Bethlehem – Hexakosioihexekontahexaphobia

L’ultimo disco dei Betlehem, pur non essendo imprescindibile, mostra un progresso rispetto al materiale più recente pubblicato dalla storica band tedesca.

Nell’ascoltare il settimo album dei Bethlehem, a vent’anni di distanza esatti dall’esordio “Dark Metal”, non si può fare a meno di cogliere quanto la band tedesca abbia mutato nel frattempo le proprie coordinate stilistiche.

Il black-doom degli esordi è lontano nel tempo ma è anche vero che, paradossalmente, il sound ha subito gran parte delle proprie mutazioni nel corso del primo decennio, mentre il gap stilistico tra l’ultimo full-length originale (“Mein Weg”, del 2004) e quest’ultimo parto è decisamente più ridotto, non volendo tener conto della breve parentesi di fine decennio con Kvarforth al microfono, culminata con la controversa riedizione del “S.U.I.Z.ID. album” e il successivo rigurgito black dell’Ep “Stönkfitzchen”.
Hexakosioihexekontahexaphobia è un disco che mostra sicuramente un volto più raffinato e maturo dei Bethlehem: infatti, qui il leader e unico superstite della formazione originale, Jürgen Bartsch, si preoccupa soprattutto di presentare, assieme alle immancabili tracce dai tratti sperimentali, brani soprattutto in grado di catturare l’attenzione senza sforzi sovrumani da parte degli ascoltatori.
Questo almeno è quanto avviene per le prime due tracce (Ein Kettenwolf greint 13:11-18 e Egon Erwin’s Mongo-Mumu), all’insegna di un dark metal piuttosto sinuoso che l’idioma tedesco rende ancor più decadenti nel loro incedere, ma indubbiamente è il quarto brano, Gebor’n um zu versagen, che si candida come uno dei picchi dell’album, grazie ad un refrain decisamente azzeccato.
Nazi Zombies mit Tourette-Syndrom (titolo notevole), riporta la band su territori sperimentali con risultati altalenanti, mentre Spontaner Freitod, dopo un furioso avvio, si trasforma ben presto in un limaccioso brano dai tratti doom.
La bella ed evocativa Höchst alberner Wichs riporta l’album ad un sound in linea con la sua parte iniziale, e l’azzeccato strumentale Ich aß gern’ Federn e la più intimista Letale Familiäre Insomnie confermano la bontà di tale scelta.
Dopo una non troppo efficace Kinski’s Cordycepsgemach, è Antlitz eines Teilzeitfreaks che ha il compit di chiudere un album che sicuramente trae giovamento dalla buona prestazione vocale di Guido Meyer de Voltaire, valido sia nelle parti pulite sia in quelle “harsh”
In definitiva, quando una band, che in passato ha fatto dell’originalità della proposta il proprio vessillo, risulta più convincente proprio nella parti maggiormente fruibili è inevitabile porsi qualche domanda ma, come detto in fase di introduzione, proprio la maturità esibita dal trio finisce per compensare, senza però riuscire a rimpiazzarla, la carica innovativa degli esordi facendo sì che, in effetti, i brani più ambiziosi ed intricati nella loro costruzione alla fine risultino soprattutto cervellotici.
In questo senso l’assimilazione del lavoro non viene agevolata da una durata che supera l’ora, anche se nel complesso si può affermare che Hexakosioihexekontahexaphobia non è certo un disco deludente e, in ogni caso, mostra un passo avanti rispetto al materiale più recente pubblicato dai Bethlehem.
Buono, ma non imprescindibile, quindi, con nota di demerito per una copertina francamente insulsa oltre che di pessimo gusto …

Tracklist:
1. Ein Kettenwolf greint 13:11-18
2. Egon Erwin’s Mongo-Mumu
3. Verbracht in Plastiknacht
4. Gebor’n um zu versagen
5. Nazi Zombies mit Tourette-Syndrom
6. Spontaner Freitod
7. Warum wurdest du bloß solch ein Schwein?
8. Höchst alberner Wichs
9. Ich aß gern’ Federn
10. Letale familiäre Insomnie
11. Kinski’s Cordycepsgemach
12. Antlitz eines Teilzeitfreaks

Line-up:
Jürgen Bartsch – Guitars, Electronics, Bass, Keyboards
Florian “Torturer” Klein – Drums, Samples
Guido Meyer de Voltaire – Vocals, Bass

BETHLEHEM – Facebook

Necroart – Lamma Sabactani

Musica oscura,adulta, i Necroart ci consegnano un album da ascoltare senza riserve, per i fans di Sadness,Samael e My Dying Bride.

Fautori di un metal estremo che negli anni novanta spopolava, i Necroart arrivano al terzo full-length di un percorso artistico iniziato all’alba del nuovo millennio, che li ha portati a licenziare tre demo nei primi quattro anni e due album, “The Opium Visions” nel 2005 e “The Suicidal Elite” nel 2010. Lamma Sabactani punta su un sound più diretto e aggressivo, pur mantenendo le coordinate stilistiche del combo lombardo, votate ad un dark metal doom, a tratti progressivo e dalle sfuriate black, oscuro e malato, una manna per i fan orfani di tali sonorità che, diciamolo, ridicolizzano tante gothic band di questi anni, con i loro suoni puliti e dalle belle fanciulle in copertina ma, in quanto ad attitudine, neanche paragonabili a gruppi come i Necroart.

Iniziando dalla copertina, di una semplicità pari ad un impatto blasfemo disarmante, la band vomita suoni oscuri e voci malate dall’impatto dark e scream di matrice black che si rincorrono su tutto l’album, le melodie toccano emozioni ormai sopite, travolte dai suoni bombastici di questi ultimi anni, come solo le grandi band di metà anni novanta sapevano regalare, ancora influenzate dal dark ottantiano e dal doom/death. E’ un piacere riscoprire tra i solchi della title-track, di Agnus Dei, di Redemption, echi dei Sadness di “Ames De Marbre” e “Danteferno”, il dark doom dei My Dying Bride e le sfuriate black dei primi Samael; teatrali e malvagiamente neri come la pece, i brani di questo album conquistano fin da subito, anche per una vena progressive che rende il tutto molto maturo. Con la loro musica oscura e adulta, i Necroart non scherzano e ci consegnano un lavoro da ascoltare e far vostro senza riserve, degni eredi di un modo di suonare musica estrema che continua ad affascinare, in barba alle mode dettate dalle regole del mainstream!

Tracklist:
1. Lamma Sabactani
2. Magma Flows
3. The Demiurge
4. Agnus Dei
5. Redemption
6. Joining the Maelstrom
7. Stabat mater
8. Of Ghouls, Maggots and Werewolves
9. Cyanide and Mephisto

Line-up:
Francesco Volpini – Bass
Marco Binda -Drums
Filippo Galbusera – Guitars
Davide Zampa – Guitars
Davide Quaroni – Keyboards
Massimo Finotello – Vocals

NECROART – Facebook

Rorcal / Process Of Guilt – Split

Un altro split 12” interessante quello che ci viene proposto da un pool di etichette, con due band dedite a sonorità a cavallo tra black-sludge-doom con una vena industrial come gli svizzeri Rorcal ed i portoghesi Process of Guilt.

Un altro split 12” interessante quello che ci viene proposto da un pool di etichette, con due band dedite a sonorità a cavallo tra black-sludge-doom con una vena industrial come gli svizzeri Rorcal ed i portoghesi Process of Guilt.

Il lato A è appannaggio degli elvetici che, in realtà, con i loro tre brani mostrano una maggiore propensione al black metal, in particolare facendo riferimento ai Blut Aus Nord dei “Memoria Vetusta”, il che corrisponde ad un’interpretazione del genere dai tratti prevalentemente avanguardistici e claustrofobici. In IX non vi sono particolari deviazioni rispetto ad un percorso violento e dissonante, mentre in XI affiora qualche rallentamento e il brano, nonostante qualche lieve concessione melodica, appare ancora più feroce rispetto al precedente; X riparte esattamente dalla fine di XI per poi sfociare in ritmi maggiormente cadenzati. Quando il testimone passa, voltando il lato, ai Process Of Guilt, si capisce subito che i lusitani interpretano il loro pesante sludge dalle sfumature industrial/postmetal nel miglior modo possibile, ovvero imprimendo al proprio sound quel marchio che avevano già proposto con successo in occasione del loro magnifico ultimo album “Fæmin”. Un impatto sonoro denso, avvolgente, dalle distorsioni portate alle estreme conseguenze rappresenta, di fatto, un muro di totale incomunicabilità che si fa musica: impietosi i primi due movimenti di Liar, mentre quello di chiusura è costituito da due minuti e mezzo di minaccioso ambient. Da notare come, alla fin fine, le band possiedano un approccio musicale non del tutto dissimile pur approdandovi da diversi versanti stilistici (i Rorcal dal black ed i Process Of Guilt dal doom), a rimarcare quanto il rapporto di collaborazione in atto tra loro da tempo abbia prodotto un reciproco arricchimento dei rispettivi sound. Uno split da avere per chi apprezza queste sonorità, ancor più appetibile per il formato 12” molto curato dal punto di vista grafico, disponibile nella (ormai classica) edizione limitata a 666 copie …

Tracklist:
Side A
1. Rorcal – IX
2. Rorcal – X
3. Rorcal – XI

Side B
4. Process of Guilt – Liar: Movement I
5. Process of Guilt – Liar: Movement II
6. Process of Guilt – Liar: Movement III

Line-up:
Rorcal
Bruno da Encarnação – Bass
Ron Lahyani – Drums
Diogo Almeida – Guitars
JP Schopfer – Guitars
Yonni Chapatte – Vocals

Process Of Guilt
Custódio Rato – Bass
Gonçalo Correia – Drums
Nuno David – Guitars
Hugo Santos – Vocals, Guitars

RORCAL – Facebook

PROCESS OF GUILT – Facebook

Plateau Sigma – The True Shape Of Eskatos

Questi ventimigliesi hanno una superiore capacità di comporre e stanno crescendo moltissimo da un disco all’altro.

A stretto giro di posta tornano i liguri Plateau Sigma con i loro doom che aveva impressionato positivamente già nel 2013 con “White Wings Of Nightmares”

Il loro secondo disco si addentra ancora di più nell’antro dell’umana disperazione, ovvero la nostra vita, girando il coltello nella piaga: The True Shape Of Eskatos è un disco molto bello, lungo e seducente in maniera tossica
Le composizioni sono lente ma non claustrofobiche e l’incedere è epico e di grande effetto; le voci di Manuel e Francesco si fondono mirabilmente e, in The River 1917, Efthimis Karadimas dei Nightfall compare alla voce offrendoci una grande prova.
Il disco, rispetto all’esordio, che già era un bel pezzo di inferno, è prodotto meglio ed i suoni appaiono maggiormente definiti e ulteriormente appesantiti, mostrandosi più monolitici e forti.
I Plateau Sigma sono uno dei migliori gruppi doom metal in circolazione non solo in Italia: questi ventimigliesi hanno una superiore capacità di comporre e stanno crescendo moltissimo da un disco all’altro.
In The True Shape Of Eskatos siamo sempre in territori doom ma, a mio avviso, questo lavoro è più pesante del primo che era più invece più orientato verso il lato classico.
Chi apprezza la lentezza e la pesantezza fatte a regola d’arte, qui troverà un gran disco, e non serve essere americani.
A Ventimiglia fanno un grande doom.

Tracklist:
1. The Initiation
2. Satyriasis and the Autumn Ends
3. Stalingrad
4. Ordinis Supernova Sex Horarum
5. The River 1917
6. Angst
7. Amber Eyes

Line-up:
Nino Zuppardo – Drums
Manuel Vicari – Guitars, Vocals
Francesco Genduso – Guitars, Vocals
Maurizio Avena – Bass

PLATEAU SIGMA – Facebook

Witches Of Doom – Obey

Obey, primo album dei romani Witches of Doom, raccoglie il meglio del dark, doom, gothic mondiale e attraverso nove brani dal grande appeal.

Premessa: quest’album è di una bellezza straordinaria, almeno per chi, con un po’ di musica rock oscura sul groppone ed una mentalità abbastanza aperta per seguire la quarantina d’anni di evoluzione che il metal dalle tinte dark ha regalato a chi è affascinato da queste sonorità.

Obey, primo album dei romani Witches of Doom, raccoglie il meglio del dark, doom, gothic mondiale e attraverso nove brani dal grande appeal, a tratti violentato da pesanti scosse stoner, esplode in una cinquantina di minuti entusiasmanti, passando dal doom settantiano dei Black Sabbath ai maestri del dark ottantiano Sisters Of Mercy e Mission, da Jirki e i The 69 Eyes (quelli appena passati dal rock’n’roll delle origini al capolavoro “Wasting the Dawn”) ai Type 0 Negative del mai troppo compianto Peter Steele.
Band formatasi solo lo scorso anno, ma dotata di personalità da vendere, le “Streghe” ci deliziano di questo vademecum del dark/gothic che risulta vario proprio per la sua ecletticità, passando da brani più orientati al dark (sempre molto potenti), resi ipnotici da un riuscito vortice di suoni creati da una sezione ritmica devastante (Jacopo Cartelli al basso e Andrea Budicin alle pelli) e dal chitarrismo graffiante e dal forte impatto seventies del bravissimo Federico Venditti.
Senza nulla togliere agli ottimi musicisti, a cui si aggiungono le tastiere di Fabio Recchia e Graziano Corrado, entrato in pianta stabile nella band, il vero mattatore del disco è il cantante Danilo Piludu, un po’ Jirki 69, un po’ Jim Morrison, sempre sul pezzo nel dare alle songs la giusta tonalità, teatrale quando il songwriting si fa drammatico, superandosi nella lunghissima title-track posta in chiusura, una lunghissima jam dark/stoner da antologia, vero viaggio “acido” nel mondo degli Witches of Doom.
Non una nota fuori posto in questo debutto, dall’iniziale The Betrayal, con una slide guitars dai rimandi Fields of the Nephilim, devastata da massicci chitarroni stoner, alla gothic’n’roll Witches of Doom, bissata dalla trascinante To the Bone, dalla smiballad Crown of Thorns, improbabile ma efficacissimo mix tra Black Label Society e Sisters of Mercy.
Dance of the Dead Flies e Rotten to the Core sono brani dall’andamento freak cadenzato, devastanti sotto l’aspetto dell’impatto, macigni metallici dove i generi descritti si incontrano in una danza sabbatica che avvolge, come un serpente che scivola sul corpo di una bellissima strega.
It’s My Heart arriva giusto prima della fantastica Obey e, purtroppo, si arriva anche in fondo a questo bellissimo album che, a mio parere, eguaglia l’ultimo lavoro dei grandi Bloody Hammers, forse l’unica band che si avvicina alle streghe romane, anche se lo stoner settantiano prevale nel songwriting del gruppo americano, mentre qui l’alternanza di atmosfere e influenze è l’asso nella manica della band capitolina.
In conclusione, album fantastico.

Tracklist:
1. The Betrayal
2. Witches of Doom
3. To the Bone
4. Neeedless Needle
5. Crown of Thorns
6. Dance of the Dead Flies
7. Rotten to the Core
8. It’s My Heart (Where I Feel the Cold)
9. Obey

Line-up:
Jacopo Cartelli – Bass (2013-present)
Andrea “Budi” Budicin – Drums
Federico “Fed” Venditti – Guitars
Danilo “Groova” Piludu – Vocals
Graziano “Eric” Corrado – Keyboards

WITCHES OF DOOM

Majestic Downfall / The Slow Death – Split

Uno split album da accaparrarsi senza indugi vista la qualità e la quantità del materiale presente.

Anche se gli ultimi split album nei quali mi sono imbattuto mi hanno fatto in gran parte rivedere il mio parere iniziale, che vedeva questo formato utile per band ai primi passi e invece motivo di dispersione d’energia e talento per quelle già avviate, quest’operazione della Chaos Records che abbina due realtà death-doom quali i messicani Majestic Downfall e gli australiani The Slow Death, mi ha riaperto qualche dubbio.

Premetto che delle due band conoscevo solo la prima, che di fatto è sempre stata un progetto esclusivo di Jacobo Cordova, soprattutto per il bellissimo disco d’esordio “Temple Of Guilt”; in quest’occasione il musicista messicano mette sul piatto una mezz’ora di musica eccellente, grazie a tre brani capaci di attingere ciascuno alle diverse sfumature del genere, a partire dal black-death doom di The Dark Lullaby, passando per le atmosfere drammatiche di Renata e finendo con Obsidian, che si spinge su versanti gothic doom andando ad evocare talvolta i sempre graditi fantasmi di Paradise Lost e Fields of The Nephilim. Jacobo non si dimostra solo un bravissimo chitarrista ma anche e soprattutto un ottimo interprete con il suo growl sempre espressivo, capace di passare dai toni profondi dell’opener ai tratti più aspri e pregni quasi di disperazione di Renata. Insomma, con altri 10-15 minuti all’altezza ne sarebbe venuto fuori un full-length coi fiocchi ma, anche così, un Ep a nome dei soli Majestic Downfall ci sarebbe stato ampiamente. Tutto questo non è volto a sminuire in alcun modo l’operato degli inquilini della seconda metà dello split, i bravi The Slow Death: semplicemente, vista anche la durata complessiva dei tre brani che ciascuna band aveva a disposizione, c’erano tutti i presupposti per due uscite separate anche se è evidente che in periodi di vacche magre per chi produce e distribuisce musica, mai come oggi vale il famoso detto per cui l’unione fa la forza. I The Slow Death sono una band australiana che ha due full-length all’attivo e che propende per il versante più introspettivo e cupo del genere, cosa che fanno ottimamente con la splendida Criticality Incident I, traccia pregna di melodie dai tratti dolenti. Il problema della band del Nuovo Galles del Sud è, a mio avviso, nella prestazione vocale: qui l’abusato ricorso alla doppia voce femminile-maschile non funziona come dovrebbe, essenzialmente perché i due timbri sono in un caso eccessivo (il growl di Gregg Williamson è di fatto un vero e proprio grugnito privo di un minimo di espressività) e nell’altro inadatto (Mandy Andresen opta per uno stile vagamente sciamanico che mostra la corda particolarmente in una traccia più rarefatta come People Like You). I The Slow Death dimostrano grandi qualità a livello compositivo e il loro sound è tutt’altro che scontato, peccato che questi particolari ne offuschino la proposta invece di esaltarne le caratteristiche. Con tutto ciò, questo resta comunque uno split album da accaparrarsi senza indugi vista la qualità e la quantità del materiale presente, anche se al termine dell’ascolto rimarrà sicuramente la voglia di riascoltare subito i brani dei Majestic Downfall e magari un po’ meno quelli dei pur validi The Slow Death.

Tracklist:
1.MD – The Dark Lullaby
2.MD – Renata
3.MD – Obsidian
4.TSD – Criticality Incident I
5.TSD – Criticality Incident II
6.TSD – People Like You

Line-up:
MAJESTIC DOWNFALL
Jacobo Córdova – All Instruments, Vocals.

THE SLOW DEATH
Stuart Prickett – Guitars, Keyboards, Vocals
Mandy Andresen – Vocals, Keyboards
Gregg Williamson – Vocals
Yonn McLaughlin – Drums
Brett Campbell – Lead Guitar
Dan Garcia – Bass

MAJESTIC DOWNFALL – Facebook

The Morningside – Letters From The Empty Towns

Terzo ed ottimo album per i russi The Morningside.

Nuovo capitolo della saga The Morningside, band al suo terzo full-length dopo l’esordio del 2007 “The Trees and the Shadows of the Past”, bissato nel 2009 da “Moving Crosscurrent of Time” e dall’EP del 2011 “Treelogia”. Il gruppo proveniente dalla capitale sovietica propone un doom/death metal melodico sulla scia dei primi lavori dei Katatonia (la band alla quale fanno maggior riferimento) irrobustendolo con iniezioni di death melodico alla Dark Tranquillity (era “Projector”), ed il risultato non può che essere, visto anche il buon songwriting e la bravura dei musicisti coinvolti, un ottimo lavoro di genere. Rispetto agli album precedenti i The Morningside imprimono più potenza al sound di Letters From The Empty Towns relegando le atmosfere rarefatte e gli interventi della voce pulita ad occasionali stacchi in qualche brano (On the Quayside), lasciando invece molto spazio alle chitarre, assolute protagoniste con splendide ritmiche e solos che si avvicinano al prog/death degli Opeth piuttosto che al sound di Agalloch e Ulver come nei primi dischi. Le vocals di Nikitin sono corrosive e come sempre marchio di fabbrica della band che, The Outside Waltz a parte (bellissimo strumentale acustico), regala brani dal forte impatto drammatico, per un viaggio in quel metal dai richiami dark capace di regalare emozioni, sostenuto da una struttura chitarristica di primo livello: un lavoro maturo, che cresce con gli ascolti e che trova nella stupenda Ghost Lights (la canzone che più si avvicina ai Katatonia) otto minuti di meraviglie melodiche. Invero sul finire del lavoro la band, dopo le sfuriate della prima metà del disco, si rilassa e anche nella finale Letter ci consegna un brano semiacustico, come se il sound del gruppo si raccogliesse su se stesso, in posizione fetale, dopo aver sfogato tutta la rabbia ed essere arrivato, così, allo stremo. Buoni outsiders, i The Morningside sanno toccare l’anima: la loro musica difficile, per questi tempi dove anche nel metal si ha la sensazione di dover consumare tutto e subito, in una sorta di tremendo usa e getta, ferma il tempo e siamo noi che ne dobbiamo approfittare per regalarci ogni tanto un momento di poesia; fatelo, non ve ne pentirete.

Tracklist:
1. Immersion
2. One Flew (Over the Street)
3. Deadlock Drive
4. Sidewalk Shuffle
5. On the Quayside
6. The Traffic Guard
7. The Outside Waltz
8. Ghost Lights
9. The Letter

Line-up:
Ilya Egorychev – Bass
Boris Sergeev – Drums
Igor Nikitin – Vocals, Guitar
Sergey Chelyadinov – Guitars

Blut Aus Nord / P.H.O.B.O.S. – Triunity

Molto valida l’idea della Debemur Morti di abbinare in questo split album due realtà che, muovendosi da punti di partenza piuttosto lontani tra loro,sono approdate con il tempo a sonorità relativamente vicine, non solo per attitudine sperimentale.

Split dalle diverse ed interessanti motivazioni, questo che vede all’opera due band francesi differenti per fama ed estrazione, ovvero i monumenti del black/death avanguardistico Blut Aus Nord e gli interessanti industrial doomsters P.H.O.B.O.S..

C’era ovviamente curiosità per le scelte stilistiche intraprese da Vindsval e soci dopo la trilogia “777” che aveva spostato progressivamente il sound verso coordinate meno estreme per approdare ad una sorta di dark industrial/ambient nell’atto conclusivo “Cosmosophy”: chi non aveva apprezzato tale svolta può dormire sonni tranquilli visto che i Blut Aus Nord sono tornati a fare, con la bravura che è loro riconosciuta, quel metal estremo ricco di dissonanze ma, nel contempo, capace di avvolgere nelle proprie intricate spire, che ha fornito in passato frutti prelibati; le tre tracce sono ugualmente intense, complesse e avvincenti, anche se la vena oscuramente melodica che si manifestava a tratti in “777” non è andata del tutto dispersa (Némeïnn). Dei P.H.O.B.O.S., al contrario, nulla conoscevo pertanto non ho a disposizione particolari termini di paragone: intanto va detto che trattasi di una one-man band, attiva da oltre un decennio e con tre full-length all’attivo, condotta dal parigino Frédéric Sacri e, indubbiamente, il loro industrial doom non mostra il minimo ammiccamento a sonorità più fruibili, mostrandosi impietosamente ossessivo, alienante, insomma nulla che possa interessare qualcuno che non abbia un minimo di familiarità con questi suoni, ma molto intrigante per chi, invece, in passato si fece irretire da entità mostruose quali Godflesh o Scorn. Ho trovato molto valida l’idea della Debemur Morti di abbinare in questo split album due realtà che, muovendosi da punti di partenza piuttosto lontani tra loro, sono approdate con il tempo a sonorità relativamente vicine, non solo per attitudine sperimentale. Triunity si rivela così, nel contempo, una risposta eloquente ai dubbi espressi da qualcuno (non certo da parte mia, visto che considero la trilogia “777” un’opera magnifica in ogni sua parte) nei confronti delle scelte stilistiche operate dai Blut Aus Nord nel recente passato, e un’opportunità per far conoscere ad un pubblico auspicabilmente più ampio i meno noti ma ugualmente efficaci, nonché degni della massima attenzione, P.H.O.B.O.S..

Tracklist:
1. Blut aus Nord – De Librio Arbitrio
2. Blut aus Nord – Hùbris
3. Blut aus Nord – Némeïnn
4. P.H.O.B.O.S. – Glowing Phosphoros
5. P.H.O.B.O.S. – Transfixed at Golgotha
6. P.H.O.B.O.S. – Ahrimanic Impulse Victory

Line-up:
Blut aus Nord:
Vindsval – Vocals, Guitars GhÖst – Bass
Gionata “Thorns” Potenti – Drums

P.H.O.B.O.S.:
Frédéric Sacri – Guitars, Keyboards, Vocals

BLUT AUS NORD – Facebook

Mournful Congregation – Concrescence of the Sophia

“Concrescence of the Sophia” è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

A quasi tre anni dall’uscita di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation si rifanno vivi con del materiale inedito grazie a questo EP nel quale propongono, è quasi superfluo dirlo, mezz’ora di magnifico funeral doom.

La vena compositiva mostrata nell’ultimo full-length è ampiamente confermata in quest’occasione, del resto lo stile della band australiana non prevede ampie concessioni melodiche ma neppure una totale chiusura o spunti sperimentali portati alle estreme conseguenze: come avevo avuto occasione di scrivere, parlando proprio di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation appartengono al filone dei discepoli più credibili nonché legittimi dei Thergothon, pur affinandone le ruvidezze alla luce di capacità tecniche di altissimo livello. Concrescence of the Sophia consta di due soli brani: la title-track, splendida dimostrazione di classe, capace di protrarsi per oltre venti minuti senza cali di tensione grazie ad un lavoro chitarristico esemplare per pulizia e contemporanea capacità evocativa, mentre la più breve Silence of the Passed appare come un ideale prosecuzione della traccia precedente pur non eguagliandola, probabilmente, in quanto a coinvolgimento emotivo. Ammesso che ne esista per qualcuno una simile versione, il funeral dei Mournful Congregation non può essere considerato di facile ascolto e si colloca quale perfetta sintesi tra la corrente orientata verso tonalità più malinconiche ed immediate e quella nella quale si fa più esplicito il senso di incomunicabilità e di estraniamento dalla vita reale. A chi magari si attendeva un nuovo album, resta sicuramente la consapevolezza che una delle band simbolo del movimento non ha perso un’oncia della propria dolente vena compositiva, il che rende questo lavoro molto più di una momentanea panacea od un semplice assaggio di qualcosa ancora di là da venire: Concrescence of the Sophia è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

Tracklist:
1. Concrescence of the Sophia
2. Silence of the Passed

Line-up:
Damon Good – Vocals, Bass, Guitars
Justin Hartwig – Guitars
Ben Newsome – Bass

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook

Luna – Ashes to Ashes

Sicuramente valido dal punto di vista musicale, “Ashes to Ashes” lascia qualche perplessità per la sua adesione pressochè totale ai canoni stilistici già esibiti da Ea e Monolithe

Parlare di questo disco presenta diversi trabocchetti, non ultimo quello di rischiare di contraddirsi più volte nel corso della stessa recensione.

Il problema è che questo Ashes to Ashes, album d’esordio della one-man band ucraina Luna, in pratica fonde senza mezzi termini gli ultimi lavori di Ea e Monolithe, attingendo a piene mani dalla formula che ha reso peculiari queste due grandi realtà del funeral-death doom, a partire dalla presenza nella tracklist di una sola, lunghissima, traccia. Le affinità non finiscono certamente qui, infatti lo stile compositivo esibito da DeMort, il musicista che sta dietro quest’operazione, non si discosta di un millimetro da quello espresso dalle due band citate, grazie alla sovrabbondanza di atmosfere evocative guidate per lo più da un solenne lavoro di tastiera, sovente dal tocco orchestrale, oppure da un uso minimale del pianoforte che va a tracciare linee melodiche semplici ma coinvolgenti, appoggiate su uno schema basato su un’alternanza quasi matematica tra riff e interventi delle batteria. Insomma, messa così ce ne sarebbe abbastanza per scagliare indignati le cuffie urlando al plagio (o giù di lì), se non fosse che Ashes to Ashes, nonostante la lunghezza e un’innegabile ripetitività di fondo, si rivela un ascolto assolutamente gradevole, in particolare per chi ama sia i misteriosi figuri privi di un nome ed un volto, sia i più riconoscibili ma altrettanto schivi transalpini. L’unica differenza, non da poco ai fini delle sua resa finale, è la matrice strumentale dell’album, il che ne rende inevitabilmente più faticoso l’ascolto, oltre a farlo sembrare, di fatto, un sorta di disco ambient sul quale siano stati innestati abilmente pesanti riff di chitarra e le percussioni. Per il resto nulla da dire sull’abilità di DeMort nel costruire quasi un’ora di musica credibile, riuscendo nel contempo a tenersi sufficientemente alla larga da quella stucchevolezza che, in simili circostanze, rischia di prendere in ogni attimo il sopravvento; positivo anche il fatto che, tutto sommato, Ashes To Ashes prenda quota nel suo quarto d’ora finale, quando però gli Ea diventano decisamente qualcosa in più di una semplice influenza. Insomma, prendendo questo lavoro così com’è, fingendo d’aver perso temporaneamente la memoria, potremmo godercelo senza alcuna remora; purtroppo non è così e, pur non essendo un maniaco dell’originalità a tutti i costi, non posso fare a meno di proporre un paragone alpinistico: c’è colui che apre una nuova via e c’è invece quello che, successivamente, la utilizza faticando indubbiamente molto meno; poi si potrà dire che entrambi sono arrivati comunque in vetta, ma nessuno dovrà mai dimenticare che ciò è avvenuto con tempi e modalità ben differenti.

Tracklist:
1. Ashes to Ashes

Line-up:
DeMort – Everything

Decembre Noir – A Discouraged Believer

Forse i Decembre Noir non sono ancora riusciti a imprimere con forza un proprio marchio alla musica prodotta, ma qui il talento certo non manca e il death-doom da loro proposto ha già ora tutto ciò che serve per soddisfare gli appassionati.

Il disco d’esordio dei Decembre Noir ci consegna una band death-doom decisamente di buon livello da un paese come la Germania invero non particolarmente prolifico rispetto al genere in questione.

Il gruppo proveniente da Erfurt cita diverse influenze che vanno a scomodare gran parte dei nomi di punta del settore, tra i quali ne mancano curiosamente due che verrebbero istintivamente in mente nell’ascoltare il disco: Daylight Dies e Novembers Doom, in quest’ultimo caso soprattutto per il growl di Lars piuttosto vicino quello di Paul Kuhr In effetti il death-doom dei Decembre Noir possiede una matrice più statunitense che non europea, in virtù della rinuncia sostanziale alle melodie tastieristiche per lasciare spazio ad un impatto più ruvido dove a fare la differenza sono fondamentalmente le armonie create dalla chitarra. Emblematica in tal senso la traccia autointitolata, forse quello più immediata nonché riuscita della tracklist, con i ragazzi tedeschi a mantenere per il resto del lavoro, ad eccezione del finale evocativo e struggente di Stowaway, una certa uniformità stilistica dall’inizio alla fine, laddove l’unica variabile è la velocità impressa ai diversi brani, . Tutt’altro che un male, questo, considerando che il livello medio è decisamente elevato e ciò rimuove qualsiasi dubbio sulla bontà di un lavoro come A Discourage Believer. Forse i Decembre Noir non sono ancora riusciti a imprimere con forza un proprio marchio alla musica prodotta, ma qui il talento certo non manca e il death-doom da loro proposto ha già ora tutto ciò che serve per soddisfare gli appassionati. Una band che può crescere ulteriormente e non poco.

Tracklist:
1. A Discouraged Believer
2. Thorns
3. The Forsaken Earth
4. Decembre Noir
5. Stowaway
6. Resurrection
7. Escape to the Sun

Line-up:
Mike – Bass
Kevin – Drums
Martin – Guitars
Lars – Vocals
Sebastian – Guitars

DECEMBRE NOIR – Facebook

Clouds – Doliu

Il dolore della perdita, la malinconia che si fa strada tra le pieghe del ricordo, la consapevolezza della caducità dell’esistenza ed il conseguente sgomento che ci travolge, sono gli ingredienti dei quali si nutre ogni singola nota di un disco sicuramente non facile, ma che non delude in alcun modo le aspettative derivanti da una line-up d’eccezione.

“The music is dedicated to departed ones, loved ones who now, are no longer amongst us.”

Parlare di supergruppo in generi musicali che si trovano agli antipodi della commercialità mi è sempre parso fuori luogo, anche perché, di solito, l’unione di musicisti di spicco provenienti da band diverse non sempre produce una somma pari al valore dei singoli e addirittura, molto spesso, il tutto si riduce ad una sterile ed autoreferenziale esibizione delle proprie capacità individuali.
Ma, se proprio dovessimo usare questo termine in ambito funeral-death doom, difficilmente potrebbe esserci un caso più appropriato di questo nel quale, per l’occasione, vengono riuniti sotto il monicker Clouds alcuni dei nomi più in vista della scena attuale e passata.
Daniel Neagoe, il terrificante cantore della trasposizione musicale dell’opera dantesca nel capolavoro degli Eye of Solitude, ha chiamato a raccolta il suo compagno nei Deos, Déhà (anche Slow ed Imber Luminis), il magnifico vocalist dei faeroeriani Hamferð, Jón Aldará, Kostas Panagiotou di Pantheon ed Aphonic Threnody, oltre a due nomi storici della scena quali Pim Blankenstein degli Officium Triste e Jarno Salomaa dei seminali Shape of Despair.
Con l’intento di dedicare l’album a tutte le persone a noi care, scomparse lasciandoci di loro solo uno struggente ricordo, Daniel si è occupato in toto della composizione di questo altro gioiello musicale che, pur richiamando parzialmente ed inevitabilmente quando fatto magnificamente con gli Eye of Solitude, spinge maggiormente verso un approccio intimista spesso ai confini dell’ambient, laddove è il pianoforte lo strumento incaricato di veicolare le emozioni che Doliu dona a profusione.
Il dolore della perdita, la malinconia che si fa strada tra le pieghe del ricordo, la consapevolezza della caducità dell’esistenza ed il conseguente sgomento che ci travolge, sono gli ingredienti dei quali si nutre ogni singola nota di un disco sicuramente non facile, ma che non delude in alcun modo le aspettative derivanti da una line-up d’eccezione.
Un ennesimo capolavoro che vede coinvolto questo magnifico musicista rumeno, capace di mettere sul piatto un’altra ora di musica che sgorga direttamente dal cuore, splendida in ogni frangente e con un brano fuori categoria per la sua sconvolgente bellezza come The Deep Vast Emptiness, dove le tastiere tratteggiano atmosfere di una drammaticità quasi insostenibile a livello emotivo prima che il caratteristico tocco di Jarno e il superbo growl di Daniel ci facciano sprofondare nei gorghi di una malinconia struggente, in un crescendo emozionale che sembra poter durare all’infinito.
Il resto dei brani si attesta come detto su atmosfere più soffuse ma ugualmente capaci di sorprendere, come in A Glimpse of Sorrow dove, dopo alcuni minuti di ambient strumentale affine al Brian Eno più ispirato, irrompe sulla scena il growl di Pim a squarciare l’atmosfera mestamente rilassata che era venuta a crearsi.
Difficile francamente attendersi di meglio e chi, come me, ritiene “Canto III” il disco funeral-death doom definitivo, solo evitando di fare l’inevitabile confronto può godere pienamente di questa nuova esibizione di talento e sensibilità compositiva di quello che, in questo momento, è in assoluto uno dei migliori musicisti nel genere specifico (e forse non solo …).

P.S. Parte dei proventi ottenuti con la vendita del disco (Clouds Bandcamp) verranno utilizzati per le cure alle quali deve essere sottoposta Annika, una ragazza affetta da una gravissima malattia. Semmai ce ne fosse ulteriore bisogno, ecco un altro buon motivo per acquistare Doliu

Tracklist:
1. You Went so Silent
2. If These Walls Could Speak
3. Heaven Was Blind to My Grief
4. A Glimpse of Sorrow
5. The Deep Vast Emptiness
6. Even If I Fall

Line-up:
Jarno Salomaa – Guitars
Daniel Neagoe – Drums, Vocals
Déhà – Guitars, Bass
Kostas Panagiotou – Keyboards
Jón Aldará – Vocals (track 2)
Pim Blankenstein – Vocals (track 4)

CLOUDS – Facebook

Imber Luminis – Imber Aeternus

Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si intristiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.

Ci sono al mondo persone particolarmente in gamba, capaci di ottimizzare al massimo il proprio tempo per dedicarsi a molteplici attività, e il fatto che ci riescano pure con buoni risultati crea un senso di leggera frustrazione a chi fatica nell’organizzarsi in maniera decente una normalissima esistenza.

Il caso in esame è quello del musicista belga Déhà, che i lettori dotati di migliore memoria ricorderanno d’aver trovato anche nelle recensioni dei Deos, degli Slow e dei C.O.A.G..
Il fatto sorprendente non è solo che tutti questi lavori fossero accomunati da una qualità non comune ma risiede soprattutto nella varietà dei generi trattati, aspetto che depone a favore della versatilità compositiva di Déhà: infatti, se nei Deos, in compagnia di Daniel Neagoe, il genere prescelto era un death-doom di ottima fattura, con il monicker Slow spostava le coordinate sonore verso un funeral altrettanto convincente mente come C.O.A.G., in maniera invero sorprendente, si cimentava con le velocità esasperate del grindcore.
Imber Luminis ci mostra un ulteriore volto del musicista di Mons e, anche se è sempre il doom la base di partenza, in effetti questo è, tra tutti i lavori citati, quello che mostra le maggiori sfaccettature stilistiche.
Due brani lunghissimi, ciascuno ben oltre i venticinque minuti, conducono l’ascoltatore in un viaggio che prende l’avvio con le note dai tono quasi sognanti, ai confini dello shoegaze, di Imber, per poi spostarsi progressivamente, sia nel corso dello stesso brano sia in particolare con la successiva traccia Aeternus, verso una sofferenza priva di filtri, urlata nel vero senso del termine, facendo impallidire in tal senso anche i più estremi esponenti del depressive.
Un’interpretazione vocale sentita, volutamente eccessiva fino a lambire i confini del kitsch, porta l’album a livelli di disperazione quasi parossistici, il tutto assecondato da un impianto sonoro che mette costantemente in primo piano l’impatto emotivo, per un risultato finale francamente stupefacente.
Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si incupiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.
Un altro lavoro splendido per l’indaffarato musicista belga e, peraltro, questa degli Imber Luminis non è detto che sia l’ultima delle sue molteplici incarnazioni; quantità e qualità, non sono invero in molti ad unirle con tale disinvoltura in campo artistico …

Tracklist:
1. Imber
2. Aeternus

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals

IMBER LUMINIS – Facebook

Abysmal Grief – We Lead the Procession

“We Lead the Procession” nulla aggiunge e nulla toglie alla grandezza degli Abysmal Grief ma la possibilità di ascoltare brani inediti, recenti o più datati, costituisce una ragione più che valida per spingere gli appassionati a fare propria la raccolta.

Circa un anno dopo aver parlato del loro magnifico ultimo album “Feretri”, gli Abysmal Grief tornano sul mercato con questa interessante raccolta retrospettiva intitolata We Lead the Procession.

Uscito in diversi formati (vinile, cd e anche musicassetta, tanto per rimarcare quanto l’immaginario estetico e musicale della band genovese sia fortemente radicato negli anni settanta), il lavoro è molto di più di una semplice compilation in quanto racchiude sia tracce inedite sia versioni alternative di brani già pubblicati.
Come sempre, qualsiasi prodotto marchiato Abysmal Grief non tradisce, visto che nessuno oggi, nemmeno nomi ben più celebrati e portati in palmo di mano dalla stampa specializzata, è in grado di proporre con uguale maestria un dark doom orrorifico di tale levatura.
La musica dei nostri evoca gli effluvi penetranti dei piccoli cimiteri, l’odore di muffa di antiche foto in bianco e nero estratte da uno scatolone rimasto dimenticato per decenni sullo scaffale di una cantina, rivelandosi l’ideale colonna sonora di quei film e sceneggiati televisivi capaci di provocare pathos e autentico terrore senza neppure dover ricorrere a costosissimi effetti speciali.
We Lead the Procession, ovviamente, nulla aggiunge e nulla toglie allo status degli Abysmal Grief, ma la possibilità di ascoltare ottimi brani come le più recenti riedizioni di Open Sepulchre e Mors Eleison, e documenti che paiono davvero registrati e riprodotti con un mangianastri di settantiana memoria (Bara), costituisce una ragione più che valida per spingere gli appassionati a fare propria la raccolta.

Approfitto della tempestiva pubblicazione di questo articolo per segnalare a chi risiede a Genova e dintorni che gli Abysmal Grief, per una volta, giocheranno in casa esibendosi sabato 24 maggio presso L’Angelo Azzurro (Via Borzoli 39): un’occasione da non perdere assolutamente …

Tracklist:
1. Open Sepulchre
2. Fear of Profanation
3. Raise the Dead
4. Exsequia Occulta
5. Procession
6. Bara
7. Profanation
8. Mors Eleison

Line-up:
Lord Alastair – Bass
Regen Graves – Guitars, Drums
Fog – Drums
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Doomed – Our Ruin Silhouettes

Il progetto solista di Pierre Laube arriva al terzo album in due anni e conferma la parabola ascendente che caratterizza l’operato del musicista tedesco fin dall’inizio di questa sua avventura.

Il progetto solista di Pierre Laube arriva al terzo album in due anni e conferma la parabola ascendente che caratterizza l’operato del musicista tedesco fin dall’inizio di questa sua avventura.

Attestatosi ormai stabilmente bel prestigioso roster della Solitude, Pierre non tradisce le coordinate di base che hanno caratterizzato il suo death-doom sia nell’esordio “The Ancient Path” sia nel successivo “My Own Abyss” ma, in quest’occasione, il sound si concede in diverse occasioni aperture melodiche capaci di attenuare l’effetto claustrofobico che fino a ieri ne era contemporaneamente trademark e parziale limite.
La chitarra infatti si lascia andare a passaggi capaci di segnare i singoli brani, proprio ciò che veniva meno nei lavori precedenti dove invece veniva privilegiato un impatto di matrice death, senza dubbio efficace ma alla lunga privo del necessario cambio di marcia.
Non che i Doomed siano diventati di punto in bianco dei discepoli dei Saturnus, intendiamoci, il doom della one-man band teutonica è sempre piuttosto corrosivo e scevro di soluzioni di facile presa, ma la rabbiosa aggressività del recente passato lascia maggiormente spazio a una chitarra che trasmette più amarezza che malinconia, in ogni caso.
La scelta di aprire il disco ospitando alla voce uno dei cantanti simbolo del death-doom melodico europeo, ovvero Pim Blankenstein degli Officium Triste, denota anche a livello di intenti un maggiore ammorbidimento del sound, aspetto che a mio avviso permette ai Doomed di compiere un decisivo salto di qualità.
When Hope Disappears è infatti forse il brano migliore scritto da Pierre in questo biennio, non solo grazie al contributo vocale dell’ospite (del resto il musicista tedesco dispone egli stesso di un growl ben più che adeguato) ma, soprattutto, per la presenza di una chitarra capace di disegnare melodie sufficientemente dolenti; lo stesso accade anche in fondo anche in The Last Meal, dove in questo caso l’ospite è il meno noto Andreas Kaufmann, e nella conclusiva What Remains, per un trittico di brani che mostra il lato più melodico dei Doomed.
Il resto di Our Ruin Silhouettes si assesta sui livelli e sulle coordinate dei precedenti lavori, ma è indubbia la percezione di un lavoro di scrittura più definito e in qualche modo più aperto e non è da escludere che, essendo divenuti i Doomed, almeno dal vivo, una band a tutti gli effetti, Pierre ne abbia risentito positivamente anche in fase di composizione.
Ancora una volta, quindi, non si può che accogliere con soddisfazione una nuova uscita del musicista tedesco che, senza fare troppi proclami, prosegue con teutonica regolarità la sua marcia d’avvicinamento ai vertici del death-doom.

Tracklist:
1. When Hope Disappears
2. In My Own Abyss
3. A Reccurent Dream
4. The Last Meal
5. My Hand in Yours
6. Revolt
7. What Remains

Line-up:
Pierre Laube – All Instruments, Vocals

DOOMED – Facebook‎‎

Forgotten Tomb – Darkness in Stereo: Eine Symphonie des Todes – Live in Germany

Ogni appassionato di metal che si rispetti non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di ascoltare il primo documento live ufficiale della formidabile band emiliana, che in quest’ora scarsa propone alcuni dei propri cavalli di battaglia

In occasione dell’uscita del loro nuovo DVD Darkness in Stereo: Eine Symphonie Des Todes – Live in Germany i Forgotten Tomb fanno un gradito omaggio ai loro fan offrendo in free download la registrazione del concerto tenuto in occasione del Kings Of Black Metal Festival del 2012 in quel di Ansfeld (Germlania).

Ogni appassionato di metal che si rispetti non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di ascoltare il primo documento live ufficiale della formidabile band emiliana, che in quest’ora scarsa propone alcuni dei propri cavalli di battaglia, come i più datati Todestrieb, Solitude Ways e Disheartenment e i più recenti Reject Existence, Shutter e Spectres over Venice ma, ovviamente, molti altri potranno essere apprezzati all’interno del DVD che contiene ben 3 spettacoli tenuti dai Forgotten Tomb in Germania nel corso del 2012 . Il concerto, ripulito il giusto a livello di suoni senza minimamente snaturarne l’essenza, mostra Herr Morbid e soci in piena forma, capaci di catturare il pubblico con una serie di brani eccezionali all’insegna del caratteristico black-doom impreziosito da un lavoro chitarristico dall’innato gusto melodico. L’occasione per fare proprio questo ottimo documento musicale è ghiotta ma, mentre i fan più affezionati difficilmente si faranno sfuggire l’opportunità di procurarsi il DVD, soprattutto chi non conoscesse ancora una delle migliori band tricolori in circolazione ha la possibilità di colmare tale grave lacuna, magari andandosi anche a recuperare in seguito alcune delle pietre miliari del nostro metal estremo quali “Songs To Leave” e “Springtime Depression”.

Tracklist:
1. Springtime Depression
2. Reject Existence
3. Shutter
4. Solitude Ways
5. Todestrieb
6. Spectres over Venice
7. Disheartenment

Line-up:
Ferdinando “Herr Morbid” Marchisio – guitar, vocals
Andrea “A.” Ponzoni – lead guitar
Alessandro “Algol” Comerio – bass
Kyoo Nam “Asher” Rossi – drums

FORGOTTEN TOMB – Facebook

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Kaunis Kuolematon – Kylmä Kaunis Maailma

“Kylmä Kaunis Maailma” è un disco all’insegna di un death-doom melodico di rara versatilità.

Dopo aver recensito per ben due volte i Kuolemanlaakso eccoci alle prese con un monicker piuttosto simile come quello dei Kaunis Kuolematon; inutile dire che anche qui ci troviamo immersi mani e piedi nella magnifica terra dei mille laghi alle prese con un’altra band che potrebbe rivelarsi tra le scoperte più eccitanti dell’anno.

L’uso del condizionale non è riferito a dubbi sul contenuto musicale di Kylmä Kaunis Maailma bensì proprio alla difficoltà che avrete avuto (almeno che non abbiate ascendenze finniche) nel pronunciare correttamente il titolo; il ricorso integrale alla lingua madre rischia, infatti, di rivelarsi un ostacolo per quelle fasce di ascoltatori meno forniti di pazienza e di apertura mentale.
Superato questo relativo scoglio risulta però facile innamorarsi perdutamente dei Kaunis Kuolematon, capaci di comporre un disco all’insegna di un death-doom melodico di rara versatilità.
Lo spettro nobile quanto ingombrante dei Swallow The Sun aleggia inevitabilmente sul disco, e non è escluso che l’artificio linguistico sia anche un modo per rendere meno automatici certi accostamenti, ma va detto che, al di là di similitudini più o meno evidenti, i nostri mantengono quale tratto comune con i loro maestri soprattutto la stupefacente capacità di comporre melodie difficilmente accantonabili, inserendole in un contesto sonoro robusto ma sempre dotato del giusto equilibrio.
La prestazione vocale di Olli Saakeli Suvanto è eccellente, priva com’è di sbavature nelle parti in growl e in screming (sulla falsariga quindi del miglior Kotamaki), così come quella di Mikko Heikkilä, il quale in aggiunta alle sei corde si occupa anche delle evocative clean vocals, utilizzate a profusione nei brani più rilassati e in quelli dai tratti epicheggianti.
Il livello complessivo ben oltre la media non impedisce a qualche traccia di spiccare sulle altre, in particolare la splendida En ole mitään, dal tasso emotivo irresistibile e abbinata anche ad un video strappalacrime, o la successiva Sieluni sirpaleet, senza dimenticare la superlativa Aamu.
Anche se i Kaunis Kuolematon si fanno preferire nei frangenti più emozionali, pure quando spingono sull’acceleratore risultano coinvolgenti spostandosi decisamente sul versante death melodico, ma in ogni singolo momento dell’album la band finnica dimostra una spiccata personalità che riesce a farle superare con disinvoltura i limiti imposti dal genere e le inevitabili comparazioni con i nomi più pesanti del settore.
Come detto in avvio, la scelta di cantare in lingua madre temo che possa comportare la chiusura di diverse porte nei confronti dei Kaunis Kuolematon, almeno al di fuori dei confini patri, mentre, per loro fortuna, sul fronte interno si trovano ad avere a che fare con una popolazione numericamente esigua ma incredibilmente ricettiva verso generi musicali che altrove (qualcuno ha detto Italia ?) non vengono minimamente presi in considerazione a livello mediatico (ci tengo a ricordare che nel 2006 la Finlandia trionfò all’Eurofestival mandando in propria rappresentanza nientemeno che i Lordi)
Ma, al di là di tutte queste considerazioni, Kylmä Kaunis Maailma resta a mio avviso uno dei migliori dischi usciti in questo primo terzo del 2014 e tanto deve bastare per spingervi a fare una piacevole full-immersion di finlandese.

Tracklist:
1. Pimeyden valtakunta
2. Itsestään kuollut
3. Kivisydän
4. Kuolematon
5. En ole mitään
6. Sieluni sirpaleet
7. Pahan kasvot
8. Aamu
9. Haudasta hautaan

Line-up:
Jarno Uski – Bass
Miika Hostikka – Drums
Olli Saakeli Suvanto – Vocals
Ville Mussalo – Guitars
Mikko Heikkilä – Guitars, Vocals (clean)

KAUNIS KUOLEMATON – Facebook

Ordog – Trail For The Broken

Probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà apprezzabile quest’album, ma chi volesse capire da dove nasce la mia parziale delusione vada a riascoltarsi “Remorse”.

I finlandesi Ordog solo tre anni fa si erano rivelati con un disco straordinario come “Remorse”, nel quale fornivano un interpretazione del funeral doom del tutto personale, sia per i suoni prescelti sia per l’approccio decisamente naif alla materia.

Pertanto mi sono avvicinato speranzoso a questo nuovo Trail for the Broken, quarto full-length della loro discografia, ricevendone in cambio una parziale delusione.
Intendiamoci, il disco di per sé non è affatto disprezzabile e contiene, anzi, diversi episodi di ottima fattura; il fatto è, però, che delle sonorità plumbee e sofferte del suo predecessore non è rimasto quasi più nulla visto che quello che potremo ascoltare in questo frangente è un gothic-prog-doom dai tratti sempre piuttosto anticonvenzionali ma ben lontano dall’evocare le atmosfere malate o dal riprodurre gli spunti geniali del suo predecessore.
Se gli Ordog, finchè erano alle prese con il funeral sghembo di “Remorse”, riuscivano a sopperire ad alcune lacune di stampo esecutivo grazie alla loro particolare sensibilità compositiva, con l’approdo a sonorità più fruibili si spingono in territori nei quali non sempre si trovano a proprio agio, specie per l’uso di clean vocals non all’altezza che affossa in più parti il disco anche quando vengono espressi spunti strumentali di indubbio spessore.
La voce di Aleksi Martikainen è infatti troppo piatta e talvolta neppure sufficientemente intonata per fare presa su un pubblico più ampio, come si presume sia stato l’intento dei finnici con questo evidente salto stilistico, ed il virtuale accantonamento del più consono growl non si rivela una scelta azzeccata.
L’album vive così di sprazzi di buona musica nei quali l’abilità dei nostri nell’imbastire melodie struggenti non viene meno, il tutto però è caratterizzato da un’eccessiva discontinuità e, laddove si centra il bersaglio con due brani segnati da un bel lavoro di tastiera come Devoted to Loss e Enter The Void, oppure come con I Ceased to Dream, che si risolleva dopo un avvio poco incisivo grazie a un finale decisamente riuscito, bisogna fare i conti anche con un episodio invero sconcertante per la sua piattezza come Abandoned.
Ma forse io sono severo per troppo amore nei loro confronti e, probabilmente, chi non ha mai ascoltato gli Ordog troverà comunque apprezzabile quest’album che, come già detto, non sarebbe corretto liquidare come un qualcosa di negativo; se vogliamo tracciare un parallelismo, il loro percorso rassomiglia non poco, anche come esito, a quello dei Pantheist, partiti come i finnici da una base funeral-death doom, poi abiurata per approdare a sonorità più marcatamente gotiche e progressive.
Semplicemente, chi ne avesse voglia, vada a riascoltarsi la title track di “Remorse” quando, dopo tredici minuti di autentica agonia basati su passaggi pianistici minimali

ed un riff distorto all’inverosimile, il brano esplode in un delirio psichedelico degno dei migliori Bigelf: l’esperienza di questo ascolto varrà più di mille parole per spiegare in maniera chiara e netta chi erano gli Ordog nel 2011, una band in grado di raggiungere magari pochi intimi ma capace di regalare loro momenti indimenticabili, e quello che sono oggi, un gruppo che piacerà senz’altro a molte più persone senza riuscire probabilmente a lasciare una traccia tangibile nel cuore di alcuno.

Tracklist:
1. The Trail
2. Scythe
3. The Swarm of Abhorrence
4. Devoted to Loss
5. Enter the Void
6. I Ceased to Dream
7. Abandoned
8. The Crows of Towerpath

Line-up :
Valtteri Isometsä – Guitars, Drums, Vocals (backing)
Aleksi Martikainen – Vocals
Jussi Harju – Keyboards
Ilkka Kalliainen – Bass

ORDOG – Facebook

Dread Sovereign – All Hell’s Martyrs

Anche se qui non stiamo parlando dei Primordial, inevitabilmente i fan della storica band irlandese non si faranno sfuggire la possibilità di apprezzare l’ora abbondante di musica di qualità contenuta in “All Hell’s Martyrs” .

Alan Averill (Nemtheanga) non è tipo che ami stare fermo a dormire sugli allori.

Nonostante l’ultimo disco dei suoi Primordial non sia recentissimo continua ad calcare i palchi di mezza Europa (è solo dello scorso febbraio l’eccellente esibizione al Rock’n’Roll di Romagnano Sesia) e, non contento, propone questo suo progetto doom denominato Dread Sovereign, assieme al fido drummer Simon O’Laoghaire ed al chitarrista Bones dei misconosciuti Wizards of Firetop Mountain.
Anche se non nuovo ad incursioni nel genere, dopo aver prestato dieci anni or sono la propria voce al magnifico “Human Antithesis” dei romani Void of Silence, etichettare semplicemente come doom questo nuova avventura di Alan non sarebbe corretto: tale definizione è ineccepibile per brani come Thirteen Clergy e Cthulhu Opiate Haze, nei quali la band appare come una versione dei The Wounded Kings con voce sacerdotale maschile anziché femminile, e per i primi minuti di diverse altre tracce nelle quali il sound prende successivamente sfumature che esulano ampiamente dagli schemi della musica del destino (la sulfurea ritualità dell’allucinata Pray to the Devil in Man, le derive quasi in stile paradiselostiano nelle parti finali di We Wield the Spear of Longinus e Cathars to Their Doom)
Ma tali riferimenti, alla fine, vengono manipolati e stravolti da Alan con tonalità particolarmente velenose ed anche inconsuete per il suo tipico range vocale, poggiandosi su un tappeto musicale sufficientemente dinamico quanto non di semplicissima lettura.
Va detto che una base ritmica lineare ma efficace, a cura dello stesso Nemtheanga al basso e di Sol Dubh, supporta alla perfezione il lavoro chitarristico di Bones, piuttosto originale e capace di esibire suoni inconsueti per il genere, mostrando talvolta un tocco dai tratti vicini alla darkwave ottantiana, come nella splendida Scourging Iron; un aspetto decisamente anomalo, e che a molti non sarà sfuggito, è comunque il reiterarsi in momenti diversi del disco degli stessi accordi chitarristici che si rivelano, però, un artificio utile nel fornire ai brani una ritmica ed un fascino del tutto particolare.
Come si può intuire All Hell’s Martyrs non è un lavoro di semplicissima fruizione, tanto che non lo definirei del tutto adatto agli appassionati del doom più tradizionale; qui i fantasmi di Sisters Of Mercy e Fields Of The Nephilim si aggirano inquietanti tra le partiture del lavoro, donandogli un’aura a suo modo unica: la conclusiva e lunghissima All Hell’s Martyrs, Transmissions from the Devil Star sembra davvero una traccia suonata dagli autori di “Elizium” in preda ad una sorta di trip space-gothic-doom, con esiti magnifici.
Su tutto il lavoro però si staglia inequivocabile la voce unica per capacità evocativa di Alan Averill che, senza nulla togliere all’ottimo lavoro dei musicisti che lo hanno accompagnato in tutte le sue avventure musicali, si rivela da sempre l’elemento capace di elevare all’eccellenza anche dischi che con un altro cantante sarebbero stati considerati buoni e nulla più.
I Dread Sovereigns con questo lavoro ripagano parzialmente chi aveva ritenuto “Redemption at the Puritan’s Hand” un gradino sotto a un capolavoro come “To the Nameless Dead” e, anche se qui non stiamo parlando dei Primordial, inevitabilmente i fan della storica band irlandese non si faranno sfuggire la possibilità di apprezzare l’ora abbondante di musica di qualità contenuta All Hell’s Martyrs .

Tracklist:
1. Drink the Wine
2. Thirteen Clergy
3. Cthulhu Opiate Haze
4. The Devil’s Venom
5. Pray to the Devil in Man
6. Scourging Iron
7. The Great Beast
8. We Wield the Spear of Longinus
9. Cathars to Their Doom
10. All Hell’s Martyrs, Transmissions from the Devil Star

Line-up :
Nemtheanga – Bass, Vocals
Sol Dubh – Drums
Bones – Guitars

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Crypt Of Silence – Beyond Shades

Esordio soddisfacente ma non eccezionale, difficilmente però la Solitude punta sui cavalli sbagliati, quindi attendiamo fiduciosi un salto di qualità decisivo fin dal prossimo album.

Gli ucraini Crypt Of Silence si presentano al passo d’esordio per la Solitude con un solido album di death doom piuttosto ossequioso alla tradizione ma non per questo da sottovalutare a priori.

Indubbiamente la band di Mikhael Graver non si va a collocare sui livelli di eccellenza raggiunti da diversi loro compagni di scuderia negli ultimi tempi, difettando rispetto a questi sia in drammaticità che in gusto melodico, ma resta il fatto che ogni appassionato che si rispetti non dovrebbe ignorare questo buonissimo disco, all’insegna di un sound molto essenziale, nel quale spicca soprattutto l’assenza delle tastiere e quindi, di quelle armonie capaci spesso di fare la differenza in un genere dai tratti monolitici come quello in questione.
In sede di presentazione da parte della label viene citato curiosamente un singolo album come principale fonte di ispirazione, ovvero quel “The Sullen Sulcus” che è sicuramente stato il migliore degli album prodotti dai Mourning Beloveth fino all’uscita dello splendido Formless, ma non parliamo certo di un lavoro capace di segnare la storia del genere; sicuramente tali riferimenti non sono campati per aria (in particolare nelle conclusiva End of Imaginary Line ) ma qui siamo di fronte, soprattutto, ad una band relativamente giovane che intende proporre un death doom scarno ma dall’immutato impatto malinconico senza cercare facili scorciatoie.
Le quattro lunghe tracce portano Beyond Shades a sfiorare i cinquanta minuti, snodandosi in maniera sofferta ma sufficientemente coinvolgente, con qualche assolo di chitarra e diversi passaggi acustici ad incrinare il muro sonoro eretto dai quattro ragazzi ucraini.
E’ da considerare quindi più che sufficiente questo lavoro dei Crypt Of Silence, considerando appunto che si tratta pur sempre di un esordio, in particolare per l’integrità dimostrata e per il coraggio nel proporre con efficacia un modello stilistico leggermente superato; difficilmente la Solitude punta sui cavalli sbagliati, quindi attendiamo fiduciosi un salto di qualità decisivo fin dal prossimo album.

Tracklist:
1. Walk with My Sorrow
2. Bleeding Her Eyes
3. The Wrath Song
4. End of Imaginary Line

Line-up :
Andriy Buchinskiy – Drums
Roman Kharandyuk – Guitars (rhythm), Vocals
Roman Komyati – Guitars (lead)
Mikhael Graver – Vocals, Bass, Lyrics

CRYPT OF SILENCE – Facebook