Nicumo – Storms Arise

Storms Arise non sfigura nei confronti di End Of Silence, ma neppure fa compiere alla band quel passo in avanti a livello di personalità che sarebbe stato auspicabile dopo un lasso di tempo così dilatato.

I finlandesi Nicumo tonano con il loro secondo full length a quattro anni di distanza da quell’End Of Silence che mi aveva abbastanza ben impressionato: con Storms Arise le coordinate non mutano, nel senso che al suo interno continuiamo a trovare un rock piuttosto malinconico, ricco di melodia e con qualche accelerazione che sconfina talvolta nel metalcore.

Il fatto che, come detto, il nuovo lavoro non si discosti granché dal precedente può avere una doppia valenza, nel bene e nel male: per quanto mi riguarda credo che la verità stia nel mezzo, nel senso che Storms Arise non sfigura nei confronti di End Of Silence, ma neppure fa compiere alla band quel passo in avanti a livello di personalità che sarebbe stato auspicabile dopo un lasso di tempo così dilatato.
Nell’album, in apparenza, non c’è nulla che non vada: buone canzoni, melodie e chorus che fanno centro senza troppa fatica, ma in più di un frangente aleggia un che di posticcio che fa storcere il naso, in particolare ciò avviene quando la band finnica prova ad aumentare i giri del motore, finendo per battere in testa nel proporre alcuni brani anonimi e poco coesi con il resto della tracklist.
Esprimo un parere del tutto personale, ma credo che i fan di Sentenced ed Amorphis, due band che costituiscono gli inevitabili punti di riferimento per i Nicumo, non accoglieranno con grande favore le sventagliate di modern metal che affliggono tracce come Guilt, Unholy War (quest’ultima con tanto di ritornello melodico d’ordinanza) e If This Is Your God, I Don’t Need One.
Sono canzoni come Old World Burning, Death, Let Go, Aiolos e la lunga e conclusiva Dream Too Real, nella quale le sporcature estreme sono utilizzate con maggior raziocinio e misura, ad offrire quella che dovrebbe essere, idealmente, l’effettiva cifra stilistica della band, ma ciò avviene senza la dovuta continuità
Hannu Karppinen si conferma cantante di vaglia, non solo quanto regala la sua timbrica calda e pulita ma anche quando inasprisce i toni, e i suoi compari di certo non sfigurano; il problema vero dei Nicumo odierni è che non dispiacciono affatto ma neppure fanno sobbalzare sulla sedia, complice forse una minore ispirazione rispetto al debutto ed una maggiore consapevolezza dei propri mezzi che, per assurdo, può averli spinti ad assolvere il compito cercando di accontentare sia gli ascoltatori dal mood malinconico sia quelli più propensi alle sonorità moderne, finendo per smarrire una direzione stilistica maggiormente definita, nell’uno o nell’altro senso.
Un peccato, perché il rock melanconico alla finlandese è sempre un bel sentire, ma i Nicumo in quest’occasione lo propongono in maniera troppo intermittente.

Tracklist:
1. The Dawn
2. Old World Burning
3. Beyond Horizon
4. Unholy War
5. Death, Let Go
6. Guilt
7. Poltergeist
8. If This Is Your God, I Don’t Need One
9. Sirens
10. Aiolos
11. Dream Too Real

Line up:
Sami Kotila – Bass
Aki Pusa – Drums, Percussion
Tapio Anttiroiko – Guitars
Atte Jääskelä – Guitars
Hannu Karppinen- ocals

NICUMO – Facebook

Ecnephias – The Sad Wonder Of The Sun

Oscuri, melodici e atmosferici come mai era accaduto prima: questi sono gli Ecnephias del 2017, fieri portabandiera di un’identità “mediterranea” in ambito rock e metal, ai quali non viene mai meno quella peculiarità  che è caratteristica solo delle band di categoria superiore.

Ogni volta che gli Ecnephias pubblicano un nuovo album, nel mio caso l’attesa dell’estimatore della prima ora è contrastata dalla necessità di scrivere quali impressioni mi abbia destato e, avendo a che fare con una band che innegabilmente non ha mai fatto uscire un disco stilisticamente contiguo a quello precedente, è sempre difficile immaginare cosa attendersi.

Ormai da tempo, con una cadenza biennale, Mancan e soci offrono lavori di grande spessore qualitativo, partendo dal dirompente Inferno (2011), passando per il più estremo Necrogod (2013) per giungere al più darkeggiante album omonimo del 2015.
Personalmente ritenevo che le sonorità presenti in quell’ultimo lavoro rappresentassero stilisticamente le colonne d’Ercole per la band lucana, immaginando che si trattasse del punto più lontano dal metal entro il quale si potesse spingere: The Sad Wonder Of The Sun smentisce puntualmente questa mia congettura, rappresentando al contrario il veleggiare libero di musicisti scevri da condizionamenti stilistici di sorta verso territori finora inesplorati.
Per capire cosa intendo può essere utile partire dalla quinta traccia Nouvelle Orleans, dove si viene accolti da accenni di reggae che sono lontani anni luce dalle asprezze di Necrogod (per non parlare del black/death/doom, per quanto di volta in volta cangiante, di Dominium Noctis e Ways Of Descention) ma che, paradossalmente, non vanno ad intaccare il trademark Ecnephias; peraltro, questo brano non rappresenta neppure il massimo scostamento rispetto ad un’ipotetica strada maestra metallica, visto che la conclusiva You è un ottimo episodio di rock quasi radiofonico, con una chitarra che si erge a protagonista più che in altri frangenti.
Detto delle tracce più emblematiche del nuovo corso, l’album si rivela una raccolta di nove canzoni senz’altro fruibili, almeno se raffrontate con quelle contenute nel precedente lavoro, ma ciò non deve assumere un significato negativo rappresentando, piuttosto, una forma di evoluzione anche rischiosa, in quanto non è detto che possa trovare unanimi consensi, specie da chi considera i primi due album del decennio i più significativi della carriera degli Ecnephias.
La verità è che la musica dei potentini, in tutte le sue vesti possibili, si rivela sempre un veleno che insinua lentamente e che, dopo ogni passaggio nel lettore, acquisisce spessore e fa salire nell’ascoltatore la consapevolezza d’essersi imbattuto nell’ennesimo album di grande spessore.
E allora, quel pizzico di smarrimento iniziale nel rinvenire i retaggi del passato solo nei rari passaggi in growl di un Mancan sempre più cantante ed interprete, nel senso più completo del termine, svanisce al cospetto dei chorus ficcanti che ogni canzone riserva, con menzione d’onore nella prima parte per Gitana e Povo de Santo, e nella seconda metà per Quimbanda e Maldiluna, nelle quali il cantato in italiano torna a lasciare il segno, assieme ad un’ispirazione melodica che, nel primo caso, è asservita ad una ritmica più incalzante e nel secondo, invece, va a toccare il punto più alto del disco per evocatività ed afflato poetico, nonostante accattivanti spunti elettronici possano inizialmente trarre in inganno.
Gli agganci alla produzione passata comunque non mancano, specialmente con la magnifica Sad Summer Night, traccia che riconduce ai momenti più emotivamente intensi di Inferno, e lo stesso in parte vale per l’altrettanto oscura A Stranger.
The Sad Wonder Of The Sun è un album elegante e ricco di atmosfere e melodie vincenti,  che deve essere ascoltato senza alcun pregiudizio, cosa che del resto è da sempre è il modo giusto per approcciarsi con la musica degli Ecnephias: in questo caso, però, non si può parlare di un balzo in avanti rispetto al precedente lavoro omonimo, bensì, metaforicamente, del salto in corsa da un treno all’altro per finire su un binario che potrebbe condurre verso nuovi ed inaspettati scenari futuri, facendo ritenere al momento improbabile una possibile inversione di marcia.
Oscuri, melodici e atmosferici come mai era accaduto prima: questi sono gli Ecnephias del 2017, fieri portabandiera di un’identità “mediterranea” in ambito rock e metal, ai quali non viene mai meno quella peculiarità che è caratteristica solo delle band di categoria superiore.

Tracklist:
1. Gitana
2. Povo De Santo
3. Sad Summer Night
4. The Lamp
5. Nouvelle Orleans
6. A Stranger
7. Quimbanda
8. Maldiluna
9. You

Line-up:
Mancan: Vocals, Guitars
Nikko: Guitars
Khorne: Bass
Sicarius: Keyboards and piano
Demil: Drums

Female voice on song 2 and 7 by Raffaella Cangero (LA JANARA)

ECNEPHIAS – Facebook

Helfir – The Human Defeat

Se Still Bleeding era già un album più che convincente, The Human Defeat va ancora oltre, collocando il nome Helfir ai vertici qualitativi della scena italiana.

Più o meno a due anni esatti dall’uscita di Still Bleeding, ritroviamo Luca Mazzotta ed il suo progetto solista Helfir con un nuovo lavoro su lunga distanza intitolato The Human Defeat.

Parlando di quell’album, con la necessità di inquadrare in qualche modo il sound proposto dal musicista leccese, mi ero esposto senza troppi rischi nel paragonarne l’opera a quella di nomi illustri quali Antimatter, Anathema e Katatonia, mentre The Human Defeat cambia non poco le carte in tavola.
Fin dall’opener Time In Our Minds è possibile percepire, infatti, una propensione al gothic e al doom e, in generale, un approccio relativamente più estremo alla materia; tutto questo conferisce al lavoro anche una maggiore varietà e, di conseguenza, spinge gli Helfir fuori dall’orbita delle band di riferimento per assumere una forma ben più personale senza smarrire, però, un’oncia dell’impatto emotivo evidenziato sul precedente lavoro.
Lo stesso ricorso al growl, utilizzato con parsimonia ma in maniera del tutto appropriata, aggiunge un ulteriore elemento di discontinuità che nel brano d’apertura accentua gradevolmente la dicotomia tra l’anima metal e quella più propriamente dark alternative, mentre la chitarra tesse melodie splendide e dolenti, catturando così subito l’attenzione dell’ascoltatore.
Con Light cambia lo scenario e le coordinate sonore si spingono oltreoceano, eguagliando per potenziale evocativo e pulizia sonora quanto fatto quasi contemporaneamente dagli splendidi 1476.
La marea si ritrae e Tide lascia riaffiorare tracce tangibili degli Helfir precedenti, un’entità capace di modellare con maestria sonorità liquide ma cariche di tensione emotiva, lasciando che l’intimismo di Protect Me e Chant D’Automne prenda educatamente il sopravvento.
Pulsioni elettroniche inaugurano una Mechanical God che oscilla tra l’alternative e l’industrial, esibendo a tratti riff di una cattiveria insospettabile: un brano di grande impatto, ma che rischia d’apparire addirittura fuori contesto, specie se seguito dalle delicate pennellate chitarristiche di Climax 2.0.
In Golden Tongue ritroviamo nuovamente quel sound inquieto che aveva contraddistinto la splendida traccia d’apertura, mentre in The Last Sun ritorna a predominare l’imprimatur poetico di scuola Antimatter, anche se, come già detto, in tali frangenti le possibili somiglianze appaiono meno marcate che in passato.
La versione strumentale di Chant D’Automne suggella idealmente un lavoro di grade maturità e soprattutto propositività: Luca Mazzotta avrebbe potuto continuare a seguire, peraltro facendolo benissimo, le tracce di Moss e compagnia, mentre con quest’opera decide di prenderne in qualche modo le distanze, ampliando in maniera efficace e condivisibile lo spettro compositivo con risultati eccellenti.
Se Still Bleeding era già un album più che convincente, The Human Defeat va ancora oltre, collocando il nome Helfir ai vertici qualitativi della scena italiana.

Tracklist:
1. Time In Our Minds
2. Light
3. Tide
4. Protect Me
5. Chant D’Automne
6. Mechanical God
7. Climax 2.0
8. Golden Tongue
9. The Last Sun
10. Chant D’Automne (Instrumental Version)

Line up:
Luca Mazzotta: Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Drums and Percussions programming

HELFIR – Facebook

Malacoda – Ritualis Aeterna

Il gruppo accontenterà gli appassionati del metal elegantemente sinfonico e dalle tinte dark, anche se per uscire dai confini dell’underground servirebbe un colpo d’ala, ma noi ci accontentiamo e promuoviamo i Malacoda.

Un altra band proveniente dal Canada nel mirino di MetalEyes, questa volta con sonorità power sinfoniche e dalle atmosfere gotiche.

Da Oakville (Ontario) arrivano i Malacoda, un quintetto che può annoverare tra le proprie fila il talento di Jonah Weingarten, tastierista dei prog metallers Pyramaze.
Ritualis Aeterna continua nella strada tracciata dal primo album pubblicato nel 2015, con un’affascinante copertina e buone orchestrazioni sinfoniche, viaggiando al ritmo di un gothic power metal dalle tinte horror, molto melodico e a suo modo teatrale, senza forzare troppo sull’aspetto estremo, così da mantenere un appeal discreto anche per chi non è fanatico delle sonorità dalle tinte dark.
Sinfonie di scuola power, molto comuni di questi tempi, si alleano con una forma di teatralità gotica e quindi ne esce un’opera a tratti sontuosa, anche se sviluppata nella durata di un mini cd, ma molte volte questo è più un bene che un male.
E, infatti, Ritualis Aeterna si lascia ascoltare senza patemi, assolutamente perfetto nel coniugare l’horror metal al power di scuola Rhapsody e Kamelot, dunque elegante il giusto e valido nel sostituire l’epicità del gruppo nostrano con atmosfere gotiche.
Penny Dreadful è l’opener perfetta in cui tutto il sound è riassunto in quasi sei minuti di ottima musica metal orchestrale, mentre I Got A Letter è più moderna e dark, quasi ottantiana nel suo amalgamare dark rock e metal classico.
Pandemonium è il brano top dell’ep, con l’alternanza di cori operistici e growl di estrazione death, The Wild Hunt è teatrale e drammatica e la sua atmosfera oscura valica il confine con la seguente Linger Here, ballad dark wave di respiro rock/pop.
Il gruppo accontenterà gli appassionati del metal elegantemente sinfonico e dalle tinte dark, anche se per uscire dai confini dell’underground servirebbe un colpo d’ala, ma noi ci accontentiamo e promuoviamo i Malacoda.

TRACKLIST
1.Penny Dreadful
2.I Got A Letter
3.Pandemonium
5.The Wild Hunt
6.Linger Here
7.There Will Always Be One

LINE-UP
Cooper Sheldon – Bass
Mike Harshaw – Drums
Brad Casarin – Guitars
Lucas Di Mascio – Guitars, Vocals
Jonah Weingarten – Keyboards, Orchestration

MALACODA – Facebook

Cold Body Radiation – The Orphean Lyre

Post rock, post metal, gothic, un po’ di black, dolci distorsioni e tanto tanto amore, che è solo differente da quello comune per un disco commovente, bellissimo, e luminoso, tanto luminoso.

Troppo spesso ci dimentichiamo che la musica è il principale veicolo dei nostri sogni, un Caronte che ci porta oltre, superando il nostro quotidiano, trascendendo il tutto. Invece, le note rimangono poveramente intrappolate, in schemi, stilemi, pregiudizi ed altre lenti morti.

I Cold Body Radiation riportano la musica in quota sopra le nuvole e ben al di sopra delle nostre umane facezie. Li ho conosciuti con Deer Twilight ed è stato immediato amore verso la loro triste gioia e la lieve gravità. Qui si superano nuovamente, andando ad addolcire maggiormente i loro suoni, seguendo un chiaro cammino tra Cure, post rock e un cuore che sanguina. Sono carezze, lievi strusciamenti di vite parallele che non potranno o non riusciranno ad incontrarsi mai, perché l’incompiutezza è l’unico segno tangibile e sincero dell’essere umano. Non ci sono mai cali o sbagli in questo disco, tutto fluisce come un fiume di vita, di calore, di gelo, di amore e di odio. Ogni tanto si possono ascoltare le precedenti stimmate del black metal, che anche qui è stato madre feconda per poi lasciare liberi ben presto il proprio figlio. La provenienza è l’Olanda, ma importa davvero poco il come e il quando, qui ci sarete solo voi e la musica, e quest’ultima è qualcosa di incredibilmente emozionante, volando alto come un’anima distaccata dal copro guarderete di sotto e forse capirete. Post rock, post metal, gothic, un po’ di black, dolci distorsioni e tanto tanto amore, che è solo differente da quello comune per un disco commovente, bellissimo, e luminoso, tanto luminoso.

TRACKLIST
1.the ghost of my things
2.sinking of a wish
3.all the little things you forget are stored in heaven
4.at sea
5.the orphean lyre
6.spiral clouds
7.you where missing
8.the forever sun

COLD BODY RADIATION – Facebook

Light Of The Morning Star – Nocta

Nocta è la summa di quanto di meglio possa offrire il metal più tenebroso quando si fonde con un senso gotico della melodia, e il disco potrebbe essere la colonna sonora della notte di un vampiro, che desidera lascivamente nottetempo ma al contempo è conscio di essere maledetto.

Non si sa granché di O-A, unico deus ex machina di Light Of The Morning Star, ma spiega molto più la sua musica che mille parole.

Dopo aver esordito nel 2016 con l’ep Cemetery Glow, andando ad esplicare le coordinate del progetto, O- A torna con questo debutto sulla lunga distanza, che è notevole. Nocta è la summa di quanto di meglio possa offrire il metal più tenebroso quando si fonde con un senso gotico della melodia, e il disco potrebbe essere la colonna sonora della notte di un vampiro, che desidera lascivamente nottetempo ma al contempo è conscio di essere maledetto. Questi nove cantici oscuri sono pieni di melodie sensuali e di distorsioni che accompagnano una tenebrosa eppure calda narrazione, senza fronzoli o autocompiacimenti, ma solo tanta nera sostanza. Molti sono i generi trattati, da una radice funeral doom melodica si passa ad un gothic metal con sfumature black melodiche, ma su tutto domina la melodia. Le canzoni sono strutturate in maniera da creare un climax che trasporta l’ascoltatore in un limbo piacevole, ma assai vicino alla morte, che è comunque uno stadio della nostra natura. O-A compone e suona da solo un album di canzoni bellissime e lascive, sensuali e vampiresche, il tutto con una lucidità ed una facilità musicale che non possono che stupire. Si rimane fortemente attratti da questa musica magnetica che sa di castelli polverosi e cimiteri con la nebbia, da ascoltare al buio e con le cuffie.
Nocta piacerà molto a chi ama il doom ed il metal più dark, ed è propenso a fare incursioni sonore in altri ambiti musicali.

TRACKLIST
1.Nocta
2.Coffinwood
3.Serpent Lanterns
4.Grey Carriages
5.Crescentlight
6.Oleander Halo
7.Ophidian
8.Lord of All Graves
9.Five Point Star

LIGHT OF THE MORNINGSTAR – Facebook

Evil Reality – Winners And Losers

Gli Evil Reality producono un disco molto bello ed interessante, originale e con una grande anima gotica, anche se non disdegnano e possiedono molta sapienza pop.

Ep d’esordio per questo gruppo milanese di metal sperimentale e felicemente spiazzante.

Ascoltando l’ep si finisce infatti in diversi generi, quali il gothic, l’industrial più melodico e il groove metal. La melodia è molto forte e strutturata, e la bella voce femminile di Sorrow rende moltissimo. Le canzoni sono tutte ben costruite e le parti aggressive e più dolci sono ben bilanciate. L’influenza dei Rammstein in alcuni momenti è molto forte, ma l’originalità del gruppo non è ma in discussione. Winners And Losers è anche un disco orecchiabile e radiofonico, coniugando bene la ricerca musicale con una giusta accessibilità per tutti o quasi. Stupisce la maturità del gruppo, questa conoscenza del percorso da intraprendere e anche la capacità di essere duri e dolci anche nella stessa canzone, senza essere schizofrenici. Il metal di Winners And Losers è sicuramente un metal altro, moderno ma anche molto gotico nel gusto. Il concept dell’ep sono le emozioni che viviamo in questa vita, suddivisi tra vincenti e perdenti. Gli Evil Reality producono un disco molto bello ed interessante, originale e con una grande anima gotica, anche se non disdegnano e possiedono molta sapienza pop. Insomma un bel sentire, ed è solo l’inizio.

TRACKLIST
1- Will to Power
2- Frail
3- Excluded
4- Bittersweet Lullaby
5- Losers’ Kingdom

LINE-UP
Sorrow – voice
Envy – guitar and 2nd voice
Shame – bass guitar
Shy – keyboards
Aloof – drums

https://www.facebook.com/Evil-Reality-235272533479256/

Fear Of The Storm – Madness Splinters (1991-1996)

Esauriente retrospettiva su una delle più interessanti realtà italiane dedite alla gothic dark wave nella prima metà degli anni ’90.

I Fear Of The Storm sono stati protagonisti di una vicenda piuttosto frequente in ambito musicale, tanto più se il genere proposto pone le sue radici nell’underground ed il paese in cui tutto ciò si verifica è l’Italia.

La band siciliana, all’inizio degli anni novanta, si rese protagonista di una serie di demo su cassetta che riscossero una certa attenzione tra gli appassionati di darkwave e che, prima di fare il salto di qualità definitiva pubblicando il primo lavoro su lunga distanza, a causa di incomprensioni con la loro etichetta dell’epoca di fatto cessarono l’attività, lasciando in nel limbo anche una certa quantità di musica che sarebbe rimasta inedita per molto tempo.
Del resto io stesso, benché abbia amato non poco Cure, Bauhaus e Joy Division, tanto per citare i tre nomi principali, e, ad occhio e croce, sia più o meno coetaneo dei musicisti che diedero vita ai Fear Of The Storm, ne ignoravo l’esistenza prima di ricevere il promo da Francesco Palumbo (My Kingdom Records), l’artefice di questa meritoria riscoperta.
Già, perché senza la sua iniziativa, favorita dal fatto che due ex FOTS, Carlo Disimone e Valeria Buono, oggi fanno parte del roster della label salernitana con il loro ottimo progetto Dperd, quelli come me, distratti all’epoca da sonorità altrettanto oscure ma ben più metalliche (nel ’91 Forest Of Equibrium dei Catherdal avviò un’esplorazione senza ritorno dei cunicoli più oscuri e reconditi del doom) e soprattutto i più giovani, non avrebbero mai avuto l’opportunità di riscoprire questa band che poco aveva da invidiare per freschezza e creatività alle band d’oltremanica.
Madness Splinters (1991-1996) contiene, distribuiti su tre CD, i demo tape R.I.P., The Key Of My Silence e ...So Sad To Die In Oblivion…, il mini cd 1995 e II, l’album rimasto fino ad oggi inedito, per un totale di 41 brani ed oltre 3 ore e mezza di dark wave d’autore.
Il promo in nostro possesso contiene solo un parte di questa mole di musica ma si rivela comunque più che sufficiente per farsi un’idea quanto di buono i Fear Of The Storm abbiano prodotto nel corso della loro carriera, oltre che constatare, grazie alla disposizione dei brani in ordine cronologico, l’evoluzione del sound che dagli esordi genuini e ruspanti, aventi per riferimento la dark wave più asciutta ed essenziale (primi Cure e Joy Division), era giunto ad una forma davvero matura e quasi per nulla derivativa di gothic wave (da ascoltare con attenzione le splendide A Wondrous Sensation e The Factory Of Dreams, tratte appunto da II), passando per pulsioni nefiliane rinvenibili, ad esempio, in Eyes (dove in certi momenti il sound si avvicina a quello dei Rubicon, ovvero i FOTN senza Carl McCoy).
Da rimarcare, oltre all’operato degli attuali Dperd (con Disimone mai scontato con la sua chitarra), il fondamentale lavoro al basso di Antonio Oliveri e la prestazione dietro il microfono di Tony Colina, perfetto per il genere con la sua voice, spesso affiancata da quella di Valeria Buono (alle prese anche con le tastiere).
Gli amanti di queste sonorità dovrebbero essere irresistibilmente attratti da questa raccolta, mentre, per quanto riguarda il futuro dei Fear Of The Storm, non ci sono notizie certe su un loro ritorno né una tantum dal vivo né con materiale di nuovo conio, anche se le porte non paiono essere del tutto sbarrate ad entrambe le opzioni. Vedremo, nel frattempo Madness Splinters possiede tutte le caratteristiche per colmare qualsiasi vuoto.

Tracklist:
CD I
“R.I.P.”
1. Into The Storm
2. Eyes Of Death
3. Hatred
4. R.I.P. (abridged)
5. Images (Into The Helter Skelter)
6. Walking Through The Town
7. The Little Girl
8. Dreams Are Trasforming

“The Key Of My Silence”
9. Blood
10. Tears Of Sand
11. The Key
12. Around The Fire
13. Jungle And Desert
14. Towers Of Silence
15. Epitaph
16. Fear

CD II
“…So Sad To Die In Oblivion…”
1. Madness Splinters
2. Adrift In Limbo
3. Sunset
4. Ghostown
5. Sadness
6. The Dark River Of Oblivion
7. Drop After Drop
8. Eyes
9. Weightless

“1995”
10. The Return
11. Tears Of Sand
12. Marble Dust
13. Adrift In Limbo
14. Timeless Wailing Of Ageless Souls

CD III
“2”
1. Bleeding Fingers
2. Dancing Amid The Clouds
3. Her
4. The Factory Of Dreams
5. R.I.P. (Including A Descent Into The Well)
6. Higher And Farther
7. In Quest Of…
8. The Eyes Of Death
9. A Wondrous Sensation
10. Slow Motion
11. Sleepless Dreams(bonus track)

Line-up:
Valeria Buono: keys, vox
Carlo Disimone: guitars, drums programming, vox
Antonio “Mad” Oliveri: bass, slider pestering, vox
Tony Colina: male vox, bits of keys, piano on CD II and III
Massimiliano Busa: drums on CD I from song 1 to 8

FEAR OF THE STORM – Facebook

Grodek – Downfall Of Time

Il disegno artistico dei Grodek trova già una propria parziale concretizzazione, esibendo in maniera convincente la robustezza delle trame death ed il senso di drammatica ineluttabilità del doom.

Secondo Ep per gli abruzzesi Grodek , band davvero interessante che si muove in bilico tra death melodico e doom in maniera, mantenendo sempre un invidiabile equilibro tra le varie componenti del sound.

Questa breve prova, intitolata Downfall Of Time (che si avvale, in copertina, di una splendida fotografia di Francesco Delli Benedetti), si lega in maniera ancora più esplicita al concept che sta alla base dell’opera dei quattro ragazzi di Vasto, ovvero quello di “cantare la decadenza, il vuoto ed il fango della nostra realtà, trasformando l’ansia e l’orrore in esperienza estetica”.
Un modo di definire la propria musica intrigante e sicuramente impegnativo, ma va detto che il sound dei Grodek non smentisce tale dichiarazione di intenti; i quattro brani, infatti, sono piuttosto nervosi e pervasi da una certa inquietudine e, dovendo trovare un possibile riferimento per inquadrare le sfumature musicali proposte, direi che, specialmente in From The Fog I Rose e Time And Black Tides, il primo nome che viene in mente sono i Novembers Doom.
Da sempre ritengo la band di Paul Kuhr piuttosto sottovalutata, pur essendo fautrice di un sound piuttosto peculiare e riconoscibile: il fatto che i Grodek in qualche modo li richiamino alla memoria, nello stile vocale di Matteo Colantonio e in diverse soluzioni sonore, è senz’altro un fattore positivo che non deve far pensare al contenuto di Downfall Of Time come un qualcosa di derivativo, semplicemente è normale per un gruppo alle prime uscite ricordarne, anche inconsciamente, altri già conosciuti.
Resta il fatto che, in questi 25 minuti, il disegno artistico dei Grodek trova già una propria parziale concretizzazione, perché oltre ai due brani citati, anche Naiade e The Pale Dame esibiscono in maniera convincente la robustezza delle trame death ed il tocco di drammatica ineluttabilità del doom.
Un’ottima prova per un gruppo che sembra già avere tutte le carte in regola per provare l’avventura su lunga distanza, proprio perché è netta la sensazione che questo sia solo l’inizio di un percorso musicale tutt’altro che banale.

Tracklist:
1. From The Fog I Rose
2. Naiade
3. The Pale Dame
4. Time And Black Tides

Line-up:
Matteo Colantonio – Vocals, Guitars
Tiziano De Cristofaro – Guitars
Alessandro Leone – Drums
Matteo Sputore – Bass

GRODEK – Facebook

Hertz Kankarok – Livores

Livores racchiude venticinque minuti di musica di enorme spessore qualitativo e, soprattutto, molto personale, segno che un approccio artistico meno convenzionale spesso può portare frutti prelibati

Il progetto musicale ideato da Hertz Kankarok si rivela anomalo fin da un monicker che, a primo acchito, lascia sensazioni strane, fino a giungere al modus operandi, che vede il nostro comporre brani senza essere di fatto un musicista nel senso vero del termine e, infatti, a parte la voce, tutto il lavoro strumentale è affidato a Dario Laletta.

Ma, come tutto ciò che ultimamente arriva dalla Sicilia in campo rock e metal, c’è da aspettarsi qualcosa di particolare ed anticonvenzionale: Hertz Kankarok con questi tre brani lo conferma, offrendo un compendio di musica a tratti entusiasmante e andando ad esplorare i diversi spettri sonori del metal e non solo.
Se Our Will Injection sembra un ideale incrocio i tra i King Crimson ed il djent (sotto genere del quale non è difficile reperire una ipotetica genesi ascoltando i tre dei dischi frippiani degli anni ottanta) ma con l’enorme pregio di mantenere sempre in primo piano l’aspetto melodico, tenendosi alla larga dallo sterile tecnicismo, We Are the Ghosts sposta la barra su sonorità più cupe ed evocative, esprimendo un robusto prog metal dalla ampie sfumature gothic. Fin qui nulla da eccepire sui due brani, impreziositi dall’indubbio talento esecutivo di Laletta, ben assecondato da un interpretazione vocale molti varia e personale da parte di Kankarok.
A mio avviso, però, il vero fulcro del lavoro è la conclusiva Occvlta Plaga Inferorvm, canzone che racchiude efficacemente non solo il pensiero dell’autore sui temi religiosi, veicolato in lingua italiana tramite un testo magnifico, ma riesce a sintetizzare mirabilmente diversi aspetti del sound, che si fa via via più oscuro e riflessivo, racchiudendo in un colpo solo il gothic doom di tipica scuola italiana (con bagliori degli indimenticabili Cultus Sanguine) e pulsioni cantautorali che non possono non rimandare all’illustre corregionale Franco Battiato (difficile non fare questo accostamento quando Kankarok intona “… in quest’epoca infame e d’acquiescenza …“).
In buona sostanza, Livores racchiude venticinque minuti di musica di enorme spessore qualitativo e, soprattutto, molto personale, segno che un approccio artistico meno convenzionale spesso può portare frutti prelibati, proprio per una minore propensione ad abusare di schemi consolidati.
L’ep è stato diffuso ormai un anno fa e, benché sia stato accolto in genere con un certo favore, ho la sensazione che non sempre gli sia stato dato quel risalto ancora maggiore che avrebbe meritato. Resta solo da godersi questo ottimo esempio di creatività musicale, in attesa che il misterioso Hertz Kankarok si rifaccia vivo, magari con un lavoro su lunga distanza.

Tracklist:
1. Our Will Injection
2. We Are the Ghosts
3. Occvlta Plaga Inferorvm

Line Up:
Dario Laletta – All instruments
Hertz Kankarok – Vocals, Lyrics

HERTZ KANKAROK – Facebook

Rotting Christ – Sleep Of The Angels

Riedizione quanto mai opportuna per l’album più “commerciale” mai pubblicato dai Rotting Christ.

Non sono poche le band di nome che, ad un certo punto della loro carriera, hanno inciso un disco che in qualche modo andava a rompere in maniera netta il loro stile stile consolidato.

Quasi sempre, al momento dell’uscita, le manifestazioni di dissenso superavano gli elogi, non tanto per il valore intrinseco dei lavori quanto per l’incapacità momentanea dei fan più accaniti (e anche di buona parte della critica) di accettare il fatto che per qualsiasi artista dovrebbe essere un fatto normale, ogni tanto, provare a sperimentare qualcosa di diverso.
Questo capitò in particolare a quattro nomi storici del metal, per tutti negli ultimi due anni dello scorso millennio, quasi che in quegli anni l’aria fosse permeata da un’urgenza creativa che spingeva i musicisti ad osare di più: i Moonspell (con Sin/Pecado), i My Dying Bride (con 34.788%… Complete), i Kreator (con Endorama) ed i Rotting Christ (con Sleep Of The Angels).
Ed è proprio di quest’ultimo album che ci viene data l’occasione di riparlare, grazie alla riedizione curata dall’etichetta ellenica Sleaszy Rider: diciamo subito che, rispetto agli esempi citati, Sleep Of The Angels appariva molto meno un azzardo, mostrando semmai una maggiore apertura verso un sound gothic che andava ad ammorbidire non poco le pulsioni black della band di Sakis, un processo che comunque aveva già mostrato dei segnali nel precedente A Dead Poem. Indubbiamente, rispetto alla svolta elettronica intrapresa sia dai Moonspell che dai My Dying Bride ed al brusco passaggio dal tetragono thrash di scuola teutonica ad un elegante sound gotico da parte dei Kreator, quello dei Rotting Christ appariva soprattutto l’approdo ad una maggiore orecchiabilità legata ad un ricorso maggiore a quelle progressioni melodiche di stampo chitarristico che sono sempre state, comunque, marchio di fabbrica della band greca.
Non a caso, mentre tutte gli altri gruppi citati, a partire dai dischi successivi invertirono la rotta per riapprodare a sonorità più in linea con la loro storia, i Rotting Christ, pur tornando ad inasprire il suono, con Khronos e Genesis non andarono del tutto ad abiurare quanto fatto con Sleep Of the Angels.
Non a caso tutti questi dischi, per così dire controversi, dopo quasi vent’anni sono stati unanimemente rivalutati e considerati dai fan come ottimi lavori, pur nella loro discontinuità stilistica: per i Rotting Christ il discorso è diverso, visto che il black dei nostri è sempre stato sui generis proprio perché molto personale e, quindi, l’apertura a sonorità più catchy corrispondente alla pubblicazione di Sleep Of The Angels non venne vissuta come un tradimento, bensì come una naturale progressione stilistica; non a caso, una traccia come After Dark I Feel è annoverata ancora oggi tra i cavali di battaglia di Sakis e soci.
Sleep Of The Angels è un album che andrebbe fatto ascoltare a chi non conosce i Rotting Christ, vuoi per la poca attitudine a sonorità estreme, vuoi per l’impatto innegabilmente esercitato da un monicker ”pesante”: in questo caso potrebbe rivelarsi l’ideale grimaldello per accedere alla discografia di uno dei migliori gruppi che abbiano veleggiato lungo gli ultimi tre decenni metallici.

Tracklist:
1.Cold Colours
2.After Dark I Feel
3.Victoriatus
4.Der Perfekte Traum
5.You My Flesh
6.The World Made End
7.Sleep the Sleep of Angels
8.Delusions
9.Imaginary Zone
10.Thine Is the Kingdom

Line-up:
Sakis Tolis – guitars and vocals
Andreas – bass
Kostas – guitars
George – keyboards
Themis Tolis – drums

ROTTING CHRIST – Facebook

Vlad In Tears – Unbroken

Spiacenti, ma il gothic/dark, anche se moderno e alternativo, è davvero un’altra cosa.

Le lacrime di Dracula sono copiose, hanno perso completamente quel romanticismo decadente che le rendeva affascinanti e nel nuovo millennio sono pregne di disperazione alternativa.

Per le giovanissime anime della notte, tornano i Vlad In Tears, band della scena gothic berlinese al quinto lavoro in poco meno di dieci anni.
Il gruppo, con il nuovo album, imprime con forza il sound alternativo nella sua proposta musicale, un moderno dark/gothic con la presunzione di scalare le classifiche, ma scarsamente emozionale, derivativo e soprattutto poco curato sia come produzione che a livello vocale.
Ne esce un piagnisteo lungo quasi un’ora, dove l’elettronica, il rock alternativo e uno spruzzata di nu metal soffocano inesorabilmente l’elemento dark/gothic, perdendo la sua partita con le emozioni, oscure e romantiche, importantissime in un album del genere.
Non mancheranno di trovare estimatori e consolidare lo zoccolo duro dei propri fans tra i quindicenni brufolosi alle prime esperienze con le insidie della notte, ma l’alba è alle porte ed il ritorno a casa coinciderà con un padre furioso in attesa sulla soglia di casa.
Marilyn Manson, e via, una dopo l’altra, tutte le band che hanno sfilato in questi anni sui canali satellitari, sfoggiando pantaloni in pelle e magliette nere, una punta di mascara sugli occhi e faccine da angelo nero in preda a disperazione adolescenziale: niente più di questo si intravede tra i solchi di Unbroken, poco per meritare una sufficienza che sarebbe arrivata perlomeno con una voce più profonda e meno monocorde.
Spiacenti, ma il gothic/dark, anche se moderno e alternativo è davvero un’altra cosa.

TRACKLIST
01.Blame Yourself
02.Massive Slayer
03.Burn Inside
04.Lies
05.Don´t Let Us Fall
06.Okay
07.Far Away
08.Over Again
09.Still Here
10.My Shade
11.Dew
12.Slave
13.Brocken Bones
14.We´re Done
15.Still Here (Piano-Version)

LINE-UP
Kris Vlad – Vocals
Dario Vlad – Bass
Gregor Friday – Guitar
Cosmo Cadar – Drums

VLAD IN TEARS – Facebook

Even Vast – Hear Me Out

La riedizione dell’album d’esordio può rivelarsi utile nel tornare a far parlare degli Even Vast, ma rischia d’essere fuorviante per chi intendesse seguirli nella loro nuova avventura.

La Sleaszy Rider è un’etichetta piuttosto attiva che, oltre a segnalarsi per un buon roster, è specializzata anche nella riedizione di album usciti diverso tempo fa; così, assieme all’utile e gradita rilucidatura  di Sleep Of The Angels dei Rotting Christ, troviamo anche la riproposizione di Hear Me Out, disco d’esordio degli Even Vast.

Tale scelta, relativa ad una lavoro che non può essere certo paragonabile per valore a quello della band di Sakis, trova una sua motivazione con la recente firma della band italiana con l’etichetta ellenica, ma non ne fotografa la massima espressione artistica e dubito che possa anche rappresentare un’utile introduzione a quello che verrà, alla luce dei preannunciati cambiamenti stilistici e di line-up.
Hear Me Out uscì originariamente nel 1999, andando a collocarsi all’interno del filone del gothic doom con voce femminile che, in quel decennio, visse i momenti di massimo splendore: lo stile della band aostana era molto più asciutto e privo di fronzoli atmosferici rispetto a modelli quali Theatre Of Tragedy o Within Temptation, ma quell’esordio si rivelava ancora acerbo, soprattutto nell’interpretazione vocale di una Antonietta Scilipoti che, nei dischi successivi, sarebbe decisamente progredita contribuendo fattivamente alla riuscita di un buon lavoro come Outsleeping (2003).
Dopo qualche anno di silenzio, gli Even Vast diedero infine alle stampe nel 2007 Teach Me How to Bleed, album che mostrava una svolta elettronica sulla falsariga di quanto fecero a inizio millennio i già citati Theatre Of Tragedy con Musique, per poi non dare più segnali di attività fino a quest’anno.
Tornando a Hear Me Out, non mancavano brani di buona fattura (su tutti Foolish Game) ma la sensazione, oggi, è quella di ascoltare una band che si trovava ancora in una fase embrionale nella quale alcuni ottimi spunti risultavano frammisti a diverse imperfezioni, e le bonus track inserite nella riedizione, trattandosi di tracce registrate dal vivo, non fanno altro che accentuare gli aspetti negativi.
Della line-up originale è rimasto oggi il solo Luca Martello, nel frattempo trasferitosi in Inghilterra dove ha ridato vita alla band che dovrebbe aver virato decisamente verso lo sludge doom, abbandonando le pulsioni gotiche del decennio scorso.
Anche per questo, la riedizione dell’album d’esordio può rivelarsi utile nel tornare a far parlare degli Even Vast, ma rischia d’essere fuorviante per chi intendesse seguirli nella loro nuova avventura.

Tracklist:
1. Never Hear Me
2. Once Again
3. The One You Wish
4. Foolish Game
5. Memories
6. Energy
7. Believe Me
8. RU
9. The One You Wish (live) * bonus track
10. Once Again (live) * bonus track
11. Over (live) * bonus track

Line-up:
Antonietta Scilipoti – vocals
Luca Martello – guitars
Diego Maniscalco – bass
Paolo Baltaro – drums, keyboards

EVEN VAST – Facebook

Tenebrae – My Next Dawn

I Tenebrae possiedono una dote essenziale, al di là di qualsiasi altra considerazione: sanno trasmettere emozioni uniche a chi è in grado di attivare i propri sensi per poterle riceverle.

Per chi aveva apprezzato un lavoro magnifico come Il Fuoco Segreto, la voglia di ascoltare un nuovo disco dei Tenebrae era mista ad un certo timore, alla luce della preannunciata sterzata a livello stilistico unita all’ennesimo rimpasto di una line-up che sembrava aver raggiunto una sua stabilità; inoltre, la necessità, da parte della band genovese, di ricercare una nuova etichetta in grado di supportarne adeguatamente gli sforzi creativi, finiva per disegnare un quadro ricco di criticità che avrebbero potuto mettere in crisi qualsiasi persona sprovvista della passione e della convinzione dei propri mezzi in possesso di Marco “May Arizzi”.

Intanto, il chitarrista e compositore principale dei Tenebrae, assieme all’unico superstite della formazione originale, il bassista Fabrizio Garofalo, ed al vocalist già presente su Il Fuoco Segreto, Paolo Ferrarese, hanno trovato due nuovi compagni d’avventura nel tastierista Fulvio Parisi e nel batterista Massimiliano Zerega. Rinsaldata così una line-up che si era sfaldata proprio durante la fase di stesura dei brani che sarebbero confluiti in My Next Dawn, il processo compositivo ha ripreso slancio ed ulteriore vigore e, mai come in questo caso, si può sostenere a buona ragione che le difficoltà alla lunga abbiano avuto un effetto fortificante, di fronte all’evidenza dei risultati ottenuti.
Già, perché My Next Dawn si pone come il punto più alto raggiunto dal gruppo ligure, cosa neppure troppo scontata se si pensa al valore assoluto che contraddistingueva la produzione precedente ed al parziale abbandono di uno stile peculiare che la marchiava in maniera indelebile.
Il passaggio dall’italiano all’inglese, in sede di stesura dei testi, è stato, in primis, un passo necessario per rendere più appetibile il disco anche al di fuori dei nostri confini, ma non è certo l’unico motivo: infatti, la metrica anglofona meglio si sposa con un sound che punta maggiormente verso l’oscurità del gothic doom e, qui, non si può non fare un plauso alla bravura di Antonella Bruzzone, capace di passare con disinvoltura dalle storie tragiche ed intrise di romanticismo descritte nella nostra lingua in Memorie Nascoste e Il Fuco Segreto, ad un racconto di matrice apocalittica in lingua straniera, ispirato al film The Road, ed affidato alla magnifica interpretazione di Paolo Ferrarese.
My Next Dawn, però, nonostante tali premesse, non recide del tutto il cordone ombelicale con la produzione passata: la peculiare impronta progressive resta ben definita anche se non più in primo piano, assieme ad un afflato melodico che aleggia in ogni brano, persino nei passaggi apparentemente più aspri, andando a comporre un quadro complessivo cupo, malinconico e tutt’altro che semplice da etichettare (atmospheric doom, gothic, dark, sono questi i tag puramente indicativi che accompagneranno probabilmente le diverse recensioni del lavoro)
Dopo l’intro Dreamt Apocalypse, è Black Drape il reale biglietto da visita dei nuovi Tenebrae, con accelerazioni ai confini del black alternate a momenti evocativi guidati dalle tastiere di Parisi ed esaltati dalla versatilità di Ferrarese, capace come non mai di esprimersi in diversi registri vocali che, per la maggior parte dei cantanti, risulterebbero incompatibili: una teatrale voce stentorea si alterna ad un growl profondo e convincente e, soprattutto, a vocalizzi di stampo operistico che hanno il compito di enfatizzare il pathos che pervade lo scorrere delle note.
La bellezza di questo brano spazza via ogni dubbio e da qui in poi l’ascolto diviene null’altro che la scoperta di una serie di gemme disseminate all’interno del lavoro, a partire da Careless, assieme alla title track una delle tracce che i nostri avevano già presentato nelle loro ultime apparizioni dal vivo quale assaggio di ciò che sarebbe stato My Next Dawn: qui è uno struggente assolo di Marco Arizzi a porre il suggello ad un’altra canzone magnifica.
La chitarra acustica suonata dall’ospite Laura Marsano (protagonista qualche anno fa su Le Porte Del Domani, quello che probabilmente è stato l’atto finale della carriera de La Maschera di Cera) è un valore che si aggiunge lungo il corso dell’album e fa bella mostra di sé nell’intro di Grey, traccia che si dipana in un finale di toccante e drammatica bellezza, precedendo quello che si rivelerà uno dei picchi dell’album, la magnifica The Fallen Ones, nella quale viene esaltato il connubio tra le liriche e la musica, con Ferrarese a denunciare un abbrutimento della razza umana che non è più soltanto la precognizione di un futuro post-apocalittico.
Arrivati a metà del guado, non resta che verificare la capacità dei Tenebrae di mantenere anche nella parte discendente dell’album la stessa profondità di un sound che brilla di un’intensità quasi sorprendente.
The Greatest Failure è la risposta, trattandosi dell’ennesima canzone che si imprime nella memoria, apparendo destinata ad albergarvi a lungo così come la successive Behind (che, dopo un inizio rarefatto, esplode letteralmente nella sua seconda parte) e Lilian (contraddistinta da un elegante lavoro tastieristico).
Se, più di una volta, le band che sparano le migliori cartucce in avvio dei loro album finiscono poi per scontare una certa impasse dovuta all’inserimento di riempitivi, i Tenebrae riservano il meglio proprio nel finale, con l’accoppiata composta dalla title track e da As The Waves, due brani di struggente bellezza che dimostrano ampiamente la dimensione artistica raggiunta dal quintetto genovese, capace come pochi altri di chiudere un lavoro in costante crescendo e lasciando in dote all’ascoltatore esclusivamente quelle emozioni trasmesse con stupefacente continuità per una cinquantina di minuti.
Se vogliamo, i Tenebrae sono approdati oggi su un terreno attiguo a quello battuto dagli Ecnephias, benché i sentieri percorsi siano stati decisamente differenti, esprimendo con My Next Dawn un lavoro all’altezza del masterpiece pubblicato lo scorso anno dalla band lucana.
Non credete, allora, che sia arrivato il momento di dare maggior credito a chi compone e suona musica per passione, dando sfogo ad un fuoco che difficilmente cesserà di ardere, piuttosto che supportare passivamente chi contrabbanda per arte il semplice tentativo di sbarcare il lunario?
Se siete ancora convinti che oggi non ci sia più nessuno in grado di regalare opere degne di occupare un posto di rilievo nelle vostre collezioni discografiche, provate prima ad ascoltare My Next Dawn; fatevi questo regalo, date un calcio definitivo alle preclusioni ed ai giudizi precostituiti: i Tenebrae non diventeranno mai, purtroppo, uno di quei nomi  “cool” dei quali farsi vanto d’essere fan o sostenitori, ma ascoltare e vivere la vera musica è un processo interiore, lontano anni luce da un effimero post da condividere sui social, questo non va dimenticato mai …

Tracklist:
1. Dreamt Apocalypse
2. Black Drape
3. Careless
4. Grey
5. The Fallen Ones
6. The Greatest Failure
7. Behind
8. Lilian (changing shades)
9. My Next Dawn
10. As The Waves (always recede)

Line-up:
Marco Arizzi – Chitarre
Fabrizio Garofalo – Basso
Paolo Ferrarese – Voci
Fulvio Parisi -Tastiere
Massimiliano Zerega- Batteria

Laura Marsano – Chitarra acustica
Antonella Bruzzone – Testi
Sara Aneto – Grafica

TENEBRAE – Facebook

Lacrimas Profundere – Hope Is Here

Gli undici brani offerti dai Lacrimas Profundere vanno a comporre tre quarti d’ora di musica eccellente ed impeccabile per esecuzione e produzione

Quelli diversamente giovani, tra i frequentatori di questa webzine, ricorderanno senz’altro i Lacrimas Profundere come una giovane e promettente band che, negli anni novanta, provò con un certo successo a mettersi in scia delle migliori band del settore gothic death doom.

Il tempo è passato e le sonorità espresse efficacemente con album quali La Naissance d’un Rêve e Memorandum sono state via via abbandonate, per approdare ad un più rassicurante ma altrettanto valido alternative rock che mantiene comunque un ben definito dna oscuro.
Quello preso oggi in esame è l’undicesimo full length della band tedesca, capace di muoversi con destrezza tra umori che si dipanano a cavallo tra Antimatter e Katatonia, con una maggiore propensione però ad aperture più ariose.
Hope is Here è una collezione di brani dal buonissimo valore complessivo, in grado di non far rimpiangere i tempi andati ma, semmai, di rivestire di abiti più ricercati una malinconia che rappresenta pur sempre la base sulla quale poggi il sound dei Lacrimas Profundere.
Della line-up originaria è rimasto solo quello che è sempre stato il vero motore dei bavaresi, il chitarrista Oliver Schmid, il quale oggi si circonda di musicisti più giovani come la coppia ritmica formata dai fratelli Clemens e Christop Schepperle e dal vocalist Rob Vitacca, in possesso di una timbrica calda che ben si addice alle soffici atmosfere proposte, oltre che dal più esperto chitarrista Tony Berger.
Gli undici brani offerti dai Lacrimas Profundere vanno a comporre tre quarti d’ora di musica eccellente ed impeccabile per esecuzione e produzione; gli estimatori della prima ora della band forse faticheranno a digerire un evidente alleggerimento del sound, ma brani davvero ottimi come The Worship of Counting Down, Hope Is Here e Timbre, tanto per citarne solo alcuni, possiedono la caratura necessaria per mettere tutti d’accordo.

Tracklist:
1. The Worship of Counting Down
2. My Halo Ground
3. Hope Is Here
4. Aramis
5. A Million Miles
6. No Man’s Land
7. Pageant
8. You, My North
9. Awake
10. The Path of Broken Homes
11. Timbre
12. Black Moon

Line-up:
Oliver Nikolas Schmid – Guitars
Tony Berger – Guitars
Rob Vitacca – Vocals
Clemens Schepperle – Bass
Christop Schepperle – Drums

LACRIMAS PROFUNDERE – Facebook

1476 – Wildwood / The Nightside

Per i 1476 il passaggio dallo status di “segreto meglio conservato” a realtà stimolante e di sicuro spessore è ormai cosa fatta.

La Prophecy Productions presenta i 1476 come “il segreto meglio conservato in ambito rock dark e atmosferico”, e noi abitualmente ci fidiamo della label tedesca …

E’ giunto, quindi, il momento di portare alla luce l’operato di questo duo di Salem, composto da Robb Kavjian and Neil DeRosa, che rinverdisce in parte i fasti dei Mission, quella che, nella seconda metà degli anni ’80, è stata la band che meglio ha interpretato e rielaborato l’eredità del post punk e del gothic, facendone emergere il lato più poetico e malinconico.
L’accostamento con il gruppo di Wayne Hussey serve, soprattutto, ad inquadrare meglio i 1476, i quali appaiono comunque molto più europei che non americani (e forse le origini che si desumono dai cognomi dei due musicisti in questo senso possono avere un loro peso), ma ci mettono molto del loro per rendere peculiare la proposta inglobando elementi neo folk ed ambient, rendendola quanto mai fresca pur rifacendosi in parte a sonorità in voga trent’anni fa.
Va detto che questo disco costituisce, di fatto, una parziale summa di quanto realizzato finora dai 1476 (sia l’album Wildwood che l’ep The Nightside, entrambi racchiusi in questa release, risalgono al 2012), aggiungendo che anche il restante operato del duo verrà pubblicato dalla Prophecy, in attesa di un nuovo disco programmato per l’autunno.
Wildwood consta di 11 tracce prive di momenti deboli, capaci di trasportare l’ascoltatore dalla malinconia acustica di Horse Dysphoria e Banners In Bohemia fino ai ritmi più incalzanti di Good Morning, Blackbird, Stave-Fire e An Atrophy Trophy, senza dimenticare altri episodi magnifici quali Black Cross/Death Rune e Watchers.
I quattro brani tatti dall’ep The Nightside (tra i quali c’è una versione più scarna della già citata Good Morning, Blackbird) appaiono invece molto più introspettivi e meno immediati, se vogliamo accostabili a certo neo folk, ed entusiasmano meno, pur restando ad un livello senz’altro soddisfacente.
In buona sostanza, i 1476 riescono in maniera efficace e convincente ad evocare quelle atmosfere misteriose ed ancestrali che sono caratteristiche del New England, regione che, non lo si può certo dimenticare, ha dato i natali a due giganti delle letteratura come Poe e Lovecraft.
E proprio al primo è dedicato il lavoro che uscirà proprio in questi giorni, sempre a cura della Prohecy: “Edgar Allan Poe: A Life Of Hope & Despair”, concepito nel 2014, è una sorta di colonna sonora che dovrebbe mostrare un volto ancora diverso del duo americano.
Insomma, c’è molta carne al fuoco per i 1476, per i quali il passaggio dallo status di “segreto meglio conservato” a realtà stimolante e di sicuro spessore è ormai cosa fatta.
Wildwood / The Nightside è un opera che potrebbe essere apprezzata da appassionati dal background diverso, ma accomunati da una naturale predisposizione a nutrirsi di sonorità oscure ed evocative.

Tracklist:
1.Black Cross/Death Rune
2.Watchers
3.The Dagger
4.Banners In Bohemia
5.Good Morning, Blackbird
6.Horse Dysphoria
7.Stave-Fire
8.Bohemian Spires
9.An Atrophy Trophy
10.Shoreless
11.The Golden Alchemy
12.Mutable : Cardinal
13.Know Thyself, Dandy
14.Good Morning, Blackbird
15.The Nightside

Line-up:
Robb Kavjian
Neil DeRosa

1476 – Facebook

Vampyromorpha – Six Fiendish Tales of Doom and Horror…

Il sound è quanto di più heavy/doom ci si possa immaginare, riprendendo con sagacia le sonorità care ai gruppi storici del genere come Black Sabbath, Pentagram e Saint Vitus, qualche accenno all’horror metal dei nostrani Death SS e colmandolo di atmosfere dark/gothic alla Sisters Of Mercy.

Nell’underground metallico le realtà che si dedicano ad una sorta di rivisitazione del doom metal settantiano, prendendo ispirazione dalla filmografia horror di quegli anni ed amalgamandolo con reminiscenze gothic dark non sono poche, ed imbattersi in piccoli gioiellini non è poi così difficile.

Tramite la Trollzone Records, veniamo investiti da questa apoteosi di atmosfere horror/trash, dove l’immaginario tipico delle pellicole anni ‘70/’80, fatto di procaci e seducenti vampirelle assetate di sangue e castelli invasi da pipistrelli e morti viventi, viene valorizzato da un sound che pesca dal doom quanto dal dark ottantiano.
La band si chiama Vampyromorpha, sono un duo composto da Nemes Black ( chitarra, basso e batteria) e Jim Grant, fuori in questo periodo con il bellissimo Bloodmoon Prophecy dei Naked Star, alle prese con il microfono e qui anche con l’hammond.
Six Fiendish Tales of Doom and Horror… è composto da sei brani più la clamorosa cover di I’m So Afraid dei Fleetwood Mac, il sound è quanto di più heavy/doom potrete immaginarvi, riprendendo con sagacia le sonorità care ai gruppi storici del genere come Black Sabbath, Pentagram e Saint Vitus, qualche accenno all’horror metal dei nostrani Death SS e colmandolo di atmosfere dark/gothic alla Sisters Of Mercy.
Personalmente ho trovato tra i solchi delle varie songs note gotiche care ai Type O Negative e ai Lucyfire di Johan Edlund, proprio per quelle sfumature dark rock che imprimono al sound del duo una marcia in più.
Jim Grant, lontano dai vocalizzi apocalittici e rabbiosi usati nell’opera dei Naked Star, regala alla sua performance sfumature ottantiane dall’ottimo appeal, l’hammond a tratti crea arabeschi di musica gotica, come se ai tasti d’avorio si destreggiasse in tutta la sua malvagia gloria il dottor Phibes, scienziato pazzo interpretato dal grande Vincent Price, mentre gli strumenti elettrici costruiscono ritmiche doom metal potentissime.
Poco meno di quaranta minuti, ma assolutamente intensi: l’album non lascia trasparire indugi e si presenta come un monolite di heavy rock notevole, con il suo cuore che pulsa sulle note della splendida Satans Place, meravigliosa messa gotica dove, al calar delle tenebre, le schiave di Dracula si risvegliano e iniziano la caccia, nella lunga notte senza luna.
Six Fiendish Tales of Doom and Horror… risulta così un ottimo lavoro, in perenne bilico tra i generi e le band a cui fa riferimento, ma a tratti davvero irresistibile, segnatevi questo nome Vampyromorpha, ed occhio agli sguardi seducenti della bellissima musa apparsa nella notte, potrebbero portarvi alla dannazione eterna.

TRACKLIST
01. Deliver Us From The Good
02. Häxanhammer
03. Metuschelach Life Cycle
04. Satan´s Palace
05. Bacchus
06. Peine Forte Et Dure
07. Iam So Afraid (Bonus)

LINE-UP
Jim Grant – Vox, Hammond
Nemes Black – Guitar, Bass, Drums

VAMPYROMORPHA – Facebook

The 69 Eyes – Universal Monsters

Il buon disco di un gruppo che ormai ha finito di sorprendere ma che sa regalare ancora musica piacevolmente intrisa di decadenti melodie e di buone trame rock.

Il ciuffo in stile Misfits, che Jyrki sfoggia sulla copertina del nuovo album dei The 69 Eyes , poteva far pensare in un primo momento ad un clamoroso ritorno alle sonorità rock’n’roll degli esordi, ed in effetti in Universal Monsters i fantasmi del passato tornano ad elettrizzare il sound dei vampiri di Helsinki.

Niente paura, per le anime dark che ormai sono la maggioranza nelle nutrite truppe di fans del gruppo, chiarisco subito che il sound per cui la band è famosa non corre pericolo e continua la sua strada nei meandri della musica dark rock, o gotica come è di moda chiamarla nel mondo musicale di oggi, ma in questo lavoro ci scontriamo con la voglia del gruppo finlandese di riscoprire in parte la voglia di rock esibita in passato.
D’altronde, ormai più di vent’anni fa, i The 69 Eyes si fecero strada a colpi di rock’n’roll con due album straordinari come Savage Garden e Wrap Your Troubles in Dreams, poi come d’incanto la trasformazione con quello che per molti fu un disco di transizione, ma che per il sottoscritto rimane il loro capolavoro, Wasting The Dawn che pescava non poco dal sound gotico (questo sì) dei Type 0 Negative, allora signori e padroni del genere.
Il dopo Wasting The Dawn fu un’ascesa di popolarità e la definitiva consacrazione nel mondo del dark rock molto più raffinato, e in qualche modo patinato, con Blessed Be e Paris Kills, ed il gruppo ha mantenuto tali coordinate stilistiche per tutti questi anni, fino a questo nuovo lavoro che tra alti e, fortunatamente pochi, bassi non deluderà gli amanti delle sonorità ormai note al combo vampiresco.
Universal Monsters ha nella bellissima Jerusalem il brano capolavoro, una song inusuale per la band, impostata con trame acustiche ed elettricità tenuta a freno da ritmi ipnotici e con un Jyrki splendido, con la sua voce profonda e tremendamente emozionale.
Dolce Vita apre l’album con quegli impulsi rock di cui si scriveva in precedenza, un’apertura tremendamente efficace, con un refrain che più classico non si può in pieno The 69 Eyes style.
In Shallow Graves si respira aria di cimiteri gotici, con i corvi in lontananza che sorvegliano la sepoltura, mentre subito prima Miss Pastis aveva riconfermato l’atmosfera rock’n’roll che a tratti si respira sull’album.
Rock’n’roll Junkie conclude questo Universal Monsters, un brano che si riempie di umori settantiani alla Stones in versione oscura, bellissimo esempio di come il gruppo sa essere eclettico e vario quando lascia le briglie che lo tiene legato agli stilemi del dark per riesplorare l’universo rock.
Un disco buono di un gruppo che ormai ha finito di sorprendere ma che sa regalare ancora musica piacevolmente intrisa di decadenti melodie e di buone trame di quel rock, che se non racchiude più il seme della ribellione, è costruito su una base di talento sopra la media.

TRACKLIST
01. Dolce Vita
02. Jet Fighter Plane
03. Blackbird Pie
04. Lady Darkness
05. Miss Pastis
06. Shallow Graves
07. Jerusalem
08. Stiv & Johnny
09. Never
10. Blue
11. Rock’N’Roll Junkie

LINE-UP
Jyrki 69 – Vocals
Bazie – Guitar
Timo-Timo – Guitar
Archzie – Bass
Jussi 69 – Drums

THE 69 EYES – Facebook

Lamori – To Die Once Again

To Die Once Again è un potenziale top album, specialmente per chi ama il lato più romantico e melodico del gothic/dark

La Finlandia ha una lunga tradizione per le sonorità ispirate al gothic metal di estrazione dark rock, genere che, negli anni ottanta, ha visto il suo massimo splendore specialmente con il successo delle band britanniche capitanate da Sister Of Mercy, The Mission e Fields Of The Nephilim, ed in parte dal filone tedesco degli anni novanta con in testa i Lacrimosa.

Molti gruppi partiti come death metal band (Sentenced) o ispirati ai suoni rock’n’roll ( The 69 Eyes), si sono, nel corso degli anni, convertiti al lato più oscuro e romantico del rock, rifilando album bellissimi e rimpolpando la scena, così avara di realtà sopra le righe.
Il genere in questi anni è stato messo in ombra dal successo del gothic metal, figlio tanto del dark, quanto delle sonorità più estreme, diventato l’ascolto principale delle anime della notte nei più oscuri locali europei.
Ma, fortunatamente, a volte capita di imbattersi in creature della notte che, a discapito delle mode, guardano con i loro occhi felini alle storiche band citate, lasciando giustamente che gli ultimi vent’anni di musica oscura non siano passati invano.
To Die Once Again, licenziato dalla nostrana Wormholedeath secondo full lenght dei finlandesi Lamori, è uno di questi esempi.
Attiva dal 2009, con un primo ep dal titolo The Reservoirs of Darkness, seguito dall’album Deadly Desires, la band sforna un secondo capitolo che incorpora, da tradizione del gruppo, elementi presi dal sound ottantiano, amalgamandoli con il mood hard rock/metal, caro alle band che più hanno entusiasmato negli anni a cavallo dei due millenni: nelle trame e nelle atmosfere notturne di brani come l’opener Until Death (Do Us Part), Lost In Love, la dolce e tenebrosa titletrack e Palace Of Pleasure, troverete richiami al sound dei vari Him, Poisonblack e compagnia di vampiri.
Nulla a che fare, quindi, con le trame orchestrali dei gruppi capitanati dalle ugole celestiali delle varie muse gotiche: molto più diretti e rock oriented, i Lamori vanno subito al sodo (al collo), tramutando in schiavi di sangue i poveri malcapitati fans.
Melodie dall’appeal molto alto, un sound da far sballare orde di pipistrelli e tanto feeling notturno, non passeranno inosservati, facendo di To Die Once Again un potenziale album top, specialmente per chi ama il lato più romantico e melodico del genere, ed occhio alla giugulare.

TRACKLIST
1. T.D.O.A Prelude
2. Until Death (Do Us Part)
3. Lost in Love
4. Chapter IV
5. To Die Once Again
6. Follow the Ghost
7. Drown Me
8. The Beauty of a Wilted Rose
9. Intermezzo
10. Wicked Little Things
11. Palace of Pleasure
12. T.D.O.A Postlude

LINE-UP
Matias – Vocals
Pellas – Guitar
Mikael – Bass
Jens – Keys
Sanchez – Drums

LAMORI – Facebook