Kalmen – Funeral Seas

I Kalmen si rivelano un gruppo di sicuro valore, da annoverare tra gli interpreti più inquieti e meno scontati della materia estrema gravitante tra black, doom e sludge

Secondo full length per i tedeschi Kalmen, fautori di un buon black doom dalle importanti sfumature psichedeliche.

Anche se talvolta certe affermazioni possono apparire forzate, Funeral Seas è un album che mostra in maniera decisa la propria impronta germanica, in virtù del suo scorrere austero ed oscuro, ricordando a livello di sonorità band la cui appartenenza al black metal è comunque sui generis come i Secret of the Moon (prima della svolta alternative) o gli Helrunar.
Questo sta a significare che il lavoro è quanto mai inquieto, raramente impostato su ritmi troppo veloci ma che, anzi, spesso indulge in più di un passaggio in atmosfere rarefatte che rimandano al post metal.
Tutto questo rende Funeral Seas un album interessante, dalla fruizione non proprio semplicissima in quanto la tensione e l’oscurità prevalgono sulle sporadiche aperture melodiche, ma con la dote, tipica dei dischi ben riusciti, di crescere con lo scorrere della tracklist e entrare sempre più in circolo dopo ogni ascolto.
Ad emblema del lavoro si possono estrapolare i due brani centrali, Uninfinite Black e Swansong, a loro modo dicotomici con il primo più black oriented e non privo di un certo groove ed il secondo, molto più atmosferico ma anche minaccioso, che risulta a mio avviso il picco qualitativo di Funeral Seas.
I Kalmen si rivelano così un gruppo di sicuro valore, da annoverare tra gli interpreti più inquieti e meno scontati della materia estrema gravitante tra black, doom e sludge, questo appunto grazie ad una componente psichedelica ben dosata e che non raggiunge mai, ovviamente, i picchi lisergici di certo stoner.

Tracklist:
1. Spectral
2. Thieving Sky
3. Portal
4. Uninfinite Black
5. Swansong
6. Arcane Heresies
7. Searenade

Line-up:
Marc – Bass, Vocals
Jana – Guitars
Thomas “Schmidti” Schmidt – Guitars, Vocals
Orpheus – Drums

KALMEN – Facebook

Druj – Chants Of Irkalla

I Druj si nutrono dell’efferatezza sonora dei loro connazionali Evoken, Nile e Incantation, macinandone gli influssi per restituire un sound cupo, dalle tonalità paurosamente ribassate e rallentato a dovere, che è un esempio perfetto da utilizzare per spiegare a qualcuno cosa sia il death doom nella sua accezione più autentica.

Abbiamo ormai fatto l’abitudine al doom e al black provenienti dai ghiacci siberiani, per cui non ci sorprende constatare che il gelo non mina la voglia di suonare tali funesti generi neppure al di là dello stretto di Bering.

I Druj provengono infatti da Anchorage, capitale dell’Alaska, e di sicuro nel loro death doom non immettono alcuna traccia di calore od empatia.
L’interpretazione è asciutta, essenziale ma non approssimativa a livello di registrazione e di esecuzione: il riferimento concettuale alla traduzione sumera non è una primizia, così come non lo sono le coordinate sonore dei Druj, ma non vengono certo meno gli ingredienti per rendere Chants Of Irkalla un lavoro godibile ovviamente per chi sia abituato ad una certa asprezza compositiva.
Ziggurat Ablaze, lunga traccia d’apertura, non lascia dubbi su quali siano i numi tutelari di questi nordamericani, i quali si nutrono dell’efferatezza sonora dei loro connazionali Evoken, Nile e Incantation, macinandone gli influssi per restituire un sound cupo, dalle tonalità paurosamente ribassate e rallentato a dovere, che è un esempio perfetto da utilizzare per spiegare a qualcuno cosa sia il death doom nella sua accezione più autentica.
Un altro brano magnifico è Invoke, dal retrogusto rituale ed attraversato da una ronzante e minacciosa melodia chitarristica, ma è il disco nel suo complesso ad esibire un sound convincente in ogni suo aspetto e con le carte in regola per farvi convergere il gradimento degli appassionati di entrambi i generi rappresentati.

Tracklist:
1.Ziggurat Ablaze
2.He Who Drinks of Namma
3.Chants of Irkalla
4.Consort of Sin
5.Invoke
6.Ashes of Immortality

Line-up:
Sean Holladay – Guitars
Connor Tetlow – Guitars
Wayne DeWilde – Bass
Adam Kimball – Drums

Komatsu – A New Horizon

Fin dalle prime note del disco si sente che A New Horizon è un’opera molto bella ed affascinante, con un groove incredibile che macina tutto e tutti.

Terzo disco per gli olandesi Komatsu, uno dei gruppi europei che coniuga meglio pesantezza e melodia, per un risultato stupefacente.

Fin dalle prime note del disco si sente che A New Horizon è un’opera molto bella ed affascinante, con un groove incredibile che macina tutto e tutti. Nel corso delle canzoni le chitarre distorte si fondono con la voce per cambiare registro più volte all’interno della stessa traccia, per una mutazione continua che si evolve in melodie molto belle. Ascoltare i Komatsu è come salire su un vinile che gira, con il movimento che ti fa perdere le coordinate e vivi il momento. Le soluzioni sonore del gruppo di Eindhoven sono molte e non sono alla portata della maggior parte dei gruppi stoner o sludge, perché i Komatsu sono differenti e lo si può notare subito. Non è un fatto esclusivamente di talento ma soprattutto di gusto e di capacità compositiva, perché le loro canzoni hanno un retrogusto psichedelico che le valorizza maggiormente. Ci si perde nel turbine sonoro del disco, che è davvero una chicca per gli amanti dei suoni stoner sludge ma non solo, perché c’è anche una forte impronta psych e fuzz. Sinceramente è difficile assegnare un genere ben preciso ad un disco del genere, certamente al suo interno si possono ravvisare gli stilemi dei grandi classici come i Black Sabbath, Queens Of The Stone Age e Kyuss, ma il tutto è rielaborato in maniera davvero molto originale e particolare. Nel panorama mastodontico dei gruppi stoner e similari, i Komatsu spiccano per bellezza e compattezza della loro musica: certo, bisogna andare a scoprirli, ma se date loro una possibilità ne verrete ampiamente ripagati.

Tracklist
1. I Got Drive
2. Prophecy
3.10-4
4. Surfing A Landslide
5. Love Screams Cruelty
6. Komatsu
7. Infected
8. A New Horizon
9. Walk A Mile
10. This Ship Has Sailed

Line-up
Mo Truijens – Guitar + Lead vocals
Mathijs Bodt – Guitar + vocals
Martijn Mansvelders – Bass + vocals
Joris Lindner – Drums + vocals

KOMATSU – Facebook

Necandi Homines – Black Hole

Mezz’ora di musica complessa, per molti probabilmente ostica, ma assolutamente da provare ad assimilare senza lasciare nulla di intentato nella ricerca della sua chiave d’accesso.

Raramente il titolo di un album si rivela più calzante al contenuto musicale di questo Black Hole, ep dei marchigiani Necandi Homines, intezionati a scaraventare l’ascoltatore in una voragine esistenziale dai confini indefiniti.

La band è reduce dall’ottimo full length Da’at, dello scorso anno, ma il nuovo patrocinio fornito dalla collaborazione tra due etichette come Third I Rex e Toten Schwan sembra aver acuito la vena sperimentale e psichedelica che già era visibilmente impressa in un black doom del tutto sui generis.
I tre brani contenuti in Black Hole mostrano altrettante sfaccettature dei Necandi Homines, dal cupo e inquieto incedere dall’impronta doom del primo, al più nervoso ed estremo snodarsi del secondo, riconducibile ad un black metal pur sempre di natura aliena, per arrivare al lungo e micidiale mantra dell’ultimo episodio, nel quale voci salmodianti si rincorrono poggiandosi su un tappeto psichedelico/rituale in grado di scavare solchi profondi.
Un lavoro come Black Hole è l’esemplificazione di quanto dovrebbe essere lo sperimentalismo in campo estremo, ovvero non un rumorismo sconnesso e fine a sé stesso, ma un susseguirsi di momenti e di intenzioni che scardinano quanto fatto in precedenza, fungendo allo stesso tempo da puntello per ciò che verrà dopo.
Mezz’ora di musica complessa, per molti probabilmente ostica, ma assolutamente da provare ad assimilare senza lasciare nulla di intentato nella ricerca della sua chiave d’accesso.

Tracklist:
1. .
2. ..
3. …

Line-up:
Discissus – Vocals
Oxide – Bass
Hagen – Drums
Apsychos – Guitars

NECANDI HOMINES – Facebook

Asylum – 3-3-88

Oltre ad essere un documento storico, questa raccolta inedita, che ha girato per anni in forma di mp3 fra i collezionisti più accaniti, è un ottimo disco e soprattutto una validissima introduzione a ciò che poi saranno gli Unorthodox.

Ritorna uno dei dischi fondamentali della storia del doom metal del Maryland, una delle scene più feconde ed influenti per questo lento e devastante sottogenere del metal.

Gli Asylum nacquero negli anni ottanta, e da questo gruppo nacquero poi gli Unorthodox, un altro grande gruppo di quello stato, ed infatti l’ultima traccia di questo lavoro ha proprio quel nome. Questo lavoro non vide mai la luce, ed è composto da canzoni e demo mai pubblicati. Lo stile è quello del doom del Maryland in fase di formazione, nel senso che è ancora forte l’influenza dell’heavy metal sul gruppo, e si potrebbe affermare che sia un metal non ancora doom, ma con al suo interno un nucleo di composizione differente dall’heavy canonico, che risente fortemente anche della tradizione americana. Colpisce anche la bravura tecnica della band, di molto superiore alla media di quel periodo, e ciò si riflette anche sulla composizione dei pezzi. Ascoltando il disco si può percepire molto bene il cambiamento stilistico degli Asylum, che avanza sempre di più verso una forma maggiormente dilatata del suono, acquistando anche maggiore pesantezza, e valicando spesso i confini della psichedelia, con un suono davvero in stile Maryland. Oltre ad essere un documento storico, questa raccolta inedita, che ha girato per anni in forma di mp3 fra i collezionisti più accaniti, è un ottimo disco e soprattutto una validissima introduzione a ciò che poi saranno gli Unorthodox, un gruppo fondamentale per una certa scena doom, che intitolerà il suo disco di esordio proprio Asylum. Il loro talento qui esce con prepotenza, senza lasciare nulla di intentato, e ci troviamo di fronte ad una notevole opera recuperata con grande merito dalla Shadow Kingdom Records.

Tracklist
1. World In Trouble
2. Mystified
3. Time Bomb
4. Road To Ruin
5. Psyche World
6. Forgotten Image
7. Nowhere
8. Funk 69
9. Indecision
10. Unorthodox

Voidhaven – Voidhaven

Questa prima uscita dei Voidhaven ci regala una nuova band con i cromosomi doom al collocati al posto giusto per offrirci, nel prossimo futuro, un’interpretazione del genere qualitativamente all’altezza di questo graditissimo primo assaggio.

Prima uscita omonima con questo ep per i tedeschi Voidhaven, band che annovera tra le sue fila due membri degli Ophis (Simon Schorneck e Philipp Kruppa)

Con tali premesse, unite al fatto che poi gran parte della band ha un passato anche nei Crimson Swan, nome meno noto ma pur sempre gravitante nella cerchia del doom, il sound offerto è ovviamente ben orientato verso una direzione malinconica seppure piuttosto melodica, grazie anche al ricorso consistente alle clean vocals.

I due brani in scaletta, che si attestano attorno ai dieci minuti di durata, si rivelano sufficientemente probanti riguardo alle potenzialità di questa nuova band, e non è certo un caso se la Solitude se ne è già assicurata le prestazioni.
I Voidhaven raggiungono un ideale equilibrio tra il funeral melodico degli Ophis ed il gothic doom dei Crimson Swan, andandosi ad attestare su territori contigui a Swallow The Sun ed Evadne, in virtù di un sound per lo più dolente ed atmosferico, sporcato solo di tanto in tanto da qualche ruvidezza rappresentata da riff più robusti e dall’uso del growl.
Troviamo così una The Floating Grave nel complesso più suadente mentre, a seguire, Beyond the Bounds of Sleep mostra tratti più drammatici, anche se il cantato pulito normalmente si snoda come avviene nelle band citate, andando a coincidere con i passaggi più intensi dal punto di vista emotivo.
Ne consegue che questa prima uscita dei Voidhaven ci regala una nuova band con i cromosomi doom al collocati al posto giusto per offrirci, nel prossimo futuro, un’interpretazione del genere qualitativamente all’altezza di questo graditissimo primo assaggio.

Tracklist:
1. The Floating Grave
2. Beyond the Bounds of Sleep

Line-up:
Jakob Bass, Vocals (backing)
Martin Drums
Marcos Lege Keyboards
Simon Schorneck Guitars, Vocals
Phil Guitars

VOIDHAVEN – Facebook

Switchblade Jesus/Fuzz Evil – Second Coming Of Evil: Chapter 7

Second Coming Of Evil: Chapter 7 risulta è uno degli split più interessanti degli ultimi tempi, almeno per quanto riguarda lo stoner/sludge, presentando una coppia di band assolutamente da non perdere se siete amanti di queste sonorità

Uscito qualche tempo fa, questo split, come suggerisce il titolo, è il settimo capitolo dell’interessante iniziativa della Ripple Music, che consiste nel portare in superficie ottime band underground con questo tipo di uscite curate nei minimi dettagli.

Il settimo sigillo della label presenta due notevoli band statunitensi, i pesantissimi texani Switchblade Jesus e gli heavy/rocker dell’Arizona Fuzz Evil.
Il trio proveniente dal Texas risulta attivo dal 2010, con il debutto omonimo risalente al 2013: i tre brani presenti in questo split risultano altrettante mazzate heavy/stoner/sludge rock, attraversate da un’aura psichedelica ed un’attitudine vintage che ci riporta negli anni settanta.
Snake And Lion è un brano hard rock che si muove tra pesantezza sludge, blues acido e psych rock travolgente, mentre la seguente Wet Lungs, si apre con un cameo country per poi lasciare spazio ad un riff in crescendo, monolitico e cadenzato.
Heavy Is The Mountain è un perdersi nel deserto affrontando il caldo letale, un trip psichedelico, un incubo stoner/sludge rock che lascia spazio al rock’nroll dei Fuzz Evil.
Altro trio, la band proveniente dall’Arizona mostra un impatto più rock, con uno stoner desert urgente e diretto dal quale scaturiscono quattro scariche di adrenalina dalle quale fanno capolino gli Stooges.
Anche per i Fuzz Evil il mood è settantiano, grazie ad un rock vintage drogato da iniezioni letali di stoner rock che unisce in una jam psychedelica Stooges e Kyuss: una manciata di tracce per convincere l’ascoltatore travolto dalla forza dei loro colleghi texani ed ora ringalluzzito dall’onda desert rock’n’roll di Better Off Alon, Grave And Cupids, If You Know e la più marcia e strippata Flighty Woman.
Second Coming Of Evil: Chapter 7 è uno degli split più interessanti degli ultimi tempi, almeno per quanto riguarda il genere, presentando una coppia di band assolutamente da non perdere se si è amanti di queste sonorità.

Tracklist
1.(Switchblade Jesus) Snakes And Lions
2.(Switchblade Jesus) Wet Lungs
3.(Switchblade Jesus) Heavy Is The Mountain
4.(Fuzz Evil) Better Off Alone
5.(Fuzz Evil) Grave And Cupids
6.(Fuzz Evil) If You Know
7.(Fuzz Evil) Flighty Woman

Line-up
Switchblade Jesus :
Jon Elizondo – Drums
Eric Calvert – Guitars
Chris Black – Bass

Fuzz Evil :
Wayne Rudell – Vocals, Guitars
Joseph Rudell – Vocals, Bass
Orgo Martinez – Drums

SWITCHBLADE JESUS – Facebook

Ultha – The Inextricable Wandering

Grande affresco di black metal angosciante, disperato e figlio della desolazione metropolitana. Un’opera di altissimo livello.

Nella recensione del loro ultimo full length Converging Sins, del 2016, mi auguravo un’ulteriore crescita della band tedesca e tale auspicio, alla luce del nuovissimo lavoro, è stato assolutamente ben riposto.

Anche l’approdo alla potente Century Media non ha scalfito di una virgola la proposta di questi artisti, che proseguono la loro strada peculiare e personale, mettendo a fuoco il loro sound, senza perdere un oncia di potenza e passione costruendo noto dopo nota un’ atmosfera oscura, drammatica, angosciante. Memori dei suoni del passato (nel 2016, coverizzarono Raise the Dead di Quorthon), i quattro musicisti di Colonia definiscono un passionale suono black metal, miscelandolo con misteriosi aromi darkwave e derive doom: il risultato che ne scaturisce è un blend affascinante estremamente avventuroso e dal flavour metropolitano; non respiriamo gli aromi derivanti dalle fredde lande scandinave, ma la puzza del degrado urbano, la dissoluzione della civiltà industriale. E’ angosciante viaggiare all’interno di questi sei brani per più di un’ora di musica: l’approccio disperato è disturbante, la proposta non è immediata, non ci sono comfort zone, tutto è lacerante; non aspettatevi cambi di tempo repentini all’interno dei brani, che sono invece infinite cavalcate appassionate, condotte su note di basso ora avvolgenti ora frenetiche, con le chitarre instancabili nel tessere trame sonore prettamente black con le tastiere che immergono il tutto in un atmosfera grigia, fosca e plumbea. Non una nota sprecata, non manierismi, il suono è altamente coinvolgente fin dall’ opener The Avarist, quindici minuti meravigliosi che ci immergono in mondi bui, senza speranza ma allo stesso tempo ammalianti. Il potere dell’oscurità penetra i nostri sensi, diventa un tutt’uno con la nostra essenza vitale e ci spinge ad amare incondizionatamente tutte le note espresse nell’album sia quando l’afflato cosmico e l’ambient presenti in There Is No Love, High Up in the Gallows ci fanno galleggiare in un liquido amniotico primordiale, sia quando le note ossessive, noir e cinematografiche di We Only Speak in Darkness ci ricordano che… you exist for nothing. Le pressanti pulsioni dark wave di Cyanide Lips si aprono in un disperato scream forgiando un black angosciante e senza futuro. L’ “inestricabile vagare” del titolo ci “costringe” ad affrontare con paura le disilluse note dei quasi diciannove minuti dell’ultimo disperato viaggio: I’m Afraid to Follow You There, dove una fredda e distaccata maestosità lentamente si sfibra in note black feroci, capaci di fagocitare l’ultimo anelito di speranza che pensavamo di avere. Sarebbe fantastico vedere questa band dal vivo, nel frattempo godiamoci quest’opera di altissimo livello. Tra le uscite dell’anno ha trovato sicuramente un posto importante nella mia anima, insieme all’esordio dei Mare.

Tracklist
1. The Avarist (Eyes of a Tragedy)
2. With Knives to the Throat and Hell in Your Heart
3. There Is No Love, High Up in the Gallows
4. Cyanide Lips
5. We Only Speak in Darkness
6. I’m Afraid to Follow You There

Line-up
C – Bass, Vocals
M – Drums
A – Electronics
R – Guitars, Vocals

ULTHA – Facebook

Riven – Hail To The King

Trattandosi della prima uscita con il marchio Riven,  Hail To The King strappa una comoda sufficienza, non solo di stima ma anche per le valide intuizioni, sicuramente da sviluppare in futuro, disseminate nei primi due brani.

Esordio per la one man band Riven, creatura del musicista belga Zeromus (Tom Mesens).

Quello offerto in Hail To The King è un funeral doom piuttosto minimale ma apprezzabile, anche se la distanza qualitativa rispetto ai modelli ai quali Mesens si rifà resta decisamente marcata.
Skepticism, Thergothon, Evoken and Ahab vengono indicati quali fonti di ispirazione in sede di presentazione, ma in realtà sono le due band finlandesi a contribuire in maniera pressoché totale all’idea compositiva messa in campo per l’occasione.
Dei primi troviamo sicuramente il ricorso all’organo, strumento che offre sempre aspetti peculiari all’interno dei lavori in cui viene utilizzato in maniera più corposa, mentre dei secondi si rinviene soprattutto un certo minimalismo sia a livello compositivo che di produzione.
I tre lunghi brani, tutti della durata di poco inferiore al quarto d’ora, si snodano così come ce li si sarebbe aspettati:  lenti, solenni ma anche fin tropo lineari in certi frangenti; uno dei problemi dell’album è che l’intensità va a scemare man mano che si procede lungo la tracklist e così, mentre The Plague e The Bells Sound Once More sono tutto sommato buone tracce nella quali Mesens lascia trasparire in maniera più decisa la propria devozione agli Skepticism (cosa che non può mai essere nociva, per forza di cose), la title track si trascina senza mai decollare a livello di coinvolgimento emotivo.
Insomma, ci sono diverse cose da rivedere, sia per quanto riguarda il comparto esecutivo, sia per l’equilibrio dei suoni (in particolare quelli della batteria) ma, trattandosi della prima uscita con il marchio Riven,  Hail To The King strappa una comoda sufficienza, non solo di stima ma anche per le valide intuizioni, sicuramente da sviluppare in futuro, disseminate nei primi due brani.

Tracklist:
1. The Plague
2. The Bells Sound Once More
3. Hail to the King

Line-up:
Tom Mesens (aka Zeromus): All instruments and vocals

RIVEN – Facebook

Spectrum Mortis – קדוש

Il lavoro è breve, aggirandosi attorno ai venticinque minuti di durata, ma la densità del sound fa sì che questo non si tramuti in un difetto: ciò che resta è l’impressione di aver ascoltato l’opera di una band di alto livello, capace di maneggiare con competenza una materia insidiosa come il doom ritualistico.

קדוש (Kadosh) è il titolo di questo secondo full length degli spagnoli Spectrum Mortis.

Il lavoro si basa su un interessante black doom intriso di un’aura mistica ben introdotta dal salmodiare in latino ascoltabile nella iniziale title track.
I restanti tre brani mettono in mostra una band dalle idee chiare sugli obiettivi da perseguire, che sono essenzialmente volti all’offerta di un sound occulto e ritualistico nel quale confluirono in maniera equilibrata i diversi generi estremi.
Ciò che colpisce di un lavoro di questo genere è anche la sua qualità a livello di suoni e di esecuzione da parte dei singoli musicisti; anche grazie a questo che il messaggio degli Spectrum Mortis giunge forse e chiaro alle orecchie degli ascoltatori, ed un brano magnifico come Fiat Nox lo testimonia nel migliore nei modi, con il suo incedere solenne e minaccio nei solchi del miglior black doom
Et Filius Aurora sposta le coordinate verso il death, senza che all’interno dello sviluppo del brano non venga trovato lo spazio per rallentamenti atti a raccogliere le invocazioni proferite dal vocalist Sheram, e sempre black death ancor più furioso è poi quanto viene scagliato sull’audience con Christus Mysticusm, confermando la sapiente alternanza con passaggi più rarefatti atti a rompere la tensione per poi farla riesplodere con ancora più forza e convinzione.
Il lavoro è breve, aggirandosi attorno ai venticinque minuti di durata, ma la densità del sound fa sì che questo non si tramuti in un difetto: ciò che resta è l’impressione di aver ascoltato l’opera di una band di alto livello, capace di maneggiare con competenza una materia con la quale i neofiti rischiano ad ogni piè sospinto di cadere nel ridicolo.

Tracklist:
1. I. קדוש
2. II. Fiat Nox (Hymn to the Master of Death)
3. III. Et Filius Aurorae (Hymn to the Son of Dawn)
4. IV. Christus Mysticus (Hymn to the Messenger of Gods)

Line-up:
Sheram – Vocals, Bass
Aataa – Guitars
Aath – Guitars
Ta’ao – Drums

SPECTRUM MORTIS – Facebook

Wingless – Triada

Triada è un lavoro interessante e vario, con i Wingless che riescono a variare la propria proposta senza snaturare impatto e atmosfere: consigliato ai doomsters dai gusti estremi e classici.

Triada è il nuovo album della doom metal band polacca Wingless, realtà attiva sulla scena dal 2012 e che ha già alle spalle due lavori come il debutto Hatred is Purity, del 2014 e The Blaze Within, secondo album uscito nel 2016.

A cadenza di un paio d’anni arriva quindi anche il terzo album che continua sulla strada intrapresa con i due album precedenti, con il sound che si piazza esattamente in mezzo a due delle maggiori correnti delle sonorità doom, quella death e quella classica.
Accompagnato dalla copertina creata da Rafał Wechterowicz, artista che ha messo la sua firma sulle cover di Slayer, Perfect Circle, Mastodon e Behemoth, Triada risente positivamente di questa altalena di atmosfere create alla perfezione dal trio proveniente da Cracovia.
Il sound è pervaso da un alone atmosferico ed dark che accompagna tutti i brani, ad iniziare da Anthem To Innany, traccia che letteralmente esplode in una cavalcata death metal per poi trovare il suo momento di pacata oscurità e tornare a colpire duro nella seconda parte.
Più tradizionalmente doom Tales Of Sleepless Nights, con il growl che si alterna al tono evocativo e che sarà il trademark del lavoro, confermato con la splendida Unnamed Terror, brano top di Triada, otto minuti che raccolgono doom , death, parti atmosferiche, dark e post metal.
Wasteland Man torna a calcare strade tradizionali e Mountain Improbable a raggiungere picchi di intensità evocativa che nel doom metal classico trovano la loro naturale origine.
Triada è un lavoro interessante e vario, con i Wingless che riescono a variare la propria proposta senza snaturare impatto e atmosfere: consigliato ai doomsters dai gusti estremi e classici.

Tracklist
1.Triad (intro)
2.Anthem to Innany
3.Tales of sleepless nights
4.Unnamed terror
5.Wasteland man
6.To the Blue Girl
7.Captain’s dreaming
8.Tired of this fear
9.Mountain Improbable
10.Centre of the Universe

Line-up
Olaf Różański – vocals
Grzegorz Luzar – guitars, bass
Piotr Wójcik – drums

WINGLESS – Facebook

Ivan – Memory

Memory è un lavoro che gli appassionati dovrebbero sicuramente provare ad ascoltare perché molti potrebbero restarne folgorati, a differenza di altri che saranno spinti ad archiviarlo dopo uno o due passaggi.

Ecco un’opera che mette a dura prova anche chi con il doom ha a che fare quotidianamente e che sicuramente non si fa scoraggiare né dalla lunghezza dei brani né, tanto meno, dal loro lento e penoso incedere.

Quello che rende oggettivamente complesso l’ascolto di Memory, terzo full length in tre anni per gli australiani Ivan, è la scelta di affidare in toto lo sviluppo melodico al violino, ottenendo risultati contrastanti e che, in quanto tali, dovrebbero ricevere riscontri di diversa natura.
Se è indubbiamente affascinante la soluzione adottata dal duo di Melboune, non si può altresì negare che questo, alla lunga, testa in maniera probante anche la resistenza degli ascoltatori più allenati, questo perché a mio parere il violino è uno strumento che in ambito doom metal andrebbe utilizzato sempre con un dosaggio molto oculato (come i primi My Dying Bride hanno insegnato).
I due lunghissimi brani, che vanno a sommare una durata vicina ai cinquanta minuti, sono praticamente simili, con lo strumento ad arco a delineare le sue laceranti linee melodiche, un growl che in sottofondo ci racconta tutta la propria riprovazione nei confronti dell’esistenza umana, e le chitarre che sostanzialmente delineano assieme alla base ritmica il battito di un cuore in procinto di fermarsi per sempre; fanno eccezione gli ultimi minuti di Time Is Lost, quando il connubio tra violino e chitarra diviene tangibile ed equilibrato, rendendo questa parte del lavoro la più evocativa e coinvolgente.
La sensazione straniante deriva dal fatto che in certi momenti il disco appare qualcosa di meravigliosamente struggente, mentre in altri affiora un’inevitabile stanchezza senza che, di fatto, intervengano elementi di discontinuità a provocare impressioni così discordanti.
Ascoltando Memory nelle sue parti iniziali sembra quasi d’essere al cospetto ad una versione funeral doom dei Dark Lunacy, ma soprattutto il termine di paragone più naturale potrebbero essere gli Ea, con la chitarra collocata però in secondo piano da un violino nettamente preponderante su tutto il resto.
Ed è così, comunque,che gli Ivan ottengono ciò che probabilmente si erano prefissati, ovvero quello di apparire una sorta di dolente orchestra che accompagna il defunto alla sua ultima dimora.
Tutte queste considerazioni mi spingono, a livello di consuntivo, ad apprezzare senz’altro quest’opera, mantenendo però più di una riserva sulla possibilità che possa essere oggetto di molti ascolti ininterrotti dalla prima all’ultima nota; in sintesi, le dolenti pennellate chitarristiche restano sempre la soluzione più indicata per indurre emozioni in ambito funeral/death doom.
Va anche aggiunto, a favore degli Ivan, che la ricerca di soluzioni maggiormente peculiari va a loro merito, tanto più che i progressi rispetto alle recedenti opere appaiono sensibili, per cui Memory è un lavoro che gli appassionati dovrebbero sicuramente provare ad ascoltare perché molti potrebbero restarne folgorati, a differenza di altri che saranno spinti ad archiviarlo dopo uno o due passaggi: io mi colloco a metà strada, ritenendo il tutto molto intrigante ma decisamente migliorabile nell’equilibrio delle sue componenti strumentali.

Tracklist:
1 Visions
2 Time Is Lost

Line-up:
Brod Wellington
Joseph Pap

IVAN – Facebook

Iron Void – Excalibur

Ascoltare gli Iron Void è come tornare in un luogo che è profondamente nostro ma che è stato seppellito e dimenticato dalla foga moderna, un ritorno al bello ed antico.

Dire Iron Void in campo doom metal è sinonimo di grande musica ed epici racconti, un medioevo altro, duro pesante e con riff di chitarra che spazzano via tutto.

Il gruppo inglese è qui alla terza prova:il disco uscirà a breve, dopo aver subito diverse posticipazioni. Il risultato degli sforzi del trio è notevole come i due dischi precedenti, anzi superiore. Chi ha ascoltato le opere prima di Excalibur sa già cosa aspettarsi, ovvero un doom metal molto canonico e fatto alla perfezione, con quel gusto che solo certi gruppi inglesi ci mettono dentro. Classicità gestita molto bene grazie ad un talento che è al di sopra della media, e che consente di trovare soluzioni adeguate sempre all’altezza e molto interessanti. Il respiro delle composizioni degli Iron Void è ampio e possente, con giri di chitarra sontuosi ai quali si va ad aggiungere una voce che è perfetta per il genere, ed una sezione ritmica pressoché inappuntabile. Il suono deve molto a mostri sacri quali St. Vitus, Pentagram e gruppi metal anni ottanta, ma la classe di questa band porta tutto ad un livello superiore. Le storie narrate sono epiche, cappa e spada che ci porta al medioevo del Graal e di Lancillotto, in quella che è poi una ricerca ed una lotta interiore, fra noi e i nostri demoni. La bellezza che sta in un disco come Excalibur è quella del doom classico, che è un genere che regala davvero grande soddisfazione a chi lo ama e lo segue fedelmente, perché è difficile che un disco come questo venga apprezzato da chi non ama certe sonorità lente, ma più impetuose, di molta musica assai più veloce. Ascoltare gli Iron Void è come tornare in un luogo che è profondamente nostro ma che è stato seppellito e dimenticato dalla foga moderna, un ritorno al bello ed antico. Grande prova che li imporrà all’attenzione mondiale.

Tracklist
1. Dragon’s Breath
2.The Coming of a King
3.Lancelot of the Lake
4.Forbidden Love
5.Enemy Within
6.The Grail Quest
7.A Dream to Some, A Nightmare to Others
8.The Death of Arthur
9.Avalon

Line-up
Jonathan ‘Sealey’ Seale – Bass/Vocals
Steve Wilson – Guitars/Vocals
Richard Maw – Drums

IRON VOID – Facebook

Night Gaunt – The Room

The Room è un lavoro che, dal punto di vista emozionale, non tradisce le attese di chi aveva apprezzato i lavori precedenti, portando anche qualche miglioria sotto forma di un songwriting ancora più fluido, anche se la proposta resta pur sempre collocabile nell’ambito del più oscuro e pesante esempio di doom metal di scuola classica.

Tra i cunicoli delle catacombe sotto il suolo di Roma si aggira una creatura persa nel buio millenario, accecata da una malinconica misantropia, guardiana del regno dei morti, lenta ed inesorabile compagna nella discesa in questo buio mondo di morte.

Il suo penoso girovagare tra i fetidi labirinti della città dei morti è scandito dalla musica dei Night Gaunt, doom metal band che dalla superficie crea musica pesantissima ed evocativa e la lascia scivolare nel sottosuolo, come colonna sonora per le anime alla ricerca di un’uscita da questo oscuro labirinto.
Attivo dal 2013, il quartetto romano ha già alle spalle un primo full length omonimo ed un ep (Jupiter’s Fall) uscito un paio di anni fa; The Room è il nuovo capitolo, una potentissima marcia catacombale composta da sei brani di doom metal classico, tra ritmi cadenzati e mastodontici, mid tempo che si trasformano in cavalcate heavy condite di distorsioni e vocals evocative, per una quarantina di minuti scarsi nel corso dei quali la luce non è contemplata,.
The Room segue le coordinate del doom pregno di oscure e funeree atmosfere in un contesto heavy di scuola Candlemass, Solitude Aeturnus e Saint Vitus, ma potrei citare anche Penance e Revelation, a tratti affioranti nelle trame pesantissime ed oscure di brani come Oval Portrait, Penance (brano presente sul precedente ep) e le due bellissime e lunghe tracce, Labyrinth e The Owl, che concludono l’album offrendo complessivamente quasi venti minuti di interpretazione classica del genere.
The Room è un lavoro che, dal punto di vista emozionale, non tradisce le attese di chi aveva apprezzato i lavori precedenti, portando anche qualche miglioria sotto forma di un songwriting ancora più fluido, anche se la proposta resta pur sempre collocabile nell’ambito del più oscuro e pesante esempio di doom metal di scuola classica: considerando peraltro il valore delle due nere e micidiali perle metalliche come quelle citate, quest’ultimo lavoro dei Night Gaunt merita la massima considerazione da parte degli appassionati.

Tracklist
1. The Room
2. Penance
3. Oval Portrait
4. Veil
5. Labyrinth
6. The Owl

Line-up
GC – Guitars and Vocals
Zenn – Guitars
Araas – Bass
Tystnaden – Drums

NIGHT GAUNT – Facebook

Ennui – End of the Circle

La scena funeral doom dell’est europeo ha una capacità incredibile di creare opere d’arte di alto livello;il quarto disco degli Ennui ci trasporta in territori disperati, rassegnati e onirici.

Nelle note del booklet interno, il duo di Tbilisi ringrazia Greg Chandler e gli albionici Esoteric per la loro musica, l’influenza e l’ispirazione che hanno permesso agli Ennui di ritagliarsi un’importante spazio all’interno della scena funeral doom europea.

Fondata nel 2012 da David Unsaved e Serj Shengelia, la band georgiana ha proposto ben quattro full length (compreso ora End of the Circle) marchiati nel più puro suono funeral doom, serio, incompromissorio, diventando un nome di culto all’interno della fertile scena dell’est europeo. Per ogni cultore di questa arte difficile ma ricca di emozioni e atmosfera, gli Ennui sono una garanzia: nessuna loro opera mi ha mai deluso e ho sempre ritrovato le stimmate tipiche del suono funeral e anche in questo monumentale lavoro, fatto di tre brani per 74 minuti, ognuno troverà intensi minuti di piacere estremo. Bisogna, come noto, riuscire a trovare il tempo giusto per staccarsi dal mondo circostante e immergersi in un universo parallelo, dove le emozioni fluiscono pure e stimolano le nostre terminazioni nervose, verso momenti di piacere assoluto. Ascolto sicuramente impegnativo ma estremamente appagante e sono sicuro che chi segue la scena avrà già assaporato le note della mastodontica title track (oltre 30′) con la quale si raggiunge il perfetto equilibrio tra evocativi soundscapes, condotti da liquide tastiere e telluriche stratificazioni doom; questa alternanza, peraltro condotta in modo naturale e senza manierismi, mantiene alta la tensione del brano conducendoci in zone oniriche della nostra psiche, in cui la voglia di abbandonarsi e lasciarsi trasportare in altre dimensioni prende il sopravvento. Brano magnifico che nonostante l’immane lunghezza si vorrebbe non finisse mai. Gli Ennui, dopo averci ipnotizzato con queste note cariche di un’amara disperazione, ci danno il colpo di grazia con gli altri quaranta minuti di The Withering, divisa in due parti, che ci porta in territori maggiormente oscuri e cupi; le keyboards mantengono un profilo più defilato e le chitarre con la loro metodica e lenta marcia tracciano una strada colma di disperazione e “sadness”. Al di là della potenza espressa dal duo, bisogna cogliere le varie sfumature nelle melodie, nei toni del growl sempre molto espressivo, nell’evolversi del viaggio che ci viene proposto e che intraprendiamo… ogni nota crea un’atmosfera unica e l’ispirazione non manca: l’affresco creato è profondo e maestoso. Sicuramente tra i dischi funeral del 2018.

Tracklist
1. End of the Circle
2. The Withering Part I – Of Hollow Us
3. The Withering Part II – Of Long-Dead Stars

Line-up
Serj Shengelia Guitars, Bass
David Unsaved Guitars, Vocals

ENNIU – Facebook

Doomcult – Ashes

Sono cambiate diverse cose rispetto al precedente full length, ma la sensazione è che questa transizione sia ancora in corso e, a tale proposito, sarà interessante constatarne gli sviluppi in occasione dell’imminente nuova prova su lunga distanza.

Ritroviamo J.G. Arts con il suo progetto solista Doomcult, a due anni di distanza da End All Life.

Ashes è un ep della durata di una ventina di minuti nel corso del quale il musicista olandese esibisce la sua forma di doom piuttosto particolare, caratterizzata sicuramente da un’interpretazione vocale che appare una sorta di ringhiante recitazione in stile Mr.Curse degli A Forest Of Stars.
Tale elemento è quello che potrebbe risultare in fin dei conti divisivo nei confronti dell’audience, perché comunque Arts ha molto da raccontare e quindi le parti vocale si stagliano per la maggior parte del lavoro al di sopra dei passaggi musicali, basati su un doom abbastanza mosso per quanto scorrevole e lineare.
Dei tre brani presenti in scaletta, Sulphur è il più lungo e movimentato, decisamente più caratterizzante rispetto alla title track che si snoda in maniera più morbida ma anche più canonica, mentre Black Fire vede i ritmi farsi più rallentati e anche più enfatici, grazie ad uno sviluppo melodico molto valido.
Indubbiamente sono cambiate diverse cose rispetto al precedente full length, ma la sensazione è che questa transizione sia ancora in corso e, a tale proposito, sarà interessante constatarne gli sviluppi in occasione dell’imminente nuova prova su lunga distanza.
Per ora Doomcult è un nome interessante ma ancora di prospettiva, del quale si può di dire di certo il solo fatto che le note di accompagnamento, che parlano di ispirazione proveniente dalla sacra triade albionica, appaiono fuorvianti, a differenza dei riferimenti più calzanti che suggeriscono un annerimento del sound nel solco di nomi come Urfaust, Celtic Frost and Bathory.

Tracklist:
1. Sulphur
2. Ashes
3. Black Fire

Line-up:
J.G. Arts – Everything

DOOMCULT – Facebook

Qualen – Patterns Of Light

Il musicista di Chisinau dimostra una notevole dimestichezza con il genere, riuscendo a mantenersi in costante equilibrio tra le varie componenti del sound nel corso di tre quarti d’ora caratterizzati da una spiccata intensità e da altrettanta scorrevolezza.

Da una nazione non certo nota per la sua scena metal come la Moldavia, arriva l’esordio dei Qualen, progetto solista di Denis Balan, il quale offre, con Patterns Of Light, una buona prova a base di death doom melodico.

Il musicista di Chisinau dimostra una notevole dimestichezza con il genere, riuscendo a mantenersi in costante equilibrio tra le varie componenti del sound nel corso di tre quarti d’ora caratterizzati da una spiccata intensità e da altrettanta scorrevolezza.
Trovandoci al cospetto di un ambito nel quale molto è già stato detto, il compito di chi vi si cimenta è quello di farlo bene, e Denis ci riesce con buon agio, muovendosi nel solco dei vari In Mourning e Insomnium, ai quali si aggiunge una decisiva componente Paradise Lost nei passaggi più rallentati ed evocativi.
Se Patterns Of Light non è, per una serie di ovvi motivi, un album destinato a lasciare un segno indelebile, non si può fare a meno di apprezzare l’incisività di tutte le tracce (con menzione d’onore per Eclipse), dirette, ben prodotte ed altrettanto pregevolmente eseguite, nonostante la configurazione di one man band.
Denis Balan è abile a sottrarsi alla dozzinalità di molte uscite di stampo DIY, e il fatto che sia stato notato dall’occhio lungo di Eugene della Loneravn Records (etichetta ucraina che si sta specializzando nel portare alla luce realtà provenienti dall’underground nella sua accezione più pura) è un segnale intrinseco del valore e del potenziale di questa novità denominata Qualen.

Tracklist:
1. Refraction
2. Transparency
3. Fluorescence
4. Darkening
5. Eclipse
6. Afterglow
7. Dispersion
8. Shadow

Line-up:
Denis Balan – All instruments, Vocals

QUALEN – Facebook

Horehound – Holocene

Holocene si insinua dentro di noi, ammantato da una vena doom/stoner che raccoglie molti degli input naturalmente assimilati di questi tempi dal genere, accompagnandoli con le immancabili sfumature sludge/psichedeliche, marchio di fabbrica degli Horehound.

Il lento incedere sabbathiano viene potenziato da scariche di potente sludge/stoner metal, l’atmosfera evocativa si scontra con quella estrema creando un muro sonoro di notevole spessore con la voce che alterna litanie a rabbiose parti in growl.

Holocene si insinua dentro di noi, ammantato da una vena doom/stoner che raccoglie molti degli input naturalmente assimilati di questi tempi dal genere, accompagnandoli con le immancabili sfumature sludge/psichedeliche, marchio di fabbrica del combo statunitense.
Gli Horehound sono un quartetto di Pittsburgh attivo dal 2015, il primo album omonimo uscì un anno dopo, ed ora Holocene torna a far parlare del gruppo lungo i suoi quarantacinque minuti di musica del destino.
The Kind apre le danze, lenta ed atmosferica traccia che mette subito in risalto la potenza sludge che affiora a tratti, mentre veniamo trasportati in un lungo viaggio psichedelico, accompagnati dal canto della vocalist e violentato da rabbiosi interventi in growl che a loro volta accentuano il lato estremo del sound.
L’Appel Du Vide è il singolo e video che accompagna la nuova avventura firmata Horehound, traccia più varia nella struttura e con un ottimo lavoro ritmico risulta il brano che più alterna i vari elementi che formano la musica del gruppo, mentre con la mastodontica Sloth si torna in lidi sabbathiani.
Gli Horehound si rivelano una monolitica e potente macchina doom/stoner metal, e tra le note spesse e fangose dell’album convivono in un mondo parallelo, nel quale anche il tempo scorre lento, i Black Sabbath, gli Sleep e i Kyuss, uniti attraverso un mood psichedelico e fissati da catene sludge metal in Holocene.

Tracklist
01. The Kind
02. Dier’s Dirge
03. L’appel du Vide
04. Sloth
05. Anastatica
06. Highball
07. Hidden Track

Line-up
JD Dauer -Drums
Brendan Parrish – Guitars
Shy Kennedy – Vocals
Nick Kopco – Bass

HOREHOUND – Facebook

Eternal Rot – Cadaverine

Cadaverine è una prova tutt’altro che trascurabile, forte di un’ortodossia stilistica che mai come in questo caso appare inattaccabile quanto gradita.

Cadaverine è il primo album per gli Eternal Rot, autori di un death doom che tiene totalmente fede alla ragione sociale e alla copertina per le sonorità offerte.

I quattro brani, infatti, si snodano lungo una linea di putridume sonoro, con sonorità distorte e ribassate ed un growl degno del brutal più verace; se la varietà sonora latita, come contraltare troviamo una capacità non così scontata di evocare sensazioni quanto mai morbose, rendendo il tutto un prodotto in grado di soddisfare gli amanti di entrambi i generi dai gusti più vintage.
Mayer e Grindak sono due musicisti polacchi (anche se il secondo vive nel Regno Unito) il cui primo e unico parto risale ad un demo datato 2013, prima che i connazionali della Godz Ov War li inserissero nel loro mefitico roster; in mezz’ora scarsa, Cadaverine lascia la sua riprovevole scia di putrefazione senza che il duo molli mai la presa, chiudendo anzi a doppia mandata i cancelli del cimitero che hanno eletto quale loro dimora concettuale.
La formula è per certi versi semplice e ampiamente battuta, ma anche per questo non è affatto scontato renderla avvincente e relativamente appetibile per una cerchia seppure ristretta di ascoltatori.
Parlare dei singoli brani è superfluo, perché dalla prima nota di Undying Desolation fino all’ultima di Slough of Despond gli Eternal Rot ci tengono rinchiusi senza cedimenti o pentimenti nella cripta che hanno creato usando materiale grezzo, ma capace di resistere lungamente all’usura del tempo.
Cadaverine è una prova tutt’altro che trascurabile, forte di un’ortodossia stilistica che mai come in questo caso appare inattaccabile quanto gradita.

Tracklist:
1. Undying Desolation
2. In Their Decaying Eyes
3. Putrid Hallucination
4. Slough of Despond

Line-up:
Mayer – Vocals, Guitars, Bass, Drum programming
Grindak – Vocals, Lyrics

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