Haunted By Destiny – Aria For An Angel

Aria For An Angel piace al primo ascolto e fa innamorare: come con le sirene di Ulisse, i più deboli finiranno nelle grinfie degli Haunted By Destiny e saranno perduti.

Non credo che questi ragazzi rimarranno per tanto dentro ai confini dell’uderground, troppo appeal sprigiona la loro musica, così ricca di melodie pop/metal/rock da far muovere il fondo schiena di una statua.

Esordio dunque che più riuscito di così non si può, un perfetto e patinato esempio di hard rock moderno ed irresistibile, tremendamente radiofonico forse anche troppo.
Intendiamoci, Aria For An Angel è il classico disco rock che può tranquillamente far strage di cuori, anche quelli poco avvezzi a sonorità colme di elettricità, la band ha tutto per sfondare, dal songwriting esagerato, colpevole di un lotto di brani indiscutibilmente accattivanti, una bella e brava vocalist e quell’amalgama riuscita in pieno di varie sonorità, che vanno dal metal, al pop, passando a salutare l’alternative in voga in questi ultimi anni.
Il gruppo svedese punta tutto sulla voce splendida e perfetta per il genere proposto di Evelina Eliasson e su di essa costruisce un sound che pesca dal symphonic rock, come dal metal alternative, divagazioni elettroniche, ed un gusto pop da classifica che è il colpevole dell’appeal esagerato di queste dodici canzoni.
Da Healthy Girl, opener dell’album è un susseguirsi di melodie vincenti, ottimi inserti elettronici, e chitarre che all’occorrenza sanno graffiare, mantenendo una media potenza e dando spazio, molto, alla voce che grintosa e suadente si insinua nella testa dell’ascoltatore per non lasciarla più.
Brani da cantare sotto la doccia, chorus che creano dipendenza, tutto costruito per piacere in modo smisurato, lasciando poco all’istinto ed è qui che Aria For An Angel perde qualche punto, perdendo in spontaneità quello che acquista in appeal.
Un dettaglio discutibile senz’altro e che molti di voi non troveranno, persi in questo arcobaleno di melodie che alla lunga tendono ad assomigliarsi in tutta la durata dell’album, ma che sicuramente piacciono.
Difficile trovare una songs che spicca sulle altre, la media è alta e su questo non ci piove, sappiate che tra le note di questa raccolta di brani c’è tanto del metal/rock degli ultimi anni, Evanescence, Lacuna Coil, un pizzico di Halestorm nelle parti più grintose e tanto pop.
Aria For An Angel piace al primo ascolto e fa innamorare: come con le sirene di Ulisse, i più deboli finiranno nelle grinfie degli Haunted By Destiny e saranno perduti.

TRACKLIST
01. Healthy Girl
02. Turning Pages
03. For You
04. Freakshow
05. The Road
06. Gravity
07. Follow
08. Tear (It’s dead)
09. Stand My Ground
10. Someone to die for
11. Secret delight
12. Aria for an angel

LINE-UP
Johan Söderhielm-Guitar
Simon Weston-Guitar
Evelina Eliasson-Vocals
Christian Gardefuhr-Drums
Marcus Karlsson-Johansson-Bas

HAUNTED BY DESTINY – Facebook

Lola Stonecracker – Doomsday Breakdown

Non fatevi mancare l’ascolto di Doomsday Breakdown, regalatevi un po’ di divertimento, ogni tanto ….

Eccoci al cospetto di un’altra band made in Italy dalle potenzialità enormi, una macchina rock’n’roll senza freni che, pescando dall’hard rock degli ultimi trent’anni, rifila una serie di hit esagerati e confezionando un album divertente, passionale, stradaiolo e dannatamente cool.

Nati come cover band dei Guns’n’Roses, i Lola Stonecracker hanno debuttato nel 2011 con un Ep omonimo e da allora incendiano i palchi europei e nostrani in compagnia di nomi altisonanti del rock’n’roll più energico come Faster Pussycat, Reckless Love, la band di Steven Adler (ex drummer dei migliori gunners) e le maestà John Corabi e Gilby Clarke.
Doomsday Breakdown regala un’ora abbondante di street, hard rock a tratti grungizzato da ritmiche grasse, un viaggio saltando dagli eightees al decennio successivo, tra brani di trascinante rock che non dimentica la melodia e neanche i suoni del nuovo millennio.
Quindici brani sono tanti ma l’adrenalina scorre a fiumi in questa raccolta di canzoni che bombardano l’ascoltatore, elettrizzato e sconvolto dal proprio corpo che si dimena suo malgrado, sotto l’effetto dell’opener Jigsaw, Witchy Lady e Generation On Surface, tre brani che scaraventano al tappeto e dai quali in parte ci si rialza con Secret Of The Universe, semi ballad che mi ha ricordato non poco i Candlebox.
Si riparte sull’ottovolante Lola, per altri quattro brani da infarto su cui la title track spicca alla grande, ed è già tempo di riposarci con un’altra incantevole semiballad, All This Time.
Space Cowboys invita al rodeo forte di un riff in slide e c’è ancora tempo, tra le altre, per la cover di Relax, storico hit degli anni ottanta ad opera dei Frankie Goes To Hollywood e Shine, una classica ballad in Bon Jovi style, tanto per ribadire la varietà dei nostri nel miscelare così tante influenze sotto la bandiera dell’hard rock.
Forti di un vocalist (Alex Fabbri) personale e bravissimo nell’interpretare le varie sfumature di un lavoro che definire vario è un eufemismo, i Lola Stonecracker stupiscono, spaziano, si divertono e fanno divertire miscelando le varie influenze e risultando a loro modo originali.
Nel frattempo la band ha fIrmato un accordo con la Atomic Stuff, punto di riferimento per l’hard rock tricolore, che si occuperà della promozione dell’album dando vita ad una partnhership che promette scintille.
Non fatevi mancare l’ascolto di Doomsday Breakdown, regalatevi un po’ di divertimento, ogni tanto ….

Tracklist:
01. Jigsaw
02. Witchy Lady
03. Generation On Surface
04. Secret For A Universe
05. Perils For A Man From The Past
06. Jekyll & Hyde
07. Doomsday Breakdown
08. Mc Kenny’s Place
09. All This Time
10. Space Cowboys
11. Psycho Speed Parade
12. Mistery Soul Maverick
13. Relax
14. Shine
15. Using My Tricks

Line-up:
Alex Fabbri – Vocals
Lorenzo Zagni – Guitars
Giovanni Taddia – Guitars
Diego Quarantotto – Bass
Christian Cesari – Drums

LOLA STONECRACKER – Facebook

Armonight – Who we really are

Come ripartenza non c’è male, i nuovi Armonight vanno a rimpinguare il nutrito numero di band hard rock di spessore del panorama nazionale

Strano il modo del metal/rock, così vario e colmo di strade da intraprendere, tutte non facili sia chiaro, ma stimolanti specialmente per chi sa apprezzare ogni sfumatura che questo meraviglioso mondo riesce a regalare.

Come un cubo di Rubik ogni faccia si interseca perfettamente a quello che dovrebbe per tutti essere lo spirito giusto: fare musica, lasciando da parte disquisizioni superficiali su generi e atmosfere che questa crea per arrivare al cuore della gente ovunque essi siano.
Ecco che una realtà, partita come symphonic gothic band, negli anni si trasforma, cambia pelle, ma il risultato non cambia, buona musica per chi ha orecchie per sentire, più semplice di così!
I vicentini Armonight attivi dal 2007 e con tre album alle spalle, lasciano definitivamente la strada intrapresa ad inizio carriera per rinascere completamente trasformati in una rock’n’roll band.
Per il gruppo è sicuramente un nuovo inizio, per noi ascoltatori dovrebbe essere probabilmente, la scoperta dell’anima finora nascosta degli Armonight, quella più sfacciatamente stradaiola, dove esce tutta la carica e la grinta di cui i musicisti del gruppo sono capaci e a colpi di hard rock ottantiano e americanizzato ci fanno partecipi in questa quarantina di minuti di musica del diavolo a tratti davvero coinvolgente.
Hard rock, blues e tanta attitudine rock’n’roll che sprigiona da questi dodoci brani adrenalinici, dalla voce tremendamente rock della vocalist Sy e dai riff corposi di Fjord e Lara creati dove nasce il Mississipi e sul letto del grande fiume, in viaggio verso il delta si trasformano in incendiarie scale hard rock.
Frens al basso e Hokuto alle tastiere completano la line up e Who We Really Are è pronto per riempire una cinquantina di minuti circa della vostra vita con una raccolta di buone songs, che si rincorrono sulle superstrade americane per un album che trasuda on the road da tutti i pori.
Enorme il riff che introduce Staggering Drunk, ottimo il refrain di The Luck Of Heroes, enorme l’atmosfera blueseggiante della micidiale My Best friend, divertente il rock di Stray Dog Blues e perfetto il solo sul singolo Gypsy Girl, insomma la nuova veste di questa band convince e diverte, lasciando che le ispirazioni per il proprio sound facciano serenamente capolino tra i solchi dei brani( AC/DC, Aerosmith e il dirigibile zeppeliniano sopra a tutti).
Come ripartenza non c’è male, i nuovi Armonight vanno a rimpinguare il nutrito numero di band hard rock di spessore del panorama nazionale, non mi rimane che consigliarvelo e augurare il meglio al gruppo vicentino.

TRACKLIST
1. Boring day
2. Staggering drunk
3. Waiting for tonight
4. The luck of heroes
5. My best friend
6. The stray dog blues
7. Keep out the darkness
8. Gypsy girl
9. So stupid
10. Stay away from me
11. Don’t waste your time
12. Who we really are

LINE-UP
Sy: Vocals
Fjord: Guitar
Lara: Guitar
Frens: Bass
Hokuto: K-board

ARMONIGHT – Facebook

Skip Rock – Take it or Leave it

Un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera

Duri a morire, il film del regista Sam Raimi, vedeva un nutrito numero di pistoleri duellare in un fantomatico torneo ad eliminazione in una imprecisata cittadina di confine, tra polvere sudore, cowboy dalla mano veloce e palloni gonfiati dalla fine segnata.

Al primo tocco di campana le pistole fumavano ed il risultato era sempre lo stesso, un morto in più e il vincitore che passava il turno in un susseguirsi di confronti da dead or alive.
La colonna sonora di questo western che richiamava non poco la tradizione tutta italiana nel genere, conosciuta come spaghetti western, avrebbe potuto essere tranquillamente questo album, il secondo dei tedeschi Skip Rock, hard rock band che unisce il genere di estrazione classica alla AC/DC e richiami al southern rock e alla tradizione western.
Il gruppo tedesco si definisce metal cowboys, ed in effetti la loro musica richiama le colonne sonore dei film di genere, rafforzata da ruvide iniezioni di rock’n’roll direttamente dalla terra dei canguri e classiche atmosfere southern.
Una Band da raduno, musica per rudi bikers di frontiera, portatori di un’attitudine che fonda le sue radici nella libertà e nella cultura on the road, quaranta minuti da ascoltare con il boccale sempre pieno e la bottiglia di whiskey per finire di bruciare gole arse dal fumo e dalla polvere, sopravvissute a chilometri macinati sulle calde strade di frontiera.
Molto più divertente e scorrevole quando il gruppo ci va pesante, alzando il volume dei propri strumenti( Death or Glory, Motorcycle Man II, Hell Is On Fire) meno quando il sound guarda troppo all’ovest e la musica si avvicina pericolosamente al puro southern rock ( non basta un richiamo al nostro Morricone, o semplici e poco emozionali semiballad, per suonare ottima musica southern/western).
Insomma un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera, una buona band da da raduni tra omaccioni barbuti, donzelle borchiate, birra a fiumi e colt sempre cariche.

TRACKLIST
1. Intro
2. Tell me why
3. Death or Glory
4. Jesse James
5. Outlaws
6. Motorcycle Man II
7. Rich’n’Nazty
8. Hell is on Fire
9. Too Young
10. Take it or leave it

LINE-UP
Marc Terry – Vocals
Darius Dee – Guitars
Patrick Paul – Bass
Jan Skirde – Drums

SKIP ROCK – Facebook

Reds’ Cool – Press Hard

Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.

Per chi ha troppi capelli bianchi sulla lunga chioma, o addirittura gli anni hanno lasciato il segno con larghe stempiature al posto dei riccioli neri, sa che anni fa era praticamente impossibile parlare di rock o metal guardando ad est dell’Europa.

Le prime band che si affacciarono sul mercato, furono viste con curiosità e molte volte ironia, uno scherzo parlare di musica del diavolo proveniente dalla madre Russia, o dagli stati vicini, il rock era americano o, al massimo anglosassone, certamente non figlio della steppa.
Le cose negli ultimi anni sono cambiate notevolmente e i paesi dell’est ormai tutti globalizzati, hanno cominciato a sfornare gruppi, molti davvero bravi, in ogni genere di cui il rock ed il metal si nutrono, passando agevolmente da ottime realtà estreme a gruppi di rockers dal riff facile.
I Reds’Cool, fanno parte di quella grossa fetta di musicisti immersi totalmente nell’hard rock, pescando a piene mani dalle due scuole tradizionali; quella americana e quella britannica e confezionando un buon album, chiaramente poco originale, ultra conservatore, ma splendido a livello di sound, piacevole, melodico e sanguigno il giusto per essere consigliato a tutti i fans dell’hard rock classico.
All’ascolto di questa raccolta di brani, confezionati dal quintetto di San Pietroburgo, vi passeranno davanti almeno una trentina d’anni di musica dura, sempre in bilico tra durezza e melodie, ottime songs dall’andamento cadenzato e sanguigni voli verso l’America, facendo scalo in Gran Bretagna, tra Whitesnake, Great White, UFO e compagnia di rockers.
D’altronde quando il lettore comincia a riprodurre le varie  Dangerous One, Brand New Start e Strangers Eyes, il senso di deja’vu è forte, ma viene ben bilanciato dalla buona vena dei musicisti e dall’ottima performance del vocalist, perfetto singer di razza, forgiato alla scuola dei migliori interpreti del genere(Slava Spark).
Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.
Press Hard merita senz’altro l’interesse dei rockers dai gusti old school, a cui va il mio invito all’ascolto.

TRACKLIST
1.Dangerous One
2.My Way
3.The Way I Am
4.Brand New Start
5.Strangers Eyes
6.Call Me
7.One Night
8.Love Behind
9.No More

LINE-UP
Slava Spark: vocals
Sergey Fedotov: guitar
Ilya “Lu” Smirnov: guitar, backing vocals
Dmitry “Dee” Pronin: bass, backing vocals
Andrey Kruglov: drums

REDS’ COOL – Facebook

Mad Hornet – Would You Like Something Fresh?

Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad

Andiamo con ordine: i rockers pugliesi Mad Hornet, tra split e reunion sono attivi da quasi dieci anni, un passato demo ne aveva iniziato l’attività per poi, bloccarsi fino a due anni fa e riprendere le danze con una formazione rinnovata, che gira intorno al chitarrista Salvatore Destratis alias Ken Lance.

I ragazzi dell’Atomic Stuff, come falchi a caccia di prede, non si sono fatti sfuggire l’occasione di averli nella loro famiglia e così, questo ottimo esordio sulla lunga distanza, esce sotto l’etichetta bresciana, come sempre molto attenta alle realtà hard rock dalle buone potenzialità.
E il gruppo di Maruggio, paesino in provincia di Taranto, non delude con la sua proposta fatta di tanto hard rock statunitense sempre in bilico tra grinta e melodia, molto anni ottanta, ma fresco come il cocktail raffigurato in copertina, ultimo ricordo di un’estate ormai lontana, ed un inverno che Would You Like Something Fresh? scalderà a colpi hard rock.
Un’esplosione di watts e riff trascinanti si scambiano il testimone con ariose melodie, proprio come il genere vuole e noi non possiamo che sbattere la testa a ritmo delle dinamitarde Your Body Talks, Free Rock Machine e Game Of Death o innondare di lacrime nostalgiche il nostro viso con le bellissime Walking With You (In The Afternoon) e la conclusiva Roses Under The Rain, il tutto suonato alla grande e cantato con passione e bravura dall’ottimo Mic Martini.
Il gruppo ci sa fare, la sei corde di Lance, infiamma cuori e produce energia come un vulcano in eruzione, quando decide che è il momento di rockare, mentre la sezione ritmica il suo lavoro lo fa egregiamente, precisa e senza sbavature la prova del motore della band (El Piamba al basso e Neats Frank alle pelli).
Le influenze sono tutte da riscontrare nel periodo d’oro per i suoni hard & heavy d’oltreoceano, nel decennio ottantiano, anni di pantaloni di pelle che fasciavano ragazze dalle chiome leonine, e quel rock style mai dimenticato, frutto di vite vissute pericolosamente sul Sunset Strip.
Nostalgici? Forse, ma il feeling prodotto da songs come Blue Blood, o la carica di brani alla nitroglicerina come Raise’N’ Do It e la Van Halen oriented Pink Pants School sono patrimonio da conservare gelosamente per ogni rocker degno di questo nome.
Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad.
Rimane la soddisfazione di incontrare realtà nostrane sempre più sul pezzo quando si tratta di suoni hard rock classici, bravi!

TRACKLIST
1. Would You Like Something Fresh?
2. Your Body Talks
3. Dyin’ Love
4. Blue Blood
5. Free Rock Machine
6. Game Of Death
7. Raise ‘N’ Do It
8. Walking With You (In The Afternoon)
9. Pink Pants School
10. What Is Love [Haddaway cover]
11. Roses Under The Rain

LINE-UP
Mic Martini – Voice
Beats Frank – Drums
El Piamba – Bass
Ken Lance – Guitars

MAD HORNET – Facebook

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Ten – The Dragon And Saint George

Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Dopo moltissimi anni dall’ep che portava come titolo “Fear The Force”, opener del capolavoro “Spellbound” del 1999, i Ten dopo i due ottimi full length, usciti a distanza di sei mesi tra il 2014 e quest’anno (“Albion” e “Isla De Muerta”), confermano una ritrovata voglia di riprendersi lo scettro di regnanti sul melodic hard rock, tornando con questo altro lavoro breve, che ha il suo perno in The Dragon And Saint George, stupendo brano tratto dall’ultimo album.

Il nuovo lavoro è composto da sette tracce, di cui tre inediti, la title track e altri brani usciti come bonus sugli ultimi due album.
La nostra attenzione non può che cadere sulle nuove canzoni, che impreziosiscono e danno un senso a questa operazione, dall’alto della qualità superiore della musica composta dal buon Gary Hughes, tornato ai fasti dei primi lavori in quanto al valore del songwriting.
Musketeers: Soldiers Of The King sembra uscita dalle sessions di The Robe: epica, melodica, interpretata alla grande da uno Hughes stratosferico, tanto che mi chiedo come possa essere stata lasciata per un’uscita “minore”.
Hard rock dalle ritmiche grintose risulta Is There Anyone With Sense, dove Hughes entra con la sua calda voce, prima che uno dei ritornelli più belli degli ultimi anni alzi centimetri di pelle d’oca sulle braccia dell’ascoltatore.
Le chitarre (Dann Rosingana, Steve Grocott e John Halliwell) sono le protagoniste dei nuovi brani ed anche l’ultimo inedito (The Prodigal Saviour) lascia ad un riff fuso nell’acciaio, i primi secondi del brano, che risulta ritmicamente vario, prima che un refrain AOR torni all’hard rock ipermelodico, dove i Ten non trovano avversari.
Le altre tracce riempiono di splendida musica rock, questa mezzora scarsa di hard rock melodico tornato a risplendere nello spartito del gruppo britannico, una band fuori dal comune, anche quando la magia folk/epica di Albion Born (dal penultimo “Albion”) ci disegna nella mente verdi colline, dove guerrieri impavidi riposano le membra dopo una lunga giornata di battaglia, tra castelli a guardia di cristallini laghi persi nella bruma.
Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Tracklist:
1.The Dragon And Saint George
2.Musketeers: Soldiers Of The King
3.Is There Anyone With Sense
4.The Prodigal Saviour
5.Albion Born
6.Good God In Heaven What Hell Is This(12 inch Picture Disc exclusive)
7.We Can Be As One (European Exclusive track to Isla De Muerta)

Line-up:
Gary Hughes – vocals, guitars, backing vocals
Dann Rosingana – Lead guitars
Steve Grocott – Lead guitars
John Halliwell – Rhythm Guitars
Darrel Treece-Birch – keyboards, Programming
Steve Mckenna – Bass guitar
Max Yates – drums and percussion

TEN – Facebook

Motörhead – Bad Magic

Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motorhead.

Difficile, se non impossibile, parlare di una band storica come i Motörhead di mister Lemmy Kilmister senza cadere nel banale o nel già scritto.

Troppi anni ad incendiare palchi e licenziare album (quest’anno ricorre il 40° anniversario della nascita del gruppo), troppe righe scritte su un uomo sempre in bilico sulla “sottile linea bianca”, ma probabilmente vera ed indiscussa icona del vivere rock’n’roll.
Eppure solo pochi mesi fa sembrava che il buon Lemmy dovesse lasciare le scene, il troppo stroppia anche per lui ed invece, a quasi settantanni, radunata la banda, torna con un nuovo lavoro.
Bad Magic è il ventiduesimo album dei Motörhead, con la coppia Campbell – Dee ad affiancare Lemmy in quello che probabilmente è l’album più riuscito degli ultimi anni.
Prodotto da Cameron Webb nei NRG Studios, l’album parte alla grande con Victory Or Die e non si ferma più, un razzo di rock’n’roll dinamitardo, un pugno in faccia che stordisce, come ai vecchi tempi, grazie a brani travolgenti e dall’impronta live.
Sarà dura per il gruppo scegliere le canzoni da lasciar fuori dalla scaletta dell’imminente tour mondiale, che vedrà il trio di questi inesauribili vecchietti prima girare gli States e poi sbarcare in Europa a novembre, vista la qualità complessiva di Bad Magic.
I primi otto brani sono cavalcate hard & roll tremendamente efficaci e bisogna arrivare alla semi-ballad Till The End per riuscire a tirare un po’ il fiato; Lemmy, con la sua voce sporcata da una vita al limite, continua a dispensare carisma ed i suoi degni compari lo seguono in questa nuova avventura, anche loro in forma splendida,(Phil Campbell è protagonista di un lavoro disumano alla sei corde, mentre Mikkey Dee si conferma picchiatore inesauribile).
L’ospite Brian May sulla roboante The Devil e l’omaggio agli Stones con la cover dell’immortale Sympathy For The Devil, sono le novità di un album dal sound nuovamente votato all’impatto live che ha caratterizzato i migliori lavori di una band che sembra essere rinata dopo un paio di opere zoppicanti come “The Wörld Is Yours” (2010) e “Aftershock”, di due anni fa.
Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motörhead.
C’è da divertirsi e tanto tra i solchi di Bad Magic, stravolti e cotti da canzoni dinamitarde come Thunder & Lightning, Electricity, l’oscura e “diabolica” Choking On Your Screams e l’esplosiva When The Sky Comes Looking For You.
Dopo un’estate passata a riempire le tasche a bolsi fenomeni da baraccone, è l’ora di tornare a fare sul serio: Bad Magic riconcilia il sottoscritto con i troppi gruppi storici ormai diventati patetiche cover band di se stessi e rifila una lezione di rock’n’roll a cui dovete assolutamente assistere … lunga vita a Lemmy Kilmister.

Tracklist:
1.Victory Or Die
2.Thunder & Lightning
3.Fire Storm Hotel
4.Shoot Out all of Your Lights
5.The Devil
6.Electricity
7.Evil Eye
8.Teach Them How To Bleed
9.Till The End
10.Tell Me Who To Kill
11.Choking On Your Screams
12.When The Sky Comes Looking For You
13.Sympathy For The Devil

Line-up:
Lemmy Kilmister – Bass, Vocals
Phil Campbell – Guitars
Mikkey Dee – Drums

Motörhead – Facebook

Psychedelic Witchcraft – Black Magic Man

Questo 10″ è una carezza, un profondo atto d’amore verso un certo tipo di musica e di retaggio culturale che va dai Black Sabbath a Lucio Fulci, passando per pupille senza colore e sguardi alla volta celeste.

Un salto indietro nel tempo, un disco di razza per una grande cantante ed un gruppo molto valido.

Le atmosfere sono quelle rarefatte e fumose degli anni settanta, con un doom rock in stile Jex Thoth, ma con un’anima maggiormente aperta allo spettro di quegli anni.
Non è un’operazione vintage, ma l’espressione di una grande cultura musicale unita ad una passione fuori dal comune, che è quella di Virginia Monti, giovane donna che sa molto ciò che vuole, e ci porta per mano in un immaginario pagano che è assai più vero e calzante di quello che ci viene propinato ogni giorno.
Questo 10” è una carezza, un profondo atto d’amore verso un certo tipo di musica e di retaggio culturale che va dai Black Sabbath a Lucio Fulci, passando per pupille senza colore e sguardi alla volta celeste.
La produzione rende pienamente merito a questo disco che è senz’altro l’inizio di una grande carriera. Non si può non rimanere impressionati dalla potenzialità di Virginia e del suo gruppo, che sembrano già consumati veterani.
Black Magic Man non ha bisogno di essere gridato o suonato a mille, ha soltanto un vitale bisogno di girare sul vostro giradischi, mentre interrompete lo stupro perpetrato ai vostri danni dalla vita moderna e vi lasciate guidare da Virginia.
Non ci saranno difficoltà ad immergersi in un piacevole liquido, dove il femmineo la farà da padrone, come è giusto che sia, riportando a casa ciò che è nostro e che ci è stato negato da almeno duemila anni.
Bello, piacevole ed è un ep che uscirà questa estate.

Tracklist:
1 Angela
2 Lying on Iron
3 Black Magic Man
4 Slave of Grief

PSYCHEDELIC WITCHCRAFT – Facebook

Graal – Chapter IV

Chapter Iv è il quarto bellissimo lavoro dei romani Graal, uno splendido viaggio tra hard rock, progressive e metal.

Questo bellissimo album è la risposta perfetta a chiunque mi dovesse chiedere quali siano le origini della mia smisurata passione per la musica rock/metal: più di trentacinque anni di una fiamma che dentro di me continua ad ardere, a dispetto delle primavere che passano inesorabili e dei mille problemi che la vita porta con sé.

Lo dico da sempre, le persone che hanno la fortuna di innamorarsi della sublime arte non saranno mai sole e hanno qualcosa in più, se poi questa meravigliosa dipendenza li porta a confrontarsi con svariati generi ancora meglio, perché riusciranno ad assaporare e fare proprie le virtù insite in ogni stile musicale.
E’ così che, passate più di tre decadi a confrontarmi con tutti i generi che l’hard rock e l’heavy metal hanno regalato, davanti ad un lavoro come Chapter IV dei romani Graal è come tornare tra le braccia di una vecchia amante mai dimenticata, passionale, calda e bellissima musa ispiratrice di sogni ora romantici, ora carnali ma tremendamente autentici.
La band romana, al quarto album, festeggia dieci anni di uscite discografiche avendo licenziato il primo lavoro “Realm Of Fantasy” nel 2005, seguito da “Tales Untold” del 2007 e “Legends Never Die” del 2011.
Maturità compositiva ed assoluta padronanza del genere suonato arrivano, con quest’opera, al massimo del loro splendore e ci offrono uno spaccato di musica che miscela metal, hard rock e progressive a cavallo tra ‘70-‘80, trasportandolo nel nuovo millennio per lasciarlo finalmente libero di regalare emozioni mai sopite , tra fughe tastieristiche, chitarroni heavy, ricami folk ed una vena prog entusiasmante.
Cori perfettamente inseriti in canzoni di estrema eleganza, riff e assoli elettrici di scuola heavy britannica, tasti d’avorio che fanno il bello e cattivo tempo, come negli anni in cui spadroneggiavano signori delle keys come Jon Lord e Rick Wakeman, e gustosi inserti folk, sono il ripieno di questi undici confetti musicali che non tralasciano una vena epica e fiera tipica di cavalieri e custodi del Santo Graal.
Un Graal che forse non è una coppa come tutti credono, ma uno spartito dove racchiuse ci sono le note di brani fuori dal tempo come Pick Up All The Faults, Revenge, l’accoppiata capolavoro The Day That Never Ended / Stronger, riassunto compositivo della band dove troverete tracce di Rainbow, Uriah Heep, Yes, con qualche richiamo al blues del serpente bianco era Lord ed un’attitudine heavy sempre presente e mai doma.
L’album continua il suo viaggio tra emozioni e brividi e si arriva così alla celestiale Goodbye, altra canzone capolavoro, dove a fare capolino sono i Genesis di Peter Gabriel, sempre con un taglio da ballad metal ma marchiata a fuoco dalla discografia settantiana della band inglese.
Viviamo in tempi in cui, purtroppo, anche la musica risente della vita frenetica che la società moderna ci impone, sempre alla ricerca del nostro Graal, che poi altro non è che una pace interiore, un attimo per concederci qualcosa che aiuti a sognare: io l’ho trovato, il suo nome è Chapter IV.

Tracklist:
1.Little Song
2.Pick Up All The Faults
3.Shadowplay
4.Revenge
5.The Day That Never Ended
6.Stronger
7.Guardian Devil
8.Lesser Man
9.Last Hold
10.Goodbye
11.A Poetry For A Silent Man
12.Northern Cliff

Line-up:
Andrea Ciccomartino – Voce, Chitarra Rtimca e Acustica
Francesco Zagarese – Chitarra Solista
Michele Raspanti – Basso
Danilo Petrelli – Tastiere
Alex Giuliani – Batteria

GRAAL – Facebook

Bastian – Among My Giants

Riedizione a cura della Underground Symphony del bellissimo album per Sebastiano Conti,che, con il monicker Bastian, raccoglie una manciata di stelle del metal mondiale per regalrci un lavoro sulla scia di Black Sabbath,Dio e Rainbow.

Lo scorso anno uscì, autoprodotto, questo bellissimo lavoro di metal classico e hard rock ottantiano ad opera del chitarrista siciliano Sebastiano Conti che, con il monicker Bastian, riunì un manipolo di stelle come vocalist del calibro di Mark Boals e Michael Vescera, entrambi ex Malmsteen, e batteristi di pari fama quali Vinnie Appice (Black Sabbath e Dio), John Macaluso (Riot, James Labrie, Malmsteen, TNT) e Thomas Lang (Paul Gilbert, Glenn Hughes).

Impreziosito dalla chitarra e dal talento compositivo del musicista nostrano, Among My Giants esplodeva in tutto il suo splendore, una splendida opera che riproponeva i fasti dell’hard rock di metà anni ’80: un tributo al metal più nobile, di cui fu il cordone ombelicale e che portò la nostra musica preferita a viaggiare tra i decenni successivi fino ai giorni nostri.
Un sogno per Sebastiano che si realizzò, circondandosi di musicisti leggendari di cui lui è stato ed è un fan, unendoli sotto il programmatico titolo Among My Giants: un lavoro mastodontico, nel quale Conti si prese cura di tutti i dettagli, regalando ai fortunati ascoltatori più di un’ora di musica immortale.
Purtroppo, senza il concreto supporto di una label alle spalle, l’album rischiava di passare inosservato, annegato nel mare di uscite che ogni giorno si affacciano sul mercato discografico, poco incline alla qualità e molto affascinato dai generi più cool.
Finalmente qualcuno che non sia una piccola ‘zine come la nostra si è accorto di quest’opera: la Underground Symphony, storica label nostrana, ha messo nelle mani di Sebastiano una penna per la firma sul contratto ed è così che Among My Giants esce completamente rinnovato nella sua veste grafica, ma soprattutto lo si potrà trovare in qualsiasi negozio di musica, in modo che chiunque possa avere la possibilità di far suo questo splendido lavoro.
Si potranno assaporare quindi le atmosfere dell’opener Odissey, in pieno stile Black Sabbath era Tony Martin, la fantastica performance del chitarrista su brani come Hamunaptra, Magic Rhyme e Mother Earth, il blues rock di Justify Blues, jam strumentale in compagnia di Giuseppe Leggio alle pelli e Corrado Giardina al basso, le atmosfere cangianti che passano dal metallo epico di Rainbow/Dio, ai ritmi più stradaioli di Sexy Fire e che rendono il lavoro molto vario, toccando vette emozionali altissime nelle due ballad The Fisherman e An Angel Named Jason Becker, dedicata al chitarrista americano.
Un lavoro enorme, un sogno che si è realizzato per il musicista nostrano e che vede i propri sforzi ulteriormente premiati da un contratto e dal vedere la propria opera finalmente a disposizione di tutti gli amanti di queste sonorità.
Non avete più scuse, fate vostro questo album ed anche voi vi troverete “tra i giganti”.

Tracklist:
1.Odyssey
2.Mother Earth
3.Hamunaptra
4.Tamburine Song
5.Secret and Desire
6.Sexy Fire
7.Lights and Shadows
8.Justify Blues
9.Magic Rhyme
10.The Beach
11.The Fisherman
12.Song of the Dream
13.Soul Hunters
14.An Angel Named Jason Becker

Line-up:
Sebastiano Conti – Guitars
Guests:
Michael Vescera – Vocals
Mark Boals – Vocals
Vinnie Appice – Drums
Thomas Lang – Drums
John Macaluso – Drums
Giuseppe Leggio – Drums
Corrado Giardina – Bass

BASTIAN – Facebook

Breakin Down – Judas Kiss

Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Che in questi ultimi anni l’hard rock stia vivendo una seconda giovinezza (a livello qualitativo) non è un mistero: dai suoni classici a quelli più moderni il genere sta regalando album in linea con le produzioni passate; certo, le band ai primi posti delle classifiche come negli anni d’oro sono un ricordo, ma le varie reunion e gli ottimi ultimi lavori dei nomi storici, sommato ad una scena underground più che mai viva e di qualità, fanno sperare almeno in uno stabilizzarsi del genere su livelli di popolarità sufficienti per non andare a cercare album tra le edizioni giapponesi, come accadeva negli anni novanta e all’inizio del nuovo millennio.

Via uno, sotto l’altro, ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi in gruppi usciti con lavori esaltanti: i nomi sono tanti, specialmente nella scena nazionale, a cui si aggiungono i sardi Breakin Down con il loro ultimo lavoro dal titolo Judas Kiss.
Nati nell’ormai lontano 1999 da un’idea della coppia Simone Piu (voce e basso) e Francesco Manna(chitarra), iniziano a calcare i palchi della regione come cover band, ma scrivere pezzi propri è un passo obbligatorio, così come assestare la line-up che, nel corso degli anni, vede avvicendarsi vari musicisti della scena isolana.
Il primo lavoro del gruppo esce nel 2011, quando la band vola negli states e con Fabrizio Simoncioni (Ligabue, Litfiba, Negrita tra gli altri) alla produzione incidono Miss California, che li porta in tour per l’Europa calcando inoltre palchi in compagnia di Pino Scotto, Stef Burns, Paolo Bonfanti ed Eric Sardinas.
Veniamo a Judas Kiss: l’album è uno splendido concentrato di hard rock americano, un riassunto di quello che laggiù è stato offerto negli ultimi quarant’anni di musica rock racchiuso in poco più di mezzora di suoni stradaioli, ipevitaminizzati da ritmiche adrenaliniche, watts elargiti a profusione ed un’anima southern che, quando prende il sopravvento, impreziosisce i brani, che siano nati sulle strade assolate della Sardegna o sulle route americane, poco importa.
Da sentire tutto d’un fiato, il lavoro tiene l’ascoltatore in pugno per tutta la sua durata, rapito dal tono sporco e sanguigno di Simone Piu, dalle sei corde grintose che inanellano ritmiche e solos che definirle trascinanti è un eufemismo (Francesco Manna e Mauro Eretta), e stordito dai colpi sul drumkit di Fabrizio Murgia.
Potrei parlarvi dello straordinario rock’n’roll di Babylon Rock City, del riff d’apertura del lavoro su Diamonds And Bitches, brano dal groove micidiale, delle tastiere settantiane nella semiballad The Long Goodbye, delle ritmiche stoner di Liver And Lovers e Rock’N’Roll Is Dead (Kyuss), ma in realtà non c’è una sola canzone, in questo disco, che non meriterebbe una particolare menzione.
Judas Kiss raccoglie l’eredità di Lynyrd Skynnyrd, Rolling Stones, Motorhead, senza dimenticare che siamo ormai nel nuovo millennio, ed allora i Breakin Down lo ammantano di sonorità desertiche alla Kyuss, ottenendo per un risultato stupefacente.
Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Tracklist:
1.Diamonds And Bitches
2.Judas Kiss
3.Dangerous Rose
4.Blood And Blood
5.The Long Goodbye
6.Home Sweet Hell
7.Babylon Rock City
8.Liver And Lovers
9.Woman
10.Sometimes
11.Rock’n’Roll Is Dead
12.Texas Radio

Line-up:
Simone Piu- Basso Voce
Francesco Manna-Chitarra
Mauro Eretta-Chitarra
Fabrizio Murgia-Batteria

BREAKIN DOWN – Facebook

Sick N’ Beautiful – Hell Over Hell

Preparatevi e andate allo spettacolo, il circo è arrivato in città!

Certo che nella capitale in fatto di metal e rock non si scherza: con ancora nelle orecchie l’industrial/street/ glam dei divertentissimi Dope Stars Inc, gruppo che se fosse straniero sarebbe idolatrato da mezzo globo, ecco che mi esplode nelle orecchie Hell Over Hell, debutto di questo fantastico combo, sempre di Roma, partito alla conquista del globo con il suo spettacolo di hard rock circense, che poi non è altro che hard rock alternativo, colmo di groove e digressioni moderne, talmente ben fatto che comincio a pensare che i Sick N’ Beautiful siano davvero di un altro pianeta.

Prodotto alla grande tra Roma e Los Angeles e licenziato dalla Rosary Lane Usa, l’album è composto da un lotto di brani divertentissimi e dall’appeal esagerato: la band capitanata dalla singer Herma, dotata di una voce sensuale, piccante e tremendamente cool, spazia tra l’hard rock stradaiolo, con bordate di groove e ritmiche industrial che accentuano i ritmi, rendendoli ambigui e ipnotizzanti; senza farsi mancare nulla, i Sick N’ Beautiful affondano il colpo, piazzando solos metallici grondanti feeling dalle corde delle due asce di Rev C2 e Lobo.
Le canzoni di questo lavoro (tredici più tre interludi elettro-atmosferici) spaziano tra l’industrial/groove di Rob Zombie e l’hard rock di matrice statunitense: il look dei protagonisti amalgama il fascino da zombie futurista dell’ex leader degli immensi White Zombie alla teatralità fantascientifica dei Kiss e del glam/horror di Alice Cooper, influenze dichiarate del gruppo, nel quale personalmente ho trovato anche molte affinità con lo Slash solista di “Beautiful Dangerous”, brano in compagnia di Fergie contenuto nel primo album del chitarrista americano, e con l’alternative dei Nymphs di Inger Lorre.
Spettacolare il singolo e primo video New Witch 666, dal solo orientaleggiante e dalle ritmiche industrial/groove poggiate su un’atmosfera da grand guignol, così come le ritmiche del basso pulsante di Sick to the Bone, che sfociano nello street metal di Bigbigbiggun, l’orchestrazione futurista di Makin’Angels, la trascinante No Sleep Till Hollywoood e la sexy Queen Of Heartbreakers.
Ancora atmosfere dal lontano oriente con Pain For Pain: il basso di Bag Daddy Ray pulsa ipnotico, così come gli interventi elettronici, mentre Gates To Midnight risulta una sorta di semi ballad, originalissima, cadenzata, ammaliante ed Hell Over Hell si avvia al gran finale con (All In The Name Of) Terror Tera, dove le ritmiche originalissime e la voce maschile, questa volta protagonista, ci stupiscono con sfumature al limite del blues, in un brano dall’andamento geniale.
Album che smuove montagne, divide oceani e provoca uno tsunami di emozioni nei corpi e nelle menti … forza gente, preparatevi e andate allo spettacolo, il circo è arrivato in città!

Tracklist:
1. March of the Scolopendra
2. Sick to the Bone
3. Bigbigbiggun!
4. Radio Siren
5. Interlude – Angel of the Lord
6. Makin’ angels
7. Kastaway Krush
8. Interlude – A Swedish Rhapsody
9. New Witch 666
10. No Sleep Till Hollywood
11. Queen of Heartbreakers
12. Pain for Pain
13. Bleed on Me
14. Gates to Midnight
15. Interlude – Pots, Pans, and Empty Green Meth Cans
16. (All in the Name Of) Terror Tera

Line-up:
Herma – Vocals
Rev C2 – Guitar
Lobo – Guitar
Big Daddy Ray – Bass
Mr.PK – Drums

SICK N’BEAUTIFUL – Facebook

Saints Trade – Robbed In Paradise

“Robbed In Paradise” è costruito intorno ad una manciata di ottimi brani, colmi di anthem e gustosamente melodici, e risulta così un ascolto obbligato per i fan dell’hard rock classico.

Quando si parla di hard rock è facile, di questi tempi, confondere quelle che sono le sonorità classiche provenienti dagli anni ottanta con i suoni moderni, ipervitaminizzati, ma che con il genere hanno poco a che fare: chiaro che, per chi scrive, hard rock è un sinonimo che viene in aiuto per spiegare al lettore di turno per definire suoni grintosi e potenti, a volte dimenticando le peculiarità per cui una band viene descritta come appartenente al genere del quale i bolognesi Saints Trade sono ottimi paladini.

Nata nel 2009, la band ha già pubblicato un primo lavoro autoprodotto (“A Matter Of Dreams” del 2012) ma, soprattutto, ha avuto l’onore di aprire al festival di Fleetwood per i Ten di Gary Hughes, evento poi che ha fornito la spinta definitiva all’incisione l’album di debutto.
Prodotto da Roberto Priori, già al lavoro sul primo album, Robbed In Paradise vede la partecipazione in veste di ospiti dello stesso Priori, del tastierista Pier Mazzini dei Perfect View, e di Tommy Denander alla sei corde (già al lavoro con Paul Stanley, Toto, Alice Cooper, Robin Beck e House Of Lord).
Il disco offre undici canzoni di hard rock ottantiano, che vanno dalla tradizione british a quella a stelle strisce, dalle ritmiche clamorose e trascinanti, colme di ritornelli facilmente memorizzabili e di quella vena melodica tipicamente AOR, con l’alternanza di atmosfere e vibrazioni in una tempesta di suoni dall’appeal elevatissimo.
Partendo dalla prima, graffiante, To The Light, dalle ritmiche che portano alla mente i fratelli Young in prestito ai Van Halen di Sammy Hagar, si passa facilmente al clima arioso creato dai tasti d’avorio di Feel The Fire, ottimo esempio di AOR style.
Inside è il tipico brano da arena rock (Tommy Denander lo impreziosisce con la sua chitarra), con riffone cadenzato supportato da un’ottima prova della calda voce di Santi Libra, seguito da Like A Woman e da California all’insegna del puro hard rock, due brani dal flavour statunitense con la seconda, in particolare, dal refrain irresistibile.
Dopo la ballad Dreams Running Wild si torna a rockare alla grande con Rock’n’Roll Man, solo smorzata dalla seconda ballad semiacustica Into Your Eyes, lasciando per ultima la canzone più moderna del lotto, quella The Game dalle ritmiche colme di groove che sembra guardare ad un futuro prossimo, laddove potrebbero aprirsi nuovi orizzonti per una band dalle ottime potenzialità.
Robbed In Paradise è costruito intorno ad una manciata di ottimi brani, colmi di anthem e gustosamente melodici, e risulta così un ascolto obbligato per i fan dell’hard rock classico.

Tracklist:
1.To The Light
2.Feel The Fire
3.Inside
4.Allied
5.Like A Woman
6.California
7.Dreams Running Wild
8.Siria (Dawn Breaks In)
9.Rock’n’Roll Man
10.Into Your Eyes
11.The Game

Line-up:
Joana Lachkova – Drums
Claus – Guitars
Santi Libra – Vocals
Matteo Angelini – Bass Guitar

SAINTS TRADE – Facebook

Nightraid – Nightraid

Demo d’esordio per i rockers umbri Nightraid.

I ternani Nightraid arrivano al demo d’esordio con il loro convincente hard rock cantato in italiano: fondati dall’ottimo vocalist Andrea, con un passato nel death metal, dopo aver trovato nel chitarrista Alessandro il partner giusto per portare avanti il progetto, la band nasce per fare rock’n’roll con gli attributi, in due parole hard rock.

Il duo nel frattempo diventa un quintetto, cambiando diversi elementi nella line-up e girando per i locali suonando cover di Ozzy, Motorhead e Pino Scotto, l’influenza maggiore sui brani di questo demo.
Al gruppo si aggiungono infine Andrea alla chitarra, Leonardo al basso e Filippo alle pelli, ed è con questa formazione che incidono i brani racchiusi in questo composto da quattro brani di hard rock senza compromessi e dall’ottimo groove.
Pino Scotto fa da ideale padrino alle canzoni, sia musicalmente sia per l’ugola sporca e grintosa del vocalist, ottimo interprete di botte d’adrenalina come Stand By, Nightraid e Misteri, ma tra i solchi delle tracce affiorano riff rimembranti i fratelli Young e ritmiche motorheadiane per un risultato trascinante, specialmente nei primi tre brani.
Il lavoro si chiude con l’ottima semiballad Indians, heavy nel bellissimo solo e interpretata con piglio guerresco dal frontman, risultando il brano top della band, per niente ruffiana ma intensa nel suo incedere ed impreziosita dall’ottimo testo.
Un inizio niente male per il combo umbro: con passione ed attitudine da vendere ed una manciata di buone canzoni da portare in giro, questo demo si può considerare un ottimo inizio.

Tracklist:
1.Stand By
2.Nightraid
3.Misteri
4.Indians

Andrea – voce
Alessandro – chitarra
Leonardo – basso
Andrea – chitarra
Filippo – batteria

NIGHTRAID – Facebook

 

Hell In The Club – Devil On My Shoulder

Spettacolare secondo lavoro degli Hell in The Club, super band italiana, con membri di Death SS,Secret Sphere e Elvenking.

E c’è ancora qualcuno che, quando si parla di metal nel nostro paese, arriccia il naso come se lo tsunami di talenti che, fortunatamente, il nostro caro e vecchio stivale può contare, fosse invisibile.

Per chi non avesse avuto il piacere di ascoltare il primo album di questa spettacolare band tutta italiana (“Let The Games Begin”), ricordo che gli Hell In The Club non sono altro che l’unione di musicisti appartenenti a band che hanno dato e danno tuttora lustro alla musica metallica italiana, quali Andrea Buratto al basso (Secret Sphere), Davide Moras alla voce (Elvenking), Federico Pennazzato alle pelli (Death SS, Secret Sphere), più Andrea Piccardi alla chitarra. Progetto? Band a tutti gli effetti? Poco importa, visto che i musicisti si cimentano un genere lontano anni luce da quello proposto con le band di provenienza, dando vita ad un hard rock incandescente, dalla forte impronta street ma, allo stesso tempo, moderno ed enfatizzato da una produzione spettacolare (Simone Mularoni, ovviamente) e dal songwriting stratosferico. Evitate di sedervi per ascoltare disco, intanto non durerete con il fondo schiena appoggiato sul divano per più di un minuto, sotto il bombardamento di questi tredici brani di hard rock stradaiolo tremendamente divertente. La band si diverte e ci fa divertire, puro rock’n’roll da arena, musica da lasciarsi andare e cantare a squarciagola, dimostrazione che, non esistono generi più o meno datati o cool, perché quando il livello della qualità si alza a questi livelli si può solo omaggiare i protagonisti, dal talento mostruoso, da far impallidire sia i mostri sacri degli anni ottanta, che le nuove leve scandinave da cui la band prende spunto per questo ennesimo party album. Dall’opener Bare Hands è un susseguirsi di hit, da far resuscitare cadaveri, che si trasformeranno in zombie affamati al ritmo della sensazionale Beware The Candyman, ultra rock’n’roll da infarto. Ci deve essere per forza lo zampino del diavolo, Proud esalta nel suo incedere alla Bon Jovi, le songs si alternano in un grandioso omaggio a quello che è puro divertimento in musica, Whore Paint, Pole Dancer consacrano la band e questo lavoro come uno dei più riusciti in ambito hard rock di quest’anno. Impatto e attitudine, legati insieme da soluzioni geniali, fanno di Devil On My Shoulder una risposta efficace ai sordi che continuano a sostenere che il rock è morto e, anche quando tira il freno e consegna le immancabili ballad (We Are The Ones e Muse), la band regala brividi con due brani da pelle d’oca. Spettacolare ritorno dunque per il quartetto alessandrino, protagonista di questo album che si piazza sul podio delle migliori uscite discografiche nel genere a livello internazionale.

Track list:
01. Bare Hands
02. Devil On My Shoulder
03. Beware Of The Candyman
04. Proud
05. Whore Paint
06. Pole Dancer
07. We Are The Ones
08. Save Me
09. Toxic Love
10. Muse
11. Snowman Six
12. No More Goodbye
13. Night

Line-up:
Andrea “Andy” Buratto – Bass
Federico “Fede” Pennazzato – Drums
Andrea “Picco” Piccardi – Guitars (lead)
Davide “Dave” Moras – Vocals

HELL IN THE CLUB – Facebook

Midnight Sin – Sex First

“Sex First” è un altro ottimo esempio di come l’hard rock dai suoni sleazy stia tornando a far danni.

Dopo la fine degli anni d’oro ottantiani, l’hard rock dall’impronta street e glam aveva perso appeal nel mercato discografico, sostituito dal successo mondiale del grunge e dei suoni alternative.

Relegato nel sottobosco dell’underground, il genere ha cominciato a risalire la china già da un pò di anni, grazie alle sferzate rock’n’roll provenienti dal nordeuropa, che non hanno lasciato indifferenti né i paesi a sud del vecchio continente né gli Stati Uniti. Vero è che molte delle band storiche votate ai suoni del Sunset Strip si sono lanciate in reunion più o meno riuscite, trascinando agli onori della cronaca anche le nuove leve. I Midnight Sin arrivano all’esordio sotto l’ala della Bakerteam con questo divertente Sex First, che percorre la strada già intrapresa da ottime band che sono balzate agli onori della cronaca negli ultimi tempi (Steel Panthers), con questo riuscito esempio di street/sleazy grintoso e dai riff metallici graffianti che faranno la gioia di chi ancora si diverte con l’hard rock da party, selvaggio e mai domo, e dall’attitudine dannatamente rock’n’roll. Suonato davvero bene dai cinque ragazzacci italiani, Sex First si rivela a tratti esaltante, grazie a songs che entrano in testa al primo ascolto e che ci costringono a trattenerci dal saltare come grilli tra le mura domestiche in piena trance da festa, totalmente sopraffatti dalla carica che la band immette in dosi massicce in brani come l’opener Midnight Revolution, squarciata da ottimi riff metallici e trascinante come un fiume in piena, ‘Till It’s All Gone Away, Rise And Yell e 2 Words, brani dall’impatto debordante e veri inni al rock’n’roll iper vitaminizzato. Non mancano momenti da lacrimucce, avvinghiati alla metal girl d’ordinanza, con le classiche ballad che stemperano il clima selvaggio dell’album e ci fanno riprendere fiato (You Piss Me Off e la conclusiva Sweet Pain). Sex First è un altro ottimo esempio di come il genere stia tornando a far danni, noi non possiamo che rallegrarci di ciò e premere per l’ennesima volta il tasto play del nostro lettore, rituffandoci nel party organizzato per noi dai Midnight Sin.

Tracklist:
1. Snake Eyes
2. Midnight Revolution
3. Feed Me With Lies
4. No Matter
5. ‘Till It’s All Gone Away
6. You Piss Me Off
7. Rise & Yell
8. Code: 69
9. 2 Words
10. Sweet Pain

Line-up:
Albert Fish – vocals
LeStar – lead guitar
Maurice Flee – rhythm guitar
Acey Guns – bass
Dany Rake – drums

MIDNIGHT SIN – Facebook

Rival Sons – Great Western Valkyrie

Quarto album e ancora grande hard rock settantiano per i Rival Sons.

Che l’hard rock di matrice settantiana sia tornato alla ribalta nel panorama internazionale da un po’ di anni è cosa nota, le band che riesumano con abilità il sound che fece la fortuna di Led Zeppelin, The Doors e Deep Purple, tanto per fare tre nomi a “caso”, sono tante e di ottima qualità: tra queste ci sono i californiani Rival Sons, giunti con questo Great Western Valkyrie al quarto disco in studio, dopo l’esordio del 2009 “Before The Fire”, il primo per la Earache del 2011 “Pressure And Time”, ed il bellissimo predecessore “Head Down” del 2012, intervallati da un EP del 2011 autointitolato.

Intanto il nuovo album porta un paio novità, la presenza del bassista Dave Beste e l’aiutino alle tastiere di Ikey Owens, già The Mars Volta e session per Jack White, e conferma i Rival Sons come una delle più talentuose band della nuova generazione, con una compilation di brani irresistibili, un inchino davanti all’altare del dio del rock che aveva i maggiori e più affezionati discepoli nel decennio settanti ano: spettacolari atmosfere hard rock colme di groove ed accenni blues, un Hammond che a tratti diventa protagonista come poteva esserlo quello del grande Jon Lord e momenti di calda poesia musicale presa dai migliori spartiti della band di Jim Morrison, un susseguirsi di riff direttamente da casa Page e la caldissima voce di Buchanan a rinverdire i fasti dei grandi singer del passato, con una prova mai così efficace su dei brani splendidi.
Electric Man e Good Luck invitano l’ascoltatore ad un giro sulla giostra dei Rival Sons, un ottovolante di suoni freak, un caleidoscopio di colori e vibrazioni direttamente dall’universo hard blues ai quali è impossibile resistere; Secret non è da meno, chitarra e Hammond accompagnano il vocalist mai così “plantiano”, mentre i brani si susseguono uno più bello dell’altro e sembra che questa libidine non abbia mai fine: Play the Fool, la bellissima Good Things che sembra uscita da un film di Quentin Tarantino, con il suo andamento da danza con un serpente albino (chi si ricorda la danza vampirica della stupenda Salma Hayek di “Dal tramonto all’alba”?).
Ancora la doorsiana Rich and Poor, la emozionale ballad dal sapore blues Where I’ve Been e la conclusiva Destination on Course, suite zeppeliniana dove chitarra psichedeliche incrociano cori dai rimandi gospel, in una jam acida d’antologia.
Grande band e grandissimo disco, l’hard blues nel 2014 passa assolutamente da band come i Rival Sons, non certo da raccolte o remasters di dinosauri di cui si conosce la discografia nei dettagli.
Album bellissimo da avere, punto.

Tracklist:
01. Electric Man
02. Good Luck
03. Secret
04. Play The Fool
05. Good Things
06. Open My Eyes
07. Rich and the Poor
08. Belle Starr
09. Where I’ve Been
10. Destination on Course

Line-up:
Jay Buchanan – Vocals
Scott Holiday – Guitars
Michael Miley – Drums
Dave Beste – Bass

RIVAL SONS – Facebook

Hangarvain – Best Ride Horse

Esordio bomba per i napoletani Hangarvain con il loro Best Ride Horse, hard rock zeppo di influenze southern e post grunge.

Comincio ad avere un’età, e botte di vita come questo disco lasciano il segno su un vecchio sognatore metal/rocker come me che, per non farsi mancare nulla, deve anche spiegare le sensazioni provate nell’ascoltare una decina di canzoni che ti entrano nelle vene e cominciano a circolare nell’organismo: la pressione si alza, le tempie sembrano esplodere ed è quasi impossibile rimanere seduti e insomma, tutto questo quando non si è più dei ragazzini può anche far male …

La Red Cat immette sul mercato questa bomba sonora dei napoletani Hangarvain, dal titolo Best Ride Horse, dieci brani nei quali  l’hard rock americano ricamato di fantastiche sfumature southern ed il post grunge si incontrano e, amoreggiando, danno alla luce una creatura perfetta, una raccolta di hit da infilare nell’autoradio del vostro “cinquefette” (beh siamo in Italia, non scordiamolo) e partire liberi, dalla Valtellina alla Sicilia, trasformando le vie della nostra penisola nelle infinite super strade americane. Sergio Toledo Mosca è il fantastico cantore di tanta meraviglia, voce dal tiro micidiale che diventa malinconicamente southern nelle splendide ballad che profumano di Lynyrd Skynyrd, strappando più di una lacrima al vecchio di cui sopra. Alessandro Liccardo, alla sei corde, è invece colpevole di far saltare le coronarie a suon di riff su riff stracolmi di groove, per poi tornare ad imbastire accordi acustici al limite del roots; Alessandro Stellano al basso e Andrea Stipa alle pelli sono la gettata di cemento su cui è costruito il sound degli Hangarvain, una sezione ritmica tostissima, piena, sempre presente e aiutata da una produzione da top band ad opera dello sesso chitarrista. Dai primi due pezzi (Through the space and time e Get on) si intuisce subito che l’album non farà prigionieri, con due bordate hard rock trasudanti groove, con quel quid post grunge (su tutti i Creed) che piacerà anche ai più giovani, ma a mio parere sono le ballad a fare la differenza e la prima di queste è già un capolavoro (Turning back on my way). Free bird e Knock back doors tornano su ritmi sostenuti ma più vicini alla frontiera americana, mentre Way to salvation è l’ennesima buona ballad; Hesitation sorprende per l’uso della doppia voce, una creediana e l’altra che sembra provenire direttamente dai primi anni settanta, prima che Father to shoes ci avvolga nel più confortevole spirito southern: un brano capolavoro con inizio acustico e la chitarra che prende per mano il pezzo con riff da applausi a scena aperta. Last time e la conclusiva A life for Rock’n’roll mettono la parola fine a un disco di assoluta eccellenza, da far ascoltare e riascoltare a chi ci chiede perché amiamo tanto il rock: Best Ride Horse è la migliore risposta.

Tracklist:
1.Through the space and time
2.Get on
3.Turning back on my way
4.Free bird 5.Knock back doors
6.Way to salvation
7.Hesitation
8.Father shoes
9.Last time
10.A life for rock’n’roll

Line-up:
Sergio Toledo Mosca – Vocals
Alessandro Liccardo – Guitars,Backing Vocals
Alessandro Stellano – Bass, Backing Vocals
Andrea Stipa – Drums

The Sunburst – Tear Off The Darkness

Gran bel disco l’esordio dei savonesi The Sunburst, il meglio dell’ultimo ventennio di hard rock alternativo tutto in un unico album.

Questo è il classico album che, se registrato da una band americana, farebbe sfracelli occupando anche le copertine della stampa specializzata, quella con le copertine lucide e le recensioni da tre righe, ma, purtroppo per loro, i The Sunburst sono liguri (Savona) e allora, pur avendo concepito un gran disco d’esordio, sono destinati a lottare e non mollare mai.

Il loro Tear Off The Darkness è un album di hard rock alternativo nel quale le influenze del passato si sentono chiaramente pur risultando un disco moderno, fresco, suonato benissimo, cantato ancora meglio, che non ha (appunto) nulla da invidiare ai pur ottimi prodotti che giungono dagli States. Curiosi? Bene, allora fare un passo indietro è doveroso per conoscerli meglio: la band nasce nel 2012 da un idea della coppia Davide Crisafulli (cantante e chitarra ritmica) e Luca Pileri (chitarra solista), ai qiuali si aggiunge la sezione ritmica composta da Stefano Ravera alla batteria e, in questo 2014, Francesco Glielmi al basso. In quello stesso anno, con la prima line-up, registrano un Ep ai Nadir Studios di Tommy Talamanca ottenendo recensioni positive, facendo diverse date dal vivo e, dopo uno stop di qualche mese, i The Sunburst riprendono la strada che porta a Tear Off The Darkness. L’inizio dell’album è da ovazione, con Follow Me che riempie la stanza con un riff corposo ed un ritornello cantabile già al primo ascolto, talmente è bello e memorizzabile; scopriamo così che alla band piace andare giù pesante, grazie ad assoli melodici e accelerazioni ritmiche non così distanti dal metal, con Davide che si conferma un signor cantante: la sua voce bella e carismatica affascina e rapisce, e siamo solo alla prima traccia. Infatti arrivano Something Real e la stupenda The Flow, dal riffone alla Black Label Society a farci ormai innamorare di questo bellissimo lavoro; si continua a viaggiare su territori di eccellenza con Be Yourself, con le chitarre ora all’unisono, ora con parti soliste melodiche ad ergersi a protagoniste del brano, altro potenziale singolo, così come Left Behind. Gli Alter Bridge sono forse il riferimento che ad un primo ascolto più di altri escono maggiormente allo scoperto, soprattutto a mio parere l’uso della voce di Davide, dallo stile più metallico come accade nella band americana, ma è un po’ tutta la scena degli ultimi vent’anni ad essere assimilata dai nostri. Louder Than Love, il disco più bello dei Soundgarden, è tutto nel riff di Rising, conclusiva e stupenda song che inizia come e meglio di Hands All Over, picco di quel magnifico lavoro, per poi virare su umori più personali con un rallentamento a metà brano ed una sfuriata conclusiva con la quale tutta la band si congeda alla grande. Prodotto benissimo, l’album è stato registrato ai Greenfog Studios di Mattia Cominotto a Genova per poi essere masterizzato e mixato ad Imperia negli Ithil World Studios da Giovanni Nebbia. Mai avuto dubbi sulle qualità delle nostre band quando si tratta di rock alternativo ma un lavoro come questo, assieme a quello degli Swallow My Pride recensito ultimamente, dimostrano ancora una volta che in Italia ci sono tutte le potenzialità per giocarsela alla pari con il resto del panorama musicale internazionale, basta volerlo e supportare una scena che lo merita.

Tracklist:
1.Follow me
2.Something real
3.The flow
4.Be yourself
5.Left behind
6.Unforgiven
7.Another day
8.Rising

Line-up:
Davide Crisafulli – Voce,Chitarra ritmica
Luca Pileri – Chitarra solista
Stefano Ravera – Batteria
Francesco Glielmi – Basso

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