DEFLORE & JAZ COLEMAN – Party In The Chaos

Si raggiunge l’apice, perché Jaz è il cantante a loro predestinato, la sua voce tagliente si inserisce benissimo nei loro suoni al contempo freddi e bollenti.

I Deflore sono un duo romano di musica industrial psych metal, una delle cose più interessanti che si possano sentire in Italia nell’ambito musica pesante intelligente.

Per l’occasione hanno unito le forze con un tale che ha scritto alcune delle migliori pagine di musica sovversiva degli ultimi quarant’anni, Mister Jaz Coleman dei Killing Joke, un gruppo che riesce davvero difficile da descrivere a parole. Fondamentalmente Jaz è una delle poche voci che possono permetterci di staccarci dalla matrice e di vedere veramente il mondo come è, e non è facile. Questo ep racchiude in piccolo tutta la parabola musicale dei Deflore che sono sempre stati un gruppo all’avanguardia in Italia, perché sono sempre riusciti a dare una particolare accezione ai loro lavori, riuscendo ad essere originali in un ambito musicale quasi sempre derivativo. Qui poi si raggiunge l’apice, perché Jaz è il cantante a loro predestinato, la sua voce tagliente si inserisce benissimo nei loro suoni al contempo freddi e bollenti. Se siete amanti dei suoni industrial metal con un gran bel tocco di psichedelia qui troverete tutto ciò che amate, ma è comunque un disco ipnotico ed avvolgente per tutti coloro che lo ascolteranno. E poi i testi, parte molto importante. Abbandonate le speranze, giacché la nave non la potete abbandonare, qui si parla del doloroso tramonto della civiltà occidentale, che tra un business e l’altro sta facendo affondare tutto un pianeta che era sopravvissuto benissimo anche senza di noi. Fin dalla prima canzone Party In The Chaos si capisce la potenza di queste tre canzoni, e anche dove vogliono andare a parare, sembra di ascoltare i migliori Killing Joke, con più metal dentro però. La seguente Sunset In The West è strumentale, un bellissimo pezzo industrial psycj metal, dove i Deflore mostrano un altro lato importante della loro musica, che non è affatto secondario, quello di una psichedelia metallica che amplia molto la loro proposta sonora. Si chiude con Transhuman World, un pezzo davvero potente con un Jaz in grandissima forma, che parla dell’incubo transumano che si avvicina sempre di più, anche perché ora al governo in Italia c’è un partito che fra i suoi ideologi aveva un tizio che parlava positivamente del microchip sottopelle.
Un gran lavoro, una combinazione perfetta e assai naturale per un grande gruppo e per un cantante che sembra concepito apposta per loro. L’unica richiesta da fare ai Delfore e a Jaz è di fare un disco intero. Per favore, prima della fine.

1.Party In The Chaos
2.Sunset In The West
3.Transhuman World

Jaz Coleman – Voice
Christian Ceccarelli – Bass, Grooves, Samples and Snyths
Emiliano Di Lodovico – Guitar, Synths and Radio

https://www.facebook.com/defloreband/

Minority Sound – Toxin

La dote principale dei Minority Sound è quella di offrire un metal industrializzato ma, allo stesso tempo, ben fruibile attingendo ai nomi di punta del settore senza richiami espliciti ma fondendo efficacemente il tutto.

Ritroviamo dopo quattro anni i praghesi Minority Sound alle prese con il loro ottimo elettro metal, già efficacemente portato all’attenzione dell’audience con tre album nel corso di questo decennio ultimo dei quali appunto Drowner’s Dance.

Toxin è un nuovo tassello nell’opera del quartetto che va a consolidare un percorso magari non particolarmente innovativo ma dalla notevole qualità media ed altrettanta consistenza.
La dote principale dei Minority Sound è quella di offrire un metal industrializzato ma, allo stesso tempo, ben fruibile attingendo ai nomi di punta del settore senza richiami espliciti ma fondendo efficacemente il tutto.
Se vogliamo esemplificare al massimo, i cechi riescono a collocarsi in un ideale punto d’incontro tra tra l’orecchiabilità elettronica dei Deathstars, il riffing squadrato dei Rammstein, la vis sperimentale ed evocativa dei primi Fear Factory  e la visionarietà dei Mechina; ovviamente l’esito cambia a seconda del dosaggio degli ingredienti utilizzati, come dimostra la cadenzata e catchy title track che porta con sé persino rimandi dei Moonspell del controverso (non per me) Sin/Pecado.
L’elettronica ruffiana di Bipolar non lascia scampo, così come in definitiva tutti questi otto brani composti ed eseguiti con la perizia di chi il genere lo conosce e lo manipola con disinvoltura.
Tutto questo dovrebbe bastare ed avanzare per collocare i Minority Sound tra gli ascolti preferiti quando si vuole ascoltare metal moderno e ragionevolmente infuso di elettronica

Tracklist:
1. Deeds of Hate
2. Scarecrow
3. Toxin
4. Bipolar
5. Sunlight. Be Me! Sunlight Begone!
6. Love & Mayhem
7. Disconnected Sympathy
8. Empty Sands

Line-up:
Otus Hobst – Guitar
Ales Hampl – Vocals, guitar
Petr Blaha – Bass
Tomas “Dharm” Furst – Drums

MINORITY SOUND – Facebook

Rammstein – Rammstein

Rammstein è un album molto potente, estremamente ironico ma anche terribile nella descrizione di ciò che siamo davvero, come se ci guardassimo allo specchio senza filtri.

Tornano i Rammstein con un disco che, fin dalla mancanza del titolo, è un nuovo inizio, un decisivo upgrade della loro carriera.

I tedeschi del’est sono stati per molto tempo un unicum nel panorama internazionale, fin dagli esordi uno dei gruppi più radicali e sconvolgenti dal punto di vista dei testi e della musica, tanto da diventare un vero e proprio punto di riferimento. In loro scorre una tradizione musicale e gestuale tedesca che parte da lontano, passa dai Kraftwerk e dalla ebm tedesca, come i Deutsch-Amerikanische Freundschaft, e arriva oltre loro. Questo disco è uno dei migliori della loro carriera, sempre di alto livello seppure con qualche scivolone. Rammstein è un album molto potente, estremamente ironico ma anche terribile nella descrizione di ciò che siamo davvero, come se ci guardassimo allo specchio senza filtri. Musicalmente sembra che come al solito venga fusa l’elettronica con il metal, mentre invece si compie un’operazione ben più profonda, dato che alcune canzoni suonando pop come non mai, ma non in modo leggero, rivelandosi anzi una condanna senza appello: ascoltare Auslander per credere, un pezzo che sembra una presa in giro mentre è un’ammissione che cambia a seconda della lingua ma con il senso che resta lo stesso. Nelle sua viscere più profonde questo disco è un pugno diretto alla faccia della Germania, il che era chiaro fin dall’incredibile video di Deutschland, un cortometraggio che rimarrà indelebile nella storia. In quella canzone, che ha suscitato mille polemiche, ma che è già uno dei classici dei Rammstein, si elencavano con il suono, le parole e le immagini le malefatte della nazione germanica in una maniera pressoché perfetta. E si continua nel disco a sferzare tutto e tutti, e in prima fila a prendere i colpi ci sono i Rammstein stessi. Bisogna riconoscere all’album ciò che è veramente, ovvero un’opera versatile, potente e che vede il gruppo non al massimo splendore, ma sotto una luce diversa, come se fosse esplosa una bomba e i Rammstein fossero sopravvissuti addirittura più forti. Canzoni come Sex, con un giro di basso clamoroso in apertura, fanno vedere molto chiaramente di cosa siano capaci i Rammstein, che sanno accelerare e rallentare a piacimento, rimanendo unici in tutti i casi. Un lento come Was Ich Liebe entra nel territorio di gruppi come Depeche Mode e simili, sempre con il tocco personale di chi sa confezionare molto bene quelle che possiamo definire melodie dure. In questa epoca di continui cambiamenti, di poca sostanza e di estrema vacuità negli ascolti, con una netta preferenza per le cose ovvie, i Rammstein confezionano uno disco all’altezza della loro fama, con canzoni che permettono molto ascolti e che sono tutte di buon livello, con una struttura tipica del gruppo tedesco, ma con molti elementi nuovi ed un’elettronica originale rispetto all’ultima uscita. Come al solito, nel caso di Lindemann e soci, traducendo i testi si capirà molto meglio l’essenza, assai complessa e rinvenibile in profondità, che è una delle peculiarità maggiori di questa band.

Tracklist
1. Deutschland
2. Radio
3. Zeig dich
4. Ausländer
5. Sex
6. Puppe
7. Was ich liebe
8. Diamant
9. Weit weg
10. Tattoo
11. Hallomann

Line-up
Christoph Schneider – Drums
Richard Z. Kruspe – Guitar
Paul Landers – Guitar
Till Lindemann – Singer
Oliver Riedel – Bass Guitar
Flake Lorenz – Keyboards

RAMMSTEIN – Facebook

Order 1968 – Tears In The Snow

Un documento di gran valore, ma soprattutto un gran disco che ha finalmente una veste adeguata.

Ristampa della cassetta Tears In The Snow di Order 1968, rimasterizzata da Giovanni Indorato al Ctìyber Ghetto Studio.

Order 1968 è stato uno dei primi progetti di uno dei maggiori nomi della musica elettronica in chiave ambient ed industrial in Italia, da parte di quel Claudio Dondo che, dopo l’esperienza con Order 1968 andrà a fondare i fondamentali Runes Order, che invitiamo caldamente a scoprire o riscoprire. La cassetta uscì originariamente nel 1991, registrata nello studio casalingo di Claudio, che era anche l’unico membro del progetto, e pubblicato sull’etichetta da lui fondata, Hate Productions. La cassetta fu originariamente ristampata in 200 copie sotto il nome Runes Order dalla Oktagon Records, con lo stesso audio ed un artwork differente. Annapurna Productions ha ristampato il tutto rimasterizzandolo e con le copertine originali. Dondo è sempre un produttore geniale e notevole, in nuce qui c’è quello che poi farà con i Runes Order, ma soprattutto troviamo una concezione totale e rituale del mezzo musicale. Non è musica fatta per intrattenere, per consolare o per dare risposte, qui ci sono tenebre, domande e tormenti, ma il fatto è che sono fra le atmosfere migliori mai prodotte in Italia. Molto lontano dalle luci della musica di successo ed anche dalla musica delle pose finto alternative, c’è un universo dove ci sono persone che fanno musica per passione e per giocare con i loro demoni, e Claudio Dondo è un eminente esponente di codesta schiatta. Tears In The Snow non lo si ascolta, è il disco stesso che si insinua dentro di noi, percorre le nostre vene e torna nel cervello per celebrare il rituale della nostra estrema caducità, messa mirabilmente in sonoro qui. Tears In Snow è sia un lavoro seminale che una cosa a sé stante, un altro tenebroso episodio della carriera di Claudio, una parabola pressoché unica in Italia e che è apprezzata da chi sa e vuole farlo. Un documento di gran valore, ma soprattutto un gran disco che ha finalmente una veste adeguata.

Tracklist
1. Intro(duction)
2. Sturm
3. A Minute In The Snow
4. The Runes
5. The White Empire
6. The Key Of Pride
7. Watching The New Dawn
8. Nocturne
9. No Surrender!!!
10. A Minute In The Wind
11. Buried Blades
12. Le Bianche Valli Del Silenzio
13. Chi Ride Muore!

Acretongue – Ghost Nocturne

Ghost Nocturne non manca certo di brani dal buon appeal, per quanto il sound non sconfini mai più di tanto in una ammiccante ballabilità; infatti, in ossequio al titolo, l’album mostra una certa vena intimista e, appunto, notturna, dal discreto fascino ma priva di picchi particolari.

Secondo full length per il musicista sudafricano Nico J.con il suo progetto Acretongue.

Ghost Nocturne arriva ben otto anni dopo l’esordio Strange Cargo, album che all’epoca dell’uscita aveva ottenuto buoni riscontri.
L’elettro dark esibito in questo frangente è indubbiamente di buona qualità, nella scia di un modello vocale come Frank Spinath e musicale come i suoi Seabound, ma rispetto allo psicologo tedesco prestato al synth pop quella di Nico J. si rivela una versione valida ma leggermente meno incisiva
Ghost Nocturne non manca certo di brani dal buon appeal, per quanto il sound non sconfini mai più di tanto in una ammiccante ballabilità; infatti, in ossequio al titolo, l’album mostra una certa vena intimista e, appunto, notturna, dal discreto fascino ma priva di picchi particolari.
Brani come Requiem e la successiva Endling’s Call sono indicativi di un buon talento compositivo che forse si è leggermente affievolito rispetto a quanto esibito all’iizio del decennio.
Detto ciò Ghost Nocturne resta un lavoro gradevole e di classe, per quanto collocabile nella fascia subito inferiore a quella di vertice dell’elettro synth pop mondiale.

Tracklist:
1.Abacus
2.Requiem
3.Endling’s Call
4.Nocturne I – Dawn Crimson
5.Contra
6.Nightrunner
7.Minutia’s Curse
8.Nocturne II – The Drowning Hour
9.Haven

Line-up:
Nico J.

Mind Driller – Involution

Si balla al ritmo del cyber metal, ci si immerge nel silicio dei microchips che stanno dominando le nostre vite, e si va a cercare l’anima là dove è più difficile trovarla.

Da Alicante arrivano i Mind Driller, un gruppo composto da sei musicisti, che fondono il metal con l’elettronica e tanto altro.

Nati nel 2011, sono con questa ultima fatica al loro terzo disco, e hanno ricevuto buone critiche ed apprezzamento dal pubblico. La loro formula musicale è particolare, come la scelta di usare ben tre lingue differenti nei testi: l’inglese, il tedesco e il castigliano. Come numi tutelari siamo dalle parti dei Rammstein e di tutti quei gruppi che hanno scelto di unire l’elettronica più oscura al metal. I Mind Driller hanno un’innegabile carica metal, con esplosioni e repentine accelerazioni, melodie ed un’importante rimando di giochi fra voce maschile e voce femminile. In queste dodici canzoni ci sono molte cose, i temi trattati sono molteplici e ci sono varie evoluzioni fra generi musicali differenti. Il gusto del disco si avvicina molto a quelle uscite dei primi duemila che ricercavano punti di contatto fra elettronica e metal, usando alcuni stilemi dei due generi per produrre qualcosa di nuovo. Ai nostri giorni questo non è più una novità, ma i Mind Driller, fanno tutto ciò molto bene, usando gli elementi che li attraggono maggiormente per rendere un affresco coerente e coinvolgente. Unica pecca sono alcuni momenti di confusione, come se non si sapesse bene cosa scegliere fra metal ed elettronica, ma sono davvero pochi. Si balla al ritmo del cyber metal, ci si immerge nel silicio dei microchips che stanno dominando le nostre vite, e si va a cercare l’anima là dove è più difficile trovarla. Ci sono anche cose industrial e tracce di ebm, che contribuiscono a fare dei Mind Driller uno dei gruppi più interessanti di questa commistione fra metal ed elettronica. Il loro suono è fresco, non ristagna mai e si lancia sempre verso l’alto, a volte esagerando per ambizione, ma i numeri li hanno e possono farcela. In sostanza un disco piacevole e composto molto bene, con delle vette, e nel complesso una media alta.

Tracklist
Estefania Aledo – Voces
V – Voces
Daniel N.Q. – Voces
Javix (Guitarras y programaciones
Pharaoh – Bajo
Reimon – Batería

Line-up
Estefania Aledo – Vocals
V- Vocals
Daniel N.Q – Vocals
Javix – Guitars & Programming
Pharaoh – Bass
Ramón H Torregosa – Drums

MIND DRILLER – Facebook

YERÛŠELEM – The Sublime

Gli YERÛŠELEM, in questa fase specifica della carriera di Vindsval, paiono esser una sorta di evoluzione in senso industrial delle sonorità offerte con l’ultimo album marchiato Blut Aus Nord, al quale per certi versi sembra addirittura sovrapporsi in più di un frangente.

Non è dato sapere se l’esperienza dei Blut Aus Nord abbia esaurito la propria obliqua e magnifica parabola portando il black metal delle origini al suo massimo livello di destrutturazione, di certo sappiamo che la nuova creatura di Vindsval e W.D. Feld, che di quella band sono le assi portanti, è destinata a regalare altre grandi soddisfazioni.

YERÛŠELEM, questo è il monicker, riprende ed attualizza ulteriormente l’industrial di matrice soprattutto albionica rendendola un’esperienza sonora non comune e, anche per questo, non per tutti.
Partendo da una base che accomuna i migliori terroristi sonici emersi in terra inglese nei primi anni ’90 (Godflesh, Scorn) il duo francese propone una rilettura terrificante della materia industrial, contaminandola mirabilmente con sfumature orientaleggianti (Babel) senza far venir meno l’ossessiva circolarità di un sound martellante ed ipnotico.
Del resto è difficile trovare un contesto musicale più adatto a descrivere il concetto di sublime, che l’appiattimento linguistico porta a ritenere un semplice accrescitivo di bello, mentre in realtà, secondo lo studioso del settecento Edmund Burke, è sublime “tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore”.
Il senso di nullità ed impotenza che proviamo di fronte ai fenomeni naturali, specialmente quando da questi non si viene direttamente coinvolti, viene mirabilmente evocato, prima con un certo impatto melodico come nella title track, per poi raggiungere il suo picco più minaccioso nell’accoppiata centrale Joyless /Triiiunity, lasciare nuovamente spazio a squarci armonici sminuzzati da una ritmica incalzante e defluire infine nella pace ambient di Textures Of Silence.
Gli YERÛŠELEM, in questa fase specifica della carriera di Vindsval, paiono esser una sorta di evoluzione in senso industrial delle sonorità offerte con l’ultimo album marchiato Blut Aus Nord, Deus Salutis Meæ, al quale per certi versi sembra addirittura sovrapporsi in più di un frangente. Anche per questo c’è una certa curiosità nel vedere dove ci potrà portare la preannunciata quarta parte di Memoria Vetusta (sempre che veda la luce, visto che se ne parla già da qualche anno).
Quel che conta è che questa configurazione convince non poco, anche se per una volta musicisti noti per i propri impulsi innovativi si “accontentano” di muoversi con grande maestria all’interno di territori impervi ma già ampiamente battuti da altri in passato.

Tracklist:
01. The Sublime
02. Autoimmunity
03. Eternal
04. Sound Over Matter
05. Joyless
06. Triiiunity
07. Babel
08. Reverso
09. Textures Of Silence

Line-up:
Vindsval: Guitars, Bass, Voices, Synths
W.D. Feld: Industrial Pulses, Synths

Phobonoid – La Caduta Di Phobos

La peculiarità delle opere targate Phobonoid era già in pectore nei lavori precedenti, ma qui trova una sua importante conferma e se l’unica difficoltà nell’ascolto de La Caduta di Phobos risiede nel suo fluire come se si trattasse di una sola traccia, non c’è dubbio che i quaranta minuti necessari per ascoltare l’intero lavoro si riveleranno decisamente ben spesi.

A quattro anni dal primo full length omonimo, e a sei dall’ep di esordio Orbita, si rifà vivo il progetto Phobonoid, interessante realtà creata da Lord Phobos.

La più grande delle due lune di Marte è un riferimento costante in tutto l’immaginario poetico e musicale creato dal musicista trentino e non sorprende, quindi, che il concept continui a seguire quelle coordinate accompagnato da un sound in cui convergono pulsioni industrial, black e doom. Come nei lavori precedenti il contributo della voce viene confinato sullo sfondo dalla produzione ma, fondamentalmente, il fulcro dell’operato di Lord Phobos risiede in una parte musicale che è sempre contraddistinta da un naturale incedere cosmico che, volendo esemplificare al massimo, riporta ai Mechina sul versante industrial black e ai Monolithe per quanto riguarda quello doom.
Tutto ciò contribuisce a rendere il sound nervoso, solenne e al contempo minaccioso, del tutto adeguato al racconto di un viaggio interstellare che il protagonista intraprende per trovare rifugio dopo la distruzione di Phobos; proprio il suo essere sorretto da un’idea ben precisa, anche dal punto di vista concettuale, rende il sound decisamente personale e in grado di emanare un suo oscuro fascino, distribuito in maniera equa lungo tutte le dieci tracce presenti nell’album, nel corso delle quali il passaggio tra le varie sfumature sonore avviene in maniera quanto mai fluida.
La peculiarità delle opere targate Phobonoid era già in pectore nei lavori precedenti, ma qui trova una sua importante conferma e se l’unica difficoltà nell’ascolto de La Caduta di Phobos risiede nel suo fluire come se si trattasse di una sola traccia, non c’è dubbio che i quaranta minuti necessari per ascoltare l’intero lavoro si riveleranno decisamente ben spesi.

Tracklist:
1.26.000 al
2.La Caduta di Phobos
3.Titano
4.TrES-2b
5.CoRot-7b
6.GU Psc b
7.KOI-1843 b
8.WASP-17b
9.MOA-192b
10.A-Crono

Line-up:
Lord Phobos

PHOBONOID – Facebook

Porn – The Darkest Of Human Desires Act II

Goth, electro, ebm, un pizzico di doom e tanto industrial sono la formula vincente di un discorso musicale che sta evolvendo disco dopo disco, in maniera coerente e prepotente.

Ritornano i Porn con il secondo disco sulla trilogia imperniata sulla misteriosa storia del cantante Mr. Strangler, dopo The Ogre Inside – Act I del 2017.

I Porn sono uno dei gruppi più interessanti e validi dell’industrial metal mondiale, scena che non sempre brilla per originalità. I francesi compongono le loro canzoni con un ampio ventaglio di scelte. Molto presente è anche l’elemento gotico, anzi in certi passaggi, specialmente in questo ultimo lavoro, sono quasi doom. Non hanno fretta i Porn, lo squartamento della nostra anima e del nostro corpo avviene pezzo per pezzo, attraverso una lenta e certosina agonia. Il loro suono è molto peculiare, parte dai capisaldi del genere, ma non diventa mai derivativo o imitativo, proponendo invece una via personale che è molto convincente. Molto forte e potente è la presenza dell’elettronica, elemento che porta ancora più in profondità il loro suono. L’eccellente produzione fa rendere al meglio queste note, che essendo così nitide fanno ancora più male. Il disco verte sul male che ci fa la società nella quale viviamo, la continua frattura fra ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere per sopravvivere. Non è facile essere frammentati in tante piccole parti, senza mai riuscire a cogliere il nostro insieme. Le fratture provocano danni e violenza, contro noi stessi o contro altri e i Porn descrivono molto bene tutto ciò. Goth, electro, ebm, un pizzico di doom e tanto industrial sono la formula vincente di un discorso musicale che sta evolvendo disco dopo disco, in maniera coerente e prepotente. The Darkest Of Human Desires Act II è inoltre dedicato ai nostri impulsi bestiali, ed infatti possiamo sentire dentro il disco le voci e le gesta di assassini seriali come Richard Ramirez , Ed Kemper, Charles Manson, Richard Schaeffer e Jeffrey Dahmer, che hanno ispirato molta musica.

Tracklist
1. Choose Your Last Words
2. Evil 6 Evil
3. Here For Love
4. Tonight, Forever Bound
5. Remorse For What
6. My Rotten Realm
7. Eternally In Me
8. The Radiance Of All That Shines
9. Abstinent Killer
10. The Last Of A Million

Line-up
Mr Strangler – Vocals, drums programming, synth
The One – Synth, guitar
The Priest – Bass
Zinzin Stiopa -Guitar

PORN – Facebook

Cemment – Resurrection From Carnage

La band dall’attitudine death/grind (i brani per tre quarti superano di poco il minuto di durata) ci aggredisce con il suo industrial thrash/death metal, diretto, sporco e selvaggio non concede tregua e richiama alla mente gli svizzeri Swamp Terrorists death/thrash.

La nostrana Agoge Records allunga i suoi artigli fino alla terra del Sol Levante, dalla quale provengono i Cemment.

La band nipponica, dal sound che appare una miscela esplosiva di industrial metal e death/thrash, è attiva dalla metà degli anni novanta, quando mosse i primi passi in quel di Tokio.
Un paio di demo e poi tre full lengtth completarono la discografia della band, usciti tra il 1995 ed il 2000 (Lost Humanity, Donor e Cemment) prima del lungo silenzio e dal ritorno con un singolo di ormai cinque anni fa.
Attualmente la band risulta un duo (Ave alla voce e Taichi alle chitarre) e si ripresenta sul mercato con questo Resurrection From Carnage, ep composto da quattro brani per soli sette minuti di musica.
La band, dall’attitudine death/grind (i brani per tre quarti superano di poco il minuto di durata), ci aggredisce con il suo industrial thrash/death metal, diretto, sporco e selvaggio, che non concede tregua e richiama alla mente gli svizzeri Swamp Terrorists.
Vedremo se questa collaborazione tra la band e la label italiana porterà buone nuove, nel frattempo date un ascolto a questi quattro brani che potrebbero rivelarsi una bella sorpresa.

Tracklist
1.Aztec Warrior
2.Screw Ship
3.Death Whistle
4.Suffer

Line-up
Ave – Vocals
Taichi – Guitars

CEMMENT – Facebook

Woest – Le Gouffre

Le Gouffre esibisce un pizzico di fruibilità ed organicità in più rispetto al precedente album, ma la proposta di questi francesi resta rivolta ad un’audience piuttosto selezionata; ciò non toglie che chi abbia pazienza e voglia di confrontarsi con sonorità a loro modo ostiche potrebbe trarne decisamente soddisfazione.

I francesi Woest giungono al loro secondo full length in soli due anni, continuando a proporre la loro personalissima forma di industrial black metal.

La fin de l’ère sauvage, uscito nel 2017, era un lavoro interessante e ricco di spunti pregevoli, leggermente penalizzato da una produzione non proprio scintillante e da una frammentarietà che è comunque insita in chi si approccia in maniera obliqua alla materia estrema.
In Le Gouffre non vengono certo meno l’incedere inquieto ed una certa imprevedibilità della proposta, anche se, rispetto al predecessore, il tutto appare offerto in maniera più organica e anche più convincente a livello di registrazione; per il resto Malemort e Torve, con la collaborazione di altri musicisti che vanno a completare l’organico donando ai Woest sembianze più vicine a quelle di una band tradizionale, fermo restando il confermato ricorso alla drum machine programmata dall’effettista Dæmonicreator, proseguono sulla impervia strada di un black metal intersecato da rumorismi e sfuriate industrial che poco concede all’orecchiabilità.
In tal senso, però, abbiamo una piacevole eccezione come Ô vide éternel, traccia in cui un’anima elettronica entra prepotentemente sul proscenio donando al tutto un certo groove, sebbene disturbato e deviato come da copione, mentre per il resto il sound si abbatte feroce con una punta di drammaticità conferita anche da un’idea lirica fortemente nichilista; in tutto questo, il manifesto del modus operandi dei Woest è un brano complesso ma davvero notevole come Tout restera carbone, dissonante, cangiante e interpretato in maniera molto intensa da Torve.
Le Gouffre esibisce un pizzico di fruibilità ed organicità in più rispetto al precedente album, ma la proposta di questi francesi resta rivolta ad un’audience piuttosto selezionata; ciò non toglie che chi abbia pazienza e voglia di confrontarsi con sonorità a loro modo ostiche potrebbe trarne decisamente soddisfazione.

Tracklist:
1. Éveil
2. Le gouffre
3. Ô vide éternel
4. À la gloire de l’immonde
5. Spasme de haine
6. Tout restera carbone
7. Vagues du Styx

Line-up:
Torve – vocal
Malemort – guitar
Deckard – guitar
Irotted – bass
Dæmonicreator – drum machine and sound effect

WOEST – Facebook

MZ.412 – In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi

La bellezza di In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi è il fascino malato e decadente del satanismo e di anime e vite perdute, di ritmi sincopati che si spezzano per far entrare momenti molto vicini al black metal, attimi di rabbia di demoni che invocati non vogliono tornare nelle loro dimensioni.

Un vero e proprio rituale che usa la musica come mezzo per chiamare spiriti da altre dimensioni.

Gli svedesi MZ.412 sono stati uno dei gruppi di maggior spicco della Cold Meat Industry, una fra le migliori etichette mondiali di elettronica e musica altra. La Concilium Records farà uscire a gennaio 2019 la ristampa di questo capolavoro di dark black metal ambient originariamente uscito nel 1995 e diventato molto più di un classico, essendo un apripista per un sottogenere che ora frequentano in molti. L’evoluzione dei MZ.412 fu costante, partendo da un’elettronica ambient oscura e tenebrosa per immergersi in un tenebra ancora più profonda, con questo lavoro che è una vera e propria invocazione a Satana, cosa molto semplice, poiché basta descrivere l’inferno che è la nostra società odierna. Come detto poc’anzi questa è musica totalmente rituale, fatta da una dark ambient di eccelsa qualità che precipita l’ascoltatore in molti ambienti diversi, dall’apocalisse ad una cripta sottoterra, da un momento di relativa calma ad una frequenza che ronza nel cervello di non morti. Ascoltando questo lavoro ognuno si farà la propria idea, dato che questa musica evocatrice differisce da soggetto a soggetto, ma qui dentro c’è tanto male, dolore ed ansia, e se ascoltata ad lato volume questa musica diventa un qualcosa che ci entra dentro, pur essendo già insita in noi. La bellezza di In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi è il fascino malato e decadente del satanismo e di anime e vite perdute, di ritmi sincopati che si spezzano per far entrare momenti molto vicini al black metal, attimi di rabbia di demoni che invocati non vogliono tornare nelle loro dimensioni. Sangue, lussuria, morte e vita che non è vita, il tutto raccontato in maniera quasi perfetta con un’elettronica che incrocia tantissime cose ed è figlia di una certa industrial inglese degli anni ottanta, specialmente di quella più maledetta. Non c’è salvezza o speranza, c’è solo l’adorazione di un angelo caduto che è quello che meglio ci rappresenta. Un capolavoro della dark ambient che rivede la luce, testimonianza di un tempo dove la creatività musicale era molto maggiore, e i risultati molto migliori. Preparatevi al rito.

Tracklist
1 In Nomine Dei
2 Salvo Honoris Morte
3 Necrotic Birth
4 Black Earth
5 Daemon Raging
6 God Of Fifty Names
7 Regie Satanas
8 Paedophilia Cum Sadismus
9 Hail The Lord Of Goats

MZ.412 – Facebook

Project Silence – Infinity

Ascoltare Infinity sarà molto piacevole per chi ama questa aggressività musicalmente trasversale, ma anche per chi vuole scoprire qualcosa di nuovo in campo metal altro.

Tornano i finlandesi Project Silence, storici fautori di un industrial metal cattivo e ben suonato.

L’idea originale del gruppo nato a Kuopio era quella di fondere insieme aggrotech, metal e industrial, ed in questi dieci anni di vita ci sono riusciti egregiamente, come possiamo ascoltare qui in questo maxi ep. La loro proposta musicale non è inedita ma fa parte di un genere fortemente di nicchia ma dalla scorza durissima, nel senso che può contare su di uno zoccolo di ascoltatori sparsi in tutto il mondo e molto fedeli. Il nuovo disco pubblicato da Sliptrick Records ce li mostra al massimo della forma, con una notevole capacità di creare canzoni ed atmosfere aggressive, con ottimi cambi di tempo ed una tecnica che non si nasconde dietro la potenza, ma che anzi la domina. Le atmosfere sono molto cupe e parlano di un futuro che potrebbe essere già stato il nostro passato, nel quale le macchine dominano e l’uomo è dominato dalle sue creazioni, che replicano la degenerazione dell’essere umano, moltiplicandola all’infinito. Le canzoni sono costruite molto bene ed in maniera incisiva, hanno uno svolgimento che si ritrova raramente in un gruppo di questo genere. Molto forte la presenza del metal che svolge il compito importante di essere la colonna portante di tutto, al quale si aggiungono poi l’aggrotech ed una forte dose di ebm. Ascoltare Infinity sarà molto piacevole per chi ama questa aggressività musicalmente trasversale, ma anche per chi vuole scoprire qualcosa di nuovo in campo metal altro.

Tracklist
01. We Will Rise
02. From Beyond
03. No More
04. Forgotten
05. Pulse
06. Anthropophagite
07. Day Of Reckoning

Line-up
Delacroix – Vocals/Keyboards/Programming
J – Guitar
S – Guitar
Silve_R – Drums
Sturmpanzerjäger – Bass/Backing vocals

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Psyclon Nine – Icon Of The Adversary

Arriva l’atteso nuovo disco dei californiani Psyclon Nine, gruppo storico di aggrotech, ebm ed elettronica aggressiva e profonda, con decisi sconfinamenti in territori metal.

Arriva l’atteso nuovo disco dei californiani Psyclon Nine, gruppo storico di aggrotech, ebm ed elettronica aggressiva e profonda, con decisi sconfinamenti in territori metal.

Fondati nel 2000 a Los Angeles da Nero Bellum e Josef Heresy, inizialmente adottarono il nome Defkon Sodomy, influenzati da gruppi come i Ministry. Successivamente il gruppo si avvicinò a generi come l’ebm e l’aggrotech, mantenendo sempre una decisa impronta personale. Questo ultimo lavoro, Icon Of The Adversary, ha molte facce e tante sfaccettature, è un disco composto da diversi livelli e prodotto usando differenti codici musicali. Nel lavoro dei californiani possiamo trovare l’ebm che è alla radice del loro suono, poiché questo genere significa una fruizione diversa del concetto di elettronica Dentro però, poi, troviamo molte altre cose, come l’aggrotech, quello strano sottogenere dell’elettronica che è un po’ l’evoluzione cattiva dell’ebm, l’ideale accompagnamento per la nera visione che pervade tutto il disco. Qui non troviamo la speranza o qualcosa che possa assomigliarle, ma solo un mare nero dal quale non si può uscire ma solo nuotare. Nero Bellum, che è la continuità e la vera anima dannata dietro al progetto, ha dato sfogo alla parte più tenebrosa del suo modo di fare musica e ha colto in pieno lo spirito di questi tempi cupi. L’incedere della musica è per gran parte del disco lento e disperato, con suoni ottimamente prodotti, che fa sembrare all’ascoltatore di essere inseguito da zombie lenti ma inesorabili, con una fine già ampiamente segnata. Ci sono anche momenti industrial tendenti al metal che erano diventati il marchio di fabbrica del gruppo, ma la loro vera dimensione è una giusta lentezza mista a suoni ansiogeni, con un cantato che sembra un latrato direttamente dall’inferno. Un disco che convince e che entra fra le migliori produzioni di questo prolifico gruppo.

Tracklist
1.Christsalis
2.Crown Of The Worm
3.The Light Of Armageddon
4.Beware The Wolves
5.Warm What’s Hollow
6.Behold An Icon
7.When The Last Stars Die
8.And With Fire
9.Give Up The Ghost
10.The Last

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P.H.O.B.O.S. – Phlogiston Catharsis

Nonostante le sue tetragone sembianze, Phlogiston Catharsis è un album che desta notevole interesse, a patto d’essere già abbastanza in sintonia con le devianze metalliche proveniente dalla terra francese.

Il mio ultimo incontro con i P.H.O.B.O.S. risale a qualche anno fa in occasione dello split album con i connazionali Blut Aus Nord, ma in realtà il progetto di Frederic Sacri arriva abbastanza da lontano, avendo mosso i primi passi all’inizio del nuovo millennio.

Phlogiston Catharsis è il quarto full length che, indubbiamente, conferma questa entità come un qualcosa volto a non fare sconti all’ascoltatore, tramortito dal pervicace industrial che bandisce ogni ammiccamento ritmico per lasciare al doom e al black più sperimentale il compito di fungere da base stilistica.
Volendo esemplificare al massimo, ascoltare i P.H.O.B.O.S. potrebbe essere paragonabile a quello che accadrebbe se una band sludge decidesse di coverizzare i Godflesh, rallentandone così lo squadrato ed incessante incedere ed accentuando al massimo le tonalità ribassate, tanto da produrre una sorta di rombo sullo sfondo, volto ad accompagnare sporadiche note di lancinante chitarrismo ed uno screaming malignamente filtrato e distorto.
Nonostante le sue tetragone sembianze, Phlogiston Catharsis è un album che desta notevole interesse, a patto d’essere già abbastanza in sintonia con le devianze metalliche proveniente dalla terra francese; solo così brani temibili come Igneous Tephrapotheosis (forse quello più “orecchiabile” dell’intero lavoro, il che è tutto dire) o la rituale Aljannashid avranno una chance di indurre una certa frequenza d’ascolto .
Il risultato finale è alienante il giusto per intrigare gli ascoltatori più spericolati e indurre alla fuga tutti gli altri; a Sacri penso vada benissimo così, e non c’è alcun motivo perché debba cambiare il suo disturbante modus operandi.

Tracklist:
1. Biomorphorror
2. Igneous Tephrapotheosis
3. Zam Alien Canyons
4. Aurora Sulphura
5. Neurasthen Logorrh
6. Taqiyah Rhyzom
7. Aljannashid
8. Smothered In Scoria

Line-up:
Frederic Sacri – distortion / keys / pulse / vox
Mani Ann-Sitar, distortion / keys / vox
Magnus Larssen – subs / infras / lines / pulse

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Fear Of Domination – Metanoia

Il risultato finale è un album come detto gradevole, ammantato di una cattiveria di facciata che copre come un sottilissimo velo contenuti nella loro sostanza ben più morbidi: certo, i dischi brutti sono diversi da Metanoia, ma anche quelli che dovrebbero migliorare la vita a chi li ascolta …

Nonostante siano apparentemente ancora molto giovani, i finlandesi Fear Of Domination sono attivi da una decina d’anni e questo ultimo Metanoia rappresenta il loro sesto full length.

La band nordica è formata da ben otto elementi (con due vocalist) e questo sicuramente favorisce la costruzione di un sound piuttosto saturo, specialmente nei passaggi più robusti che sono l’espressione meglio riuscita di un sound che si muove tra un pizzico di industrial e pulsioni gothic/elettroniche che vanno a confluire in una forma di modern metal piuttosto ammiccante.
Fatte le debite premesse, non si può non rimarcare il fatto che il prodotto dei Fear Of Domination sia sicuramente ricco di un certo appeal commerciale, aspetto che è il suo pregio ma, soprattutto, il suo limite visto che, alla lunga, anche dopo diversi ascolti, rimane ben poco se non l’impressione d’aver ascoltato un album ben costruito, a tratti divertente, ma che in una fascia di ascoltatori più adulta faticherà a ricavarsi una seconda od una terza chance di passaggio nel lettore.
La sensazione è che la band provi a sondare un po’ tutte le strade del metallo più abbordabile, sia con brani che richiamano gruppi come i Deathstars ( Sick and Beautiful, We Dominate), sia proponendo ritmi più ragionati e suadenti in quota Evanescence (Shame, Ruin) sfruttando la vena della brava vocalist Sara Strömmer, ma in definitiva creando un coacervo sonoro che richiama a tratti i più nobili Linkin Park così come l’impalpabile ed adolescenziale metalcore in voga di questi tempi.
Il risultato finale è un album come detto gradevole, ammantato di una cattiveria di facciata che copre come un sottilissimo velo contenuti nella loro sostanza ben più morbidi: certo, i dischi brutti sono diversi da Metanoia, ma anche quelli che dovrebbero migliorare la vita a chi li ascolta …

Tracklist:
1. Dance with the Devil
2. Obsession
3. Face of Pain
4. Sick and Beautiful
5. Shame
6. Lie
7. We Dominate
8. The Last Call
9. Mindshifter
10. Ruin

Line-up:
Saku Solin – Vocals
Lauri Ojanen – Bass
Jan-Erik Kari – Guitars
Johannes Niemi – Lead guitars
Vesa Ahlroth – Drums
Lasse Raelahti – Keyboards
Sara Strömmer – Vocals
Miikki Kunttu – Percussions, stage monkey

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Faction Senestre – Civilisation

Un rumorismo dronico e industriale fa da tappeto sonoro a testi declamati in lingua madre, invero molto interessanti per la loro feroce quanto esplicita critica della modernità: questo chiaramente rende il tutto affascinante quanto dannatamente ostico.

Faction Senestre è un progetto di nuovo conio formato da membri di band di un certo spicco della scena francese come Still Volk, Rosa Crux, Malhkebre e Sektarism.

Quello che ne scaturisce è un brano sperimentale della durata di oltre 20 minuti, suddiviso in quattro parti, che mette sicuramente a dura prova l’apertura mentale dell’ascoltatore medio.
Un rumorismo dronico e industriale fa da tappeto sonoro a testi declamati in lingua madre, invero molto interessanti per la loro feroce quanto esplicita critica della modernità: questo chiaramente rende il tutto affascinante quanto dannatamente ostico.
Resta il fatto che questi musicisti transalpini sanno il fatto loro e, pur scendendo su un terreno molto scivoloso, riescono a mettere in scena una riproduzione credibile di sonorità avanguardiste per quanto, ovviamente, Civilisation si vada a collocare decisamente al di fuori di quelli che sono i normali ascolti.
Difficile quindi affibbiare all’operato dei Faction Senestre le semplicistiche etichette di bello o brutto: tutto dipende dal tipo di approccio, dalla sensibilità e dal desiderio di farsi scuotere che ciascuno possiede; detto ciò, personalmente trovo Civilisation un’opera di un certo spessore, musicalmente e concettualmente, il che desta quindi una certa curiosità nei confronti di eventuali prossimi sviluppi di questo progetto.
Ta civilisation est en péril, je le prédis et tu t’enfuis

Tracklist:
1. Ta Civilisation

Hanzel Und Gretyl – Satanik Germanik

Satanik Germanik è un album non imprescindibile ma senz’altro gradevole, costellato di buone intuizioni ritmiche e melodiche: basta ed avanza per ascoltarlo con un certo interesse.

In auge fin dagli anni novanta, gli Hanzel Und Gretyl, nonostante esibiscano un monicker, i titoli degli album e, in genere, un immaginario che riporta alla Germania, sono in realtà un duo newyorchese composto da Kaizer Von Loopy e Vas Kallas.

Anche le sonorità prescelte, sotto forma di un industrial elettronico (specialmente nella prima fase della carriera), ha reso la coppia decisamente contigua a sonorità tipicamente teutoniche, portandola a supportare nei tour americani i colossi germanici Rammstein, oltre a Marylin Manson e i Prong.
Con un tale pedigree era difficile attendersi dagli Hanzel Und Gretyl un album deludente, specialmente se si hanno nelle corde certe sonorità marziali, a tratti volutamente becere ed eccessive nonché intrise di un particolare senso dell’humour.
Satanik Germanik, ottavo full length della discografia, prosegue dunque sulla falsariga del precedente Black Forest Metal, che aveva già visto un indurimento in direzione metallica del sound e va detto che questa ibridazione si rivela davvero efficace.
Ogni brano è connotato da un groove spesso irresistibile e, anche quando i ritmi si rallentano parzialmente, ne scaturiscono cose notevoli, come I Am Bad Luck, condotta dalla lasciva interpretazione di Vas Kallas.
A fare da contraltare arriva puntualmente la successiva Trinken mit der Kaizer (Die Bierz from Hell), dai riff squadrati di scuola rammsteiniana, episodio trascinante quanto antitetico ad ogni idea di raffinatezza musicale.
In generale, però, la bravura nel trattare la materia in modo tale da renderla credibile, esibita da questi collaudati musicisti, rende la raccolta una buona occasione di rifarsi le orecchie per coloro ai quali mancano dannatamente Lindemann e soci, senza dimenticare spunti provenienti dai migliori Manson, Rob Zombie o Ministry, il tutto condito in salsa germanica meglio di quanto saprebbero fare le stesse band autoctcone.
Se il rischio di scadere nel kitsch fine a sé stesso è molto alto, gli Hanzel Und Gretyl lo scongiurano brillantemente grazie ad un’attenzione alla forma canzone che rende ogni episodio degno d’attenzione, con menzione particolare per i più riusciti e coinvolgenti Black Six Order, Weisseswald e Hellfire und Grimmstone, oltre alle tracce di apertura e di chiusura, Golden Dammerung e Kinamreg Kinatas, che sono di fatto lo stesso brano basato su canti simil-gregoriani poggiat,i nel primo caso, su una base elettronica e, nel secondo, scossi invece da un più pesante riffing.
Satanik Germanik è un album non imprescindibile ma senz’altro gradevole, costellato di buone intuizioni ritmiche e melodiche: basta ed avanza per ascoltarlo con un certo interesse.

Tracklist:
1. Golden Dammerung
2. We Rise as Demons
3. Black Six Order
4. Weisseswald
5. I Am Bad Luck
6. Trinken mit der Kaizer (Die Bierz from Hell)
7. Hellfire und Grimmstone
8. Sonnenkreuz
9. Unter alles
10. 13 Moons
11. Kinamreg Kinatas

Line-up:
Kaizer Von Loopy – Guitars, Programming, Vocals
Vas Kallas – Vocals, Bass

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Taina – Seelenfresser

Il gruppo di Brema è con questo disco al debutto, e si può dire che sia positivo, anche perché era da tempo che non si ascoltava un lavoro di industrial metal fatto con questa passione e con l’amore per la dance anni novanta come i Prodigy.

I Taina sono uno dei migliori gruppi di industrial metal tedeschi nati dopo la venuta sulla terra dei Rammstein, che hanno aperto la strada a tante band, ma ben pochi della qualità della band nata nel 2010.

Il loro suono è una commistione fra metal ed elettronica, il tutto molto veloce e con chitarre pesanti, ma con un gusto fortemente retrò, in stile Orgy per intenderci. Una cosa molto particolare sono le loro chiare e persistenti radici punk hardcore, soprattutto in ambito di costruzione e velocità della canzone. Il gruppo di Brema è con questo disco al debutto, e si può dire che sia positivo, anche perché era da tempo che non si ascoltava un lavoro di industrial metal fatto con questa passione e con l’amore per la dance anni novanta come i Prodigy. Il cantato in tedesco calza a pennello per questa musica, e poi dopo i Rammstein ciò non colpisce più, anzi l’industrial metal in tedesco è un vero e proprio genere, e se la qualità media non è per nulla eccelsa i Taina fanno eccezione. Seelenfresser è un disco che potreste giudicare come ovvio, invece non lo è affatto, ha anzi molti spunti originali pur se non si inventa nulla, ma soprattutto è divertente e non ha timore di essere ciò che vuole essere. Nel genere industrial metal è sicuramente una delle migliori uscite degli ultimi tempi e poterebbe essere una porta dalla quale potrebbero entrare nuovi estimatori che ancora non conoscono questa cyber musica. I Taina, anche grazie alla forte vena dance punk, sono diversi dal resto dei gruppi e hanno anche un vero amore per il metal. Uno dei due remix del disco, quello della canzone che dà il titolo al disco, è della figura che ha saputo coniugare maggiormente la dance al metal, ovvero Zardonic, il dj venezuelano che apprezzerete moltissimo perché fa un remix che vale il disco. Un album divertente che, senza pretese, arriva dove la band si è prefissata.

Tracklist
1.Schrei nicht
2.Pseudogott
3.Teil von mir
4.Folge mir
5.Perfekte Dunkelheit
6.Seelenfresser
7.Allein
8.Alles endet hier
9.Seelenfresser (Zardonic Remix)
10.Devil-M – Savior Self (TAINA Remix)

Line-up
WoLand – Vocals & Synths
SerZh – Guitars
Hannes – Drums
Marcel – Bass

TAINA – Facebook