Ninja – Into The Fire

L’album è un buon esempio di heavy metal classico supportato da ritmiche hard rock, cadenzato, potente e sfregiato dalle sei corde, che, come affilate katane, tagliano il sound con rasoiate micidiali.

Il micidiale guerriero giapponese, un’ombra che attacca senza paura alcuna e senza pietà, dà il nome a questa band tedesca, attiva già dagli anni ottanta e riportata all’attenzione dei fans del metal classico dalla conterranea Pure Steel, ultimamente alle prese con molti dei gruppi usciti negli anni di massimo splendore per il genere e poi tornati a sprofondare nel silenzio.

Come molti loro colleghi, anche i Ninja uscirono nella seconda metà degli anni ottanta e diedero alle stampe il primo lavoro, precisamente nel 1988 (Invincible); quattro anni più tardi dopo uscì il secondo, Liberty, mentre l’ultimo parto prima del letargo discografico fu Valley of Wolves nel 1997, poi diciassette lunghi anni nell’oblio, prima che Into The Fire torni a far parlare del gruppo.
L’album è un buon esempio di heavy metal classico supportato da ritmiche hard rock, cadenzato, potente e sfregiato dalle sei corde, che, come affilate katane, tagliano il sound con rasoiate micidiali.
Classico german metal, suonato con classe, ottimamente prodotto, molto old school e non può essere altrimenti, ma con una manciata di songs dall’alto potenziale melodico, come da tradizione del true metal di estrazione classica.
Un disco per chi di primavere ne ha viste passare tante, così come i musicisti che formano la band, con Holger vom Scheidt al microfono, cantante che nelle parti heavy si avvicina al mitico Udo Dirkschneider, Ulrich Siefen e Carsten Sperl alle sei corde, Michael Posthaus al basso e Hans Heringer alle pelli.
Si parlava di hard rock, ed infatti i Ninja non disdegnano brani ritmati che portano nella terra dei canguri e al gruppo dei fratelli Young, con gli Accept a far loro compagnia tra le maggiori influenze dei cinque musicisti tedeschi, così che brani come Blood Of My Blood, Coward e Sledgehammer risultano anche i migliori del lotto.
Non manca la melodia in tracce heavy, dal retrogusto epico e battagliero (Masterpiece) ed altre che si avvicinano alle semiballad, marziali e fieri pezzi di metallo melodico per defenders con già molte battaglie sul groppone (Always Been Hell).
Into The Fire è sicuramente consigliato agli amanti dei suoni classici; la produzione, ottima, fa in modo che l’album risulti al passo con i tempi, valorizzando l’ottimo lavoro dei Ninja.

TRACKLIST
1. Frozen Time
2. Thunder
3. Vagabond Heart
4. Masterpiece
5. Hot Blond Shot
6. Always Been Hell
7. Blood Of My Blood
8. Coward
9. Last Chance
10. Sledgehammer
11. Supernatural
12. Into The Fire

LINE-UP
Hans Heringer – drums
Holger vom Scheidt – vocals
Ulrich Siefen – guitars
Michael Posthaus – bass
Carsten Sperl – guitars

NINJA – Facebook

https://soundcloud.com/puresteelrecords/ninja-thunder

The Phoenix – My Turn To Deal

Rock’n’roll dall’anima sleazy o hard rock di ispirazione losangelina, fate voi, rimane il fatto che queste quattro tracce racchiuse in My Turn Deal, primo lavoro delle The Phoenix, convincono e ci regalano un’altra bomba sexy dall’alto concentrato elettrico.

Rock’n’roll dall’anima sleazy o hard rock di ispirazione losangelina, fate voi, rimane il fatto che queste quattro tracce racchiuse in My Turn Deal, primo lavoro delle The Phoenix, convincono e ci regalano un’altra bomba sexy dall’alto concentrato elettrico.

Il gruppo nasce nel 2001 e dopo una buona gavetta live arriva la firma per l’americana Demon Doll, con i ragazzi dell’Atomic Stuff a garantire la promozione dell’esordio discografico, registrato presso il Pri Studio di Bologna la scorsa estate.
My Turn To Deal conferma la tradizione delle band dell’altro sesso che, quando c’è da suonare il genere, fanno mangiare la polvere ai rudi colleghi maschi, ed infatti i brani che compongono il mini cd sono un concentrato di hard’n’heavy dall’alto tasso melodico, una piccola macchina del tempo che ci riporta ai fasti ottantiani ma, attenzione, il sound prodotto dalle The Phoenix risulta fresco, per niente nostalgico e, soprattutto, con un elevato appeal, così da rendere le varie canzoni tutte possibili hits.
La title track ha nel chorus il pezzo forte e mette subito in evidenza l’ottima voce della singer ed un assolo di chiara matrice heavy; un bel brano , molto accattivante, ma ecco che un pugno in pieno volto ci investe: Dangerous Girl esplode in tutta la sua carica heavy alla Motley Crue, un anthem da urlare al cielo in pieno trip live, pura adrenalina rock’n’roll come si suonava nella Sunset Strip.
Al primo ascolto You Can’t Stop The Rock ‘N’ Roll pare la classica ballatona di genere: niente di più sbagliato, altro colpo mortale, la song esplode in un altro chorus da stadio e noi non ci possiamo assolutamente esimere dal cantare con loro “che non si può fermare il rock’n’roll”.
Arriviamo all’ultima canzone, Party Hard, la più heavy del lotto: il riff risulta più moderno ed in your face, le vocals si fanno sensuali ed aggressive il giusto, le chitarre si incendiano, scudisciate di rock sanguigno che non ammettono repliche e confermano l’attitudine stradaiola del gruppo nostrano.
In soli quattro brani le The Phoenix lanciano il loro ruggito rock’n’roll, sta a voi ora far sì che il richiamo di queste quattro leonesse arrivi a chi del genere si nutre, in attesa di un prossimo passo, magari un full length di questo stesso livello.

TRACKLIST
1. My Turn To Deal
2. Dangerous Girl
3. You Can’t Stop The Rock ‘N’ Roll
4. Party Hard

LINE-UP
Lena McFrison – Lead Guitar, Vocals
Alice Schecter – Rhythm Guitar, Vocals
Luna RocketQueen – Bass, Vocals
Giuli McMousse – Drums

THE PHOENIX – Facebook

Mr.Riot – Same Old Town

Same Old Town è un vero spasso se vi piace il genere e non potete fare a meno di vecchi volponi del rock’n’roll statunitense come Van Halen, Twisted Sisters, Poison, Skid Row e Motley Crue.

Il singolo America, mette subito in chiaro il concept che sta dietro a questi cinque ragazzi di Novara: suonare rock’n’roll come lo si faceva nella Sunset Strip negli anni ottanta e credeteci, lo fanno pure molto bene.

La band si chiama Mr.Riot ed è in giro a far danni da soli due annetti, la label greca Sleazsy Rider non se li è fatti sfuggire e Same Old Town arriva a noi come primo parto di questa creatura di hard rock a stelle strisce, che guarda al passato, anche se la sua musica giunge a noi come un prodotto fresco e molto ben fatto.
Chiaro che il genere (un hard rock, ricco di spunti sleaze e street) è quello e le influenze sono chiare, richiamando a più riprese i mostri sacri dell’America sex, drugs and rock’n’roll, ma l’album dei nostri suona alla grande, i brani funzionano ed il tutto risulta un concentrato di pura adrenalina riversato sui rockers con qualche lustrino di troppo.
Si viaggia su ritmi altissimi, inframmezzati da piccole gemme in formato ballad, d’altronde la vita da rocker è molto dura, ed ogni tanto bisogna ricaricare le pile, ma questo non inficia l’energia che sprigionano i brani contenuti nell’esordio della band piemontese, che parte alla grande (dopo un’intro recitato da una Riot girl’s) con il riff dell’energica Scream And Shout, sulle tracce dei Van Halen del pluridecorato 1984, prima di rivolgersi in toto ai grandi Twisted Sisters.
Rock’n’roll è la song che Dee Snider potrebbe invidiare alla band, cantata come se non ci fosse un domani dal convincente vocalist Stevie Lee, mentre Mr.Riot si arma di un micidiale hard’n’heavy e spara melodia come un cannone da una nave da guerra.
Illusion è la classica ballad di ordinanza, prima che l’arena rock di America risulti un sontuoso esempio di rock arioso e melodicissimo, puro e sognante brano ottantiano, mentre si torna alla ruvidità street rock ed ai Van Halen con Sexy Photograph.
L’album continua il suo viaggio, tra brani energici e splendide aperture melodiche, mentre la ballad acustica Spread Our Love spezza il ritmo prima di lasciare alla title track la chiusura del disco con un’altra bordata di grintoso e ruvido rock’n’roll.
Detto che i musicisti ci sanno fare, con la coppia d’asce che fa scintille (Mr.LadiesMan e Angeless), Same Old Town è un vero spasso se vi piace il genere e non potete fare a meno di vecchi volponi del rock’n’roll statunitense come, Van Halen, Twisted Sisters, Poison, Skid Row e i sempre presenti (quando si parla di queste sonorità) Motley Crue.

TRACKLIST
01 – Wake up!
02 – Scream and shout
03 – Rock ‘n’ roll
04 – Mr. Riot
05 – Illusion
06 – America
07 – Sexy photograph
08 – Close your eyes
09 – Wild raw
10 – Spread our love
11 – Same old town

LINE-UP
Stevie Lee – Voice, Keytar
Mr.LadiesMan – Guitars
Angeless – Guitar
Tommy Beefy – Bass Guitar
Denny Riot – Drums, Backing Vocals

MR.RIOT – Facebook

Ivory – A Moment, A Place, A Reason

A Moment, A Place, A Reason è un grande disco di hard rock, da ascoltare, assaporare e consigliare

Gran bel disco hard heavy con puntate aor per questo combo di veterani di Torino.

Attivi dalla fine degli anni novanta ma in maniera organica dal 2005, gli Ivory propongono un suono molto debitore del passato ma proiettato nel futuro, forte del fatto che i fans di queste sonorità sono tenacissimi. Ci sono molte cose in questo cd, pubblicato da Buil2 Kill Records, ma soprattutto c’è una grande voglia di fare hard rock, un’ottima produzione e tanta tanta melodia resa sempre in maniera impeccabile. Il sentimento contenuto in questo disco è difficilmente ravvisabile nelle migliaia di uscite hard rock, poiché gli Ivory fanno tutto molto bene, e sarebbe un gran peccato se questo disco passasse inosservato. Il gruppo torinese non fa solo sfoggi odi una grande tecnica, ma sono anche fini compositori e le canzoni hanno un’ossatura importante. A Moment, A Place, A Reason è un grande disco di hard rock, da ascoltare, assaporare e consigliare.

TRACKLIST
01. Bad News
02. The Hawk
03. Feeling Alive
04. Who Am I
05. Take A Ride
06. A Drink At The Village (Instrumental)
07. Come Together (The Beatles Cover)
08. Inner Breath
09. Through Gloria’s Eye
10. Blues For Fools

LINE-UP
Roby Bruccoleri – Vocals.
Salvo Vecchio – Guitars.
Luca Bernazzi – Bass.
Claudio Rostagno – Drums.

IVORY – Facebook

Anvil – Anvil Is Anvil

Volete ancora raffinatezze e originalità? Rivolgetevi altrove, qui si fa del metal ignorante e tremendamente fiero.

Quando si parla di Anvil si parla di storia, su questo non ci sono dubbi, infatti il gruppo capitanato da quel simpaticone di Lips, che lo vogliate o no, è uno delle maggiori fonti di ispirazione per molte band diventate molto più famosi del combo canadese, una su tutte i Metallica.

Rispettati ed amati dai loro colleghi della scena metal, specialmente quella statunitense, gli Anvil hanno scritto nei primissimi anni ottanta due dischi entrati a far parte della storia dell’hard & heavy: il clamoroso Metal On Metal (1982), praticamente il vangelo metallico secondo Lips, opera che ha influenzato mezzo secolo di artisti del genere, e Forged In Fire, album che veniva pubblicato un anno dopo il suo illustre predecessore, risultando ancora una volta un macigno di hard & heavy, ruvido, senza compromessi ed altamente adrenalinico.
Il gruppo ha continuato imperterrito a produrre dischi in tutti questi anni, senza neanche sfiorare quella popolarità che ha toccato molti dei loro colleghi, più volte dichiaranti del loro amore verso la band, ma a Lips la cosa non ha mai pesato più di tanto, tanto è vero che nel 2009 usciva The Story Of Anvil, documentario sulla storia del gruppo che non poteva a fare a meno di prendere con ironia la poca popolarità acquisita in tanti anni di onorata carriera nel mondo del rock.
Nuovo millennio e ancora una buona manciata di album, tutti con la firma Anvil, così come mister Steve “Lips” Kudlow vuole, con una coerenza a tratti commovente, anche se molti hanno sempre rimproverato al gruppo di produrre album perfettamente uguali da almeno trent’anni.
Prendere o lasciare, giusto così, e anche questo Anvil Is Anvil non si discosta dalle precedenti uscite, contraddistinte da riff duri come la roccia, monolitiche songs dai ritmi cadenzati e dalla potenza di un carro armato, altri più veloci ed in stile motorhediano, ma con uno spirito per nulla scalfito dai decenni che inesorabilmente passano, per loro, ed anche per chi nei primi anni ottanta comprava il vinile di Forged In Fire con la paghetta settimanale.
L’album mantiene le coordinate espresse da sempre e sinceramente chi vorrebbe qualcosa di diverso che non siano brani potenti e sfacciatamente live come l’opener, Daggers And Rum, Up Down Sideways, la mitragliante Die For A Lie e via via tutte le songs che compongono questo sedicesimo inno all’hard & heavy senza compromessi?
Lips ruggisce con il suo tono sporco, la sei corde ci inonda di riff che ci ricordano chi ci ha fatto innamorare della nostra musica preferita, mentre Robb Reiner e Chris Robertson formano il solito muro ritmico dove si sale ma non si riesce più a scendere.
2016, gli Anvil sono ancora qui con il loro sound monolitico e senza fronzoli: volete ancora raffinatezze e originalità? Rivolgetevi altrove, qui si fa del metal ignorante e tremendamente fiero.

TRACKLIST
1. Daggers and Rum
2. Up, Down, Sideway
3. Gun Control
4. Die for a Lie
5. Runaway Train
6. Zombie Apocalypse
7. It’s Your Move
8. Ambushed
9. Fire on the Highway
10. Run Like Hell
11. Forgive Don’t Forget
12. Never Going to Stop

LINE-UP
Robb Reiner – Drums
Chris Robertson – Bass
Steve “Lips” Kudlow – Guitars, Vocals

ANVIL – Facebook

Magnum – Sacred Blood “Divine” Lies

Per i fans del rock d’autore, raffinato, melodico ed elegante, questo nuovo album dei Magnum è l’espressione più alta che l’hard rock melodico possa offrire, acquisto obbligato.

Scrivere di un nuovo album dei Magnum è come entrare in un mondo fatato, da sempre infatti il gruppo britannico ha sempre affrontato il rock come farebbe un moderno cantastorie, regalando avventure fantastiche, tutte da vivere all’ascolto dei vari lavori che, dall’uscita di Kingdom Of Madness nel lontano 1978, ha fatto sognare centinaia di appassionati, dai rockers innamorati dell’AOR, ai progsters che flirtano più con l’emozionalità che con la tecnica, fino a raggiungere i metallers dai gusti musicali raffinati.

E’ un fatto che il gruppo di Birmingham ha scritto pagine epocali dell’hard rock con capolavori (On a Storyteller’s Night e Wings of Heaven su tutti) che hanno contribuito a fare del gruppo una realtà intoccabile della scena, anche se in termini commerciali il successo non è mai andato pari passo con la qualità della musica proposta, ma la band è sempre qui, ad elargire stupende armonie prog/folk/pomp su di un tappeto di regale hard rock.
La Steamhammer/SPV ha fatto le cose in grande per il ritorno dopo due anni dal precedente Escape from the Shadow Garden, ed il nuovo lavoro del gruppo del divino Bob Catley e dell’arcigno axeman Tony Clarkin, esce in tre diverse releases : CD+DVD, CD e vinile colorato, cose d’altri tempi, abituati ormai agli store sul web, o, al massimo il solo formato su dischetto ottico.
Come ormai abituati da più di trent’anni di uscite targate Magnum, il sound di questa nuova opera riesce a mettere d’accordo un po tutti, conquistando con meravigliose armonie dalle riminiscenze folk, tante melodie AOR e un’impronta progressiva, non facendo mancare una buona dose di grinta, specialmente nella ruvida chitarra di Clarkin che parte aggressiva e grintosa sula title track posta in apertura.
Crazy Old Mothers torna a far risplendere i tasti d’avorio, eleganti e pomposi di Mark Stanway e si entra nella nuova fiaba, scritta da questi menestrelli dell’hard rock, che tanto hanno influenzato gruppi fantastici come Ten o Ayreon, che alla band di Catley dovrebbero ereggere un monumento.
Gipsy Queen torna a rockare, la sei corde di Clarkin sforna un riff esplosivo su cui il gruppo costruisce una marcia rock dedicata alla regina degli zingari, mentre Princess In Rags (The Cult) è un pomp rock dal piglio drammatico, molto Ten oriented.
Sacred Blood “Divine” Lies continua la sua marcia verso il finale con altre perle di rock raffinato, elegantemente incorniciato dai sontuosi ricami di cui il gruppo è maestro, con picchi qualitativi come L’emozionale e orchestrale Afraid Of The Night e la superba Twelve Men Wise and Just, song che se ce ne fosse ancora bisogno, riassume l’eleganza e la straordinaria padronanza del songwriting di questi grandi musicisti britannici.
Arriviamo alla conclusione dell’album con la consapevolezza di aver ascoltato un’altra storia, un’altra splendida opera, da parte di un gruppo che non ne vuol sapere di lasciare la testa della classifica del genere, e ha ragione, vista la qualità della musica che sa ancora donare a chi li segue imperterriti dopo così tanti anni.
Per i fans del rock d’autore, raffinato, melodico ed elegante, questo nuovo album dei Magnum è l’espressione più alta che l’hard rock melodico possa offrire, acquisto obbligato.

TRACKLIST
01. Sacred Blood “Divine” Lies
02. Crazy Old Mothers
03. Gypsy Queen
04. Princess in Rags (The Cult)
05. Your Dreams Won’t Die
06. Afraid of the Night
07. A Forgotten Conversation
08. Quiet Rhapsody
09. Twelve Men Wise and Just
10. Don’t Cry Baby

LINE-UP
Tony Clarkin – guitars
Bob Catley – vocals
Mark Stanway – keyboards
Al Barrow – bass
Harry James – drums

MAGNUM – Facebook

Hangarvain – Freaks

Freaks conferma ancora una volta il talento compositivo di questi musicisti, superando il già bellissimo esordio con un lavoro più duro, maturo, intimista, come se l’entusiasmo dell’esordio avesse lasciato il passo alla consapevolezza di essere una grande band

Un giorno, qualche anno fa, un gruppo di ragazzi napoletani con la voglia di essere liberi e suonare hard rock, caricarono la loro cinquecento e partirono dai piedi del Vesuvio alla conquista dello stivale; tanta passione accompagnata da un talento smisurato per il rock americano, li portò sulle strade che al loro passaggio, mentre l’autoradio suonava i brani di Best Ride Horse (il loro debutto), come d’incanto si trasformavano nelle polverose e lunghissime highway di quell’America da vivere fino all’ultimo respiro.

Un anno dopo serviva riprendere fiato e, a Natale 2014 le armonie acustiche dell’ep Naked vedevano gli Hangarvain finalmente riposare, fare un sunto del viaggio che li aveva visti bruciare chilometri e chilometri d’asfalto, mentre i loro strumenti si accendevano su molti dei palchi in giro per le città della penisola, portando un po’ di quell’America, tra hard rock, southern e rock style a chi li voleva ascoltare.
Quasi tre anni sono passati e la band ha sudato, sognato e fatto divertire tanti ragazzi, nel suo lungo viaggiare tra strade impervie e mille difficoltà, ma è ora di tornare verso casa, affrontando un viaggio di ritorno che porta al traguardo di un nuovo lavoro.
E Freaks conferma ancora una volta il talento compositivo di questi musicisti, capitanati dal vocalist Sergio Toledo Mosca e dal chitarrista Alessandro Liccardo, superando il già bellissimo esordio con un lavoro più duro, maturo, intimista, come se l’entusiasmo dell’esordio avesse lasciato il passo alla consapevolezza di essere una grande band, il che si trasforma in molta più personalità e convinzione.
Ora la loro musica non è più solo una stupenda rilettura di un modo di fare rock’n’roll, il viaggio intrapreso li ha fatti tornare maturi e appunto consapevoli, così da imprimere al loro sound il proprio marchio di fabbrica.
Freaks, i diversi, quante volte negli ultimi tempi abbiamo sentito e letto su media e giornali questa parola riguardo allo squallore in cui è piovuta la nostra società, riguardo a problemi che, noi per primi sottovalutiamo, non concedendo chance a chi non è fortunato, che sia un uomo arrivato da un altro paese o di tendenze sessuali sulle quali continuiamo a costruire tabù, imprigionati in un assurdo medioevo spazio temporale.
Ecco questo disco è dedicato a chi non si arrende, a chi vivrà sempre contro, a chi non si piega e vive per il suo sogno, lottando per i propri ideali o molto più prosaicamente, per il prprio lavoro, cercando di non farsi sopraffare da una società che non accetta debolezze.
Il punto di partenza per questa nuova raccolta di songs non poteva essere più azzeccato e la band, ancora senza un’etichetta, ha fondato la propria fregandosene di un music biz sordo come non mai: lottando, ha portato a termine questo stupendo concentrato di hard rock made in U.S.A., amalgamando alla perfezione, sound sudista, post grunge e hard rock classico, questa volta velato di un’oscurità quasi tragica, introspettiva, e portando la propria musica ad un livello emotivo ancora superiore.
Freaks emoziona, aldilà dei fantastici riff scaldati dal sole del sud creati dall’axeman Liccardo, della straordinaria voce di un Toledo Mosca cresciuto tantissimo in personalità, o della sezione ritmica che sanguina groove di Francesco Sacco al basso e Mirkko De Maio alle pelli; emoziona e scava dentro di noi, tra canzoni che sprigionano hard rock moderno (Keep Falling, la title track e Sliding To Hell, per un inizio da infarto), ballad d’autore che tolgono il respiro, energiche come Dancing On A Wispher o meravigliosamente poetiche come Like Any Other, song d’autore che avvicina il gruppo ai Pearl Jam, salti nel puro southern rock con la magnifica A Life For Rock’n’Roll o hard blues sanguigni come A Coke Shot e Stuck In Arizona.
Ten Years Waiting è il commiato: orgogliosamente sudista, trasuda tutta la malinconia di cui è rivestito gran parte di questo capolavoro e ci dà appuntamento sulla piazza, una mattina di primavera, per ripartire verso altri luoghi dove raccontare di diversità, di libertà, di battaglie da vincere e sogni da conquistare, insieme a questa fantastica band chiamata Hangarvain.

TRACKLIST
1.Keep falling
2. Freaks
3. Sliding to hell
4. Dancing on a whisper
5. Devil of the South
6. Like any other
7. A coke shot
8. A life for rock’n’roll
9. Stuck in Arizona
10. Ten years waiting

LINE-UP
Sergio Toledo Mosca – Lead Vocals
Alessandro Liccardo – Guitars, Backing Vocals
Francesco Sacco – Bass
Mirkko De Maio – Drums

HANGARVAIN – Facebook

Nasty Ratz – First Bite

I Nasty Ratz trasformano le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli.

Dalla Los Angeles degli anni ottanta alla Praga del 2015 il passo sembra più lungo di quanto si possa credere.
D’altronde perché non trasformare le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli?

Ci riescono alla grande i Nasty Ratz, giovane gruppo ceco, con questo buon lavoro, che dello street, hard rock, glam ne ha fatto la sua missione, quella di riportare gli sgargianti colori del metal americano dei splendidi anni ottanta non solo nel nuovo millennio, ma nell’Europa dell’est.
Con alle spalle un ep e tanti concerti in giro per il vecchio continente, in compagnia, tra gli altri, di Adam Bomb e Crazy Lizz, la band debutta sulla lunga distanza con First Bite, classico esempio di cosa si suonava negli anni in cui pantaloni di pelle, bandane, mascara e belle figliole erano il pane dei rockers di mezzo mondo che, come mecca, guardavano agli eccessi della Los Angeles delle promesse, molte volte disilluse di fama e successo.
Rock’n’roll travestito da metalliche iniezioni di street e hard rock, attitudine glam e tanta voglia di divertirsi e abbordare, erano la ricetta per l’ottimo pranzo dei gruppi storici, di cui i Nasty Ratz se ne fanno una scorpacciata, tra brani grintosi e super ballatone strappa lacrimuccia, suonate più per far colpo sulla biondona prosperosa che vero momento di nostalgico malessere esistenziale o amoroso.
Il gruppo è formato dall’ottimo singer Jake Widow, anche chitarra ritmica, mentre la solista, tutta fuoco e fiamme, è di Stevie Gunn con la sezione ritmica composta da Tommy Christen al basso e Rikki Wild alle pelli.
Non troppo lungo ma assolutamente compatto e divertente, First Bite, nel genere, è un buon esordio: certo siamo perfettamente in linea con le produzioni dei vari monumenti al rock stradiolo come Motley Crue, Poison, Ratt e compagnia di delinquenti dagli occhi truccati e la rissa facile, ma se siete ancora in botta per le reunion dei Crue o aspettate come il messia quella dei Gunners, brani che schiumano rock’n’roll come Love At First Fight, Made Of Steel e Snort Me vi faranno tornare sulla via losangelina e chiudendo gli occhi vi ritroverete in fila davanti al Whisky A Go Go, ad aspettare il vostro turno, sperando che questa volta sia quella buona per entrare.
Nostalgico? No, solo molto divertente e suonato sufficientemente bene per risultare un buon ascolto. Stay rock!

TRACKLIST
1. Love At First Fight
2. Made Of Steel
3. I Don’t Wanna Care
4. Morning Dreams Come True
5. Snort Me
6. Angel In Me
7. N.A.S.T.Y.
8. I’ll Cut You Off
9. Sharize
10. If You Really Love Me

LINE-UP
Jake Widow – rhytm guitar, vocals
Stevie Gunn – lead guitar, vocals
Tommy Christen – Bass guitar, vocals
Rikki Wild – drums, vocals

NASTY RATZ – Facebook

Foundry – Foundry

Foundry supera abbondantemente la sufficienza; come detto la bravura dei musicisti, sommata alla loro indiscussa esperienza, tiene sempre alta la tensione così che l’album, complice la durata che supera di poco la mezz’ora, non abbia grossi cedimenti

La Sleaszy Records, etichetta ellenica che annovera ottime band nel suo rooster, specialmente per quanto riguarda i suoni hard rock, fa il botto con i Foundry, gruppo proveniente da Las Vegas che licenzia il suo debutto omonimo, supportato da un dispiegamento di forze niente male.

Al microfono troviamo infatti Kelly Keeling, di recente sul mercato con un album solista, ex singer dei Baton Rouge e coinvolto in molti progetti gravitanti nel pianeta del rock duro in compagnia di MSG, John Norum, King Kobra, Heaven And Earth, George Lynch, Alice Cooper, Blue Murder, Dokken, Trans-Siberian Orchestra e molti altri, insomma il gotha della nostra musica preferita.
Ad accompagnare prezzemolino Keeling, una band di tutto rispetto, con la sei corde di James Fucci a sparare riff duri come l’acciaio, le pelli del drummer Marc Brattin a formare una sezione ritmica dal groove micidiale insieme al basso di Jason Ebs, che ha suonato nel disco, ma non risulta nella formazione ufficiale.
Detto di Erik Norlander, Scott Griffin e Stoney Curtis come special guests, il vero fiore all’occhiello di Foundry è rappresentato dal guru Steve Thompson al mixer ed alla produzione dell’album, un signore che ha messo a disposizione il suo talento per bands come Guns’n’Roses, Metallica, KISS e Soundgarden.
Con queste premesse ammetto che la curiosità era tanta, ed in parte l’album non delude, l’hard rock made in U.S.A, dalle chiare influenze street, valorizzato dalla voce ruvida del singer, che non disdegna una clamorosa impronta blues, riesce nell’intento di procurare brividi, specialmente a chi ama il rock americano, potenziato da ritmiche che imbottiscono di groove il sound del gruppo.
Il gruppo varia le atmosfere dell’album e si passa cosi da brani dal piglio tradizionale, ad altri molto più moderni, in un’alternanza tra i suoni hard rock classici e molti che sconfinano nel rock anni novanta, vicino all’alternative, in poche parole troppe songs si avvicinano al sound degli Alice In Chains (Rolling Stoned, Calling Allah) perdendo non poco in personalità.
Poco male, i brani risultano ottimi e suonati alla grande, ma è indubbio che da un gruppo di musicisti di tale esperienza, ci si aspettava qualcosa in più che una raccolta di tracce suonate con mestiere.
A mio parere Foundry offre il meglio di se nelle songs che pur conservando un piglio moderno, mantengono i piedi ben saldi nell’hard rock classico (Hell Raiser e Get Over It) e dove il singer estrae dal cilindro quel timbro bluesy che ancor oggi procura pelle d’oca a profusione.
Foundry supera abbondantemente la sufficienza; come detto la bravura dei musicisti, sommata alla loro indiscussa esperienza, tiene sempre alta la tensione così che l’album, complice la durata che supera di poco la mezz’ora, non abbia grossi cedimenti, ma rimane solo un po’ di amaro in bocca per qualche traccia troppo derivativa.

TRACKLIST
1. Blinded
2. Mind Radio
3. Get Over It
4. Rolling Stoned
5. Calling Allah
6. Hell Raiser
7. Shake
8. False Alarm
9. Television
10. Vegas Baby!
11. Vegas Baby! (bonus video, exclusive only on the Sleaszy Rider’s edition!)

LINE-UP

CURRENT LINE-UP
Kelly Keeling – vocals
Marc Brattin – drums
James Fucci – guitar

RECORDING LINE-UP
Kelly Keeling – vocals
Marc Brattin – drums
James Fucci – guitar
Jason Ebs – bass

FOUNDRY – Facebook

Elevators To The Grateful Sky – Cape Yawn

Gli Elevators To The Grateful Sky si confermano come una magnifica realtà fuori dagli schemi prefissati del rock attuale, con un altro capolavoro che li eleva a gruppo di culto.

Elevators To The Grateful Sky, Sergeant Hamster, Haemophagus, Undead Creep, per molti saranno nomi poco conosciuti, ma per chi segue l’underground e le ‘zine di riferimento come la nostra, sono tasselli musicali che formano un mondo metal/rock, nella regione più a sud della nostra penisola, la Sicilia.

In quel di Palermo vivono e si riproducono questi virus di musica del diavolo, che hanno nel loro dna molti dei generi di cui il nostro mondo è composto, dal più estremo death metal, allo stoner, dal doom all’hard rock settantiano, tutti suonati in modo originale, per niente scontato, miscelandoli a dovere con garage, psichedelia, progressive e tanto rock’n’roll.
Cloud Eye, primo lavoro dei fenomenali Elevators To The Grateful Sky, licenziato nel 2013 e finito inesorabilmente nella mia play list di quell’anno, seguiva il primo ep omonimo e vedeva la band di Sandro Di Girolamo (ex Undead Creep) alle prese con un capolavoro di musica desertica, psichedelica, matura, probabilmente favorita da un caldo territorio che richiama le aride distese che si trovano sul suolo americano e che hanno influenzato quarant’anni di rock.
Al fianco di Di Girolamo troviamo sempre Giuseppe Ferrara alla sei corde, Giulio Scavuzzo alle pelli e Giorgio Trombino, chitarra e basso, per il secondo viaggio nel mondo di questa musica senza barriere, ancora una volta persi in un universo sonoro, colorato come un arcobaleno di generi uniti tra loro e che vivono in perfetta simbiosi nello spartito del gruppo siciliano.
Cape Yawn perde leggermente le sfumature grunge per avvicinarsi molto al garage, specialmente nei primi brani, Ground e Bullet Words, che partono sgommando e l’elettricità è subito altissima, le ritmiche rock’n’roll della prima lasciano il posto a quelle stonerizzate della seconda, pregne di riff estrapolati dal decennio settantiano, mentre garage rock e stoner compongono la inyourface All About Chemistry, in un’improbabile ma affascinante jam fra Miracle Workers e Fu Manchu.
Scaldata l’atmosfera, il gruppo da Dreams Come Through in poi dà letteralmente spettacolo, la sabbia calda brucia i piedi, la bocca si inaridisce e veniamo scaraventati in pieno deserto: A Mal Tiempo Buena Cara accompagnata da un riff sabbatiano, ci inonda di doom psichedelico, Di Girolamo canta come un Morrison intrippato per i Kyuss ed il disco prende il volo per non scendere più dal livello di capolavoro.
Kaiser Quartz e la monolitica I, Wheel, su un altro album sarebbero top songs, ma nel mondo Elevators, queste due perle di doom/stoner, vengono solo prima della title track, il brano perfetto, liquido, ipnotico, tremendamente sensuale, come un serpente sinuoso che disegna il suo corpo sulla sabbia, entra in noi e ci avvelena di psichedelia, con un intervento di sax nel finale che è un colpo di grazia alle nostre menti perse in questo arcobaleno.
Laura è uno strumentale dedicato a Mark Sandman, frontman dei Morphine, altro nome importantissimo per lo sviluppo di Cape Yawn, mentre l’hard rock di Mountain Ship e Unwind , sorta di outro liquida, chiudono questo ennesimo capolavoro del gruppo siciliano.
L’album è stato stampato solo in vinile ed è accompagnato dalla splendida copertina disegnata da Di Girolamo, che si dimostra artista a 360° come la sua splendida musica, mentre gli Elevators To The Grateful Sky si confermano come una magnifica realtà fuori dagli schemi prefissati del rock attuale, con un altro capolavoro che li eleva a gruppo di culto.

TRACKLIST
1. Ground
2. Bullet Words
3. All About Chemistry
4. Dreams Come Through
5. A Mal Tiempo Buena Cara
6. Kaiser Quartz
7. I, Wheel
8. Mongerbino
9. Cape Yawn
10. We’re Nothing at All
11. Laura (one for Mark Sandman)
12. Mountain Ship
13. Unwind

LINE-UP
Sandro Di Girolamo – voce, percussioni
Giorgio Trombino – chitarra, basso, sax contralto, conga, tastiere, voce
Giuseppe Ferrara – chitarra
Giulio Scavuzzo – batteria, darbouka, tamburello, percussioni, voce

ELEVATORS TO THE GRATEFUL SKY – Facebook

Seventh Veil – Vox Animae

Complice una produzione da top album, il suono esce pieno ed avvolge e stritola in una cascata di hard rock, come deve essere suonato nell’anno di grazia 2016.

Ormai è un fatto, l’Italia in questi ultimi anni sta letteralmente scalando, a livello qualitativo, le posizioni nella classifica delle nazioni dove l’underground metal/rock produce realtà notevoli, ormai giocandosela alla pari con i più produttivi paesi del nord europa.

Vero che qui da noi continua a mancare una cultura per il rock, che in altre nazioni è consolidata da anni ma, mentre i media continuano ad ignorare e far spallucce a questa invasione, il nostro sottobosco musicale si arricchisce di ottime band e grandi lavori in tutti i generi e sottogeneri che vanno a comporre l’universo della nostra musica preferita.
Nell’hard rock, genere che solo pochi anni sembrava essere scomparso e che ha trovato nuova linfa con il successo delle band scandinave da una parte, ed il ritorno sulle scene di molti nomi storici dello street rock ottantiano dalla’altra, i gruppi nati su e giù per lo stivale protagonisti di ottimi album non si contano più e i veronesi Seventh Veil si aggiungono alla lunga lista con questo secondo lavoro sulla lunga distanza dal titolo Vox Animae.
Il debutto del 2012 Nasty Skin ed il primo full length White Thrash Attitude del 2013, indicavano il gruppo veneto come una buona street rock band, influenzata dai suoni della Los Angeles del Sunset Boulevard e dagli eroi di degli anni d’oro del rock’n roll ipervitaminizzato e trasgressivo, colonna sonora di una vita al limite con sex, drugs and rock’n’roll come parola d’ordine.
Vox Animae sposta di non poco le coordinate stilistiche della band, sempre hard rock dalle sfumature stradaiole, ma molto più moderno, cancellando definitivamente quella patina nostalgica che i detrattori del genere sottolineano a più riprese quando si parla di street rock.
Niente paura, i Seventh Veil continuano a suonare hard rock, ma nel loro sound entra prepotentemente un mood moderno e se vogliamo alternativo, che rende i brani di questo Vox Animae freschi, al passo coi tempi e dall’appeal molto elevato.
Diciamolo, un brano come Devil in Your Soul, suonato da un gruppo nato aldilà dell’oceano sarebbe in rotazione su Rock Tv ogni quarto d’ora, così ben bilanciato tra tradizione e modernità, colmo di groove e con un refrain che entra in testa spaccandola in due.
Complice una produzione da top album (Oscar Burato ed i suoi Atomic Stuff studio, qui aiutato da Andrea Moserle , sono una garanzia di qualità), il suono esce  pieno ed avvolge e stritola in una cascata di hard rock come deve essere suonato nell’anno di grazia 2016.
L’inizio di Living Dead richiama Sixx A.M e Beautiful Creatures, le ritmiche di Together Again portano ad una via di mezzo tra lo street rock e l’alternative metal, mentre il bravissimo singer Lorenzo “Steven” Bertasi si avvicina terribilmente al Corey Taylor versione Stone Sour, mentre saltano le membrane degli altoparlanti sotto il bombardamento ritmico di una modernissima Broken Promises.
Si viaggia su queste coordinate per tutto l’album, la qualità rimane alta, a tratti i toni si fanno delicati con la super ballatona Dad, bissata da Nothing Lasts Forever, mentre SMS chiude l’album con suoni più vicini all’hard rock classico.
In definitiva un album molto accattivante, professionalmente ineccepibile in tutte le sue parti, orgogliosamente italiano pur avendo tutti i crismi di una produzione top made in U.S.A.

TRACKLIST
1. Vox Animae/rEvolution
2. Devil in Your Soul
3. Living Dead
4. Together Again
5. Broken Promises
6. Song For M
7. Dad
8. Noway Train
9. Begging for Mercy
10. No Pain No Gain
11. Nothing Lasts Forever
12. Sms

LINE-UP
Filippo “Jack” Zardini – lead guitars
Lorenzo “Steven” Bertasi – vocals
Davide “Pio” Viglio – drums
Marco “Jeff Lee” Sangrigoli – bass

SEVENTH VEIL – Facebook

Sarasin – Sarasin

Non mancano buone intuizioni, che portano la band ancora più indietro nel tempo, fino ai tardi seventies, così che, questo album omonimo risulta vario, tra rudezza heavy rock, arpeggi e sfumature tradizionali.

A volte ritornano.

Prendo in prestito il titolo di un famoso romanzo di Stephen King, per presentare il debutto sulla lunga distanza dei Sarasin, band canadese che torna, tramite Pure Steel, dopo aver licenziato il primo lavoro (l’ep Lay Down Your Guns) quasi trentanni fa.
Era infatti il 1987, poi un lungo silenzio, anche se la band è sempre risultata attiva, ed ora il ritorno con una line up rinnovata di 4/5 e capitanata dall’unico superstite della formazione originale, il chitarrista Greg Boileau.
Heavy metal e hard rock, una buona vena epica che sce dai solchi dei brani, un ottimo vocalist, ed un discreto songwriting è quello che presenta il gruppo di Hamilton, vagando tra gli anni ottanta, tra Dio, e Ozzy Osbourne, scaricando riff heavy a profusione ed un’attitudine che potrebbe far breccia nei cuori dei riockers più attempati.
Non mancano buone intuizioni, che portano la band ancora più indietro nel tempo, fino ai tardi seventies, così che, questo album omonimo risulta vario, tra rudezza heavy rock, arpeggi e sfumature tradizionali.
The Hammer apre le danze sparando un refrain colmo di groove, un classic rock da rocker motorizzati, Michael Wilson entra nella struttura della song con un piglio osbourniano, come inizio non c’è male, presentandoci una band vogliosa di impadronirsi di tutto il tempo andato perso.
Enemy Within e In Our Image accentuano le atmosfere U.S metal, indubbiamente presenti nel sound del gruppo, mentre Now è un hard rock song melodica su cui i Sarasin ricamano un riff dal tono drammatico.
Soul In Vain e Sinkhole sono potenti hard rock song cadenzate, dove il singer dimostra di essere attrezzato quanto basta per un’interpretazione suggestiva; Live To See The Glory, ritorna al rock settantiano, enfatizzata da un riff dall’ottimo appeal, per rallentare seguendo strade progressive, mentre giungiamo al termine con l’heavy rock di Forevermore e la liturgica Wake Up, una danza di rock dall’elevato mood settantiano, perfetta chiusura dell’album.
Detto del buon lavoro delle sei corde e di una sezione ritmica che non sfigura, con una prestazione che segue le varie anime del disco con tecnica e gusto, non mi rimane che consigliare l’ascolto ai rockers di provata esperienza, l’album merita, composto da buone songs, ma dubito che farà proseliti nei metallari più giovani, anche se il senso di operazione nostalgia è da trovare altrove, non certo in Sarasin.

TRACKLIST
1. The Hammer
2. Enemy Within
3. In Our Image
4. Now
5. Soul in Vain
6. Sinkhole 7.
Live to See the Glory
8. Forevermore
9. Wake Up

LINE-UP
Les Wheeler – Bass
Roger Banks – Drums
Jim Leach – Guitars
Greg Boileau – Guitars
Mike Wilson – Vocals

SARASIN – Facebook

Heart Attack – Heart Revolution

L’album piace al primo giro e sono convinto che gli Heart Attack si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea: farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, nemmeno a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati.

Dalla scena ellenica alla conquista del continente, per conquistare i cuori degli amanti del rock melodico e dalle atmosfere AOR.

Heart Revolution è il debutto degli Heart Attack, melodic rockers dal sound che guarda tanto alla scena americana degli anni ottanta quanto a quella del vecchio continente, non dimenticando la scuola neoclassica di matrice nord europea.
Fondata da due musicisti di provata esperienza della scena melodica del loro paese, come come George Drimilis (ex Raging Storm) e Nikos Michalakakos (Spitfire), la band conquista con questo confetto di dolcissimo hard rock, dalle ritmiche pulsanti e dai refrain catchy, dove non mancano riff grintosi, chorus da arena rock e tastiere che riempiono il suono di melodie ariose e dall’ottimo appeal.
Prodotto da Bob Katsionis (Firewind, Outloud), mixato e masterizzati nientemeno che da Tommy Hansen (Pretty Maids, Helloween, Rage) ai Jailhouse Studios in Danimarca, Heart Revolution (tralasciando la copertina invero bruttina e che non rende giustizia alla musica del gruppo) è un bell’esempio di hard rock melodico, dal songwriting ispirato, cantato alla grande da un Drimilis che fa strage di cuori metallici, aiutato nei cori dalla tastierista Lila Moka, brava con il suo strumento, ed energizzato da ottimi solos dell’axeman Stefanos Georgitsopoulos, elegante e raffinato, nonché grintoso il giusto quando la musica del gruppo si elettrizza per donare attimi dal piglio dinamico e coinvolgente.
Il disco può certamente essere diviso in due parti, la prima vede il gruppo cimentarsi in song dal taglio più melodico ed Aor, che arrivano al cuore dell’ascoltatore e lo ammalia con ariosi refrain e delicati ed eleganti chorus ( Falling Apart, Stalker, le strepitose Chine Blue e Tell Me), mentre nella seconda parte l’hard rock prende il sopravvento, la sei corde spara le sue cartucce e ne escono brani dal piglio più aggressivo come in Heart Attack e nell’inno Hellenic Forces, bonus track che vede la partecipazione di un folto gruppo di ospiti della scena, per un brano dal taglio neoclassico ed avvincente.
Le influenze sono evidenti e riscontrabili nei maestri del genere, su tutti gli Scorpions più melodici, Tyketto, Pretty Maids e personalmente ci aggiungerei i finlandesi Brothers Firetribe, progetto hard rock del chitarrista dei Nightwish Emppu Vuorinen.
L’album piace al primo giro e sono convinto che gli Heart Attack si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea: farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, nemmeno a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati.

TRACKLIST
01. Falling Apart
02. Under Your Spell
03. Stalker
04. Playing With Fire
05. China Blue
06. Living A Lie
07. Tell Me
08. (You’re A) Nightmare
09. Chase The Dream
10. Heart Attack
11. Hellenic Forces

LINE-UP
George Drimilis-Vocals
Steve G.-Guitars
Lila Moka-Keyboards/Backing vocals
Nikos Michalakakos-Bass
Jim K.-Drums

HEART ATTACK – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
Gran bella sorpresa questa band greca, l’album piace al primo giro e sono convinto che si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea, farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, anche a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati, provare per credere.

Hell In The Club – Shadow Of The Monster

il nuovo album continua a fare la voce grossa nella scena hard rock, confermando il respiro internazionale che gli Hell In The Club hanno raggiunto in così poco tempo

Letteralmente irresistibile, pura dinamite hard, street rock’n’roll fatta esplodere in questo inizio 2016 dalla nostrana Scarlet che, a distanza di poco più di un anno dal precedente e folgorante Devil On My Shoulder, torna a dar fuoco alle polveri con il nuovo album di questa banda di fenomenali rockers, al secolo Hell In The Club.

Come ben saprete il gruppo nostrano è composto da un nugolo di musicisti della scena nazionale che, con le loro band di origine( Elvenking, Secret Sphere e Death SS) hanno regalato perle metalliche di assoluto valore nobilitando la scena tricolore, poi unitisi in questo combo arrivando al terzo album facendo filotto, con un tre su tre, davvero entusiasmante.
Tre album a distanza di appena cinque anni, uno più bello dell’altro, partendo dal debutto Let The Games Begin, esordio del 2011, passando per Devil On My Shoulder, magnifico parto uscito sul finire del 2014 ed arrivando a questo mostruoso (è il caso di dirlo) Shadow Of The Monster.
Registrato, mixato e masterizzato ai Domination Studios da Simone Mularoni, il nuovo album continua a fare la voce grossa nella scena hard rock, confermando il respiro internazionale che gli Hell In The Club hanno raggiunto in così poco tempo: difficile, infatti, trovare un sound così perfetto come quello creato dal gruppo italiano, un mix di street, hard rock che guarda al passato ma mantiene un taglio moderno, portando il rock’n’roll esplosivo delle grandi band degli anni ottanta/novanta nel nuovo millennio ed aggiungendo valanghe di melodie dall’appeal enorme.
Forse, ancora più che in passato, il sound di questo lavoro guarda oltreoceano, facendo di Shadow Of The Monster l’opera più americana del gruppo, un mix riuscito tra i Guns’n’Roses di Slash ed i Jon Bon Jovi, che escono prepotentemente quando l’elettricità si fa leggermente meno ruvida e viene accompagnata da linee melodiche scritte per mano di talenti smisurati.
Il burattinaio in copertina, sempre diabolico ma ispiratore di un sound che vi farà innamorare al primo ascolto di questo straordinario pezzo di musica rock, domina menti e corpi e ci fa sbattere teste, scalciare come cavalli impazziti, letteralmente drogati dall’adrenalina che scorre all’ascolto di Dance!, opener dell’album e dall’inno Hell Sweet Hell.
Impossibile non cantare il refrain della title track,bonjoviana fino al midollo, così come una moderna ballatona da arena rock si rivela The Life & Death of Mr. Nobody.
Appetite for destruction? No solo Appetite, ma l’effetto è lo stesso, hard rock irrefrenabile, ruvido, che aggredisce con schiaffoni street metal, senza perdere un’oncia in melodia.
Anche questo album rimane su di un livello altissimo in tutta la sua durata, regalando ancora due spettacolari hard rock song, Le Cirque des Horreurs e l’irresistibile Try Me, Hate Me, canzone che in sede live sarà la colpevole di poghi irrefrenabili, ammucchiate paurose, malattie mentali e croniche ubriacature, insomma rock’n’roll all’ennesima potenza.
Hell In The Club, in un mondo ideale, sarebbe il nome più gettonato tra i rockers, ancora troppi legati a dinosauri estinti o ridotti a cover band di se stessi, non mi rimane quindi che ribadire l’assoluto valore di questo album e lasciarvi con una citazione…….CI SCAPPA DEL ROCK CICCIO !!!! Approfittatene.

TRACKLIST
01. DANCE!
02. Enjoy the Ride
03. Hell Sweet Hell
04. Shadow of the Monster
05. The Life & Death of Mr. Nobody
06. Appetite
07. Naked
08. Le Cirque des Horreurs
09. Try Me, Hate Me
10. Money Changes Everything

LINE-UP
Andrea “Andy” Buratto – Bass
Federico “Fede” Pennazzato – Drums
Andrea “Picco” Piccardi – Guitars (lead)
Davide “Dave” Moras – Vocals

HELL IN THE CLUB – facebook

Shivers Addiction – Choose Your Prison

Basta poco per farsi piacere questa raccolta di brani, serve solo non avere paraocchi di sorta e riuscire ad apprezzare ogni sfumatura che la band ci riserva, senza un attimo di tregua, lungo l’intero lavoro.

E’ tempo di tornare sul mercato per i nostrani Shivers Addiction: il nuovo lavoro, licenziato dalla Revalve Records ed intitolato Choose Your Prison, scaraventa la band tra le realtà più significative dell’hard & heavy nostrano, regalandoci un’oretta di metal rock dalle grandi potenzialità.

Fondato da una decina d’anni, in cui la band ha dato alle stampe il primo demo nel 2007 e successivamente l’esordio sulla lunga distanza tre anni dopo (Nobody Land’s), il gruppo dopo vari cambi di line up, può contare sulle prestazioni del chitarrista Gino Pecoraro dei Nuclear Simphony e soprattutto sul talentuoso vocalist Marco Cantoni dei prog metallers Cyrax, messisi in mostra in questi ultimi due anni con due perle di metallo progressivo ed originalissimo come Reflections del 2013 e Pictures, uscito quest’anno.
Completano la line up i bravissimi Angelo De Polignol alle pelli, Marco D. Panizzo alla seconda ascia e Fabio Cova al basso, un combo compatto e di altissimo livello, così che Choose Your Prison possa risultare un ottimo album che, in modo sapiente ed originale, amalgama alla perfezione thrash metal, progressive, rock e metal classico.
Ed eccoci qua, come Zio Paperone nei dollari, a tuffarci nel variegato mondo musicale del gruppo nostrano che, al primo ascolto riesce nell’impresa di confezionare un album maturo ma godibilissimo, con sorprese che ci investono ad ogni passaggio.
Basta poco per farsi piacere questa raccolta di brani, serve solo non avere paraocchi di sorta e riuscire ad apprezzare ogni sfumatura che la band ci riserva, senza un attimo di tregua, lungo l’intero lavoro.
Come ci ha abituato sui dischi targati Cyrax, Cantoni ne esce alla grande, eclettico, interpretativo e passionale, davvero bravo nel modulare la sua voce tra le sfuriate thrash del gruppo, che, in un attimo si trasformano, in passaggi progressivi, molto vicini al genere classico, lasciando poco al prog metal, abituati a sentire negli ultimi anni.
Bellissime le parti dove armonie acustiche dal sapore folk prendono il sopravvento, accompagnate da un delicato flauto che sa tanto di prog settantiano, per poi essere investiti da tempeste elettriche, dove le chitarre ci assalgono con ritmiche thrash e solos dai rimandi metallici e con la sezione ritmica che al momento opportuno sa picchiare e cambiare tempo come se fossimo in alta montagna.
Preferisco parlare di generi che di band, anche perché la musica dei Shivers Addiction è talmente colma di idee ed atmosfere che risulta cangiante, cambiando pelle in modo repentino anche nello stesso brano.
Un lavoro notevole in fase di songwriting, crea questo arcobaleno musicale dove trovare un brano più significativo è impresa ardua, ma la cattiva We Live on a Lie, la progressiva The King and the Guillotine e l’epica Painted Arrow, sono i brani che più mi hanno entusiasmato.
Cresce a dismisura con gli ascolti Choose Your Prison, pregno di note che appaiono dal nulla ogni volta che vi riavvicinerete con l’udito e con la mente alla musica di questa grande band.

TRACKLIST
1. Eternal Damnation
2. We Live on a Lie
3. La mort qui danse
4. The King and the Guillotine
5. Money Makes the Difference
6. Freedom
7. Where Is My Future
8. Painted Arrow
9. Against We Stand
10. Death Has Nothing to Teach

LINE-UP
Gino Pecoraro – Guitars
Angelo De Polignol – Drums
Marco D. Panizzo – Guitar
Fabio Cova – Bass
Marco Cantoni – Vocals

SHIVERS ADDICTION – Facebook

Praying Mantis – Legacy

Legacy risulta un lavoro imprescindibile, sopratutto perchè suonato da una band storica, dall’esperienza enorme e dal talento smisurato,

Paul Di Anno, Clive Burr e Dennis Stratton come saprete, sono tutti musicisti che hanno fatto la storia della vergine di ferro, più conosciuto il cantante, meno gli altri due, almeno per chi ha seguito le gesta della band di Steve Harris con superficialità, o solo dopo l’entrata in campo di Bruce Dickinson.

Eppure il compianto Clive Burr ha lasciato un’eredità importantissima tra i batteristi metal, protagonista dietro alle pelli dei primi due capolavori dei Maiden, così come Stratton faceva da partner a Murray prima dell’entrata in line up di Adrian Smith.
Ebbene, tutti e tre hanno fatto parte dei leggendari Praying Mantis, gruppo dei fratelli Troy, arrivati quest’anno al decimo lavoro in studio di una carriera iniziata nel lontano 1974 e che portò la band a vivere l’era della new wave of british heavy metal, all’uscita del primo lavoro nel 1981(Time Tells No Lies).
Nel corso degli’anni intorno ai due fratelli si sono succeduti un via vai di musicisti, ed il gruppo inglese è arrivato nel nuovo millennio portando la sua carica heavy metal, dalle sfumature melodiche che, piano piano l’hanno avvicinata all’AOR.
Legacy, nuovo, bellissimo lavoro, conferma lo stato di grazia della vecchia band inglese che, con nuovi innesti ed una classe sopraffina, rientra alla grande nel circuito metallico internazionele tramite la nostrana label Frontiers, già promotrice del precedente Sanctuary di ormai sei anni fa.
Che la band fosse il lato più melodico dello storico genere non è una novità, il songwriting della mantide si è sempre contraddistinto per un notevole talento verso le melodie catchy e dall’enorme appeal, ma il nuovo lavoro supera ogni previsione e ci consegna una perla melodica di inestimabile valore.
Nobile, elegante drammaticamente sinfonico, colmo di melodie che non lasciano scampo, rese ruvide da un riffing aggressivo e perfetto, sono le virtù su cui poggiano brani travolgenti come Fight for Your Honour e The One, apertura che non fa prigionieri, su cui John Cuijpers ci ricama una performance sontuosa.
Senza la minima sbavatura e perfetto in ogni suo elemento, Legacy continua la sua scalata nell’olimpo dell’Aor del nuovo millennio come l’epico incedere di Tokio e della melodicissima All I See, lasciando che il vecchio heavy metal amoreggi in modo sfacciato con l’hard rock melodico, tra solos divisi tra Tino Troy e Andy Burgess ed un cantato epico ottantiano di Cuijpers, che sfiora le vette interpretative del compianto Ronnie James Dio ( Against the World ).
Non siamo più, purtroppo, negli anni d’oro del genere, ma l’album esprime una forza melodica davvero entusiasmante, risultando il miglior lavoro della band da tanto, tanto tempo.
Se amate il metal melodico dai richiami old school, Legacy risulta un lavoro imprescindibile, soprattutto perché suonato da una band storica, dall’esperienza enorme e dal talento smisurato.

TRACKLIST
01. Fight for Your Honour
02. The One
03. Believable
04. Tokyo
05. Better Man
06. All I See
07. Eyes of a Child
08. The Runner
09. Against the World
10. Fallen Angel
11. Second Time Around

LINE-UP
John Cuijpers – Vocals
Tino Troy – Guitars, Vocals
Chris Troy – bass, Vocals
Andy Burgess – Guitars, Vocals
Hans in ‘t Zandt – Drums

PRAYING MANTIS – Facebook

Mad Max – Thunder, Storm & Passion

Compilation celebrativa per la lunga carriera dei tedeschi Mad Max, un pezzo di storia dell’hard’n’heavy europeo.

Era il 1981 quando i tedeschi Mad Max esordirono con il primo ep In Concert, seguito l’anno dopo dal full length Heavy Metal, dichiarazione di intenti in piena New Wave Of British heavy metal.

La carriera della band è proseguita con buona continuità in più di trent’anni, rilasciando undici album e questo Thunder, Storm & Passion risulta la giusta celebrazione ad una band, magari fuori da clamorosi successi, ma punto di riferimento per i rocker più attenti e portatrice del più vero spirito hard & heavy dai riferimenti classici.
Non sono poche le band che dai Mad Max hanno recepito lo spirito e le influenze musicali, classico gruppo tedesco, i nostri baldi provenienti da Monaco di Vestfalia, per primi i clamorosi Bonfire, dunque si parla di hard rock dalle chiare influenze heavy e dall’innato talento per la melodia.
Thunder, Storm & Passion è una compilation, una celebrazione alla carriera della band, arrivata ad hoc, in un periodo di riposo dopo aver licenziato cinque album nell’arco di sei anni, non pochi di questi tempi.
L’album guarda al passato e ci propone il meglio dei primi tre lavori, usciti tutti negli anni ottanta, da Rollin’Thunder, secondo album del 1984 a Night Of Passion full length del 1987 e conferma come la band non ha cambiato una virgola nel proprio modo di scrivere musica , seguendo delle coordinate stilistiche ben precise, ma assolutamente piacevoli, almeno per chi ama certe sonorità.
Un martello i Mad Max, coerenti in tutti questi anni con la loro proposta che li vede come alfieri dell’hard & heavy consolidato nelle terre dell’Europa centrale, da molti anni a questa parte, così che l’album è composto da un doppio cd che vede il classico best of sul primo, ed un live sul secondo, ripreso dalla performance al Bang Your Head festival nel 2014, inglobando una buona fetta del mondo Mad Max, melodie hard rock, a tratti travolte da tempeste di heavy metal ruvido, lapidate da solos rocciosi, e impreziosite da super ballatone ottantiane.
Per chi segue la band un bel ragalo di Natale. viste che le varie Fly Fly Away, Rollin’ Thunder, Thoughts of a Dying Man e compagnia, sono state ri-registrate e rese al passo coi tempi, mentre il live da una dimostrazione della carica metallica che riserva la band on stage, mentre per chi non conosce il gruppo, una buona occasione per far suo un pezzo di storia del metallo teutonico, in tutti e due i casi, opera imperdibile.

TRACKLIST
Disc 1 – Re-Recorded Classics
1. Fly Fly Away
2. Losing You
3. Rollin’ Thunder
4. Thoughts of a Dying Man
5. Never Say Never
6. Lonely Is the Hunter
7. Stormchild
8. Heroes Die Lonely
9. Burning the Stage
10. Wait for the Night
11. Night of Passion
12. Hearts on Fire

Disc 2 – Live at Bang Your Head Festival 2014
1. Burning the Stage
2. Night of Passion
3. Rollin’ Thunder
4. Wait for the Night
5. Lonely Is the Hunter
6. Never Say Never
7. Thoughts of a Dying Man
8. Fox on the Run (Sweet cover)

LINE-UP
Jürgen Breforth – Guitars
Michael Voss – Vocals, Guitars
Axel Kruse – Drums
Thomas “Hutch” Bauer – Bass

MAD MAX – Facebook

Fungus – The Face of Evil in the Sealed Room

Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete

Cominciamo con un mea culpa: nonostante siano miei concittadini ho scoperto l’esistenza dei Fungus solo in seguito ad una loro breve esibizione risalente alla scorsa estate, in occasione del Festival delle Periferie in quel di Genova Cornigliano.

Vero è che la scena progressive/rock la seguo ormai da tempo un po’ a macchia di leopardo, ma la lacuna resta, specie in questi tempi bizzarri, nei quali magari si finisce per conoscere vita morte e miracoli di gruppi della Papuasia ma si ignora l’esistenza di chi vive ed opera a pochi chilometri da casa tua, nel senso vero del termine se pensiamo che uno dei primi parti discografici dei Fungus è la registrazione di un concerto tenutosi nel 2005 a Murta, amena frazione collinare del comune di Genova limitrofa a quella dove risiedo.
Detto questo, mi concedo un ultimo (spero) luogo comune piazzando un bel “meglio tardi che mai”: per fortuna l’arte non conosce prescrizione ed avvalersi della bellezza di un disco come The Face of Evil, a due anni abbondanti dalla sua uscita, non sminuisce affatto il piacere dell’ascolto e della scoperta.
L’occasione per parlarne deriva dalla pubblicazione in doppio vinile dell’album in questione, arricchito del lungo brano The Sealed Room, uno degli ultimi lasciti dell’indubbio genio compositivo di Alejandro J Blissett, chitarrista e fondatore della band, prematuramente scomparso nel 2014.
Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete: se vogliamo fare un parallelismo, magari audace, con una band dei giorni nostri, qualche similitudine la si può trovare con i Bigelf, rispetto ai quali le sonorità sono sicuramente meno robuste a fronte di affinità notevoli nel saper maneggiare con gusto ed inventiva certi suoni del passato (in primis quelli tastieristici).
E’ chiaro che hard rock, progressive ed una spruzzata di folk sono gli ingredienti di base di una ricetta vincente, che potrà scontentare solo chi pensa che volgere lo sguardo all’indietro sia esclusivamente una soluzione nostalgica e priva di sbocchi: nulla di più falso, la bravura dei Fungus nell’elaborare il tutto in maniera piuttosto personale è innegabile e se qualcuno li vorrà snobbare trovandoli derivativi o eccessivamente retrò è affar suo.
In realtà ogni brano nasconde sviluppi ben poco prevedibili e direi che questo compensa non poco qualsiasi altra perplessità che possa sorgere nei confronti del lavoro: certo, magari The Sun (brano conclusivo della versione originale di The Face Of Evil) non è forse la traccia ideale per chiudere un album così impegnativo, a causa dei suoi continui cambi di scenario conditi di improvvisazioni e sperimentalismi vari, uniti ad una lunghezza considerevole, e la stessa bonus track, di durata ancor più corposa, nulla aggiunge alla bontà di un’opera che vede altrove i suoi picchi. Al termine dell’ascolto, infatti, a restare impresse sono soprattutto la magnifica Rain, con la chitarra di AJ Blissett a livelli di assoluta eccellenza, la folkeggiante The Key of the Garden, ma anche Better Than Jesus e la title track, senza dimenticare la delicata Gentle Season, traccia che ricorda non poco il Peter Hammill più intimista.
Detto dello scomparso chitarrista e della bontà del suo operato, da rimarcare il tocco tastieristico del bravissimo Claudio Ferreri e le doti interpretative di Dorian Deminstrel, vocalist magari non dotato di un’estensione fuori dal comune, ma sicuramente versatile e, soprattutto, capace di trasmettere adeguatamente all’ascoltatore le sensazioni e le emozioni connesse ad una proposta musicale decisamente affascinante, benché talvolta intricata.
Senz’altro un bella (ri)scoperta in attesa del prossimo lavoro con il quale, peraltro, andrà verificato come i Fungus siano riusciti a metabolizzare, sia dal punto di vista compositivo che da quello prettamente personale, una perdita pesante come quella del loro compagno di avventura.

Tracklist:
1. The Face of Evil
2. Gentle Season
3. The Great Deceit
4. Rain
5. The Key of the Garden
6. Shake Your Suicide III
7. Angel with No Pain
8. Better than Jesus
9. Requiem
10. The Sun
11. The Sealed Room

Line-up:
Dorian Deminstrel – voce, chitarre acustiche
Alejandro J Blissett – chitarre, theremin
zerothehero – basso, flauto
Claudio Ferreri – tastiere
Caio – batteria

FUNGUS – Facebook

Tarot – The Warrior’s Spell

Un disco per chi ha ancora nelle orecchie il rock duro vecchia scuola, una stupefacente macchina del tempo che porta indietro negli anni fino ai primi settanta, per risalire di un po’ ma senza superare i primi anni del decennio successivo.

The Warrior’s Spell è una compilation che riassume, in quasi settanta minuti di musica, il credo del musicista australiano, conosciuto come The Hermit, che in questa mastodontica opera di hard rock d’ispirazione purpleiana, raccoglie i suoi tre mini cd usciti finora per la Heavy Chains Records.

Non solo profondo porpora, ma Rainbow ed Uriah Heep, sono le fonti primarie da cui il musicista si abbevera, costruendo su di loro un sound totalmente devoto alla causa del rock dal sapore vintage.
Un disco per chi ha ancora nelle orecchie il rock duro vecchia scuola, una stupefacente macchina del tempo che porta indietro negli anni fino ai primi settanta, per risalire di un po’ ma senza superare i primi anni del decennio successivo.
Produzione ad hoc per non scendere a compromessi e via tuffandosi in questo trip temporale che vi porterà tra i solchi di In Rock o Salisbury, Machine Head o Rising, imprigionati in questa gabbia di suoni che anche le band citate non suonano più da anni.
Rimane l’alto fascino che una proposta del genere suscita, almeno in chi queste avventure musicali le ha più o meno vissute e con un po di nostagia ritrova quei suoni che poi sono i colpevoli dell’amore incondizionato per la musica dura e tutto il rock in generale.
Certo è che il polistrumentista australiano ci sa fare, ed i brani sono molto belli e non si fatica ad arrivare in fondo alla tracklist, seguendo percorsi musicali che se non portano a camminare sulla Starway To Heaven, seguono arcobaleni di Blackmoriana memoria, in un susseguirsi di suoni capitanati da tasti d’avorio lordiani e perle che da Very’eavy Very’umble, primo straordinario lavoro degli Uriah Heep, prendono linfa vitale.
Non manca una certa vena psichedelica, che rende le songs una bellissima colonna sonora per tirare fuori dal vecchio sacchetto in pelle, cartine ed un po di quella vecchia erba rinsecchita, ormai dimenticata, ma compagna di lunghe serate in compagnia di questi suoni, vecchi amici ed ispiratori di una ribellione intima che non muore neanche dopo tanto tempo, risvegliata dalle note di Eyes In The Sky, Leaving This Place, Life And Death, inni ad un’era passata e da molti dimenticata.
Un’opera che aldilà del valore musicale è un tributo ad uno dei periodi più fruttosi a livello qualitativo della storia del rock, ascoltatelo.

TRACKLIST
1. The Watcher’s Dream
2. Twilight Fortress
3. The Wasp
4. Eyes in the Sky
5. The Warrior’s Spell
6. Street Lamps Calling
7. Leaving This Place
8. Mystic Cavern
9. Dying Daze
10. Life and Death
11. Sound the Horn
12. Vagrant Hunter
13.Take A Look Around
14. Leaving This Place

LINE-UP
The Hermit Vocals, Guitars, Organ, Keyboards

Ape Machine – Coalition Of The Unwilling

La produzione è sontuosa e tutto funziona alla perfezione, e il quartetto di Portland ci regala la sua migliore prova.

Suono potente e psichedelico totalmente calato negli anni settanta, eseguito con grande passione e talento. Ma se ci fermasse a questo piano sarebbe fare un’ingiustizia agli Ape Machine.

La loro musica è fortemente anni settanta ma è rielaborata da un gusto moderno che la arricchisce ancora di più. La psichedelia pesante la fa da padrone in Coalition Of The Unwilling, insieme ad uno stile compositivo di ampio respiro che rende questo disco un piccolo gioiello per gli amanti di certe sonorità che vengono da lontano ma che non si sono mai perdute.
Negli Ape Machine convivono elementi dei Clutch con scatti alla Mastodon, e schitarrate più pro, il tutto in salsa psych.
La produzione è sontuosa e tutto funziona alla perfezione, e il quartetto di Portland ci regala la sua migliore prova.
Disco da meditazione psichedelica.

TRACKLIST
1. Crushed From Within
2. Disband
3. Give What You Get
4. Under This Face
5. Ape’N’Stein
6. Never My Way

LINE-UP
Caleb Heinze – Vocals
Ian Watts – Guitar
Brian True – Bass
Damon De La Paz – Drums

APE MACHINE – Facebook