Un suono che sta tra gli Oblivians e gli Eyehategod, una fusione che potrebbe sembrare impossibile ed invece è schifosamente bella
Prendete il blues, il garage, e fondatelo con uno sludge metalloso che picchia tantissimo.
Questa bestia è immonda e cattivissima, picchia molto duro e non ha pietà, perché sono le ossa dei teenagers americani che ballavano il rock negli anni cinquanta, e che sono resuscitati incazzatissimi perché hanno scoperto che il sogno americano altro non è che il trionfo del male. Questi zombie hanno deciso di allearsi con dei bluesman vampiri, ed ecco qui che ci stanno attaccando. Un ep folgorante, un trascinarsi tra paludi e fogne. Queste entità vengono dal Texas, e dopo alcune convincenti prove mietono altre vittime con questo ep che è davvero impressionante per potenza, sporcizia e vitalità. Un suono che sta tra gli Oblivians e gli Eyehategod, una fusione che potrebbe sembrare impossibile ed invece è schifosamente bella.
TRACKLIST
1.King Midas of Shit
2.Teenage Graveyard Party
3.Pit Bait
4.Zero One
Il gruppo svedese è di un’altra categoria, e lo afferma ulteriormente con questo disco, capolavoro di musica pesante.
Dopo sei anni tornano i maestri del disordine rumoroso svedese i Suma, e lo fanno con un gran bel disco, The Order Of Things.
Il loro ordine delle cose è un forte impianto sonoro, fatto di un granitico muro del suono, figlio di distorsioni e pesantezze ritmiche. Non hai scampo dai Suma, perché tirano fuori il loro lato tribale, e tutto cambia. I Suma sono una band di culto, perché con i tre album precedenti sono riusciti a lasciare un’impronta indelebile nelle orecchie e nel cuore di chi vuole accogliere il rumore. Ma The Order Of Thingsalza ancora di più l’asticella, migliorandosi ulteriormente. Questo disco è davvero pesante ed immanente, colpendo con tutta la forza in maniera lenta. Qui non c’è molta velocità, ma troviamo una capacità di mettere in rumore le tenebre, dando spazio fisico alle nostre paure, ed alle nostre perversioni. La registrazione ed il mixaggio di Billy Anderson danno una forza ancora maggiore a questo nero monolite. I Suma sono il lato cattivo del post metal, il lato oscuro della luna, dove però è piacevole stare. Il gruppo svedese è di un’altra categoria, e lo afferma ulteriormente con questo disco, capolavoro di musica pesante. The Order Of Thingsè un ciclone di rumore e potenza, dovete solo sedervi e lasciarvi trascinare.
TRACKLIST
1.The Sick Present
2.Bait for Maggots
3.R P A
4.Being and/or Nothingness
5.Education for Death
6.Disorder of Things
7.The Greater Dying
Experimental Transplantation of Vital Organs è un concentrato di musica rigorosamente strumentale, consacrata al disturbo dei padiglioni auricolari grazie al suo mix di drone, sludge, postmetal e progressive.
Vladimir Demikhov viene definito da molti uno scienziato, nonché pioniere della tecnologia del trapianto degli organi vitali (tanto che persino il celeberrimo Chris Barnard pare lo considerasse il suo maestro); personalmente, invece, l’appellativo più gentile che mi viene in mente è sadico-psicopatico: difficile definire altrimenti colui che, in nome di chissà quale benefici per la scienza medica, si dilettò nel creare aberrazioni canine a due teste (chi come me ama gli animali rabbrividirà nel vedere le foto scattate all’epoca, provando ad immaginare le sofferenze alle quali furono soggette quelle povere creature).
Detto ciò, i Demikhov che ci interessano di più sono questi ragazzi di Desenzano che assumono in toto il monicker ed il concept da quel deprecabile personaggio: Experimental Transplantation of Vital Organs è il loro primo full length, arriva qualche anno dopo rispetto all’esordio #0 ed è un concentrato di musica rigorosamente strumentale, salvo qualche voce in sottofondo che si può cogliere ogni tanto, consacrata al disturbo dei padiglioni auricolari grazie al suo mix di drone, sludge, postmetal e progressive.
Ciò che ne scaturisce è così una quarantina di minuti che, come per gran parte degli album oggetto di tale scelta, non sempre riesce a sopperire del tutto all’assenza di parti cantate, ma riesce a far apparire il tutto più logico e funzionale alla causa rispetto a tentativi analoghi.
I Demikhov, tutto sommato, fanno con la musica ciò che l’omonimo emulo sovietico del dr.Frankenstein tentò di fare con gli esseri viventi: prima la sezionano, poi cercano di riportarla in vita unendo generi diversi finché non cessa nuovamente di vivere, e così via, in una sorta di inquietante loop.
Il risultato finale è intrigante e l’esperimento, almeno per loro, può dirsi senz’altro riuscito: probabilmente le cose migliori vengono fuori quando il trio lombardo lascia sgorgare le proprie pulsioni psichedeliche (ottima davvero Twice the Bark); proprio questo è il punto dal quale, personalmente, ripartirei con più convinzione alla prossima occasione, con lo scopo di rendere più organico il tutto senza dover necessariamente soffocare l’indole sperimentale.
Una buona prova rivolta a menti sufficientemente aperte.
Tracklist:
1.A Two-Headed Zeus Appears to Vladimir Demikhov
2.Twice the Bark
3.Accumulating Failures Magnifies Your Heads’ Collection
4.Disiecta Membra
5.Dogs for the Government
6.My Mind Master Mystic Mademoiselle
7.Hammer is the Most Underrated Surgical Tool
8.Dasvidania Tovarish
Una botta spaventosa da parte una band che potrebbe ritagliarsi fin d’ora uno spazio davvero importante.
Se non hai nelle tue corde l’ispirazione per produrre qualcosa di veramente innovativo (cosa che capita comunque di rado), hai perlomeno l’obbligo morale di mettere tutta l’intensità possibile nella musica che proponi.
Quanto sopra è ciò che accade ad una band come gli statunitensi Whores., i quali si lanciano con un approccio rabbioso e in maniera spasmodica in una corsa che rade al suolo tutto ciò che incontra.
La band di Atlanta è al proprio full length d’esordio, che arriva dopo alcuni ep, senza aver omesso di mettere in cascina il fieno rappresentato da una consistente attività live, con la possibilità di condividere il palco con i migliori gruppi della scena rock/noise a stelle e strisce.
Il risultato è tangibile: Gold. è un album che deflagra senza perdersi in troppi preamboli e, anche se supera di poco la mezz’ora di durata, il suo minutaggio ridotto basta ed avanza, visto che una tale intensità sarebbe persino difficile da sostenere più a lungo.
Punk, rock, noise e, in misura inferiore, sludge, confluiscono in un unico condotto sotto forma di rumore fragoroso che, quando fuoriesce, si trasforma assumendo una sembianza musicale ugualmente godibile e sempre contraddistinta da un filo conduttore ben delineato.
Proprio qui sta il bello: anche se i georgiani sembrerebbero farsi trascinare, a prima vista, da un istinto animalesco, in realtà il frutto del loro impegno è una decina di brani ben ponderati e costruiti con sagacia, tra i quali la noia non fa capolino neppure per un attimo. Ghost Trash, Of Course You Do e I See You Also Wearing A Black Shirt sono alcuni tra gli ordigni più efficaci scagliati sulla folla dalle “puttane” di Atlanta.
Una botta spaventosa da parte una band che potrebbe ritagliarsi fin d’ora uno spazio davvero importante.
Tracklist:
1.Playing Poor
2.Baby Teeth
3.Participation Trophy
4.Mental Illness As Mating Ritual
5.Ghost Trash
6.Charlie Chaplin Routine
7.Of Course You Do
8.I See You Also Wearing A Black Shirt
9.Bloody Like The Day You Were Born
10.I Have A Prepared Statement
Un piccolo regalo dei Dopethrone, tre tracce in free download in attesa del loro nuovo disco.
Un piccolo regalo dei Dopethrone, tre tracce in free download in attesa del loro nuovo disco.
I Dopethrone prendono al volo le possibilità che offre la rete nel condividere musica con gli utenti, ed ecco un ep in download libero per saziare la voglia del gruppo canadese. Tre canzoni con la consueta carica di marcezza e distorsione che contraddistingue questo gruppo, uno dei migliori in campo stoner e sludge. I Dopethrone hanno un passo veramente importante, un incedere distorto e possente, che lascia solo fumo e macerie. Questo ep non offre nulla di nuovo, ma con il trio non si cerca la novità, ma la sostanza e qui di sostanza ce n’è molta. Le storie sono quelle del disagio che vive ad ogni latitudine, anche nell’apparentemente pulito Canada. Qui giacciono oscure forze che sono bene evidenziate dai Dopethrone. Questo ep è forse ancora più decadente e sludge di Horchelaga, il loro ultimo full length del 2015, dedicato all’omonimo quartiere di Montreal, dove tutto è in vendita. Un gruppo che si conferma sempre ad alti livelli, con uno stile ben riconoscibile, a differenza di molti altri gruppi dello stesso genere, che sta diventando molto ripetitivo, ma finché ci sono i Dopethrone non c’è pericolo. È anche gratis dai, voi dovete solo comprare la droga.
Suono potente e che dà dipendenza, i Crowbar sono tornati e la sofferenza continua.
Tranquilli, i Crowbar sono in gran forma. Eravate forse preoccupati di trovare un disco molle? Non mi sembra che i Crowbar abbiano mai sbagliato un disco.
E The Serpent Only Liesè un disco tipico del gruppo di New Orelans, pieno di riffoni pesanti, con la voce di Windstein che ci ricorda della sofferenza che noi chiamiamo vita, e il gruppo che va come uno schiacciasassi. I Crowbar negli anni, nonostante qualche pausa dovuta ai molti progetti paralleli di Kirk, sono sempre stati sinonimo di pesantezza, e alla fine sono rimasti i portatori del vero suono di New Orleans. Questo disco in particolare segna un ritorno agli inizi. Proprio Windstein ha affermato che, per produrre questo disco, è andato a risentire con attenzione i primi dischi del gruppo, ascoltando con attenzione anche quelli di gruppi che lo hanno influenzato all’epoca, come i Trouble, i Melvins, i St. Vitus e i Type O Negative. The Serpent Only Liesè un disco molto potente, prodotto in maniera totalmente adeguata al suono dei Crowbar, ed è notevole. Nel disco il gruppo va al meglio delle proprie possibilità, regalando pezzi potenti ma anche ottimi passaggi più cadenzati, mostrando sicuramente più varietà rispetto alle ultime uscite. Dopo aver girato tanto il suono pesante di New Orleans sta tornando a casa, ritrovando quel tiro che aveva perso. Qui tutto è potente e sofferente, come è giusto che sia in un disco dei Crowbar. La ricerca delle origini gli ha giovato molto, e il tiro dell’album è molto forte, i Crowbar riescono a generare un groove sonoro fatto di sludge, hardcore e stoner che è di loro unica proprietà, e lo fanno davvero bene. Suono potente e che dà dipendenza, i Crowbar sono tornati e la sofferenza continua.
TRACKLIST
01. Falling When Rising
02.Plasmic And Pure
03. I Am The Storm
04. Surviving The Abyss
05. The Serpent Only Lies
06. The Enemy Beside You
07. Embrace The LIght
08. On Holy Ground
09. Song Of The Dunes
10. As I Heal
LINE-UP
Kirk Windstein – Guitar/Vocals
Matt Brunson – Guitar
Tommy Buckley – Drums
Todd Strange- Bass
Una mezza dozzina di brani intriganti, coinvolgenti, sufficientemente freschi e irriverenti il giusto per cogliere nel segno.
Ritroviamo i padovani Blind Marmots due anni dopo l‘ep d’esordio autointitolato: questo nuovo Sporeè di poco più lungo ed arriva dopo diversi cambi di formazione che, alla fine, paiono aver dato dei buoni risultati.
La band fagocita, rumina e restituisce (meglio non sapere attraverso quale orifizio) svariate influenze che fanno capo al rock e al metal alternativo, lasciando sul terreno un melting pot di stoner, sludge, grunge, funky, psichedelia, che si rivela piuttosto organizzato nonostante l’ approccio scanzonato alla materia possa far temere, in prima battuta, il contrario.
Ne deriva così una mezza dozzina di brani intriganti, coinvolgenti, sufficientemente freschi e irriverenti il giusto per cogliere nel segno: i Blind Marmots manifestano apertamente il proprio atteggiamento ironico e pungente (in questo vedo una certa similitudine con gli alassini Carcharodon), a partire da testi che ci portano a spasso tra maniaci incendiari, marmotte, topolini, sbronze e conseguenti minzioni, ma ciò non impedisce loro di fare molto sul serio a livello musicale, visto che la mezz’oretta scarsa che ci vene offerta riesce a lasciare il segno specialmente nei primi tre brani, davvero eccellenti nella loro spontanea robustezza e molto più diretti rispetto a restanti, pervasi invece da un più accentuato mood psichedelico
Il potenziale per emergere c’è tutto, ma è chiaro quanto non sia semplice in un settore piuttosto frequentato e nel quale, al di là dello spingere in una direzione musicale piuttosto che in un’altra, il rischio è quello di restare confinati allo status di band divertente (e non c’è dubbio alcuno che il quartetto padovano lo sia), specie dal vivo.
Ma, immaginando che quest’obiettivo, peraltro ampiamente raggiunto, sia una delle priorità per i Blind Marmots, in attesa di risentirli all’opera magari su lunga distanza, non resta che unirci alla loro invocazione: Dio salvi la marmotta!
Tracklist:
1. Pyromaniac
2. God Save The Marmot
3. Mice In The Attic
4. The Hangover
5. Pissing
6. Storm
Line-up:
Carlo Titti – Lead Guitar
Ale “Teuvo” – Voice
Luca Cammariere – Drums
Pietro Gori – Bass
And The Storm Surges è un album dal taglio internazionale, ben curato in ogni dettaglio e superiore alla media, nonostante sia inserito in un genere che da anni regala enormi soddisfazioni in termini qualitativi.
Dalla collaborazione di una manciata di etichette indipendenti esce il secondo lavoro dei Rosàrio, band padovana di stoner psichedelico dall’alto voltaggio.
Il gruppo, nato appena tre anni fa e, come detto, già alla seconda opera sulla lunga distanza è una delle migliori realtà nel panorama stoner metal nazionale, confermata da questo monumentale lavoro, non facile da assimilare ma molto suggestivo.
Dimenticatevi le semplici sonorità tanto in voga negli ultimi tempi, il quintetto nostrano ci invita ad un viaggio nella storia dell’evoluzione dell’uomo come individuo, a colpi di stoner metal violentato da sonorità che passano dal doom/sludge al rock psichedelico, colmo di chitarroni saturi ed atmosfere intimiste, in un susseguirsi di parti rallentate ed esplosioni di watt potentissime.
Ben interpretate da una voce calda e ruvida le tracce si danno il cambio, instancabili, mantenendo la tensione elettrica molto alta con picchi di travagliata drammaticità, come il percorso dell’individuo che da semplice coscienza di sé passa ad un paradigma di onnipotenza creativa (come descritto dalla stessa band).
Dicevamo, non semplice da assimilare ma molto affascinante, And The Storm Surges con il suo lento incedere si trasforma in un lungo e tormentoso viaggio verso la consapevolezza, con il gruppo che sottolinea questa metamorfosi con violenti cambi di umori musicali, in un continuo saliscendi tra monolitiche parti doom e rabbiose sfuriate alternative/stoner, ricoperte da un sottile strato psych che eleva di molto l’appeal malsano e fumoso di brani come Drabbuhkuf e le bellissime Canemacchina e Dawn Of Men.
Il viaggio si conclude con il piccolo capolavoro And Then… Jupiter, brano super stonato e che si rivela come una ipotetica jam tra Kyuss e Tool, straordinaria conclusione di un lavoro alquanto maturo. And The Storm Surges è un album dal taglio internazionale, ben curato in ogni dettaglio e superiore alla media, nonostante sia inserito in un genere che da anni regala enormi soddisfazioni in termini qualitativi.
TRACKLIST
Side A – Creak
1- To Peak And Pine
2- Drabbuhkuf
3- Vessel Of The Withering
Side B – Harvest
4- Livor
5- Radiance
Side C – Bedlam
6- I Am The Moras
7- Canemacchina
Side D – Sunya
8- Dawn Of Men
9- Monolith
10- And Then… Jupiter
I Morast dimostrano delle notevoli potenzialità, ben espresse tramite un sound costantemente carico di tensione, magari non troppo vario ma sicuramente efficace
La Totenmusik pubblica la versione in vinile del demo d’esordio dei Morast, uscito originariamente lo scorso anno.
La band tedesca è dedita ad una forma di death doom piuttosto aspra e con una propensione allo sludge che mi ricorda non poco i primi Disbelief, anche per il ringhio sofferto esibito dal vocalist F, in analogia a quello di Karsten Jäge nel magnifico Worst Enemy.
Il disco dura poco più di 25 minuti, sufficienti per intuire nei Morast delle notevoli potenzialità, ben espresse tramite un sound costantemente carico di tensione, magari non troppo vario ma sicuramente efficace, specialmente nelle ottime Cold Side Of Bliss e Purging, tracce imbottite di una rabbia repressa che pare sempre sul punto di esplodere ma che viene trattenuta all’interno di uno scheletro compositivo compatto, un po’ meno nelle ugualmente valide, ma inferiori per intensità, Alleingang ed Error.
Una band da tenere in grande considerazione, in attesa del primo full length che dovrebbe essere licenziato nella prima metà del 2017.
Tracklist:
1. Alleingang
2. Cold Side Of Bliss
3. Error
4. Purging
Lentezza, pesantezza, ed un’incredibile linea melodica, sono fra le principali caratteristiche di questo gruppo, che produce un disco semplicemente clamoroso
I Dejected Mass fanno uno sludge molto pesante, calibrato con pesi massimi, tra una sessione di droga e musica degli Eyehategod e un acido preso al concerto degli Iron Monkey.
Ultimamente il termine sludge è abusato, nel senso che lo si usa un po’ a sproposito, assegnandolo a dischi che hanno poco o niente di sludge. Forse il motivo è che si prova a dare allo sludge caratteristiche che esso non ha. Lo sludge, a maggior ragione se mischiato con il doom, deve essere una musica disturbante, lenta, urticante come il napalm al mattino. Se cercate queste cose allora Dirgeè il disco che fa per voi, è una lenta cavalcata tra corpi sgozzati e miasmi, e andrete tanto più avanti quanto più vorrete tornare indietro. Lentezza, pesantezza, ed un’incredibile linea melodica, sono fra le principali caratteristiche di questo gruppo, che produce un disco semplicemente clamoroso, per estremità e chiarezza del disegno generale. Le chiavi delle porte in questo delirio ce le hanno questi. ragazzi tedeschi, che hanno fondato il gruppo ad Heidelberg nel 2012, e che attualmente hanno avuto defezioni nella formazione, ma si spera vivamente possano continuare, visto il livello di questo disco. Vi cadranno addosso tonnellate cubiche di chitarre lentamente lancinanti, di un basso che vi scava nello stomaco, e la batteria che pulsa come un cuore malato.
Un disco sia disturbante che affascinante, come se ne conviene alle grandi opere, che non devono dare solo piacere, ma anzi dare anche paura a chi piace, e qui di paura ce n’è in abbondanza. Lo stile generale è quello dell’ottimo underground pesante degli anni novanta, quando gruppi con groove pesantissimi sguazzavano liberi nelle nostre orecchie come gli Antichi di Lovecraft nel cielo dell’ultimo giorno, con un taglio difficilmente riproducibile in questi anni forse a causa di produzioni troppo pulite, ma i Dejected Mass ci riescono in pieno.
TRACKLIST
1. Bonds of Sadness
2. Crave
3. Branch of Freedom
4. Methanol Death
5. Desensitized
6. Worthless Life
LINE-UP
Jan Bletsch – Bass
Frank Kron – Drums
Christian Nann – Vocals, Guitars
Le peculiarità dei Grizzlyman sono potenza, precisione e la fusione di un ottimo groove sonoro, con la capacità di bilanciare momenti più pesanti ad altri più melodici
Debutto per un gruppo svedese che gioca già ad un livello superiore, anche per la varietà del passato musicale dei componenti.
Questi ultimi provengono da gruppi underground svedesi come 12 Gauge Dead, Prowess e il gruppo hardcore Damage. Uniti questi gusti diversi il risultato è un ottimo ep di esordio di stoner, un tocco di sludge e tanta carica, con molte idee diverse dentro, da momenti che possono ricordare gli Earthtone9 a cose più simili a sfoghi stoner. Questi tre pezzi sono un’ottima introduzione ad una carriera che sembra molto promettente. Le peculiarità dei Grizzlyman sono potenza, precisione e la fusione di un ottimo groove sonoro, con la capacità di bilanciare momenti più pesanti ad altri più melodici, con belle melodie e fughe notevoli. Il gruppo inglese si cimenta in sinfonie di musica pesante, con grande gusto e capacità, avendo il passo dei fuoriclasse. La produzione è ottima, e mette in risalto al meglio le capacità di un grande gruppo. L’ep è una delle prime tre uscite della Third I Rex, nuova etichetta di Watford, da seguire assolutamente anche nelle prossime occasioni, che saranno assai interessanti. Un grande inizio, per scoprire il nostro lato animale.
TRACKLIST
1.Adrift
2.Last King
3.Beneath/Rebirth
LINE-UP
Joel Ekman – Bass/Vocals
Christopher Davis – Guitar/Vocals
Emanuel Enbäre – Drums
Lost Ritual è un disco che afferma rumorosamente quanto ancora hanno da dire e da menare questi ragazzi cresciuti.
Quando ormai le speranze ci avevano quasi abbandonato, ecco tornare i Raging Speedhorn con Lost Ritual.
I ragazzi sono cresciuti come noi, hanno qualche capello in meno e qualche kg in più, ma la furia è sempre la stessa, quella carica di metallica ignoranza che era così bella ai tempi. Riformatisi per un gran concerto al Damnation Festival, i ragazzi di Croby hanno lanciato la loro campagna su Pledge Music per pubblicare l’album. Chi aveva ancora nelle orecchie Thumper non poteva che essere contento. I Raging Speedhorn sono sempre stati molto particolari, nel senso che hanno coniugato un certo tipo di metal caotico con i Motorhead e con cose più hardcore. Con Lost Ritual il paesaggio sonoro muta poiché il gruppo si è avvicinato a sonorità maggiormente sludge che aveva già in nuce. La loro carica da ringhioso pub di provincia, e basta vedere qualche foto della loro natale Corby per capire, è sempre presente con una bella aggressività alla Motorhead, ed infatti così si intitola uno dei pezzi migliori del disco. Dalla band del compianto Lemmy hanno preso quel tipo di metal stradaiolo inglese, fondendolo con riffoni alla Black Sabbath molto più veloci, però. Il risultato è un disco aggressivo, rumoroso, rissaiolo con parti molto ben bilanciate di sludge, metal e hardcore. Il suono degli Speedhorn è molto personale e particolare, soprattutto per l’uso sapiente della doppia voce, cosa che ai loro esordi era risultata devastante e fa ancora il suo effetto. Lost Ritual è un disco che afferma rumorosamente quanto ancora hanno da dire e da menare questi ragazzi cresciuti. Forse la lontananza ha loro giovato, l’ultimo disco prima dello scioglimento Before The Sea Was Buil non era all’altezza dei precedenti. Molto più di un ritorno per monetizzare, i Raging Speedhorn sono qui per fare ancora molto male, e soprattutto divertirci, perché Lost Ritual è davvero un disco travolgente e che ci farà venire voglia di buttarci giù da un palco. Uno dei più bei ritorni. Metal e bestemmie.
TRACKLIST
01. Bring Out Your Dead
02. Halfway To Hell
03. Motorhead
04. Evil Or Mental
05. Ten Of Swords
06. Dogshit Blues
07. The Hangman
08. Shit Outta Luck
09. Comin’ Home
10. Unleash The Serpent
LINE-UP
John Loughlin – vocals
Frank Regan – vocals
Jim Palmer – guitar
Jamie Thompson – guitar
Dave Thompson – bass
Gordon Morison – drums
Disco in bilico tra sogno e morte, una grande prova di maturità per il gruppo.
Quarto disco per gli sloveni Beneath The Storm, uno dei primi gruppi anni fa ad approdare al roster di Argonauta Records.
Come sempre questi sloveni ci regalano un concept album, questa volta è sugli incubi, porte multidimensionali che si aprono tra il nostro subconscio e mondi lontani.
Oltre ad essere un disco molto godibile, Lucid Nightmaresegna anche una nuova poetica musicale del gruppo. Lasciate un po’ indietro certe asperità sonore dello sludge pesante, in questo disco i Beneath The Storm hanno ricercato sonorità più vicine allo stoner sludge, con una fortissima impronta grunge, vicina a quella fabbrica di musica e dolore che si chiamava Alice In Chains. Il suono non è più melodico, è mutato dalla base id partenza del loro sludge distorto e quasi atmosferico per giungere ad un suono più organico e forse più semplice, migliore rispetto a prima, anche se non si può effettuare un vero confronto dato che l’ambiente è cambiato radicalmente. Si può parlare di maturazione, ma penso che musicisti così poliedrici e capaci possano e devono cambiare il loro suono quando e come vogliono. Per abitudine mentale ai loro precedenti dischi mi aspettavo qualche cosa di diverso e quando ho ascoltato il disco sono rimasto piacevolmente sorpreso e davvero convinto della forza di questo disco. I Beneath The Storm fanno compiere un salto ulteriore per la loro musica, che diventa un qualcosa di molto più fruibile e ancora più affascinante di prima. Il disco parla del sonno, la nostra morte quotidiana che fa nascere mondi malati dentro di noi, perché gli incubi sono molto più interessanti e quotidiani dei sogni. I Beneath The Storm ci fanno capire, con questa musica pesante eppure eterea, che l’incubo è il nostro vero habitat naturale, e che non vi è nulla di male a far gridare il nostro io intrappolato nelle ore di veglia. Disco in bilico tra sogno e morte, una grande prova di maturità per il gruppo.
TRACKLIST
01. Nightmare’s Gate
02. Paralyzed In Sleep
03. Nightmares Overcome
04. Insomnia
05. Lucid Nightmare
06. Dementia
07. Atrocious Dreams
08. Down
09. On High In Blue Tomorrows
10. The House Of Doom
Questo gruppo ha tutto per sfondare e per avere una carriera duratura e proficua.
Disco di debutto per gli amburghesi High Fighter, gruppo formato nel 2014, con già alle spalle una grande attività live.
Il loro esordio discografico è stato l’ep autoprodotto “ The Goat Ritual “, che ne enunciava al mondo le intenzioni. La loro musica è un gran bell’incontro tra sludge, stoner ed un doom molto energico. Gli High Fighter hanno un tiro molto contagioso e fanno tutto con gran classe, senza mai strafare e senza soluzioni cervellotiche. Attraverso stili difficili ma altamente conciliabili, i tedeschi sfornano un gran disco fatto di energia moderna e combustibile antico, e i riferimenti vengono rielaborati per dare più forza al tutto. L’ascoltatore è trascinato al centro di un vortice che gira intorno alla fantastica voce della cantante Mona. Intorno a lei tutto il gruppo compie splendidamente il proprio dovere, con un musica pesante fatta con il cervello. Che non sia un gruppo comune lo si può anche desumere dal fatto che l’esordio esca su Svart, e che lo stesso sia mixato e masterizzato da Toshi Kasai (Melvins, Big Business ), dopo essere stato registrato negli studi dove sono passati gli Ahab ed altri. Questo gruppo ha tutto per sfondare e per avere una carriera duratura e proficua. Il debutto è già ottimo.
TRACKLIST
1) A Silver Heart
2) Darkest Days
3) The Gatekeeper
4) Blinders
5) Portrait Mind
6) Gods
7) Down To The Sky
8) Scars & Crosses
LINE-UP
Mona Miluski – vocals
Christian “Shi” Pappas – guitar
Ingwer Boysen – guitar
Constantin Wüst – bass
Thomas Wildelau – drums & backing vocals
Il ritorno dei Bardus non delude in nessuna occasione, ma, allo stesso tempo, non esalta come ci si sarebbe aspettati
A tre anni di distanza da “Solus” gli americani Bardus, formazione di Philadelphia composta da Justin Tuck, Kyle Pierce e Ari Rosenberg, ritornano con Stella Porta. Il nuovo lavoro, pubblicato per Solar Flare Records, affonda le radici in energiche sonorità a cavallo fra hard rock, sludge e noise.
I due minuti stringati di Smoke Bath, guidati dai colpi secchi di batteria e dal gridare furente, lasciano che a seguire siano le chitarre graffianti di Monolith (seconda parte più cupa e meditata) e l’estremizzarsi, fra fiammate e momenti sempre più angoscianti, di Sky King. Transcendence, provando a dar vita a paesaggi tetri e fangosi, procede pesante su tempi lenti, mentre il cadenzato urlare di Haze si contrappone allo spigliato procedere di Oracle (in rapido rallentamento) e al ringhiare conclusivo della furente Clandestine.
Il ritorno dei Bardus non delude in nessuna occasione, ma, allo stesso tempo, non esalta come ci si sarebbe aspettati. I sette brani proposti, infatti, nonostante siano carichi di elettricità e vigore, non riescono mai a schiaffeggiare veramente, limitandosi, piuttosto, a ringhiare senza mordere. Un band interessante che, però, sembra abbia scelto di suonare con sufficienza.
Seconda edizione dell’Argonauta Fest, con alcune band del roster di una delle etichette emergenti nel mondo della musica pesante.
Quasi tutto è cambiato, dai gruppi in cartellone, alla location. Quest’ultima, ora alle Officine Sonore di Vercelli,è stata una scelta felice, poiché rispetto al locale della prima edizione, questo, seppur più piccolo, è molto più coinvolgente e soprattutto con uno staff molto gentile, erudito in fatto di musica pesante e ben disposto, che è la cosa più importante. Tutti i presenti erano a proprio agio, ed ecco arrivare la prima band, i torinesi Jordaan che confermano quanto di buono hanno fatto su disco, anzi andando molto oltre il supporto fonografico, confermando il loro ottimo tiro tra post rock e post metal, il tutto in equilibrio e ben fatto.
Dopo di loro i veronesi Wows, che già impressionano per gli ottimi gusti musicali che portano stampati sulle magliette portate, e che sul palco sono strepitosi, con il loro post metal estremamente originale, fra richiami tooliani ed estrema capacità di far sognare, un gruppo che andrà molto lontano.
Ed ecco quella che è stata la sorpresa della serata, i Muschio. Il gruppo di Verbania ha letteralmente spazzato via i presenti con una miscela mortale di una musica estremamente originale con due chitarre e una batteria. Immensa potenza ed una grandissima personalità, che permette di fare cose che solo loro possono fare, e sono stati sicuramente la sorpresa della serata.
Dopo questa incendiaria esibizione hanno suonato i Filth In My Garage, con un tiro più metalcore, molto bravi e giovani, e nonostante la giovane età hanno già le idee molto chiare, e sono il gruppo Argoanuta che può piacere maggiormente a chi non ascolta post metal o sludge.
Da Livorno arrivano i Bantoriak, che con Weedoism l’anno scorso avevano scosso l’underground italiano e non solo e che confermano dal vivo la loro fortissima impronta stoner sludge ritual, con riferimenti metal, di grande effetto, anche per merito della cantante Rosy, davvero grintosa e potente. Una bella performance, è un gruppo che non sbaglia mai.
Come ultimo atto dell’Argonauta Fest chiudono i Sepvlcrvm, duo genovese guidato da Marco Paddeu, già nei Demetra Sine Die e autore dello splendido progetto Morgengruss, che presentano il loro nuovo disco in uscita in questi giorni Vox In Rama, una continuazione del percorso sacro e ritualistico di Hermeticvm. La loro musica è un rito che appartiene ad un altro tempo, e suscita nell’ascoltatore ricordi atavici. Il loro concerto è la chiusura perfetta per questa seconda edizione dell’Argonauta Fest e che conferma il valore di questa giovane etichetta, che oltre a proporre musica validissima e di alto livello come ascoltato questa sera, è soprattutto una grande famiglia.
All That Is Beautiful è senz’altro un buon album, anche se appare difficile che possa conquistare qualcuno che non sia del tutto addentro al genere, restando destinato, quindi, ad ascoltatori disposti a farsi erodere in maniera lenta ma inesorabile.
Quattro lunghe litanie a base di uno sludge doom sfibrante, ma sufficientemente vario per essere apprezzato, è quanto offrono i Deathkings in questo loro secondo full length, All That Is Beautiful.
Difficile capire cosa possa esserci, poi, di bello e consolatorio, nel mondo prefigurato dalla band californiana con un titolo dalle sfumature presumibilmente sarcastiche: una voce grida il suo livore che si placa a tratti, quando il sound, per lo più granitico, pare prendersi una tregua salvo poi riprendere con il suo incedere macinando riff.
Forse proprio questi passaggi costituiscono il punto meno incisivo del lavoro, facendo scemare un’intensità che invece emerge in maniera prepotente quando i Deathkings decidono di aprire al massimo i motori.
E’ anche vero, d’altra parte, che sarebbe impensabile e forse controproducente mantenere per oltre un’ora questo stesso andazzo, per cui, volendo comunque esprimersi su minutaggi di simili fattezze, l’inserimento di passaggi più sperimentali e meno diretti diviene quasi una necessità.
Va anche detto che sono, fondamentalmente, i 18 minuti dell’opener Sol Invictus a risentire maggiormente di questa sorta di dicotomia, mentre già nella successiva The Storm le doti compositive dei Deathkings emergono in forma più focalizzata, dando vita ad un brano aspro ma dal retrogusto malinconico.
Più diretta e rabbiosa si mostra The Road To Awe, mentre i quasi 20 minuti di Dakhma sono un’ulteriore prova di resistenza dalla quale i quattro losangelini escono egregiamente, pur senza cedere ad alcun ammiccamento per condurre in porto il lunghissimo brano, anche se, in qualche modo, si ritorna agli schemi proposti all’inizio del lavoro. All That Is Beautifulè senz’altro un buon album, anche se appare difficile che possa conquistare qualcuno che non sia del tutto addentro al genere, restando destinato, quindi, ad ascoltatori disposti a farsi erodere in maniera lenta ma inesorabile.
Tracklist:
1.Sol Invictus
2.The Storm
3.The Road To Awe
4.Dakhma
Line-up:
N. Eibon Fiend – Bass, Vocals
Sean Spindler – Drums
Daryl Hernandez – Guitars, Vocals
Mark Luntzel – Guitars, Vocals
Nerissimo black metal mid tempo con schizzi sludge per questo duo tedesco al debutto sulla lunga distanza.
Nerissimo black metal mid tempo con schizzi sludge per questo duo tedesco, al debutto sulla lunga distanza.
Dopo aver pubblicato demo, ep e uno split il malefico duo ha deciso di ammorbarci su lunga distanza, ed il risultato è un disco black metal cupo ma non velocissimo, con un qualcosa degli ultimi lavori dei Satyricon, con quell’incedere quasi thrash, anche se qui abbiamo una forte dose di sludge che incombe ad appesantire il tutto. Il suono di questo duo è marcio ed è un cantico satanico che parla di brutalità e sangue, cose non così lontane dalla nostra vita di tutti i giorni.
L’oscurità domina in questo disco, che è il risultato di approfondimento musicale per fare un disco mai scontato e soprattutto davvero marcio e malato. La buona produzione aiuta l’ascoltatore ad immergersi in questo nero mare.
TRACKLIST
1. The Element Of Destruction
2. Prophet Of Fire
3. Blazing Fires In The Night
4, Unheard Prayer
5. Ritual Of 3 Candles
6. Guided By Two Moons
LINE-UP
Avenger – all guitars, drums and synths
Molestor Kadotus – drums
Uno split album che esibisce due maniere diverse ma ugualmente efficaci nel gestire le pulsioni più oscure, veicolandole splendidamente in forma musicale.
Particolare split album edito da un pool di etichette quello che vede a confronto due band che hanno apparentemente poco in comune, come i californiani Abstracter ed i canadesi Dark Circles.
Se i primi sono esponenti della frangia più estrema ed incompromissoria dello sludge doom, i secondi sparano il loro hardcore che, per atmosfere e ritmiche si avvicina spesso e volentieri al black metal: non parrebbe così scontato, in teoria, trovare un tratto comune a due entità simili, se non ci fosse ad unirle una visione negativa della realtà ed una rabbia che negli Abstracter si esprime con un sound claustrofobico e per lo più ripiegato su sé stesso, mentre nei Dark Circles esplode in una furia iconoclasta che non disdegna ugualmente qualche puntata melodica.
Anche se il numero dei brani premia i Dark Circles (quattro contro due) la durata complessiva della musica contenuta in questo split va a favore degli Abstracter che, con la loro coppia di lunghe tracce (Barathrum e Where All Pain Converges) ne occupano circa i due terzi della durata: normale, se pensiamo ad una band che deve costruire la propria proposta su tempi rallentati volti a costruire una spessa coltre di incomunicabilità fatta di dissonanze e riff distorti all’inverosimile; più essenziale, come da attitudine, il contributo dei canadesi, con due brani brevissimi ma dall’intensità spasmodica (Ashen e Void), uno più composito ma certo non meno oscuro e rabbioso (Isolate), al netto della sorprendente digressione ambient di Epilogue (Quietus) Op. 28.
Uno split album che esibisce due maniere diverse ma ugualmente efficaci nel gestire le pulsioni più oscure, veicolandole splendidamente in forma musicale.
Sundown è un ulteriore passo di un’evoluzione ardita e continua, dove la musica non è mai ovvia, ma sempre fatta per dare piacere e metalliche sensazioni.
Dalla sempre interessante scena francese il ritorno dei Glorior Belli, uno dei gruppi più versatili e validi dell’esagono.
Quinto disco per questo gruppo che partendo e tenendo sempre ben presente il patrimonio del black metal ha esplorato e sperimentato l’unione con vari generi. Negli ultimi due dischi è fortissima la commistione con il southern metal e con lo sludge, non tanto nella resa sonora quanto nella composizione. I Glorior Belli fanno musica gustosa e possente, con un grande groove che il black metal all’interno del suo nucleo, ma che prende svariate direzioni. Sundown è un ulteriore passo di un’evoluzione ardita e continua, dove la musica non è mai ovvia, ma sempre fatta per dare piacere e metalliche sensazioni. Nel loro suono c’è anche un po’ di sludge e persino di blues, grazie alle passioni del fondatore e multi strumentista Infestvvs aka Billy Bayou. Un ottimo disco di musica pesante a trecentosessanta gradi.
TRACKLIST
1.Lies-Strangled Skies
2.World So Spurious
3.Rebels In Disguise
4.Thrall of Illusions
5.Sundown (The Flock That Welcomes)
6.Satanists Out of Cosmic Jail
7.Upheaval In Chaos Waters
8.We Whose Glory Was Despised