Da Ottawa un fantastico debutto a base di heavy e speed metal in purissimo stile anni ottanta.
Da Ottawa un fantastico debutto a base di heavy e speed metal in purissimo stile anni ottanta.
Questo disco farà la gioia di Fenriz, il deus ex machina dei Darkthrone, poiché è quanto di più ottantiano possiate trovare in giro. Sono già passati trenta anni da quel magico periodo che nel metal ha dato molta gloria a molte band. Il suono di quegli anni, come di questo disco, è grezzo eppure caldissimo, un vero piacere per le teste metalliche là fuori. Questi canadesi fanno tutto alla perfezione, sia come grafica, sia come musica. Dopo tre demo e la partecipazione ad una compilation dal titolo Evil Spells, Volume, 1 ecco questo folgorante debutto che colpisce al cuore i nostalgici ma non solo. Il disco è davvero piacevole e ben suonato, fatto con il cuore e tanta passione, per continuare una tradizione che non muore mai, quella del vero metallo. Meglio di tante parole farà l’ascolto di questi canadesi.
TRACKLIST
1. Intro
2. Blasted Death
3. Black Adoration
4. Jackal Head
5. Ancient Returns
6. A Witch Shall Be Born (Daughter Of Darkness)
7. Hades Son
8. Hideous Obscure
9. Occult Burial
LINE-UP
Dan Lee : Drums.
Dan McLoud :Guitars.
Joël Thomas :Vocals, Bass.
Hollow Illusion è un album adatto a qualsiasi palato abituato a nutrirsi dei suoni classici hard’n’heavy
Il lavoro omonimo del duo formato da Magnus Mikkelsen Hoel e Ove Mikkelsen Hoel, chiamati Hollow Illusion, conferma il talento per i suoni classici dei musicisti nati tra i fiordi e le immense pianure innevate, mostrando diverse influenze ed atmosfere, che pescano tanto dall’heavy metal quanto dall’hard rock, alternando sfumature old school e più moderni salti nel groove rock.
L’album, oltretutto, ha potuto fregiarsi di varie collaborazioni importanti in fase di registrazione, prodotto da Trond Hotler (Wig Wam e Jorn), per il mix la band è volata negli States ed ha lasciato il materiale nelle sapienti mani di Roy Z (Judas Priest, Halford, Bruce Dickinson), mentre Andy Horn ha curato il master in Germania. Hollow Illusionè un ottimo tuffo nelle sonorità classiche, tra le varie songs si avvicendano influenze e stili diversi: si passa quindi dall’hard rock dei Thin Lizzy all’heavy metal old school, da melodie care ai rockers conterranei del duo come i TNT al groove ruvido che guarda alle sonorità statunitensi (come Zakk Wilde insegna).
Voce maschia, melodica e sanguigna, ottimi solos ed un buon songwriting fanno di Hollow Illusionun buon biglietto da visita per il duo norvegese, che quando picchia sa far male con God Of Rock e Lights Go Down, apertura tutta grinta dell’album.
Belli i chorus, che imperversano su un po tutti i brani, dalla solida Now Or Never, alla ballatona Mountain On Solid Gorund, mentre Rain si aggiudica la palma di migliore composizione pregna di hard rock solare e refrain da urlo. Hollow Illusion è un album adatto a qualsiasi palato abituato a nutrirsi dei suoni classici hard & heavy, non manca la grinta ma neppure la melodia, quindi cari rockers, ascoltatelo ed innamoratevene.
TRACKLIST
1.Mercury Rising
2.God Of Rock
3.Lights Go Down
4.I Don’t Care
5.Now Or Never
6.Mountain On Solid Ground
7.Can’t Stand Still
8.Rain
9.Fighter
10.Voodoo Medicine Man
11.Come Back
LINE-UP
Magnus Mikkelsen Hoel – Vocals
Ove Mikkelsen Hoel – Bass
Prodotto benino, Rise Of The Fallen va valutato per quello che è, un buon album di metal classico in cui i musicisti immettono varie sfumature, rendendo l’ascolto impegnativo ma soddisfacente.
La Pure Steel, label tedesca dedita ai suoni metal classici e hard rock, è un vulcano musicale attivo che erutta album su album, molti che richiamano il metal tradizionale, mantenendo una qualità medio alta e questo non può che far piacere ai tanti amanti del genere.
I gruppi sono davvero tanti, pescati in ogni parte del mondo, dalla terra natia, agli stati vicini come l’Italia, l’Austria e la Svizzera, senza dimenticare la musica aldilà dell’oceano e l’U.S metal.
I Distant Past sono svizzeri, tra le loro fila non manca un musicista nostrano (il bassista Adriano Troiano, ex Emerald) e suonano heavy metal classico, ispirato ai suoni ottantiani, ma reso elegante da divagazioni prog ed aggressivo da accenni di ruvido thrash metal.
Fondati in quel di Berna nel 2002 arrivano con Rise of the Fallen al quinto album sulla lunga distanza, dal debutto del 2003 Science Reality, passando per Extraordinairy Indication of Unnatural Perception e Alpha Draconis, rispettivamente usciti nel 2005 e nel 2010, fino al precedente Utopian Void, licenziato due anni fa.
Tanta melodia, aggressività ragionata, accelerazioni e grande tecnica al servizio di sfumature progressive, sono le qualità maggiori del sound dei Distant Past che, se strizza l’occhiolino ai gruppi ottantiani, non manca certo in personalità.
Un album che, nel suo insieme, risulta un ottimo lavoro, colmo di quelle peculiarità che fanno grande la nostra musica preferita, anche se forse mancano uno o due brani trainanti, i classici singoli (tanto per intenderci).
E infatti Rise Of The fallensi avvicina ad un’opera progressiva, concettualmente parlando: le songs si assaporano dopo qualche ascolto, così da entrare appieno nel sound maturo ed elegante che il gruppo confeziona, senza perdere un’oncia in quanto a durezza metallica.
Sunto del lavoro è la bellissima Road To Golgotha, heavy metal progressivo, drammatico ed oscuro, con un inizio classico, acellerazione devastante in thrash style e armonie acustiche sul finale, cinque minuti in cui viene riassunto il credo musicale dei Distant Past.
Prodotto benino, Rise Of The Fallen va valutato per quello che è, un buon album di metal classico in cui i musicisti, senza perdere la bussola, immettono varie atmosfere e sfumature, rendendo l’ascolto impegnativo ma soddisfacente, almeno per chi continua ad amare i suoni tradizionali.
TRACKLIST
1. Masters of Duality
2. Die as One
3. End of the World
4. Ark of the Saviour
5. Scriptural Truth
6. Redemption
7. The Road to Golgotha
8. Heroes Die
9. The Ascension
10. By the Light of the Morning Star
Tirate fuori dall’armadio i vostri vecchi pantaloni di pelle, fornitevi di cinturone e cappello e partite all’avventura nel far west con i nostrani Redwest ed il loro primo lavoro, Crimson Renegade.
Tirate fuori dall’armadio i vostri vecchi pantaloni di pelle, fornitevi di cinturone e cappello e partite all’avventura nel far west con i nostrani Redwest ed il loro primo lavoro, Crimson Renegade.
Nato intorno all’area milanese nel 2009, il quartetto di cow boy dal grilletto facile, propone un interessante hard rock dalle atmosfere western, una commistione di metal, southern e suoni che si rifanno alle colonne sonore del maestro Morricone, molto affascinante e ben fatto.
Arrivano a questo debutto dopo due mini cd, Spaghetti Western Metal del 2009, seguito da Play Your Hand del 2012, ed ora Il Lurido, La Straniera, Il Randagio, ed Il Losco sono pronti per investirci con il loro sound proveniente dalla frontiera, dove la vita non vale un dollaro bucato e non vengono risparmiati né buoni, né brutti, né cattivi, mentre Ringo è sempre in cerca della sua vendetta.
Riuscito ed originale, il sound prodotto rivela un buon talento per le atmosfere da cinema di genere, quel spaghetti western tutto italiano, che tante soddisfazioni ha dato, non solo nel mondo del cinema, ma con le colonne sonore del grande Morricone anche nella musica.
Sembra davvero di camminare lungo la via di un paese sperduto nella frontiera americana, dove entrare in un saloon per bere un goccio può rivelarsi una pessima idea e incocciare lo sguardo sbagliato, si può solo risolvere con un duello allo scoccare del mezzogiorno, mentre il caldo ed il sudore fanno scivolare le mani sulla colt, unica compagna fidata di una vita appesa al filo delle pallottole. Crimson Renegade scorre che è un piacere, le ritmiche metal rock, ben si amalgamano alle atmosfere western create dal gruppo e le songs risultano varie e dal buon appeal.
Si passa infatti da brani più ruvidi, a altri dove ci si addentra nelle armonie acustiche molto southern, che i Redwest sono maestri nel arricchire di gradevoli trame folk e cinematografiche, con citazioni eccellenti (A Fistful Of Dollars, al maestro Morricone), riusciti duetti vocali tra Il Lurido e La Straniera (la titletrack), riffoni metallici dal buon impatto (C.H.F.), ed allegre ballate solari come la conclusiva Poker, song da serate festaiole nei saloon, dove birra e whiskey scorrono a fiumi ed i pistoleri si possono sollazzare sotto le gonne di prorompenti signorine strette nei corpetti che fanno esplodere i seni prosperosi.
Appunto Poker chiude questo ottimo lavoro, molto originale (non sono molte le band che uniscono metal/rock a suoni western, mi vengono in mente i soli power metallers Spellblast, ed i rockers tedeschi Skip Rock) e davvero ben eseguito, lanciando il gruppo milanese come convincenti portabandiera del western metal.
Ed ora, dopo l’ennesimo duello si sale in sella al vecchio ronzino, l’appuntamento è qualche miglio più in la, un altro paese, con nuove avventure ed altre bottiglie di whiskey da svuotare.
TRACKLIST
1. Crimson Renegade
2. C.F.H.
3. The Ballad Of Eddie W
4. Morning Ghost
5. Fire
6. Bullet Rain
7. Eternity
8. The Dreamcatcher
9. A Fistful Of Dollars
10.Golden Sands
11.Poker (bonus track)
LINE-UP
Il Lurido – Vocals & Harmonica
La Straniera – Backing Vocals
Il Randagio – Guitars
Il Losco – Bass
Metal Machine potrebbe trovare qualche estimatore solo nei fans più accaniti dei suoni old school provenienti dal nuovo continente
I Corners Of Sanctuary ci invitano all’ascolto di un lavoro impregnato sul sound storico della scena metallica statunitense, genere che ha regalato molte soddisfazioni ai true metallers, specialmente negli anni a cavallo tra il decennio ottantiano e quello successivo.
Metal Machine non si discosta di una virgola dalle opere passate (Breakout nel 2012, Harlequin del 2013 ed Axe to Grind uscito tre anni fa), il loro metal che richiama i Metal Church tira dritto per la sua strada, non concedendo nulla sul piano del songwriting, che risulta una buona proposta di genere senza grossi picchi a livello di qualità.
Il quartetto si dichiara una New Wave of Traditional American Heavy Metal band, ed in effetti non si può dargli torto, Metal Machine è una onesta rivisitazione del sound americano, improntato su chitarre incendiarie, ritmiche col pilota automatico ed un cantante sufficientemente capace, ma al quale la produzione molto old school non rende giustizia, lasciando la voce lontana dagli strumenti.
La virtù principale dell’U.S. metal sono le atmosfere oscure delle quale per primi i Metal Church furono maestri, insieme ai Savatage dei primi album e che su Metal Machine vengono a mancare, favorendo un approccio più ruvido ed in your face.
Peccato, perché così le songs tendono ad assomigliarsi un po troppo, mantenendo la stessa linea per tutta la durata del disco, che fa fatica a decollare proprio per la mancanza di un briciolo di varietà ed idee in più.
L’album comunque si accaparra una larga sufficienza per l’attitudine senza compromessi e la grinta che non viene mai a mancare, grazie anche ad una manciata di brani oltremodo onesti e fieramente metallici come la title track, Left Scarred, Tomorrow Never Comes e Wrecking Ball. Metal Machine potrebbe trovare qualche estimatore nei fans più accaniti dei suoni old school provenienti dal nuovo continente.
TRACKLIST
1. Turn It On
2. Metal Machine
3. Like It Matters
4. Left Scarred
5. In Blood We Shall Fight
6. The Return
7. Souls Without Shout
8. Monster
9. Tomorrow Never Comes
10. Wrecking Ball
11. Killswitch
LINE-UP
Frankie Cross – vocals
Sean Nelligan – drums
James Pera – bass
Mick Michaels – guitars
Album che nulla toglie e nulla aggiunge alla scena metal, ma che non può mancare sullo scaffale di ogni defender, proprio per la sua intoccabile purezza e coerenza.
Con i Paragon si torna a parlare di true power metal made in Germany, infatti la band di Amburgo oltre ad essere considerata ormai un gruppo storico del genere, è una di quelle che più ha mantenuto fede alla tradizione metallica del suo paese d’origine, dove la scena metal classica è diventata nel corso degli anni un punto di riferimento influenzando non poco le nuove generazioni di gruppi alle prese con i suoni heavy.
Nati nel 1990, i Paragon non hanno mai raggiunto il successo dei gruppi considerati i padri del genere, come Accept ed Helloween negli anni ottanta e poi i vari Gamma Ray, Grave Digger e Rage, nel decennio successivo, ma la loro discografia si è comunque sempre mantenuta su una buona qualità, tanto da non passare inosservati ai fans dei suoni heavy/power, anche grazie ad album di assoluto valore come la triade Steelbound , Law Of The Blade e The Dark Legacy, usciti tra il 2001 ed il 2003, anni ancora grassi per il genere, almeno in Europa.
Il tempo scorre inesorabile anche per il gruppo del chitarrista Martin Christian, siamo giunti al traguardo dell’undicesimo album, non male per una band che ha continuato per tutti questi anni a portare avanti la sua missione: suonare power/speed/heavy metal, veloce, devastante, epico e senza compromessi.
Prodotto da un monumento del power europeo come Piet Sielck , mastermind degli Iron Savior, il nuovo lavoro non deluderà i defender rimasti fedeli alle linee classiche del metal: Hell Beyond Hell è pregno di quel sound a metà strada tra l’heavy forgiato nell’acciaio dei Primal Fear ed il power ruvido e senza compromessi dei Grave Digger.
Senza riempitivi, l’album scorre nei cliché del genere, ma una produzione cristallina, energia a volontà e un lotto di buoni brani splendidamente metallici, non tradiscono le aspettative, confermando i Paragon come ottimi rappresentati dell’heavy metal di matrice teutonica.
Si passa da brani dall’andatura sostenuta ad altri dove le ritmiche rallentano e le atmosfere si colmano di epicità metallica, le asce tagliano l’aria con solos dirompenti e i chorus sono potenti inni al dio metallico: una tempesta di suoni, valorizzata dalla prova tutta grinta di Andreas Babuschkin al microfono e dai solos taglienti della coppia Christian/Bertram, mentre Jan Bünning al basso e Sören Teckenburg alle pelli, formano un muro di cemento armato metallico invalicabile.
Tanta epicità ed uno straordinario lavoro di Sielck alla consolle, che valorizza potenza e melodia, specie in brani come Rising Forces, Heart Of The Black, Stand Your Ground e Buried In Blood, mantengono Hell Beyond Hell su un’ottima qualità generale, consentendo ai Paragon di uscire vincitori anche dall’undicesima fatica.
Album che nulla toglie e nulla aggiunge alla scena metal, ma che non può mancare sullo scaffale di ogni defender, proprio per la sua intoccabile purezza e coerenza.
TRACKLIST
1. Rising Forces
2. Hypnotized
3. Hell Beyond Hell
4. Heart Of The Black
5. Stand Your Ground
6. Meat Train
7. Buried In Blood
8. Devil’s Waitingroom
9. Thunder In The Dark (Bonustrack)
10. Heart Of The Black (Edit Version / Bonustrack)
LINE-UP
Andreas Babuschkin – Lead Vocals
Martin Christian – Guitars, Backing Vocals
Jan Bertram – Guitars, Backing Vocals
Jan Bünning – Bass, Backing Vocals
Sören Teckenburg – Drums
Torna dall’oltretomba il pistolero messicano, grilletto facile, nessuna pietà e tanto heavy metal.
Torna dall’oltretomba il pistolero messicano, grilletto facile, nessuna pietà e tanto heavy metal.
Gli Split Heaven sono una metal band molto conosciuta in patria, con tanto di mascotte maideniana (il pistolero in copertina) ed una già nutrita discografia.
Attivo dai primi anni del nuovo millennio, il gruppo messicano arriva con questo ottimo Death Rideral quarto full length, dopo l’esordio licenziato nel 2008 (Psycho Samurai) ed un paio di lavori molto apprezzati nell’underground metallico, Street Law del 2011 ed il precedente The Devil’s Bandit, uscito tre anni fa.
Il nuovo lavoro porta con sé un’importante novità: l’entrata nel gruppo del vocalist Jason Conde-Houston, sostituto di Giancarlo Farjat, singer sul precedente lavoro. Death Ridercontinua la tradizione della band, il cui sound mantiene tutte le qualità di un heavy speed metal, influenzato tanto dalla new wave of british heavy metal, quanto dal U.S. metal, con chitarre che si lanciano in solos sempre ben in evidenza, sezione ritmica potente ed elegante ed un vocalist dalla timbrica old school, che non mancherà di fare proseliti tra i più legati alla tradizione. Death Riderè composto da un lotto di brani coinvolgenti, che alternano cavalcate maideniane, rasoiate speed che possono ricordare i Primal Fear e l’eleganza tutta americana di band come gli Helstar.
Il nuovo singer si guadagna la pagnotta con una performance di qualità, anche se sono le chitarre che nell’album fanno la differenza (Carlo “Taii” Hernandez e Armand Ramos), due pistole che sparano proiettili metallici senza soluzione di continuità.
L’album ha nelle bellissime trame metalliche della title track, di Battle Axe, di Sacrifice e di Talking With The Devil, ottimi esempi di come si possa ancora suonare heavy metal tradizionale, risultando freschi e convincenti.
Se siete amanti dell’heavy metal classico, non perdetevi questo ottimo lavoro.
TRACKLIST
1. Death Rider
2. Awaken the Tyrant
3. Battle Axe
4. To The Fallen
5. Speed Of The Hawk
6. Ghost Of Desire
7. Sacrifice
8. Talking With The Devil
9. Descarga Letal
10. Destructor
LINE-UP
Jason Conde-Houston – vocals
Carlo “Taii” Hernandez – guitars
Tomas Roitman – drums
Armand Ramos – guitars
Altra reunion di una band storica dell’heavy power olandese, i Martyr, tornati sul mercato con l’ottimo Circle Of 8 del 2011, album che li vedeva tornare dopo ben 25 anni di silenzio, dal secondo lavoro Darkness at Time’s Edge, datato 1986.
Band nata nel lontano 1982, i Martyr seguivano i canoni dell’allora new wave of british heavy metal, dando alle stampe, nel 1985 il primo album, For The Universe.
Prima la Metal Blade con il precedente Circle Of 8, ed ora la Pure Steel, hanno dato credito a questa reunion, ed il quintetto di Utrecht si ripresenta dopo cinque anni in forma smagliante, confezionando un macigno heavy power thrash davvero potente .
Confermando il trend del precedente lavoro, i Martyr hanno spostato il tiro della loro proposta, verso un sound più ruvido ed arcigno: questo nuovo lavoro, pur garantendo uno stilema old school, è ben prodotto e contiene quelle atmosfere thrash che rendono il tutto pesante, a tratti devastante, lasciando che il mood classico si sposi con la grinta e la pesantezza del thrash dai richiami power.
Mai troppo veloce, ma dall’andamento monolitico, con tra i solchi un gran lavoro delle sei corde, protagoniste con la prova del singer Rop van Haren, un mostro di personalità debordante al microfono, You Are Next si trova esattamente a metà strada tra il power teatrale dei fenomenali Angel Dust di Border Of Reality ed i primi Testament.
Ne esce un album che, a tratti, entusiasma, forte di un ottimo songwriting e dell’abilità dei protagonisti, certo non dei novellini e dotati di un’esperienza trentennale messa al servizio di metallo aggressivo, dall’impatto terremotante, ma, allo stesso tempo, dotato di un’eleganza tutt’altro che nascosta dalle cascate di riff e solos che i due axeman (Rick Bouwman e Marcel Heesakkers) riversano sullo spartito di questa raccolta di brani, alcuni davvero eccellenti.
Questi vecchietti con il viziaccio di suonare metal con la M maiuscola mi hanno letteralmente stupito: il loro suono risulta potente e fresco, le songs marciano spedite, già dall’opener Into The Darkest Of All Realms, introdotta dalla voce di un bimbo, mentre le chitarre esplodono e la sezione ritmica tiene il passo con mestiere (Wilfried Broekman alle pelli e Jeffrey Bryan Rijnsburger al basso).
Enorme Van Haren al microfono: personale, teatrale, potente e dannatamente coinvolgente, mette a ferro e fuoco i padiglioni auricolari con una prova d’applausi, mentre l’album prende il volo con Infinity, altro pezzo da novanta di You Are Next, e non si ferma più, rimanendo ad altezze elevate in fatto di qualità e coinvolgimento. Monster e Mother’s Tear, la velocissima e violentissima In The End, sono gemme di heavy power, sparate da un cannone metallico, mentre il singer dàletteralmente spettacolo nell’inno ottantiano Don’t Need Your Money, posto a chiusura del disco ed esempio di come si suona l’heavy metal old school nel 2016.
Un ritorno esaltante, fatelo vostro.
TRACKLIST
1. Into The Darkest Of All Realms
2. Infinity
3. Inch By Inch
4. Souls Breathe
5. Unborn Evil
6. Monsters
7. Crawl
8. Mother’s Tear
9. In The End
10. Don’t Need Your Money
LINE-UP
Rick Bouwman – guitars
Rop van Haren – vocals
Wilfried Broekman – drums
Jeffrey Bryan Rijnsburger – bass
Marcel Heesakkers – guitars
L’album è un buon esempio di heavy metal classico supportato da ritmiche hard rock, cadenzato, potente e sfregiato dalle sei corde, che, come affilate katane, tagliano il sound con rasoiate micidiali.
Il micidiale guerriero giapponese, un’ombra che attacca senza paura alcuna e senza pietà, dà il nome a questa band tedesca, attiva già dagli anni ottanta e riportata all’attenzione dei fans del metal classico dalla conterranea Pure Steel, ultimamente alle prese con molti dei gruppi usciti negli anni di massimo splendore per il genere e poi tornati a sprofondare nel silenzio.
Come molti loro colleghi, anche i Ninja uscirono nella seconda metà degli anni ottanta e diedero alle stampe il primo lavoro, precisamente nel 1988 (Invincible); quattro anni più tardi dopo uscì il secondo, Liberty, mentre l’ultimo parto prima del letargo discografico fu Valley of Wolves nel 1997, poi diciassette lunghi anni nell’oblio, prima che Into The Fire torni a far parlare del gruppo.
L’album è un buon esempio di heavy metal classico supportato da ritmiche hard rock, cadenzato, potente e sfregiato dalle sei corde, che, come affilate katane, tagliano il sound con rasoiate micidiali.
Classico german metal, suonato con classe, ottimamente prodotto, molto old school e non può essere altrimenti, ma con una manciata di songs dall’alto potenziale melodico, come da tradizione del true metal di estrazione classica.
Un disco per chi di primavere ne ha viste passare tante, così come i musicisti che formano la band, con Holger vom Scheidt al microfono, cantante che nelle parti heavy si avvicina al mitico Udo Dirkschneider, Ulrich Siefen e Carsten Sperl alle sei corde, Michael Posthaus al basso e Hans Heringer alle pelli.
Si parlava di hard rock, ed infatti i Ninja non disdegnano brani ritmati che portano nella terra dei canguri e al gruppo dei fratelli Young, con gli Accept a far loro compagnia tra le maggiori influenze dei cinque musicisti tedeschi, così che brani come Blood Of My Blood, Coward e Sledgehammer risultano anche i migliori del lotto.
Non manca la melodia in tracce heavy, dal retrogusto epico e battagliero (Masterpiece) ed altre che si avvicinano alle semiballad, marziali e fieri pezzi di metallo melodico per defenders con già molte battaglie sul groppone (Always Been Hell). Into The Fire è sicuramente consigliato agli amanti dei suoni classici; la produzione, ottima, fa in modo che l’album risulti al passo con i tempi, valorizzando l’ottimo lavoro dei Ninja.
TRACKLIST
1. Frozen Time
2. Thunder
3. Vagabond Heart
4. Masterpiece
5. Hot Blond Shot
6. Always Been Hell
7. Blood Of My Blood
8. Coward
9. Last Chance
10. Sledgehammer
11. Supernatural
12. Into The Fire
LINE-UP
Hans Heringer – drums
Holger vom Scheidt – vocals
Ulrich Siefen – guitars
Michael Posthaus – bass
Carsten Sperl – guitars
Tales From Beyond quindi risulta un buon disco, l’ennesimo di una band che, se non ha mai trovato il Graal del capolavoro, sicuramente non ha mai deluso le aspettative, confermandosi come una un punto fermo per gli amanti di queste sonorità.
I Mob Rules sono una delle tante band nate a metà degli anni novanta (1994), in pieno ritorno sia qualitativo che commerciale dei suoni heavy classici, specialmente nel vecchio continente, anni in cui le vecchie glorie tornavano a produrre grande musica, accompagnate da nuove realtà di un certo rilievo, ancora oggi sulle bocche e negli stereo dei true defenders sparsi per l’Europa.
La band tedesca è sempre rimasta un gradino sotto i gruppi più famosi, ma questo non ha mai inficiato la buona qualità della sua musica, un ottimo esempio di heavy power metal, molte volte valorizzato da soluzioni vicine al prog e dalla fiera vena epica.
Il sestetto ha così scritto negli anni pagine di metallo epico, oscuro e melodico, convogliando in un unico sound le sue maggiori influenze, dal metal classico di scuola Dio, ai Maiden, senza lasciare indietro il sound originario delle proprie terre, sommandoli ed ottenendo un concentrato di ritmiche power, solos heavy melodici e dalla vena epica, tra cavalcate in crescendo, riff cadenzati e potentissimi, accompagnati dalle tastiere, capaci di teatralizzare e rendere magniloquenti molti dei brani scritti. Tales From Beyond, come avrete capito, non si discosta dalla usuale proposta che il gruppo ci ha abituato fin dai tempi del debutto Savage Land, primo di otto fratelli che, senza picchi clamorosi, ma con buona costanza, hanno portato i Mob Rules nel nuovo millennio.
Qualche inserto folk celtico, cambi di ritmo ed una buona predisposizione per le melodie, fanno del nuovo lavoro l’ennesimo buon disco da parte della band, come sempre sul pezzo nel travolgerci con cavalcate metalliche, protagoniste anche su Tales From Beyond e loro marchio di fabbrica, assecondate da un’ottima prova delle due asce, che non si risparmiano nello scambiarsi la scena con solos gustosi, mentre il buon Klaus Dirks, alza di non poco la qualità del lavoro con un’eccellente prova, un po’ Dio, un po’ Dickinson, insomma singer di razza superiore.
La coppia Matthias Mineur e Sven Lüdke alle chitarre, la sezione ritmica compposta da Markus Brinkmann al basso e Nikolas Fritz alle pelli, e le tastiere di Jan Christian Halfbrodt, completano una line-up consolidata e affiatata, che permette a Tales From Beyonddi viaggiare su livelli ottimi, aiutato anche da un’ottima produzione.
Molto atmosferici i vari brani, pur mantenendosi su livelli alti di energia, il pathos epico/oscuro che si respira sul nuovo album è l’arma in più di canzoni dall’alto tasso emozionale come la celtica Somerled, la maideniana On The Edge, il crescendo epico di My Kingdom Come e le tre parti di A Tales From Beyond, mini suite di quindici minuti che, nelle parti più elaborate, avvicina il gruppo ai meravigliosi Vanden Plas. Tales From Beyond quindi risulta un buon disco, l’ennesimo di una band che, se non ha mai trovato il Graal del capolavoro, sicuramente non ha mai deluso le aspettative, confermandosi come una un punto fermo per gli amanti di queste sonorità.
TRACKLIST
1.Dykemaster’s Tale
2. Somerled
3. Signs
4. On the Edge
5. My Kingdom Come
6. The Healer
7. Dust of Vengeance
8. A Tale from Beyond (Part 1: Through the Eye of the Storm)
9. A Tale from Beyond (Part 2: A Mirror Inside)
10. A Tale from Beyond (Part 3: Science Save Me!)
11. Outer Space
LINE-UP
Klaus Dirks – Vocals
Matthias Mineur – Guitars
Sven Lüdke – Guitars
Markus Brinkmann – Bass
Nikolas Fritz – Drums
Jan Christian Halfbrodt – Keyboards
Jacob Lizotte possiede un talento potenzialmente ancora da esprimere in toto e, anche per questo, va seguito con curiosità e rispetto.
Jacob Lizotte è un giovanissimo musicista del Maine, con una nutrita discografia che lo accompagna ed un amore per il metal a 360° che lo ha portato a confrontarsi con vari generi della nostra musica preferita.
La sua avventura rigorosamente solista (il ragazzo suona tutti gli strumenti) è iniziata solo due anni fa, ma nel giro di pochi mesi, ha rilasciato ben sei lavori di cui tre sulla lunga distanza (Means to an End, Empowering the Weak, This Is War) alternando il sound proposto, che va dal metal moderno all’heavy metal old school dai richiami thrash, come nel caso di questo nuovo ep dal titolo For The Fallen Ones.
Jacob si è costruito il suo personale studio ed è autodidatta: dotato di una creatività fuori dal comune, che lo ha portato ad incidere più di cento brani in pochi anni, riversa in questo ennesimo lavoro tutta la sua voglia di metal classico.
Un lavoro che, questa volta, affonda le proprie radici nel metal old school, pregno, come detto di richiami al thrash statunitense e concettualmente molto shred.
La sei corde brucia note in scale da guitar hero, le ritmiche potenti e ben strutturate fanno da tappeto alle urla delle corde violentate dal talento del giovane musicista, che non se la cava male neppure dietro al microfono.
Tra i brani, ottime la title track e la thrash metal Mayhem, tributo al genere ed influenzato dai lavori delle band storiche a cavallo tra il decennio ottantiano e gli alternativi anni novanta.
Molta importanza ai solos, sempre debordanti, stilisticamente siamo nel puro old school, la produzione, con la voce lontana, accentua la sensazione di essere al cospetto di un album uscito originariamente in quei gloriosi anni, mentre le note di Voices Of The Dead ci portano nella tana dell’U.S. Metal di origine controllata.
Certamente non mancano i difetti, la proposta è migliorabile nella produzione, forse un po’ troppo fai da te, mentre i richiami alle band icona è leggermente accentuata, rimane il fatto che Jacob Lizotte possiede un talento potenzialmente ancora da esprimere in toto e, anche per questo, va seguito con curiosità e rispetto.
TRACKLIST
1. Fight or Flight
2. For the Fallen Ones
3. Metal Mayhem
4. Voices of the Dead
5. Save Us from Ourselves
Il ritorno dei Destructor si profila come uno dei primi appuntamenti da non perdere per i true metallers legati alla tradizione old school
Tornano gli storici Destructor, band attiva dalla metà degli anni ottanta, ed esempio del buon lavoro della Pure Steel nel riportare all’attenzione dei fans realtà storiche del panorama metal mondiale.
La band dell’Ohio aggiunge un’altra tacca alla cintura della sua numerosa discografia, il nuovo album è il quarto full length, ma la band annovera una marea di demo, ep e live, che accompagnano i primi tre lavori in studio, Maximum Destruction, esordio di metà ottanta, Sonic Bullet del 2003 ed il precedente Forever in Leather, ultimo parto in casa Destructor del 2007.
Heavy metal old school, ipervitaminizzato da velocità ed aggressività speed/thrash, è la carattersitica del sound del quartetto capitanato da Dave Overkill (voce e chitarra) e Nick Annihilator (chitarra), a cui si aggiunge la sezione ritmica dei distruttori, Tim Hammer (basso) e Matt Flammable alle pelli.
Overkill e Annihilator, pseudomini che la dicono lunga sulla musica del gruppo americano, improntata su un aggressivo U.S. metal che si avvicina non poco al thrash, il tutto sotto l’ala di un sound che più old school non si può, valorizzato da tanta esperienza, ed un’ottima preparazione che tecnica, così da far esplodere in un girone di infernale heavy metal senza compromessi i brani qui contenuti.
Veloci e violente fughe al limite della velocità, si alternano ad ottime ed oscure parti cadenzate, solos ed ottime parti strumentali, riecheggiano nella struttura dei brani, dove non mancano cambi di tempo, pur mantenendo un’aurea oscura e rabbiosa.
La produzione mantiene fede all’impronta old school del disco, così che veniamo trasportati nel suono americano, trascinati per i piedi da una raccolta di songs dure come l’acciaio, oscure come impone la tradizione e violente il giusto per fare di Back In Bondage un album consigliato agli amanti del genere, che si troveranno al cospetto di una band travolgente e a songs cattive come Final Solution, G-Force, la maideniana Pompeii, ed il piccolo capolavoro The Shedding of Blood and Tears, una semiballad in crescendo tra Metal Church ed Iron Maiden e picco qualitativo di questo ottimo lavoro.
Il ritorno dei Destructor si profila come uno dei primi appuntamenti da non perdere per i true metallers legati alla tradizione old school, ma può essere un buon modo per avvicinarsi al genere per i giovani che del metal tradizionale conoscono solo i primi album dei gruppi più famosi.
TRACKLIST
1. Fight
2. Final Solution
3. G-Force
4. N.B.K.
5. Pompeii
6. Powerslave
7. The Shedding Of Blood And Tears
8. Tornado
9. Triangle
LINE-UP
Dave Overkill – vocals, guitars
Nick Annihilator – guitars
Tim Hammer – bass
Matt Flammable – drums
Qui c’è il metal, ma quello vero, semplice eppur composito, trascinante ed adrenalinico
Da La Spezia arriva questo disco che è una bomba, e si pone un spanna sopra le cose che ho ascoltato negli ultimi tempi.
L’impianto è heavy metal, ma dentro c’è un po’ tutto il metal. Sinceramente il disco sfugge ad ogni tentativo di classificazione, come ogni disco eccellente. I Septem si formano a La Spezia nel 2003 dalla fusione di 2 gruppi. Nel 2006 si affidano ad una realtà dell’underground spezzino per pubblicare un disco, ma si rivela una truffa e il progetto finisce lì. Arrivati alla Nadir Music, un certo Tommy Talamanca li prende sotto la sua ala protettiva e produce, mixa e masterizza il disco ai Nadir Music Studios. Il risultato è stupefacente. Qui c’è il metal, ma quello vero, semplice eppur composito, trascinante ed adrenalinico. Stacchi imponenti, composizioni azzecate e canzoni scritte impeccabilmente. Non una nota noiosa, nessun orpello, tanta sostanza e un disco entusiasmante. Durante l’ascolto mi sono trovato più volte a bocca spalancata: A different day è un inno metal, la strumentale Septima è un pezzo che tanti big del metal vorrebbero incidere. Non riesco a staccarmi da questo cd, poiché dischi come questo mi hanno fatto diventare la testa di metallo che sono. Resiste anche a ripetuti e continuati ascolti. Davvero bello. Dovremmo farlo ascoltare a chi non capisce perchè essere metallaro è una grande fortuna, perchè puoi godere di dischi così.
Con un po’ più di attenzione in fase di produzione e migliorando la prova vocale, la band indiana potrebbe fare un salto di qualità importante, anche se la proposta è circoscritta ai fans del genere.
Si torna a parlare di metal proveniente dall’India, con il debutto di questo quartetto proveniente da Bangalore, che di nome fa Abaddon e suona heavy metal old school irrobustito da iniezioni di adrenalina thrash.
Cinque brani, una mezz’ora scarsa di musica fieramente metallica, influenzata dai maestri heavy/thrash che hanno scritto la storia della nostra musica preferita, alternando brani in linea con la new wave of british heavy metal, ad altri dove i ritmi si fanno più serrati e la velocità aumenta pericolosamente. Terror In The Eyes Of God è un brano maideniano, la voce fuori campo lascia spazio ad un riff che ripercorre in toto il sound della vergine di ferro, metal old school, magari non prodotto benissimo, ma assolutamente trascinante, così come l’ottima Rise Of The Undead. In Violent Sage esce l’anima thrash del gruppo, uno strumentale che porta alla devastante Destruction Completes Creation, sezione ritmica compatta (Samarth Hegde alle pelli e Jehosh Gershom al basso) e chitarre che trascinano in un vortice di note ottantiane (Akash Ponanna e Naag Bharath) per il brano più riuscito del disco.
Un po’ monocorde, la voce del bassista, sicuramente migliorabile, rende poco giustizia al sound del quartetto, che non ha paura di mettere in mostra le proprie influenze e gioca con il metal old school pescando in egual misura da Iron Maiden, Judas Priest, Testament e Megadeth.
Con sufficiente piglio gli Abaddon ci propongono un dischetto tutto sommato piacevole, derivativo certo, ma anche ben costruito su questa alternanza tra l’heavy metal tradizionale ed il più violento thrash, mettendo a nudo pregi e difetti che per una band all’esordio sono sicuramente perdonabili.
Con un po’ più di attenzione in fase di produzione e migliorando la prova vocale, la band indiana potrebbe fare un salto di qualità importante, anche se la proposta è circoscritta ai fans del genere.
TRACKLIST
1. Terror In the Eyes of God
2. Rise of the Undead
3. Violent Sage
4. Destruction Completes Creation
5. Bullet Eye
Il gruppo di San Gallo è tecnicamente sul pezzo, le molte fughe degli strumenti verso lidi dove la bravura strumentale è sfoggiata alla grande viene accompagnata dall’ugola dorata della singer che in alcuni brani funziona, mentre in altri invece non riesce a lasciare la sua impronta, travolta dai vortici ipertecnici dei suoi colleghi.
Il prog metal ed il symphonic gothic metal sono due generi che poco hanno in comune, molto tecnico e troppe volte freddo il primo, bombastico e più emozionale il secondo, anche se molti gruppi odierni, specialmente nel metal sinfonico, usano divagazioni puramente tecniche e progressive nel loro sound.
Il problema giunge quando un gruppo progressive metal ha come protagonista al microfono una voce femminile dalle linee classiche, molto più adatta al genere sinfonico che a quello progressivo.
Può piacere o meno, questione di gusti chiaramente, anche se a ben vedere il risultato è a tratti affascinante, lasciando però molte volte un senso di incompiuto, specialmente quando i musicisti partono sulle ali della loro ottima tecnica in divagazioni progressive dove la voce da soprano, bellissima e dolcissima, perde lo scontro con gli strumenti impegnati in virtuosismi metallici taglienti.
Non fraintendetemi, Reflection And Refraction nella sua completezza è un ottimo esempio di prog metal sulla scia dei Dream Theater, che la splendida voce della musa Patricia Clooney valorizza nei frangenti più pacati, mentre la mancanza di un’ugola più consona ai brani di energico metallico progressivo di cui è colmo l’album, fa perdere più di un punto agli Elyria.
Il gruppo di San Gallo è tecnicamente sul pezzo, le molte fughe degli strumenti verso lidi dove la bravura strumentale è sfoggiata alla grande viene accompagnata dall’ugola dorata della singer che in alcuni brani funziona, mentre in altri invece non riesce a lasciare la sua impronta, travolta dai vortici ipertecnici dei suoi colleghi.
Abbiamo così cambi di ritmo dettati da una sezione ritmica con tutte le carte in regola per strafare (Sascha Kaisler alle pelli e Stefan Mankiewicz al basso), sei corde che ricama virtuosi riff metallici (Oliver Weislogel), ma brani che non prendono il volo, rimanendo rinchiusi nel limbo tra i due generi.
Si salvano la notevole Salome e l’orientaleggiante Faceless, oltre alcune parti in cui la pacatezza del sound permette alla vocalist di prendersi la scena, dopo essersi persa tra le complicate trame musicali suonate dai suoi compagni.
Un peccato, perché i musicisti sono bravi e la vocalist splendida, ma è l’insieme che funziona ad intermittenza.
TRACKLIST
1. Open Portals
2. The Vigil
3. Blind
4. Colour of Silence
5. Salome
6. Human Caleidoscope
7. Beyond Earth
8. Only Words
9. Faceless
10. Mindshift
11. Dreamwalker
12. Virtues
13. Distance
LINE-UP
Patricia Clooney – Vocals
Oliver Weislogel – Guitars
Sascha Kaisler – Drums
Stefan Mankiewicz – Bass
DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
Il gruppo di San Gallo è tecnicamente sul pezzo, le molte fughe degli strumenti verso lidi dove la bravura strumentale è sfoggiata alla grande, viene accompagnata dall’ugola
A Moment, A Place, A Reason è un grande disco di hard rock, da ascoltare, assaporare e consigliare
Gran bel disco hard heavy con puntate aor per questo combo di veterani di Torino.
Attivi dalla fine degli anni novanta ma in maniera organica dal 2005, gli Ivory propongono un suono molto debitore del passato ma proiettato nel futuro, forte del fatto che i fans di queste sonorità sono tenacissimi. Ci sono molte cose in questo cd, pubblicato da Buil2 Kill Records, ma soprattutto c’è una grande voglia di fare hard rock, un’ottima produzione e tanta tanta melodia resa sempre in maniera impeccabile. Il sentimento contenuto in questo disco è difficilmente ravvisabile nelle migliaia di uscite hard rock, poiché gli Ivory fanno tutto molto bene, e sarebbe un gran peccato se questo disco passasse inosservato. Il gruppo torinese non fa solo sfoggi odi una grande tecnica, ma sono anche fini compositori e le canzoni hanno un’ossatura importante. A Moment, A Place, A Reason è un grande disco di hard rock, da ascoltare, assaporare e consigliare.
TRACKLIST
01. Bad News
02. The Hawk
03. Feeling Alive
04. Who Am I
05. Take A Ride
06. A Drink At The Village (Instrumental)
07. Come Together (The Beatles Cover)
08. Inner Breath
09. Through Gloria’s Eye
10. Blues For Fools
L’album è un inno all’heavy metal e vi troviamo il meglio che il genere ha saputo offrire nella sua lunga storia
Amanti dell’heavy metal old school segnatevi il nome degli Axevyper, primo perché la band è tutta italiana e, secondo, perché il loro ultimo lavoro è una bordata da lasciare senza fiato.
Nel più puro spirito metallico Into The Serpent’s Denè forgiato, mandando a spigolare realtà (specialmente nordiche) che sul genere hanno costruito la loro fortuna, epici, guerreschi e fieramente metallici, old school, che non vuol dire produzione fai da te e poca personalità, ma appartenenti ad una scuola musicale che guarda al passato, senza dimenticare di vivere e creare musica nel nuovo millennio.
Talmente travolgente questo disco, che mi ha ricordato a più riprese l’esordio degli Hammerfall ma, attenzione, dove il gruppo di Joacims Cans faceva delle facili melodie il suo punto di forza, la band nostrana si rende protagonista di un lavoro dove le melodie hanno la loro importanza, ma inserite in un contesto maturo in cui le atmosfere di fiero e glorioso metallo sono valorizzate da un songwriting di un’altra categoria.
Questo terzo full length scaraventa di diritto la band tra le migliori realtà nel genere suonato, anche perché sfido chiunque a trovare altrove la verve, il senso per la melodia ed un’attitudine come riscontrato in seno al gruppo di Viareggio, non per caso finito tra le grinfie della Iron Shield, etichetta della grande famiglia Pure Steel.
L’album è un inno all’heavy metal e vi troviamo il meglio che il genere ha saputo offrire nella sua lunga storia, dalle band storiche dei gloriosi anni ottanta a quelle che, dopo la metà del decennio successivo, portarono ancora una volta il metal classico agli onori delle cronache, il tutto suonato con una personalità debordante.
L’album sprigiona una fierezza metallica che rinvigorisce il guerriero che è in noi, per troppo tempo addormentato, ed ora pronto allo scontro sulle note delle varie Brothers of the Black Sword, Metal Tyrant, The Adventurer e Beyond The Gates Of The Silver Key.
Chiaramente i musicisti sanno il fatto loro, ed il sound è valorizzato da performance tutte sopra la media, chitarre, sezione ritmica e canto sono perfettamente in linea con un songwriting che sorprende, richiamando a più riprese, Maiden, Warlord, Manilla Road, Manowar,Domine, Hammerfall, Nocturnal Rites, in un viaggio lungo più di trent’anni lungo le numerose battaglie affrontate dal nostro amato guerriero metallico, mandato dagli dei per difendere la nostra musica preferita.
Questo è heavy metal con la M maiuscola, grande album, grande band e prima sorpresa (anzi conferma) del nuovo anno nel genere.
TRACKLIST
1 Brothers of the Black Sword
2 Metal Tyrant
3 Soldiers of the Underground
4 The Adventurer
5 Under The Pyramids
6 Spirit Of The Wild
7 Solar Warrior
8 Beyond The Gates Of The Silver Key
Volete ancora raffinatezze e originalità? Rivolgetevi altrove, qui si fa del metal ignorante e tremendamente fiero.
Quando si parla di Anvil si parla di storia, su questo non ci sono dubbi, infatti il gruppo capitanato da quel simpaticone di Lips, che lo vogliate o no, è uno delle maggiori fonti di ispirazione per molte band diventate molto più famosi del combo canadese, una su tutte i Metallica.
Rispettati ed amati dai loro colleghi della scena metal, specialmente quella statunitense, gli Anvil hanno scritto nei primissimi anni ottanta due dischi entrati a far parte della storia dell’hard & heavy: il clamoroso Metal On Metal (1982), praticamente il vangelo metallico secondo Lips, opera che ha influenzato mezzo secolo di artisti del genere, e Forged In Fire, album che veniva pubblicato un anno dopo il suo illustre predecessore, risultando ancora una volta un macigno di hard & heavy, ruvido, senza compromessi ed altamente adrenalinico.
Il gruppo ha continuato imperterrito a produrre dischi in tutti questi anni, senza neanche sfiorare quella popolarità che ha toccato molti dei loro colleghi, più volte dichiaranti del loro amore verso la band, ma a Lips la cosa non ha mai pesato più di tanto, tanto è vero che nel 2009 usciva The Story Of Anvil, documentario sulla storia del gruppo che non poteva a fare a meno di prendere con ironia la poca popolarità acquisita in tanti anni di onorata carriera nel mondo del rock.
Nuovo millennio e ancora una buona manciata di album, tutti con la firma Anvil, così come mister Steve “Lips” Kudlow vuole, con una coerenza a tratti commovente, anche se molti hanno sempre rimproverato al gruppo di produrre album perfettamente uguali da almeno trent’anni.
Prendere o lasciare, giusto così, e anche questo Anvil Is Anvil non si discosta dalle precedenti uscite, contraddistinte da riff duri come la roccia, monolitiche songs dai ritmi cadenzati e dalla potenza di un carro armato, altri più veloci ed in stile motorhediano, ma con uno spirito per nulla scalfito dai decenni che inesorabilmente passano, per loro, ed anche per chi nei primi anni ottanta comprava il vinile di Forged In Fire con la paghetta settimanale.
L’album mantiene le coordinate espresse da sempre e sinceramente chi vorrebbe qualcosa di diverso che non siano brani potenti e sfacciatamente live come l’opener, Daggers And Rum, Up Down Sideways, la mitragliante Die For A Lie e via via tutte le songs che compongono questo sedicesimo inno all’hard & heavy senza compromessi?
Lips ruggisce con il suo tono sporco, la sei corde ci inonda di riff che ci ricordano chi ci ha fatto innamorare della nostra musica preferita, mentre Robb Reiner e Chris Robertson formano il solito muro ritmico dove si sale ma non si riesce più a scendere.
2016, gli Anvil sono ancora qui con il loro sound monolitico e senza fronzoli: volete ancora raffinatezze e originalità? Rivolgetevi altrove, qui si fa del metal ignorante e tremendamente fiero.
TRACKLIST
1. Daggers and Rum
2. Up, Down, Sideway
3. Gun Control
4. Die for a Lie
5. Runaway Train
6. Zombie Apocalypse
7. It’s Your Move
8. Ambushed
9. Fire on the Highway
10. Run Like Hell
11. Forgive Don’t Forget
12. Never Going to Stop
LINE-UP
Robb Reiner – Drums
Chris Robertson – Bass
Steve “Lips” Kudlow – Guitars, Vocals
Ottimo lavoro che conferma la grande vena compositiva dei protagonisti, Alma Cachonda segue senza deludere il bellissimo esordio, con un proprio indirizzo stilistico ed una propria anima
Tornano a distanza di due anni dall’ottimo debutto Unnecessary I, i Killers Lodge, trio ligure composto da musicisti di un certo rilievo nel panorama metallico della nostra penisola, come John Killerbob, bassista, cantante e maggiore compositore del gruppo, che in passato ha collaborato con Necrodeath e Cadaveria, Olly Razorbach, chitarrista ed ex membro di Sadist, Nerve e Cadaveria, e Christo Machete alle pelli, con le sue bacchette che hanno picchiato sui drumkit dei Mastercastle, ed ultimamente sul progetto Odyssea di Pier Gonnella e Roberto Tiranti.
Il nuovo lavoro pur seguendo le linee guida del primo album si discosta leggermente per una più marcata predisposizione all’ heavy metal, il rock’n’roll motorheadiano che aveva caratterizzato i brani di Unnecessary I è sempre presente, ma le dosi di adrenalina di scuola Lemmy sono iniettate nel sound con parsimonia, così da avvicinare Alma Cachonda ad un mood metallico più marcato.
La band continua ad avere un impatto live ed inyourface davvero notevole, ed il songwriting, anche questa volta è sopra la media e l’esperienza indiscutibile dei musicisti coinvolti, fa capolino da ogni nota espressa su questo monolitico lavoro, che, se perde qualcosa in attitudine rock’n’roll, acquista una notevole potenza metallica.
Potenza e groove, ritmiche che si alternano, veloci o cadenzate, voce abrasiva e profonda, enormi riffoni metallici di scuola ottantiana, ed un impatto pari ad un molosso di musica del diavolo, irrompono dalle casse dello stereo in un assalto hard & heavy senza soluzione di continuità.
Dalla sua il gruppo genovese ha nel songwriting l’arma in più, valorizzando anche questa seconda raccolta di brani, che mantengono un approccio live entusiasmante.
Musica da suonare on stage, una colonna sonora per l’apocalisse sotto il palco, una prova di forza che, portata fuori dai confini di un cd, saprà fare male, molto male.
I brani si mantengono su livelli alti, anche se By Inferno’s Light (scelta come singolo), la seguente Psycholulladie, Growling the Night Away, dal riffone dommy che richiama i Cathedral e la mastodontica For the Lion and the Fish, una bordata di muscoloso metal dal groove micidiale, sono le songs da spararsi senza ritegno a volumi vietati, fregandosene del vicinato.
Ottimo lavoro che conferma la grande vena compositiva dei protagonisti, Alma Cachonda segue senza deludere il bellissimo esordio, con un proprio indirizzo stilistico ed una propria anima, promosso a pieni voti.
TRACKLIST
1. Stand Against
2. By Inferno’s Light
3. Psycholulladie
4. In The Gypsy Raven’s Deep Space
5. Growling the Night Away
6. With Fire and Iron
7. Ever Steel
8. For the Lion and the Fish
9. Warmongers
Se cominciate ad avere qualche capello bianco su quella che una volta era una lunga e folta chioma, occhio, perché Angry Machine potrebbe farvi tornare la voglia di poghi sfrenati
La Pure Underground Records ristampa l’esordio degli heavy metallers Axe Crazy, uscito originariamente nel 2014, un concentrato di heavy metal ottantiano clamoroso.
In soli diciassette minuti, divisi in quattro brani, la band, che prende il nome da un brano degli storici Jaguar, convince in toto gli appassionati della new wave of british heavy metal, con un sound esplosivo che, pur seguendo le coordinate del genere, risulta fresco, suonato benissimo ma soprattutto prodotto alla grande, così da investire l’ascoltatore con ritmiche aggressive, solos funambolici ed un cantante perfetto per urlare al vento l’appartenenza al mondo metallico.
Semplicemente heavy metal, certo, ma con un songwriting all’altezza, e tanto talento la band sfiora la perfezione, consegnandoci quattro perle da ascoltare e riascoltare e quando il genere è suonato così, beh, non ce n’è per nessuno. Angry Machines, Hungry For Life, la fenomenale Sabretooth Tiger e Running Out Of Time vi faranno saltare come grilli, puro heavy metal ottantiano dove solos grintosi melodici e dall’appeal esagerato per il genere (Robson Bigos e Adrian Bigos), ritmiche terremotanti (Andrzej Heczko alle pelli e Kamil Piesciuk al basso) e vocals pulite e potenti (Michael Skotnicki).
Se cominciate ad avere qualche capello bianco su quella che una volta era una lunga e folta chioma, occhio, perché Angry Machines potrebbe farvi tornare la voglia di poghi sfrenati al limite dell’umano, birra a fiumi e borchie a coprire il polsino della camicia stirata dalla padrona di casa.
Se siete giovani metallers, il consiglio è di ascoltare con attenzione questi quattro brani, dove all’interno è racchiuso il segreto per suonare la musica più bella del mondo.
La ristampa da parte dell’etichetta tedesca, limitata a duecento copie in vinile, dovrebbe fare da preludio al debutto sulla lunga distanza che, con queste premesse, si annuncia spettacolare: state sintonizzati e nel frattempo godetevi questo succoso antipasto da parte di una grande band.
TRACKLIST
Side A:
1. Angry Machines
2. Hungry For Life
Side B:
3. Sabretooth Tiger
4. Running Out Of Time
LINE-UP
Adrian Bigos – Guitar, backing vocals
Andrzej Heczko – Drums
Michael Skotnicki – Lead vocals
Kamil Piesciuk – Bass
Robson Bigos – Guitar, backing vocals