solo, fate la vostra parte !
Non è un segreto che sia Kaotoxin che Eye Of Solitude abbiano forti legami con la Romania: un membro dello staff Kaotoxin, Radu C., è nato in Romania e abbiamo avuto modo di visitare il paese con lui due volte, e stringere nuove amicizie ogni volta, mentre l’anima musicale degli Eye Of Solitude, Daniel N., anche se vive da tempo nel Regno Unito, è nato anch’egli in Romania e ha forti legami con la scena locale, avendo fatto parte di diverse band del suo paese d’origine, e cerca di suonarvi il più spesso possibile , come accaduto nel 2013 al Ghost Gathering con gli Eye OF Solitude o, più recentemente, la scorsa estate come session drummer dei Shape of Despair al Dark Bombastic Evening.
Subito dopo la tragedia, Daniel N. ha deciso che gli Eye Of Solitude avrebbero rilasciato un singolo in formato solo digitale per raccogliere fondi per le famiglie di quelli che, purtroppo, sono morti in questo tragico evento.
Ecco un messaggio da Daniel N.: “A tutti gli appassionati di metal in circolazione: noi, come Eye Of Solitude, vogliamo mostrare il nostro sostegno e la solidarietà alle vittime dell’incendio al Colectiv Club e alle loro famiglie. Tra di loro vi erano vecchi amici, tra i quali le persone che hanno lottato per salvare quelli intrappolati dentro quell’inferno ardente, eroi che ora hanno lasciato nello sgomento famiglie, mogli, mariti, figli e figlie. Questo non è un supporto da prendere alla leggera, si tratta di una sveglia e di un invito alla solidarietà. Questo è un momento in cui tutti dovrebbero fare mente locale cercando di immaginare l’inferno che questi eroi hanno attraversato per salvare gli altri. Vorremmo fare appello a tutti voi per contribuire ad aiutare le famiglie e chi ne ha bisogno in questo momento.
Con questa operazione benefica speriamo di raccogliere il più possibile ed inviare il denaro direttamente alle famiglie di coloro che perirono nella notte di venerdì 30 Ottobre 2015. Ricordatevi, fratelli e sorelle, siamo tutti nella stessa comunità, ed abbiamo il dovere di essere uniti e solidali. Ricordatevi di queste persone, che sono state mogli, mariti, padri, madri, figli, figlie; amici … per favore, facciamo qualcosa! Grazie.”
La totalità dei fondi raccolti da Kaotoxin attraverso le vendite digitali del singolo Lugubrious Valedictory, un brano inedito di oltre 13 minuti appositamente composto e registrato per questa iniziativa di beneficenza, andrà direttamente agli Eye Of Solitude i quali rassicurano i fan sul fatto che il denaro verrà consegnato direttamente a quelli che ne hanno bisogno.
1. Lugubrious Valedictory
Music & lyrics by EYE OF SOLITUDE
Produced by EYE OF SOLITUDE
Executive Producer: Nicolas Williart for Kaotoxin Records
Reproduced with kind permission of Kaotoxin Publishing
EYE OF SOLITUDE
Daniel N. – vocals
Mark A. – guitars
Steffan G. – guitars
Chris D. – bass
Adriano F. – drums