Malet Grace – Humanocide

Ottimo ritorno dei Malet Grace con questo ep intitolato Humanocide, consigliato agli amanti del metal dai gusti classici e progressivi, legati che siano al thrash o all’hard’n’heavy.

Dei Malet Grace vi avevamo parlato in occasione dell’uscita del debutto Malsanity, un ottimo lavoro che riuniva in un unico sound l’irruenza estrema del thrash con i ricami tecnici e le sfumature del metallo progressivo.

Ad oggi la band è tornata ad essere un duo dopo le registrazioni di questo mini cd per l’uscita dalla line up, a distanza di pochi giorni, della sezione ritmica (il batterista Andrea Giovanetti ed il bassista Andrea Paglierini).
Dunque i due fondatori (Gia,paolo Polidoro ed Alessandro Toselli) continuano la loro avventura con il monicker Malet Grace, ripartendo da Humanocide e dalla firma con la Spider Rock Promotion.
Cinque brani più intro per quasi mezzora di musica metal confermano le buone impressioni suscitate dal full length licenziato lo scorso anno, anche se il sound questa volta è meno soggiogato dall’elemento estremo ed è più in linea con il metal classico di ispirazione progressiva.
Ovviamente il thrash metal è presente, specialmente in alcune ritmiche mozzafiato (notevole The Constant Rhyme Of Perseverance) ma in generale la band questa volta lascia all’heavy metal più raffinato e progressivo il compito di introdurre l’ascoltatore nel proprio mondo.
Infatti, le varie Redemption Of Fear e Malerie mi hanno ricordato gli Eldritch più diretti, mentre Sometimes I Need To Die è una ballad in crescendo dalle atmosfere drammatiche, che placa ma non spezza la tensione comune a tutti i  brani presenti su Humanocide.
Ottimo ritorno dunque, e sperando che la band risolva i problemi legati alla line up, consiglio un ascolto agli amanti del metal dai gusti classici e progressivi, legati che siano al thrash o all’hard’n’heavy.

Tracklist
1.The Breath of a Psychotic Misfit
2.Redemption of Fear
3.Malerie
4.Sometimes I Need to Die
5.The Constant Rhyme of Perseverance
6.A Compensation of Souls

Line-up
G. Polidoro – Vocals/Lead and Rhythm guitar
A. Toselli – Lead and Rhythm guitar

MALET GRACE – Facebook

Sonic Prophecy – Savage Gods

Heavy power metal duro come il granito, epico ed oscuro come vuole la tradizione statunitense ma che guarda non poco al vecchio continente.

La Rockshots licenzia il terzo album di questa band statunitense chiamata Sonic Prophecy che si rivela uno dei primi sussulti classici di questo nuovo anno metallico.

Il gruppo di Salt Lake City, fondato nel 2009, ha lavorato non poco in questi primi nove anni di attività e Savage Gods è un enorme macigno metallico, melodico il giusto, pesante ed epico come nella migliore tradizione classica e che, pur mantenendo un approccio europeo, non tradisce le proprie origini.
Quindi come nella migliore tradizione statunitense il sound è pregno di oscurità, non accelera troppo ma dà la sensazione di un mastodontico pezzo di granito metallico, valorizzato dall’ottima interpretazione di Shane Provstgaard dietro al microfono e da assoli classici piazzati qua e là tra i brani.
L’apertura è lasciata alla title track che ci presenta una band compatta e forgiata nell’acciaio, tutto è possente ed oscuro ed il passaggio al singolo Night Terror è quasi obbligato; ottima l’accoppiata Dreaming Of The Storm/Man The Guns, la prima una semi ballad in crescendo, la seconda un brano che ricorda non poco gli Accept, mentre con Walk Trough The Fire si torna a cavalcare epici destrieri nelle pianure della terra metallica, prima di gridare al cielo il coro di A Prayer Before Battle.
I suoni escono puliti, la performance del gruppo è al top e per gli amanti del genere il risultato non può che essere sopra le righe: i Sonic Prophecy ci regalano un ottimo lavoro, e se l’originalità non abita tra lo spartito del gruppo con le varie influenze determinare per la formazione del sound, per i defenders duri e puri brani della caratura di Man And Machine sono chicche da non perdere per nessun motivo.
Heavy power metal duro come il granito, epico ed oscuro come vuole la tradizione statunitense ma che guarda non poco al vecchio continente, consigliato.

Tracklist
1.Savage Gods
2.Night Terror
3.Unhoy Blood
4.Dreaming of the Storm
5.Man the Guns
6.Walk Through the Fire
7.A Prayer Before Battle
8.Iron Clad Heart
9.Man and Machine
10.Chasing the Horizon

Line-up
Shane Provstgaard – Vocals
Darrin Goodman – Guitar
Sebastian Martin – Guitar
Ron Zemanek – Bass
Matt LeFevre – Drums

SONIC PROPHECY – Facebook

Corrosion Of Conformity – No Cross No Crown

I Corrosion Of Conformity sanno suonare rock pesante e licenziano un altro best seller che si aggiunge alla loro discografia, alzando l’asticella quanto basta per risultare inarrivabili per almeno il 90% dei gruppi odierni.

Pepper Keenan è tornato nel gruppo e i Corrosion Of Conformity tornano a fare hard southern rock stonerizzato come ai tempi di Deliverance e Wiseblood.

Questo, in breve, è quello che troverete sul nuovo lavoro firmato dalla leggendaria band del North Carolina, per molti di nuovo in corsa per il trono del genere, per il sottoscritto mai scesi dallo stesso neppure dopo il precedente lavoro, IX, registrato con la formazione a tre ormai quattro anni fa.
Dunque, dopo una decade al servizio dei Down, il chitarrista e cantante torna a riunire la banda che ha fatto scintille da Deliverance (uscito nel 1994) fino a In The Arms Of God (2005), anche se il capolavoro Blind rimane uno dei più riusciti esempi di alternative metal degli anni novanta, mentre l’ultimo lavoro era un calcio nel deretano hardcore di dimensioni bibliche.
I Corrosion Of Conformity sanno suonare rock pesante e licenziano un altro best seller che si aggiunge alla loro discografia, alzando l’asticella quanto basta per risultare inarrivabili per almeno il 90% dei gruppi odierni, aiutati da uno stato di grazia compositivo e da una voglia ancora intatta di suonare metal come lo si fa negli stati del sud, soffocati dal caldo, morsi da coccodrilli e serpenti e soggiogati da rituali voodoo.
Woody Weatherman, Mike Dean e Reed Mullin, dopo l’ottimo lavoro precedente che ispirava vecchie reminiscenze hardcore, con il nuovo supporto di Keenan, stordito dalla potenza sludge dei Down, tornano a fare quello per cui sono diventati la più grande band statunitense degli ultimi trent’anni tra quelle che non siano uscite dalle strade di Seattle: il loro è un hard rock massiccio, marcio e stonato, animato da una vena southern di livello superiore e No Cross No Crown, grazie ad un lotto di brani che sono la bibbia del southern/stoner metal, è la prova tangibile del fatto con i Corrosion Of Conformity si dovranno fare i conti ancora a lungo, piaccia o meno.
Registrato in North Carolina con il produttore John Custer, l’album è un concentrato di rock pesantissimo alla maniera della band, un via vai di mid tempo mastodontici che mescolano al loro interno almeno trent’anni di rock ‘n ‘roll, per vomitarlo poi in una lava incandescente che esce dalla bocca di un vulcano, pregno di groove come nell’uno due mortale The Luddite / Cast In The First Stone, folgorante inizio di questo lavoro.
La band ci invita a sabba psichedelici ed introspettivi come nella title track, mentre le casse tremano, le cuffie si sciolgono e gli stereo continuano a far girare i cd ma della plastica rimane solo un ammasso di vischiosa ed informe materia.
Wolf Named Crow, Nothing Left To Say, Old Disaster, ma potrei nominarvele tutte come nessuna, sono alcune delle  tracce (ben quindici) che compongono questo ennesimo monumento musicale targato Corrosion Of Conformity, fatelo vostro e segnatelo come migliore album del genere di questo nuovo anno, anche se siamo solo a gennaio …

Tracklist
01. Novus Deus
02. The Luddite
03. Cast The First Stone
04. No Cross
05. Wolf Named Crow
06. Little Man
07. Matre’s Diem
08. Forgive Me
09. Nothing Left To Say
10. Sacred Isolation
11. Old Disaster
12. E.L.M.
13. No Cross No Crown
14. A Quest To Believe (A Call To The Void)
15. Son And Daughter

Line-up
Pepper Keenan – Vocals, Guitars
Woodroe Weatherman – Guitars
Mike Dean – Bass, Vocals
Reed Mullin – Drums, Vocals

CORROSION OF CONFORMITY – Facebook

Beyond Forgiveness – The Great Wall

The Great Wall arriva tranquillo ad un’abbondante sufficienza, ma lo consiglio solo ai fans accaniti del genere e a chi ha confidenza con i primi vagiti di una scena nata ormai venticinque anni fa nel nostro continente, mentre per i giovani consumatori di symphonic metal bombastico trovo che l’album possa risultare alquanto ostico.

Un altro combo symphonic gothic metal si affaccia sulla scena metallica, questa volta a vele spiegate dal nuovo continente verso la vecchia Europa, terra più ricettiva per questi suoni.

La nave battente bandiera del Colorado ci porta la musica dei Beyond Forgiveness, quartetto attivo da un po’ di anni, ma arrivato sul mercato solo nell’ultimo periodo.
In due anni un singolo, l’ep The Ferryman’s Shore e questo ultimo lavoro, dal titolo The Great Wall, debutto sulla lunga distanza che nulla aggiunge e nulla toglie al genere ma piace per le molte sfumature folk, il sempre presente growl ad accompagnare la voce femminea ed operistica, ed un approccio dark/gotico che ricorda i primi Theatre Of Tragedy.
Il sound dell’album si avvicina alle opere uscite a metà anni novanta, non solo della band che fu di Liv Kristine ma anche quelle della scuola olandese che fanno capolino tra le trame di brani irrobustiti da una componente estrema che va dal growl alle ritmiche.
Una produzione che lascia le orchestrazioni in secondo piano, specialmente quando la sezione ritmica prende il sopravvento, ed una leggera prolissità in qualche brano (Imprisoned, I Will Fight Till The End) sono invece i difetti maggiori di un’opera che decolla per perdere quota a tratti e poi riprendersi lungo il tragitto.
The Great Wall arriva tranquillo ad un’abbondante sufficienza, ma lo consiglio solo ai fans accaniti del genere e a chi ha confidenza con i primi vagiti di una scena nata ormai venticinque anni fa nel nostro continente, mentre per i giovani consumatori di symphonic metal bombastico trovo che l’album possa risultare alquanto ostico.

Tracklist
1.End of Time
2.The Great Wall
3.Sanctuary
4.Imprisoned
5.Interlude
6.Moment of Truth
7.Never Before
8.Dream Before I Sleep
9.I Will Fight Till The End
10.Every Breath

Line-up
Michael Bulach – Drums
Greg Witwer – Guitars, Vocals (backing)
See also: Hell’s Eden, Vital Malice
Richard Marcus – Guitars, Vocals (backing)
Talia Hoit – Vocals

BEYOND FORGIVENESS – Facebook

Vojd – Behind The Frame

Nati dalle ceneri dei Black Trip, si affacciano sul mercato i Vojd con questo ep di due tracce che anticipa il debutto sulla lunga distanza con il nuovo monicker.

Nati dalle ceneri dei Black Trip, band svedese che sotto il segno dell’heavy metal ha licenziato due full length (Goin’ Under e Shadowline tra il 2013 ed il 2015), si affacciano sul mercato i Vojd con questo ep di due tracce che anticipa il debutto sulla lunga distanza con il nuovo monicker.

Sul lato A la veloce e melodica Behind The Frame (canzone che da il titolo al 7″) ci presenta una band rinnovata anche nel suono, che si rivela un hard & heavy tra Def Leppard e Kiss, quindi roba per rocker belli e fatti con un accenno di groove nelle ritmiche che fa tanto cool, anche in una proposta vintage come quella della band svedese.
Ottimi chorus e riff che sprizzano melodia da tutti i pori fanno del sound dei Vojd un buon esempio di heavy metal classico, assolutamente tradizionalista ma furbo quel tanto che basta per non sfigurare anche nello stereo dei giovani dai gusti old school.
Funeral Empire si veste di nero e ci regala un riff sabbathiano nel refrain, per poi lasciare all’assolo melodico tutta la gloria. un buon brano tra heavy metal, reminiscenze doom e qualche sfumatura stoner, un tocco personalissimo nel sound targato Vojd.
Non resta che attendere il full length per avere un quadro più ampio e preciso delle potenzialità del gruppo svedese, anche se le prospettive per un buon lavoro ci sono tutte.

Tracklist
1. Behind The Frame
2.Funeral Empire

Line-up
Peter Stjärnvind – Lead guitar
Joseph Tholl – Bass and lead vocals
Linus Björklund – Lead guitar
Anders Bentell – Drums and percussion

VOJD – Facebook

Anvil – Pounding The Pavement

Non cambia la formula che ha fatto la storia degli Anvil e del metal, quindi, se cercate tutti i cliché tipici del genere, mister Steve “Lips” Kudlow e compari vi hanno accontentato anche questa volta.

Il nuovo anno metallico è appena iniziato e si presenta con il nuovo album degli storici Anvil, il diciassettesimo full length di una lunga storia iniziata all’alba degli anni ottanta per il gruppo canadese, capitanato da quel personaggio simpaticissimo e sopra le righe che è Lips, un rocker che mai si è dato per vinto e che è arrivato nel nuovo millennio con la sua musica.

Non cambia la formula che ha fatto la storia degli Anvil e del metal, quindi, se cercate tutti i cliché tipici del genere, mister Steve “Lips” Kudlow e compari (Robb Reiner, Chris Robertson) vi hanno accontentato anche questa volta.
Pounding The Pavement è un nuovo inno all’hard’n’heavy nella sua forma più grezza, ignorante e se mi passate il termine, rock’n’roll: gli Anvil non conoscono vecchiaia e stanchezza, partono con Bitch In The Box e vi scaricano undici pugni nello stomaco, alternando mid tempo tellurici dal riff scolpito nella sacra montagna dell’heavy metal, veloci partenze hard’n’roll che fanno sbattere la capoccia a Lemmy, giù nel girone infernale delle rockstar, e brani dall’impatto metallico di un tuono prima del diluvio universale.
Non è pane per chi cerca l’originalità, gli Anvil li devi prendere così, amarli per quello che sono e che rappresentano, indipendentemente dal fatto che la musica rock/metal si sia evoluta in tutti questi anni e loro invece stiano ancora lì, a saltare su un palco oggi come nel 1981.
Doing What I Want, Rock That Shit, Black Smoke e via tutte le tracce che compongono questo lavoro, sono ancora una volta 100% Anvil, senza trucchi ne inganni, it’s only rock ‘n’ roll, intransigente, metallico, tripallico ed esagerato.
Qualcuno potrebbe chiedersi se c’è ancora bisogno di album così e la risposta, mentre la gamba si alza e carica un calcio nel deretano, è assolutamente sì.

Tracklist
1. Bitch In The Box
2. Ego
3. Doing What I Want
4. Smash Your Face
5. Pounding The Pavement
6. Rock That Shit
7. Let It Go
8. Nanook Of The North
9. Black Smoke
10. World Of Tomorrow
11. Warming Up
12. Don´t Tell Me (Bonus Track)

Line-up
Steve “Lips” Kudlow – Guitars, Vocals
Robb Reiner – Drums
Chris Robertson – Bass

ANVIL – Facebook

Marc Vanderberg – Highway Demon

Highway Demon è un album ricco di suoni metallici di stampo classico, dall’hard rock all’heavy metal, vario nelle atmosfere, suonato e cantato bene, in buona sostanza un ascolto soddisfacente per chi ama il genere.

Secondo lavoro per il chitarrista tedesco Marc Vanderberg che, aiutato dal solo Raphael Gazal, cantante dei Bulletback e dei Tailgunners, ci invita all’ascolto di questa raccolta di brani dal taglio hard & heavy, ovviamente di ispirazione classica, dove il buon Vanderberg oltre alla sei corde suona tutti gli strumenti.

Highway Demon, pur senza picchi clamorosi, risulta un buon album: i brani mostrano un piglio aggressivo, sono cantanti bene e il nostro musicista mantiene un approccio funzionale alle tracce senza stancare con evoluzioni da guitar hero.
Si passa così da brani hard rock ad altri heavy metal con facilità, mentre a tratti sfumature epiche ci portano in pieni anni ottanta confermando la natura classica dell’album.
Bad Paradise graffia a dovere e mette subito in risalto la bravura tecnica del polistrumentista tedesco, che fino alla ballad How Do You Feel mette la quarta a brani dal piglio aggressivo con un Gazal che si dimostra un singer capace.
Ci si destreggia nei quaranta minuti scarsi di metallo classico con buona alternanza di atmosfere e la power metal song When I Turn The Key si rivela una cavalcata metallica dirompente, mentre You’re Like Poison risulta un brano dai forti impulsi hard rock.
Il mid tempo epico di The Last Battle si avvicina a quanto fatto dal compianto Ronnie James Dio con il suo gruppo, mentre Vanderberg ci delizia con un brano strumentale e dal piglio neoclassico vicino a sua maestà Malmsteen come la conclusiva Total Eclipse.
Highway Demon è un album ricco di suoni metallici di stampo classico, dall’hard rock all’heavy metal, vario nelle atmosfere, suonato e cantato bene, in buona sostanza un ascolto soddisfacente per chi ama il genere.

Tracklist
01. Highway Demon
02. Blue Eyes
03. Bad Paradise
04. The Last Battle
05. How Do You Feel
06. Indispensible
07. You´re Like Poison
08. When I Turn the Key
09. The Final Chapter
10. Total Eclipse (Instrumental)

Line-up
Mak Vanderberg – All Instruments
Raphael Gazal – Vocals

MARC VANDERBERG – Facebook

Twingiant – Blood Feud

La progressione è incessante e senza scadimenti o cedimenti, anzi più ci si addentra dentro il disco più si viene ammaliati da questo suono, che renderà felice chi ama la musica pesante e pensante.

Devastazione completa operata mediante un uso massiccio di sludge e stoner all’ennesima potenza.

I Twingiant vengono dalla calda Phoenix, Arizona, sono attivi dal 2010 e questo è il loro terzo album sulla lunga durata. Il loro suono è molto pesante, un riuscito connubio fra potenza, lentezza ed una maestosità tipica di quei gruppi che hanno un passo differente rispetto alla maggior parte degli altri. Ascoltandoli si può percepire nettamente la grande capacità compositiva, che li porta a scrivere ed a suonare canzoni di ampio respiro, che ampliano la mente dell’ascoltatore mediante un potente rumore. Blood Feud è il racconto di un massacro, che procede ora lento ora veloce, ma che inesorabilmente spezza tendini e mette fine a molte vite. La progressione è incessante e senza scadimenti o cedimenti, anzi più ci si addentra dentro il disco più si viene ammaliati da questo suono, che renderà felice chi ama la musica pesante e pensante. I Twingiant hanno un tocco personale e riconoscibile, essendo uno dei migliori gruppi del genere, e il loro disco sarà una gioia per molte tormentati sonori. Le tracce si susseguono in maniera mirabile, costruendo un filo narrativo che le unisce in modo ben strutturato e complesso, granitico e terribile. Ci sono vari livelli in questo disco, e pur apprezzandolo fin dal primo ascolto, si riesce a cogliere sempre qualcosa di diverso ad ogni passaggio successivo. Alcuni momenti sono epici, come se ci trovassimo davvero nel Giappone medioevale, e la vita fosse solo una questione di affilatura della spada.

Tracklist
1.Throttled
2.Poison Control Party Line
3.Ride The Gun
4.Re-fossilized
5.Shadow of South Mountain
6.Formerly Known As
7.Last Man Standing
8.Kaishakunin

Line-up
Jarrod – Bass/Vocals
Nikos – Lead/Rhythm Guitar/Backup Vocals
Tony- Lead/Rhythm Guitar/Backup Vocals
Jeff – Drums

TWINGIANT – Facebook

Professor Emeritus – Take Me To The Gallows

Take Me To The Gallows è un buon lavoro incentrato su un heavy/doom classico tra Dio, Black Sabbath e Candlemass, un album dallo spirito underground ma sicuramente da non perdere per gli amanti del genere.

Sicuramente avari di informazioni ma non di buona musica, i Professor Emeritus sono una band di Chicago che, tramite la No Remorse Records, licenzia questo esempio riuscito di heavy metal classico dalle forte tinte epic doom, sulla falsariga di superstar del genere come Dio e Candlemass.

Ed in effetti queste sono le maggiori influenze del gruppo statunitense, ovviamente con i sempre presenti Black Sabbath nella versione con al microfono il grande e compianto Ronnie James, al quale il bravissimo singer MP Papai fa riferimento.
Così tra brani più classicamente heavy come l’opener Burning Grave o Chaos Bearer, ed altri rallentati e nobilitati da un’epicità tradizionalmente doom metal come le bellissime He Will Be Undone e la conclusiva Decius, davvero ispirata, Take Me To The Gallows risulta un ottimo prodotto per gli amanti del doom classico degli anni ottanta, arricchito dal tocco epico del Dio d’annata, il cui spirito rivive grazie ad un vocalist che con bravura ne segue il percorso artistico.
L’album, che arriva dall’underground e da esso trova vigore, è assolutamente consigliato a chi non si ferma ai soliti storici nomi.

Tracklist
1. Burning Grave
2. He Will Be Undone
3. Chaos Bearer
4. Take Me to the Gallows
5. Rats in the Walls
6. Rosamund
7. Decius

Line-up
MP Papai – Vocals
Lee Smith – Guitar, Bass
Tyler Herring – Guitar
Rüsty Glöckle – Drums

PROFESSOR EMERITUS – Facebook

De La Muerte – Venganza

Immaginate la frontiera messicana di film come El Mariachi o Machete raccontata tramite una colonna sonora che amalgama metal classico, hard rock, groove ed atmosfere tradizionali, suonata ed interpretata da un vocalist eccezionale ed avrete un’idea più o meno esatta di quello che i De La Muerte intendono per musica metal.

Sorprendente e micidiale, un massacro sonoro che ricorda i film di Tarantino e Rodriguez, un concept ispirato al culto messicano della Nuestra Señora de la Santa Muerte ed un metal che passa con disinvoltura da potentissime cavalcate power/heavy metal ad un hard rock contaminato dalla musica tradizionale messicana in un delirio di pallottole che saltano dai caricatori e si infilano nei corpi martoriati, esplodono in cascate di sangue e materia cerebrale per lasciare solo morte.

Signore e signori, siamo nel mondo dei De La Muerte, gruppo romano che con Venganza dà un seguito al primo bellissimo lavoro omonimo licenziato tre anni fa: immaginate la frontiera messicana di film come El Mariachi o Machete raccontata tramite una colonna sonora che amalgama metal classico, hard rock, groove ed atmosfere tradizionali, suonata ed interpretata da un vocalist eccezionale come Gianluca Mastrangelo ed avrete un’idea più o meno esatta di quello che i De La Muerte intendono per musica metal.
Come il primo album, Venganza vive alternando tutte queste sfaccettature risultando un album vario ed assolutamente originale, passando con una facilità sorprendente dal sound “messicano” dell’intro Theme Of Revenge, al metal moderno e rabbioso di De La Muerte e all’hard rock’n’roll di Lady Death e siamo solo al terzo brano.
Registrato, mixato e masterizzato da Simone Mularoni ai Domination Studio, l’album esplode in fuochi d’artificio metallici come in una festa patronale in qualche cittadina sperduta del centro America, l’altalena tra tra generi e sfumature continua imperterrita con Mastrangelo che impazza tra mille tonalità, mentre Gambling In Hell ci ricorda che il deserto ci circonda ed il groove ci prende per mano prima di venire giustiziati con una pallottola piantata nel cranio.
La maideniana The Last Duel, la “metallica” (Black Album style) How Do You feel?, la bellissima cover dei Los Lobos Canción del Mariachi ed il crescendo conclusivo della varia e a suo modo progressiva Scream Of Madness arricchiscono un album travolgente dalla prima all’ultima nota.
Secondo straordinario lavoro di una delle realtà più brillanti della scena metal nazionale, fatevi un favore e non perdetevi Venganza, per una volta i soliti ascolti possono rimanere al loro posto sulla vostra mensola.

Tracklist
01 – Theme of Revenge
02 – De La Muerte
03 – Lady Death
04 – The Last Duel
05 – Gambling in Hell
06 – Heart of Stone
07 – Death Engine
08 – How Do You Feel?
09 – Horizon – De
10 – Canción del Mariachi – Los Lobos Cover
11 – Scream Of Madness – De La Muerte

Line-up
Gianluca Mastrangelo – Vocals
Gianluca Quinto – Guitars
Christian D’Alessandro – guitars
Claudio Michelacci – Bass
Luca Ciccotti – Drums

DE LA MUERTE – Facebook

Bridge Of Diod – Of Sinners And Madman

Dieci brani per quasi cinquanta minuti di metal tripallico, potente diretto e melodico, dalle ritmiche che alternano accelerazioni e potentissimi bombardamenti che non disdegnano quel tocco groove capace di modernizzare la proposta senza scendere a compromessi ma rendendola ancora più massiccia e potente.

Si può suonare heavy/thrash metal old school senza risultare per forza datati o vintage e i Bridge Of Diod ne sono l’esempio con il loro primo album sulla lunga distanza.

Nato ad Acqui Terme sette anni fa, il quartetto ha rilasciato il proprio debutto in formato ep nel 2012 (Creativity in Captivity), per tornare dopo cinque anni sul mercato con questo ottimo lavoro licenziato dalla Sliptrick Records e intitolato Of Sinners And Madman: dieci brani per quasi cinquanta minuti di metal tripallico, potente diretto e melodico, dalle ritmiche che alternano accelerazioni e potentissimi bombardamenti che non disdegnano quel tocco groove capace di modernizzare la proposta senza scendere a compromessi ma rendendola ancora più massiccia e potente.
Il quartetto ci scarica sulla testa una valanga di melodie in un contesto pesante e roccioso come la creatura mitologica raffigurata sulla copertina e che, liberatasi dalle catene, sfoga tutta la sua rabbia sui malcapitati carcerieri.
Thrash ed heavy metal ancora una volta vengono uniti per sfogare grinta e voglia di musica pesante che Stefano Barbero (voce e batteria), Luigi Barbero (chitarra), Davide Leoncino (chitarra) e Sebastiano Riva (basso) valorizzano con un uso perfetto della melodia, con una serie di brani che non scendono dal livello di guardia in quanto a grinta e potenza.
Sua maestà il riff è nobilitato in tracce dall’alto voltaggio come l’opener Story Of A Madman, la semi ballad in crescendo Back From Limbo, la diretta Bullies From Hollywood, la potentissima The Cowboy’s Law, ma è tutto Of Sinners And Madman che funziona e ci regala cinquanta minuti di metallo che sprizza energia da tutti i pori.
Se il ritorno delle sonorità tradizionali nel metal farà parte del trend del futuro prossimo sarà anche grazie alla scena underground e a lavori come questo ottimo debutto dei Bridge Of Diod.

Tracklist
01. Story Of A Madman
02. Drops Of Rain
03. Back From Limbo
04. The Hammer
05. Clown Of The Seasons
06. Bullies From Hollywood
07. Green Fairy
08. Bad Toy
09. The Cowboy’s Law
10. Ignorance

Line-up
Stefano Barbero – Vocals, Drums
Luigi Barbero – Guitars
Davide Leoncino – Guitars
Sebastiano Riva – Bass

BRIDGE OF DIOD – Facebook

Hooded Priest – The Hour Be None

Gli Hooded Priest fanno un suono che piacerà moltissimo agli amanti del doom più classico, underground e cavernoso, quelle persone che frequentano locali bui per vedere concerti dal volume altissimo.

Dal 2006 gli olandesi Hooded Priest fanno calare il suono della falce mortale sulle lande fiamminghe e ben oltre.

Dopo diversi cambi di formazione, tanti concerti e la scrittura di nuovo materiale ecco il nuovo disco per l’etichetta svedese I Hate: tra i migliori esponenti della scena del nord Europa e con alle spalle un’intensa attività live, gli Hooded Priest sono una delle band seminali per la scena doom olandese, in virtù di caratteristiche che li rendono unici. La prima peculiarità che si nota è il cantato molto teatrale di Luther Finlay Veldmark, e la sua presenza scenica che lo fa apparire come uno stregone sciamano che fa da medium fra noi ed un altro mondo, sicuramente più tremendo del nostro. La musica degli Hooded Priest è un doom classico con forti influenze heavy, molto simile ai primi Candlemass, ma con riff maggiormente veloci, inoltre troviamo notevoli intarsi di tastiera che rendono il tutto ancora più doom. La qualità del disco è alta, come tutte le produzioni di questo gruppo che cura molto la propria narrazione musicale: ascoltando The Hour Be None il tempo scorre in maniera diversa, e si allargano le pozze di sangue sotto le nostre ferite, si aprono lentamente i sarcofaghi ma i morti ci prendono velocemente. L’atmosfera è lenta ma il gruppo imprime al suo suono alcune notevoli accelerazioni di stampo heavy, sempre con
attitudine doom. Gli Hooded Priest fanno un suono che piacerà moltissimo agli amanti del doom più classico, underground e cavernoso, quelle persone che frequentano locali bui per vedere concerti dal volume altissimo, da Malta all’Irlanda, perché è una scena davvero internazionale e radicata, seppure non conti grandi numeri. Ascoltando questo disco capirete cosa è il doom underground, e se non vi interessa nessun problema, tanto tutti diventeremo cenere.

Tracklist
1.Dolen – Exiting the Real
2.Call for the Hearse
3.These Skies Must Break
4.Herod Again
5.Locust Reaper
6.Mother of Plagues

Line-up
Luther Finlay Veldmark – Vocals
Jeff von D – Guitar
Joe Mazurewicz – Bass
Quornelius Backus – Drums

HOODED PRIEST – Facebook

Silenzio Profondo – Silenzio Profondo

Silenzio Profondo è un album riuscito, perfetto nell’uso del cantato italiano, potente e melodico il giusto per fare breccia nei nuovi e vecchi fans dell’heavy metal.

Giungono al debutto sulla lunga distanza i lombardi Silenzio Profondo, tramite l’attivissima Andromeda Relix che, come dal cilindro di un mago, estrae sempre ottime realtà dalla scena metal/rock nazionale.

Questa volta si parla di heavy metal potenziato da scudisciate thrash e cantato in lingua madre: la band ha da poco festeggiato i dieci anni di attività tra vari problemi di line up ed un terzetto di lavori costituiti dall’ep del 2007 Iniziando a Sperare, Alias uscito due anni dopo, ed Heartquake licenziato nel 2011.
Sei lunghi anni e finalmente, dopo ancora vari avvicendamenti in formazione, Silenzio Profondo arriva a confermare che le fatiche del gruppo non sono state vane, con otto brani di metal tra tradizione e modernità che l’idioma italiano avvicina a band storiche come gli IN.SI.DIA, anche se musicalmente parlando i nostri seguono la strada dell’heavy classico, lasciando al thrash metal solo qualche accelerazione e qualche ritmica di stampo groove che rappresenta la parte moderna del sound.
Prodotto e registrato professionalmente, Silenzio Profondo non lascia dubbi sulla buona tecnica del quintetto e sul sound che, pur cantato in italiano. riesce a mantenere un’ottima coesione con la musica, grazie a ritornelli melodici ed un impatto che rimane alto per tutta la durata di un album composto da brani medio lunghi.
Il tempo trascorso ha fatto crescere il gruppo mantovano che, oltre ad una notevole grinta, mette sul piatto l’esperienza e l’attitudine giusta per dare a brani di classico metallo pesante come l’opener Senz’anima, la maideniana A Stretto Contatto, la cavalcata Terzo Millennio e la metallica Donna Senza Testa la giusta atmosfera per non considerare Silenzio Profondo un album old school, bensì un lavoro di metal ben saldo nel nuovo secolo.
La title track è un crescendo che torna a far parlare di Maiden e che chiude un disco riuscito, perfetto nell’uso del cantato italiano, potente e melodico il giusto per fare breccia nei nuovi e vecchi fans dell’heavy metal.

Tracklist
1.Senz’anima
2.A stretto contatto
3.Terzo millennio
4.Fragile
5.Jack Daniel’s
6.Fuga dalla morte
7.Donna senza testa
8.Silenzio Profondo

Line-up
Maurizio Serafini – Vocals
Gianluca Molinari – Guitars
Manuel Rizzolo – Guitars
Tommaso Bianconi – Bass
Alessandro Davolio – Drums

SILENXIO PROFONDO – Facebook

HumanasH – Reborn From The Ashes

I sei brani mostrano variazioni di atmosfera ed impatto, rimandando appunto all’heavy speed metal ottantiano, ma vengono arricchiti  da un talento tutto italiano per le tematiche oscure ed horror.

Primo lavoro per gli HumanasH, creatura nata dall’oscurità, strettamente legata all’horror metal old school e ai maestri Death SS, pensata dal 1993 ma solo ora realizzata.

La mente dietro a questo interessante progetto è Giovanni Cardellino, qui con lo pseudonimo di John Goldfinch, singer dei doom progsters L’impero Delle Ombre, qui in versione molto più veloce ed heavy.
Goldfinch asseconda la sua fame di heavy metal chiamando a sé una manciata di ottimi musicisti della scena nostrana come il batterista Dario Petrelli, suo compagno nell’Impero Delle Ombre, Nicola Lezzi e Gabriele Muja, rispettivamente bassista e chitarrista dei Ghost Of Mary e Francesco Probo, chitarrista dei Mnemos.
Licenziato dalla Jolly Roger Records, Reborn from the Ashes è un mini album di sei tracce che vede la partecipazione di Steve Sylvester in veste di ospite sull’opener Evil Metal Obsession, a ribadire l’influenza che la leggendaria band ha avuto sulla nascita del progetto.
I sei brani mostrano variazioni di atmosfera ed impatto, rimandando appunto all’heavy speed metal ottantiano, ma vengono arricchiti  da un talento tutto italiano per le tematiche oscure ed horror.
Dimenticate dunque il classico lavoro speed alla tedesca, anche se in Reborn From The Ashes si viaggia spediti (Night Adventure in a Desecrated Church) sul pendolino metallico che compare dal nulla, un treno fantasma che ci accoglie nel suo mondo orrorifico, tra vampiri, chiese sconsacrate e monasteri dove si nasconde Lucifero, tra il saio di monaci maledetti.
La title track è una classica song heavy speed, così come la precedente The Nightmare Begins e la devastante The Liberation Of The Cursed Spirit, mentre la conclusiva The Eternal Darkness è una suggestiva traccia dal taglio horror, nella quale una eterea voce femminile ci accompagna tra i corridoi bui di un maniero abbandonato: le possibilità di ritornare alla luce si fanno sempre più labili man mano che ci addentriamo, ipnotizzati da questa dannata sirena e la band ci lascia al nostro destino mentre le note sfumano.
Per gli amanti dell’horror metal e dell’heavy metal old school, Reborn From the Ashes è un lavoro decisamente da non perdersi.

Tracklist
1.Evil Metal Obsession
2.Night Adventure in a Desecrated Church
3.The Nightmare Begins
4.Reborn from the Ashes
5.The Liberation of the Cursed Spirit
6.Eternal Darkness of Being

Line-up
John Goldfinch – Vocals
Gabriel Goya – Lead and Rhythm Guitar
Francis Probus – Lead and Rhythm Guitar
Nicholas Lestat – Bass
Peruvian – Drums

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Solfernus – Neoantichrist

I quaranta minuti di Neoantichrist scorrono via infatti piuttosto fluidi, con brani più catchy e dai chorus maggiormente ficcanti o con accelerazioni repentine, lasciando così un buon retrogusto proprio grazie all’assenza di qualsiasi traccia di pretenziosità.

I Solfernus sono una band ceca che torna in pista dopo oltre un decennio di stop, guidata da Igor Hubik, attuale chitarrista degli storici Root.

Neoantichrist è un discreto lavoro, che denota venature heavy/thrash in fondo non lontane dal gruppo del grande vecchio della scena Big Boss, e comunque non aderisce in maniera totale ai dettami della scuola scandinava, approdando a una forma meno algida e solenne.
L’album è ben prodotto e suonato da musicisti che dimostrano padronanza del genere, pur senza un filo conduttore specifico e comunque di uno o più brani capaci di colpire in maniera indelebile, ma la sensazione è che comunque i Solfernus abbiano un approccio abbastanza disincantato e, nel complesso altrettanto diretto, senza propensioni sperimentali o modernismi assortiti.
Anche per questo i quaranta minuti di Neoantichrist scorrono via infatti piuttosto fluidi, con brani più catchy e dai chorus maggiormente ficcanti come la title track e Mistresserpent, o con le accelerazioni repentine contenute in Between Two Deaths, lasciando così un buon retrogusto proprio grazie all’assenza di qualsiasi traccia di pretenziosità.

Tracklist:
01. Ignis ~ Dominion
02. Glorifired
03. Mistresserpent
04. Pray For Chaos!
05. That One Night
06. Between Two Deaths
07. Once Upon A Time In The East
08. My Aurorae
09. Neoantichrist
10. Stone In A River

Line-up:
Khaablus – vocals
Igor – guitar, vocals
Paramba – bass
Paul Dread – drums

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Wolfshead – Leaden

I quattro energumeni al comando del sound non concedono tregua, si spostano tra lente marce doom, come se la musica avanzasse con la neve alle ginocchia in mezzo alla tempesta, ed irrequiete frustate hard & heavy.

La Rockshots Records allunga le sue molte braccia e come una piovra stringe tra i suoi tentacoli realtà da molti paesi e di vari generi di cui si compone il mondo metallico.

I Wolfshead li incontriamo tra i mille laghi della natia Finlandia, la storia vuole la nascita del combo ad un concerto dei Pentagram nel 2011 e da quel giorno il quartetto ha prodotto un demo e due ep, per poi arrivare alla firma con la Rockshots e all’uscita di questo pesantissimo pezzo di granito heavy/doom dal titolo Leaden.
Heavy metal old school, appesantita da iniezioni di doom classico alla Pentagram/Candlemass e tante influenze che svariano tra Motorhead e Saint Vitus, Venom e Black Sabbath, incastonate in un sound selvaggio, sporco, cattivo e dannatamente coinvolgente.
Leaden è uno schiacciasassi metallico, un potente e pesantissimo asteroide in caduta libera sulla terra, una rompighiaccio che inesorabile avanza nel Mare del Nord, al suono di liturgie metalliche tra heavy metal e doom.
I quattro energumeni al comando del sound non concedono tregua, si spostano tra lente marce doom, come se la musica avanzasse con la neve alle ginocchia in mezzo alla tempesta, ed irrequiete frustate hard & heavy: ecco allora macigni evocativi ispirati dalla tradizione classica o lentissime agonie prima di cadere nel sonno prima del congelamento e l’inesorabile morte.
When the Stars Are Right risulta il picco compositivo di Leaden, una brano doom monumentale come la bellissima e conclusiva The Hangman, il resto viaggia su mid tempo heavy doom molto ispirati come l’opener Vukodlak e Purifier.
L’anima di Leaden è un sound old school, derivativo quanto si vuole ma tremendamente coinvolgente, almeno per chi ama il doom classico ed i suoni hard & heavy di matrice ottantiana.

Tracklist
1.Vukodlak
2.Children Shouldn’t Play with Dead Things
3.Purifier
4.When the Stars Are Right
5.Division of the Damned
6.Haruspex
7.Winds Over Potter’s Field
8.The Hangman

Line-up
Tero Laine – vocals
Ari Rajaniemi – guitar
Vesa Karppinen – bass
Jussi Risto – drums

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Beast In Black – Berserker

Produzione al top, suoni che esplodono dalle casse come fuochi d’artificio in una festa patronale, flavour epico e chorus scolpiti nell’acciaio, il tutto reso sfavillante da chitarre che, se ricordano non poco i Judas Priest, sono accompagnate da ritmiche power di chiara matrice power metal.

Da Battle Beast a Beast In Black il passo è breve, almeno lo è stato per il chitarrista finlandese Anton Kabanen, che, lasciata la band da lui fondata non ha perso tempo e si è buttato a capofitto in questa nuova avventura metallica.

Anche il sound non si discosta troppo da quello della sua precedente band, se non per un maggiore uso di synth e tasti d’avorio che rendono catchy e a tratti pomposo l’heavy/power metal di cui è composto Berserker, debutto ispirato dai manga giapponesi: produzione al top, suoni che esplodono dalle casse come fuochi d’artificio in una festa patronale, flavour epico e chorus scolpiti nell’acciaio, il tutto reso sfavillante da chitarre che, se ricordano non poco i Judas Priest, sono accompagnate da ritmiche power di chiara matrice power metal.
Berserker ha il suo asso nella manica nella prestazione del singer di origine greca Yannis Papadopoulos, un’animale metallico, davvero una figura mitologica metà uomo metà leone, come rappresentato nella copertina che più epica e battagliera di così non si può.
Per chi ama il genere l’album è una goduria metallica dall’inizio alla fine: grandi melodie, grinta heavy e cavalcate power fanno della title track, come di Blind And Frozen o Born Again, brani coinvolgenti e trascinanti e l’impressione di essere al cospetto di un album che, aldilà di frettolosi giudizi e pregiudizi è destinato a fare il botto, si fa sempre più forte all’ascolto della tracklist.
Papadopoulos, da grande singer, alterna urla metalliche a parti melodiche dal grande appeal e i brani si susseguono strappando a tratti applausi, specialmente nelle parti in cui le tastiere fanno il buono ed il cattivo tempo (The Fifth Angel, Crazy Mad Insane).
Si potrebbe parlare di heavy/power metal tra Judas Priest e Firewind, valorizzati da un flavour melodico e sinfonico tra l’hard rock dei Brother Firetribe ed il symphonic metal dei primi Nightwish, così da avere un quadro il più completo possibile di quello che troverete tra lo spartito di Berserker, e direi che non è poco.
Kabanen è ripartito e, da quanto ascoltato, si direbbe piuttosto bene, quindi se amate i generi classici e non disdegnate nel metal l’uso abbondante di melodie, l’album è assolutamente consigliato.

Tracklist
1. Beast In Black
2. Blind And Frozen
3. Blood Of A Lion
4. Born Again
5. Zodd The Immortal
6. The Fifth Angel
7. Crazy, Mad, Insane
8. Eternal Fire
9. End Of The World
10. Ghost In The Rain

Line-up
Yannis Papadopoulos – vocals
Mate Molnar – bass
Sami Hänninen – drums
Kasperi Heikkinen – guitars
Anton Kabanen – guitars, vocals

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Resistance – Metal Machine

La cover del classico Blackout degli Scorpions chiude in bellezza Metal Machine, album da spararsi senza ritegno o da usare come arma di disturbo per il vicino troppo attento ai rumori provenienti dallo stereo piazzato nella vostra stanza.

Una bomba metallica sta per esplodere sulla scena heavy/power metal mondiale, sulla fiancata porta la scritta Resistance ed è partita da Glendora, California.

La devastante portata dell’esplosione travolgerà una buona fetta dei paesi dove si suona e si ascolta heavy metal classico, forgiato nell’acciaio, duro come un incudine e travolgente come un tornado.
Judas Priest, Primal Fear e Vicious Rumors sono i padrini di questa miscela di otto brani arrembanti e taglienti, dalle ritmiche che alternano il tradizionale impatto priestiano di Painkiller con dosi mortali di power/thrash statunitense, arma in più del sound del gruppo californiano.
La carriera dei Resistance parte all’alba del nuovo millennio, anche se i protagonisti si aggirano nella scena metallica dalla seconda metà degli anni ottanta, con questo terzo full length licenziato dopo un paio di ep ed altre due prove sulla lunga distanza, uscite tra il 2004 ed il 2006 (Lies In Black e Patents Of Control) ed un altro ep uscito un paio di anni fa a rompere un silenzio di undici anni.
Poco male i Res,istance ritornano più grintosi che mai con questo Metal Machine, con guru del calibro di Bill Metoyer e Neil Kernon a dividersi produzione, masterizzazione e mix, ed otto brani incendiari che si alternano nel rimembrare ai metallari della vecchia guardia le scudisciate a suon di heavy metal dei gruppi di un tempo e con un accenno al metal stradaiolo alla W.A.S.P., che esce prepotentemente verso la fine e valorizza brani come Dirty Side Down e Heroes.
La cover del classico Blackout degli Scorpions chiude in bellezza Metal Machine, album da spararsi senza ritegno o da usare come arma di disturbo per il vicino troppo attento ai rumori provenienti dallo stereo piazzato nella vostra stanza.

Tracklist
1. Metal Machine
2. Hail to the Horns
3. Rise and Defend
4. Some Gave All
5. Time Machine
6. Dirty Side Down
7. Heroes
8. Blackout (Scorpions Cover)

Line-up
Robbie Hett – Vocals
Dan Luna – Guitars
Burke Morris – Guitars
Paul Shigo – Bass
Matt Ohnemus – Drums

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Hyperion – Dangerous Days

Dangerous Days è un album consigliato agli amanti del metal classico e rappresenta sicuramente un’ottima partenza per la band bolognese.

Un’altra nuova band si va ad aggiungere alla scena metal classica dello stivale, si tratta dei bolognesi Hyperion.

Le fondamenta del gruppo sono state poste un paio di anni fa e ora è il momento per il gruppo di scendere in pista con il proprio debutto sulla lunga distanza, un buon album di sano heavy metal ottantiano, potenziato da soluzioni power thrash ma legato indissolubilmente all’heavy metal di ispirazione Judas Priest, tanto per fare il riferimento più storico e, a mio parere, calzante.
Ovviamente la band ci mette del suo: sono passati quasi quarant’anni dal decennio che ha decretato l’immortalità della nostra musica preferita e, come è giusto che sia, gli Hyperion scendono in campo con un album che guarda alla tradizione ma con i piedi ben saldi nel nuovo millennio, che tradotto vuol dire un ottimo lavoro in studio, con i brani che escono potenti e cristallini il giusto, ed un buon songwriting che non lascia scampo, proponendo otto brani medio lunghi, ma dall’ottimo tiro.
I musicisti che compongono la line up dimostrano di saperci fare, dalla sezione ritmica, alle due chitarre per passare all’ottima prova dietro al microfono del singer Michelangelo Carano, un vero animale metallico, personale e pressoché perfetto in tutta la sua prova.
Dicevamo dei brani, medio lunghi ma che mantengono un approccio diretto ed hanno la virtù di farsi ricordare dopo pochi passaggi grazie ad una scrittura fluida che permette di godere di riff potenti, con le chitarre che tagliano l’aria con fendenti micidiali e la voce che imprime un sentore epico a chorus nati per inorgoglire qualsiasi appassionato.
Gli Hyperion aprono con Ultimatum, il brano più classicamente power del lotto, tutto acciaio e cuoio, dove le due chitarre ci danno il benvenuto e ci accompagnano verso la title track,  nella quale potenza e melodia ci prendono a braccetto e il ritornello ci stende, rivelandosi melodico e perfettamente inserito tra cavalcate ritmiche ed assoli che premono sui bassifondi prima di lasciare la presa per farci respirare.
Da qui in poi l’album sterza verso un heavy metal più elaborato e roccioso anche se, come detto, il tiro rimane inalterato, così che veniamo travolti dalla carica metallica di brani come Incognitus, Ground And Pound, il mid tempo The Grave Of Time e la conclusiva Hyperion.
Per gli amanti della fantascienza d’autore, va aggiunto che il monicker della band fa riferimento alla magnifica saga scritta da Dan Simmons e, semmai ci fossero stati dubbi, l’inquietante figura dello Shrike  in copertina li dissipa all’istante.
Dangerous Days è un album caldamente consigliato agli amanti del metal classico e rappresenta sicuramente un’ottima partenza per la band bolognese: da non perdere se avete a cuore una scena nazionale splendida, ma ancora troppo spesso sottovaluta.

Tracklist
1.Ultimatum
2.Dangerous Days
3.Incognitus
4.Ground And Pound
5.Forbidden Pages
6.The Killing Hope
7.The Grave Of Time
8.Hyperion

Line-up
Michelangelo Carano – Vocals
Davide Cotti – Guitar
Luke Fortini – Guitar
Antonio Scalia – Bass Guitar
Marco Jason Beghelli – Drums

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X Japan – We Are X Soundtrack

Il gruppo giapponese, proprio per la sua provenienza e la sua arte, o lo si ama o lo si odia, difficilmente si riesce a rimanere indifferenti, come accade ai suoi fans (tanti nel loro paese e nel Regno Unito) che faranno di questa raccolta il loro album targato 2017.

La più famosa e rappresentativa band heavy metal giapponese torna sul mercato con la colonna sonora dell’acclamato documentario sulla sua lunga carriera, da una delle primi gruppi heavy metal ad inventori dello stile Visual Key.

Una storia portata all’eccesso, a tratti grottesca, raccontata dall’heavy power metal melodico, velocissimo e tecnicamente invidiabile degli X Japan.
Una raccolta di brani che scorrono come fotogrammi la lunga storia del gruppo, iniziata nel 1987, fermatasi dieci anni dopo e che continua dopo la reunion del 2007, questa è in definitiva We Are X Soundtrack, quindi gli amanti degli eccessi e dell’estremo in chiave Nipponica avranno di che crogiolarsi, d’altronde la band oltre ad essere considerata un’icona della musica rock del sol levante ha regalato ai suoi fans occidentali buona musica hard & heavy, niente di clamoroso a mio parere, ma sufficiente per destare dal letargo gli amanti del metal dagli occhi a mandorla.
Maestri dell’arte del Visual Key, abbinata al metal, su disco gli X Japan perdono molto della loro carica, non supportati dall’elemento visivo fondamentale nell’economia del gruppo.
La band del polistrumentista Yoshiki è il perfetto esempio della cultura giapponese che, cercando un posto d’onore in occidente, lo trova ma è costretta a mantenere un approccio eccessivo, anche quando il tutto diventa stancante, così che i brani migliori risultano a mio avviso le ballad, che fortunatamente non mancano su questa raccolta.
Il resto è, come già scritto, heavy metal classico spinto da buone ritmiche power, ma con un songwriting elementare che, senza l’apporto video manca di un bastone su cui appoggiarsi, inciampando a più riprese, tra tecnica, velocità e poco altro.
Per la cronaca, We Are X Soundtrack raccoglie il meglio del gruppo tra brani live, versioni acustiche ed originali pescate dai dieci anni di attività tra il 1987 ed il 1997.
Il gruppo giapponese, proprio per la sua provenienza e la sua arte, o lo si ama o lo si odia, difficilmente si riesce a rimanere indifferenti, come accade ai suoi fans (tanti nel loro paese e nel Regno Unito) che faranno di questa raccolta il loro album targato 2017.

Tracklist
01.La Venus (Acoustic Version)*
02.Kurenai (from The Last Live)
03.Forever Love
04.Piano Strings of Es Dur
05.Dahlia
06.Crucify My Love
07.Xclamation
08.Standing Sex (from X Japan Returns)
09.Tears
10.Longing / Setsubo-no-yoru
11.Art of Life (3rd Movement)
12.Endless Rain (from The Last Live)
13.X (from The Last Live)
14.Without You” (Unplugged)

Line-up
Toshi – Vocals, Guitars
Sugizo – Guitars, Violin
Pata – Guitars
Heath – Bass
Yoshiki – Drums, Keyboards

X JAPAN – Facebook