Derdian – Human Reset

Bellissimo lavoro da parte dei Derdian, potenza e melodia al sevizio del metallo pesante.

Brutta bestia il power metal; dopo aver dominato il panorama, sopratutto in Europa, negli anni a cavallo del nuovo millennio, portato al successo da band che in quel periodo hanno sfornato capolavori a getto continuo, lo ritroviamo nel secondo decennio del duemila ancora una volta in stand by nelle preferenze di fan e addetti ai lavori, superato dal symphonic gothic metal.

Invero i nomi più importanti faticano ad arrivare ai livelli eccelsi di una quindicina di anni fa, ed allora ecco che il tanto bistrattato underground viene in soccorso regalando band e album notevoli, come questo bellissimo e ultimo lavoro dei milanesi Derdian. Per chi non conoscesse ancora il gruppo, ricordo che è attivo dal 2001 e che il primo full-length risale al 2004 con “New Era Pt.1”, disco che porta in dote la firma con la prestigiosa Magna Carta, seguito dagli altri due capitoli “New Era Pt 2-War of the Gods” e “New Era Pt 3-The Apocalypse”. Nel 2013 arriva “Limbo”, che segna l’abbandono delle tematiche fantasy per un approccio più immerso nella realtà quotidiana. Oggi la band, accasatasi con None Records, è pronta a partecipare alla battaglia per il miglior album dell’anno nel suo genere con Human Reset, straordinario lavoro di power metal moderno, dove le orchestrazioni incontrano la potenza del metallo pesante mantenendo un perfetto equilibrio, in un elegante dimostrazione di forza da parte della band milanese, capace di superare se stessa con un songwriting sopra le righe che alterna brani dal sapore epico sinfonico (come il capolavoro Music for Life) a altri nei quali la fa da padrona l’originalità: tutto questo in un ambito stilistico per il quale molti sostengono tutto sia sia già stato scritto, con strutture metalliche dall’approccio moderno e andando ben oltre alla classica band alla Rhapsody (tanto per fare un esempio). Human Reset è una raccolta di brani eccellenti e con picchi qualitativi elevatissimi, quali Mafia, canzone dalla citazione cinematografica nel solo del bravissimo Dario Radaelli, la title-track dai cori epici e cavalcata metallica esaltante nel suo incedere, Absolute Power, dove l’intera band offre l’ennesima lezione di potenza e tecnica, con la sezione ritmica sugli scudi per tutto l’album (Marco Banfi, basso e Salvatore Giordano, batteria), la ritmica sempre puntuale di Enrico Pistolese, le orchestrazioni eleganti di Marco Garau e il bravissimo Ivan Giannini, vocalist dalle mille risorse, convincente nei toni bassi e straripante dove la sua ugola prende il volo per raggiungere le vette dei colleghi più famosi, ad aggiungersi alla prova ineccepibile del già citato chitarrista. Non esiste attimo di tregua in questo lavoro fino alla stupenda After the Storm, ballad che non smorza la tensione, con il piano a guidare il sound e chitarra e orchestrazioni che nel refrain portano il pathos alle stelle. Ancora il piano inizia e conclude la stupenda My Life Back, traccia che mette la parola fine ad un lavoro superbo, dove potenza e melodia vengono messe al sevizio del metal.

Tracklist:
1. Eclipse
2. Human Reset
3. In Everything
4. Mafia
5. These Rails Will Bleed
6. Absolute Power
7. Write Your Epitaph
8. Music Is Life
9. Gods Don’t Give a Damn
10. After the Storm
11. Alone
12. Delirium
13. My Life Back

Line-uo:
Ivan Giannini – Vocals
Marco Banfi – Bass
Marco Garau – Keyboards
Enrico Pistolese – Guitars,B.vocals
Dario Radaelli – Lead guitars
Salvatore Giordano – Drums

DERDIAN – Facebook

The Morningside – Letters From The Empty Towns

Terzo ed ottimo album per i russi The Morningside.

Nuovo capitolo della saga The Morningside, band al suo terzo full-length dopo l’esordio del 2007 “The Trees and the Shadows of the Past”, bissato nel 2009 da “Moving Crosscurrent of Time” e dall’EP del 2011 “Treelogia”. Il gruppo proveniente dalla capitale sovietica propone un doom/death metal melodico sulla scia dei primi lavori dei Katatonia (la band alla quale fanno maggior riferimento) irrobustendolo con iniezioni di death melodico alla Dark Tranquillity (era “Projector”), ed il risultato non può che essere, visto anche il buon songwriting e la bravura dei musicisti coinvolti, un ottimo lavoro di genere. Rispetto agli album precedenti i The Morningside imprimono più potenza al sound di Letters From The Empty Towns relegando le atmosfere rarefatte e gli interventi della voce pulita ad occasionali stacchi in qualche brano (On the Quayside), lasciando invece molto spazio alle chitarre, assolute protagoniste con splendide ritmiche e solos che si avvicinano al prog/death degli Opeth piuttosto che al sound di Agalloch e Ulver come nei primi dischi. Le vocals di Nikitin sono corrosive e come sempre marchio di fabbrica della band che, The Outside Waltz a parte (bellissimo strumentale acustico), regala brani dal forte impatto drammatico, per un viaggio in quel metal dai richiami dark capace di regalare emozioni, sostenuto da una struttura chitarristica di primo livello: un lavoro maturo, che cresce con gli ascolti e che trova nella stupenda Ghost Lights (la canzone che più si avvicina ai Katatonia) otto minuti di meraviglie melodiche. Invero sul finire del lavoro la band, dopo le sfuriate della prima metà del disco, si rilassa e anche nella finale Letter ci consegna un brano semiacustico, come se il sound del gruppo si raccogliesse su se stesso, in posizione fetale, dopo aver sfogato tutta la rabbia ed essere arrivato, così, allo stremo. Buoni outsiders, i The Morningside sanno toccare l’anima: la loro musica difficile, per questi tempi dove anche nel metal si ha la sensazione di dover consumare tutto e subito, in una sorta di tremendo usa e getta, ferma il tempo e siamo noi che ne dobbiamo approfittare per regalarci ogni tanto un momento di poesia; fatelo, non ve ne pentirete.

Tracklist:
1. Immersion
2. One Flew (Over the Street)
3. Deadlock Drive
4. Sidewalk Shuffle
5. On the Quayside
6. The Traffic Guard
7. The Outside Waltz
8. Ghost Lights
9. The Letter

Line-up:
Ilya Egorychev – Bass
Boris Sergeev – Drums
Igor Nikitin – Vocals, Guitar
Sergey Chelyadinov – Guitars

Bleed Someone Dry – Subjects

Riedizione a cura delle WormHoleDeath di questo buon lavoro dei Bleed Someone Dry.

La WormHoleDeath si assicura le prestazioni di questi cinque musicisti di Pistoia e ristampa il loro secondo full-length dal titolo Subjects uscito nel 2012 per l’etichetta veronese Kreative Klan.

Subjects e’ un lavoro di difficile catalogazione, la band parte da un concept che denuncia la totale assuefazione del genere umano alla schiavitù morale e sociale imposta dalla società odierna, che di fatto va a scapito per una più redditizia globalizzazione di massa. A livello musicale i Bleed Someone Dry usano la materia “core” con qualche riferimento al death, anche se non così pronunciato come in molte realtà di genere, con un uso dell’elettronica che molte volte si alterna ai tipici cambi di tempo ritmici ed il ricorso ad una voce che risulta uno scream sguaiato ma dal buon impatto. Questo album è caratterizzato da un sound pieno, un vero muro sonoro che travolge tra ritmiche potenti, strutture complesse ma che non inficiano la scorrevolezza dei brani, lasciando che la musica avvolga l’ascoltatore senza grossi cali di tensione, tra riffoni ultraheavy, partiture elettroniche ed evoluzioni tecniche mai troppo forzate. La title track, Corrosive Whisperer, The law is not equal for all, sono le canzoni dove a mio parere il sound della band risulta più enfatizzato. Un buon lavoro, dunque, consigliato agli amanti del death più moderno e a coloro che non disdegnano band più note come Meshuggah, Converge e Dillinger Escape Plan.

Tracklist:
1. Bleed
2. As Broken Shards
3. Subjects
4. Corrosive Whisper
5. Wide Open Jaws
6. Jab of Hatred
7. By My Horny Hands
8. The Law Is Not Equal for All
9. ‘Till the End
10. It’s a secret

Line-up: Jonathan Mazzeo – Guitars, Synths
Mattia Baldanzi – Bass
Alfeo Ginetti – Drums
Alessio Bruni – Vocals

Haemophagus – Atrocious

Death metal da standing ovation per i siciliani Haemophagus.

Tornano sul mercato, tramite Razorback Records, i siciliani Haemophagus con questo bellissimo ultimo lavoro intitolato Atrocious.

La band, attiva dal 2005 e autrice di una miriade di split e con un primo full-length alle spalle, targato 2009, dal titolo “Slaves to the Necromancer”, devasta a suo modo tutto quello che incontra, sparando bordate di death old school da cui non si può sfuggire.
Atrocious è un album molto maturo dalla copertina prog anni settanta, bissata da un’Intro spaziale,due minuti e mezzo di strumentale tra Goblin e King Crimson, prima che la furia del tornado death si accanisca su di noi distruggendo ogni resistenza.
Ottimi musicisti al servizio di un metal estremo che ha nei rallentamenti doom momenti di sublime fascino sinistro arrivando a toccare vette altissime: mi hanno fatto tornare in mente quel capolavoro che fu “Forest of Equilibrium” dei Cathedral di Lee Dorrian, nella prima parte di Surgeon of Immortality e, comunque, tutto il lavoro scorre su questa altalena tra momenti rallentati e sfuriate devastanti, dove le doti tecniche del combo saltano immediatamente all’orecchio.
Le pelli di David, picchiatore impietoso, formano con il basso di Gas una sensazionale sezione ritmica che ben supporta le due chitarre, rispettivamente Gioele e Giorgio, protagonista anche dietro al microfono, con una prestazione che ricorda il buon Dave Vincent, non a caso il vocalist della band che più di ogni altra si pone quale nume tutelare del gruppo palermitano: i Morbid Angel.
Gli Haemophagus si confermano come band sopra la media, con una personalità da veterani consumati ed un magnifico songwriting che fa di questo lavoro uno dei più riusciti nel genere, con brani che rasentano la perfezione, una valanga di riff ora iperveloci, ora spaventosamente lenti ma pesantissimi, autentici macigni che vi scuoteranno le interiora e vi lasceranno spossati al termine dell’ultima nota.
Grandissime, tra le varie tracce, la title-track con quel riff iniziale che mi fa frullare nella testa il periodo settantiano, Dismal Apparition, la violentissima Siege of Murderous Beasts e la monumentale doom/death Naked in the Snow, perle nere che faranno impazzire gli amanti di queste sonorità che suggellano il grandissimo ritorno di una band fenomenale con un album da standing ovation!

Tracklist:
1. Intro
2. Partying at the Grave
3. Atrocious
4. Exaltation for a Dying Victim
5. Dismal Apparition
6. Ice Cold Prey
7. Surgeon of Immortality (Alfredo Salafia)
8. Siege of Murderous Beasts
9. Swollen With Parasites
10. Naked in the Snow
11. Choked on a Cadaver’s Dick
12. The Honourable Society of Black Sperm
13. From the Sunken Citad

Line-up:
David – Drums
Giorgio – Guitars, Vocals
Gas – Bass
Gioele – Guitars, Backing Vocals

HAEMOPHAGUS – Facebook

Origin – Omnipresent

Spettacolare ritorno della band di Topeka con questo devastante massacro brutal death dal titolo “Omnipresent”.

Spettacolare ritorno della band di Topeka (U.S.A.) con questo devastante massacro brutal death dal titolo Omnipresent, che conferma le capacità dimostrate dagli Origin nei primi cinque capitoli, dall’esordio omonimo all’inizio del nuovo millennio fino ad arrivare a “Entity” del 2011.

Siamo al cospetto di un gruppo che non necessita di particolari presentazioni o riferimenti, d’altronde Omnipresent è come detto già il sesto full-length che continua senza indugi la devastazione sonora, perciò troverete nei solchi del nuovo album quel technical brutal death che è il marchio di fabbrica dei musicisti statunitensi: un TIR impazzito che travolge a suon di riff, scale melodiche, velocità disumana e macigni cadenzati, tutto ciò che incontra con una facilità disarmante. Gli Origin hanno la peculiarità di non fare semplicemente brutal, nel loro swongwriting convivono diverse anime estreme perfettamente in armonia, ed allora nella strada che percorrerete dall’inizio alla fine di quest’album troverete grind, death old school, elementi classici e thrash, riff marziali ed epiche atmosfere che fanno di questo disco un ciclone di metal estremo. Jason Keyser è il solito disumano cantore che, con il suo growl, spaventerebbe l’esercito di orchi in attesa dell’attacco al fosso di Elm, Mike Flores e John Longstreth (basso e batteria), inumane macchine da guerra, formano una sezione ritmica da distruzione totale, essendo dotati di una tecnica fuori categoria, mentre Paul Ryan è, probabilmente, il chitarrista migliore in circolazione nel genere, dotato com’è di una fantasia e di un eclettismo spaventosi. Basta poco più di mezz’ora di musica agli Origin per aprire le porte dell’inferno e convincere Lucifero che non è il caso di mettersi contro questo tornado, formato da dodici brani che vorticosamente imperversano nell’empireo del metal estremo. Manifest Desolate, Source of Icon O, i fantastici due minuti di scale neoclassiche di Continuum, Unattainable Zero, l’altro bellissimo strumentale Obsolescence e Malthusian Collapse, riempiono questo disco di musica enorme nel vero senso del termine, riconsegnandoci in questa metà dell’anno una delle band guida di tutto il movimento.

Tracklist:
1. All Things Dead
2. Thrall:Fulcrum:Apex
3. Permanence
4. Manifest Desolate
5. The Absurdity of What I Am
6. Source of Icon O
7. Continuum
8. Unattainable Zero
9. Redistribution of Filth
10. Obsolescence
11. Malthusian Collapse
12. The Indiscriminate
13. Kill Yourself (S.O.D. cover)

Line-up:
Paul Ryan – Guitars, Vocals (backing)
Jason Keyser – Vocals (lead)
Mike Flores – Bass, Vocals (backing)
John Longstreth – Drums

ORIGIN – Facebook

Rival Sons – Great Western Valkyrie

Quarto album e ancora grande hard rock settantiano per i Rival Sons.

Che l’hard rock di matrice settantiana sia tornato alla ribalta nel panorama internazionale da un po’ di anni è cosa nota, le band che riesumano con abilità il sound che fece la fortuna di Led Zeppelin, The Doors e Deep Purple, tanto per fare tre nomi a “caso”, sono tante e di ottima qualità: tra queste ci sono i californiani Rival Sons, giunti con questo Great Western Valkyrie al quarto disco in studio, dopo l’esordio del 2009 “Before The Fire”, il primo per la Earache del 2011 “Pressure And Time”, ed il bellissimo predecessore “Head Down” del 2012, intervallati da un EP del 2011 autointitolato.

Intanto il nuovo album porta un paio novità, la presenza del bassista Dave Beste e l’aiutino alle tastiere di Ikey Owens, già The Mars Volta e session per Jack White, e conferma i Rival Sons come una delle più talentuose band della nuova generazione, con una compilation di brani irresistibili, un inchino davanti all’altare del dio del rock che aveva i maggiori e più affezionati discepoli nel decennio settanti ano: spettacolari atmosfere hard rock colme di groove ed accenni blues, un Hammond che a tratti diventa protagonista come poteva esserlo quello del grande Jon Lord e momenti di calda poesia musicale presa dai migliori spartiti della band di Jim Morrison, un susseguirsi di riff direttamente da casa Page e la caldissima voce di Buchanan a rinverdire i fasti dei grandi singer del passato, con una prova mai così efficace su dei brani splendidi.
Electric Man e Good Luck invitano l’ascoltatore ad un giro sulla giostra dei Rival Sons, un ottovolante di suoni freak, un caleidoscopio di colori e vibrazioni direttamente dall’universo hard blues ai quali è impossibile resistere; Secret non è da meno, chitarra e Hammond accompagnano il vocalist mai così “plantiano”, mentre i brani si susseguono uno più bello dell’altro e sembra che questa libidine non abbia mai fine: Play the Fool, la bellissima Good Things che sembra uscita da un film di Quentin Tarantino, con il suo andamento da danza con un serpente albino (chi si ricorda la danza vampirica della stupenda Salma Hayek di “Dal tramonto all’alba”?).
Ancora la doorsiana Rich and Poor, la emozionale ballad dal sapore blues Where I’ve Been e la conclusiva Destination on Course, suite zeppeliniana dove chitarra psichedeliche incrociano cori dai rimandi gospel, in una jam acida d’antologia.
Grande band e grandissimo disco, l’hard blues nel 2014 passa assolutamente da band come i Rival Sons, non certo da raccolte o remasters di dinosauri di cui si conosce la discografia nei dettagli.
Album bellissimo da avere, punto.

Tracklist:
01. Electric Man
02. Good Luck
03. Secret
04. Play The Fool
05. Good Things
06. Open My Eyes
07. Rich and the Poor
08. Belle Starr
09. Where I’ve Been
10. Destination on Course

Line-up:
Jay Buchanan – Vocals
Scott Holiday – Guitars
Michael Miley – Drums
Dave Beste – Bass

RIVAL SONS – Facebook

Valyria – Collatus

Per gli amanti del death/power melodico un buon esordio per i canadesi Valyria con questo Collatus.

“I Fuochi di Valyria” è la seconda parte del quinto romanzo facente parte della saga “Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco”, capolavoro letterario di George R.R Martin, conosciuto in Italia per essere l’autore del “Trono di Spade”, serie TV alla ribalta dei palinsesti televisivi negli ultimi mesi.

La band che prende ispirazione per il proprio monicker dal bellissimo romanzo è canadese ed è protagonista di questo lavoro di death metal melodico dai tratti power/epici nonché loro esordio discografico dal titolo Collatus. Senza far gridare al miracolo, i ragazzi nordamericani picchiano sui propri strumenti di buona lena, ripassando il buono che il melodic ed il power hanno regalato in questi ultimi anni, facendo propria la lezione di band quali: primi In Flames, Amon Amarth, Blind Guardian, Rhapsody e un po’ tutte le maggiori realtà che accomunano i due generi. Una buona mezz’ora in cui verrete travolti dall’entusiasmo della band nel saper affrontare un genere che è tutto fuorchè facile, ma i Valyria ci mettono del loro nell’apparire, se non originali, sicuramente piacevoli, con buone cavalcate heavy/power nelle quali spiccano le due asce in mano ai bravi Jeremy Puffer e Andrew Traynor e le agguerrite vocals in growl, ereditate dagli Amon Amarth e proposte dall’uomo “Oltre la Barriera”, Cam Dakus, alle prese anche con il basso e che forma insieme al drummer Mitchell Stycalo una potente sezione ritmica. Dopo la classica Intro atmosferica, Polaris dà il via all’assalto a “Grande Inverno” con bordate di power/death melodico bissata dalla furiosa Karbala. Gli ultimi tre brani sono quelli dove la band sa anche entusiasmare, con intermezzi pianistici e una vena che diventa più sinfonica dando vita a song riuscite e dal sicuro impatto, con l’apice nella conclusiva Starborn, quasi dieci minuti di atmosfere che si alternano, tra momenti epici e stacchi strumentali di quiete, prima che la tempesta metallica ci travolga ancora una volta. Buon esordio, che fa ben sperare per un roseo futuro: se siete amanti del death melodico come del power metal, dategli un ascolto.

Tracklist:
1. Praeludium
2. Polaris
3. Karbala
4. Crown Of Creation
5. The Blinded Torch
6. Starborn

Line-up:
Cam Dakus – Vocals,Bass
Jeremy Puffer – Guitars,B.vocals
Andrew Traynor – Guitars,B.vocals
Mitchell Stycalo – Drums

Dark Mirror Ov Tragedy – The Lunatic Chapters Of Heavenly Creatures

I Dark Mirror Ov Tragedy ci regalano una vera opera Horror,drammaticamente romantica e dotata di un fascino irresistibile.

L’immaginario orrorifico in oriente è piu’ radicato di quello che si possa pensare: ogni paese, dal Giappone alla Cina, passando per le due Coree, abbondano di leggende su fantasmi e vampiri e, inevitabilmente, anche la letteratura e il cinema da quelle parti hanno un loro consolidato panorama horror, che ultimamente abbiamo avuto modo di gustare nei remake americani come il famosissimo “The Ring”, buona pellicola di genere ma ovviamente nemmeno paragonabile alla terrificante versione originale.

Dalla Corea del Sud abbiamo potuto ammirare il bellissimo “Two Sisters”, film gothic sulla falsariga del ben più famoso “The Others” con la splendida Nicole Kidman uscito alcuni anni fa. Aggiungiamoci una cultura musicale che nei paesi occidentali neanche ci sogniamo (nelle scuole la musica è presa molto seriamente e messa alla pari delle altre materie) e che determina nei ragazzi un’ottima conoscenza della musica e degli strumenti classici. Non c’è da meravigliarsi allora se dalla Corea del Sud arrivano a noi, tramite WormHoleDeath, questi ottimi Dark Mirror Ov Tragedy, combo di ben sette elementi nato nel 2003 e con due full-length ed un Ep in archivio. Il loro The Lunatic Chapters Of Heavenly Creatures, nuovo e bellissimo album, stupisce per abilità tecnica e songwriting al top, riportando allo splendore le gesta di Dani Filth e dei suoi Cradle e dei magnifici lavori dei primi anni novanta, quei “The principle of evil made flesh” e “Dusk and her embrace”. Ma, credetemi, neppure la band inglese riusciva, anche in album che hanno creato un genere partendo da una base black, ad essere cosi magniloquente nelle sinfonie di cui questo lavoro è colmo, strabiliando nelle melodie del piano e del violino che, più di altro, fanno la differenza. Il vocalist Material Pneuma mantiene per tutto l’album uno screaming filthiano, in linea con le band di genere, le due asce, al secolo Senyt e Gash, macinano riff come da copione e la sezione ritmica (Reverof- basso e Confyverse-batteria) vola come uno sciame di pipistrelli sul cielo di Seul, ma keyboards e violino sono di un’altra categoria: Zyim ed Arthenic ammaliano, tra fughe sinfoniche e intermezzi di raggelante atmosfere gothic, facendo risplendere i loro strumenti grazie anche ad una produzione ottima che offre la possibilità di godere della loro abilità anche quando la band spara bordate di metallo estremo, reso elegante dalle sempre bellissime melodie degli strumenti classici. Una vera opera horror, drammaticamente romantica e dotata di un fascino irresistibile, come lo sguardo ammaliante di un vampiro dagli occhi a mandorla. I brani di questo incredibile lavoro sono tutti indiscutibilmente riusciti, ma una menzione particolare va a Dancing in the Burning Mirror, The Constellation of Shadows e The Name of Tragedy. Potreste pure perdervi un album di questo genere, basta che non andiate in giro a dire che meglio dei Cradle of Filth non c’è nessuno. Fantastici.

Tracklist:
1. Thy Sarcophagus
2. Unwritten Symphony
3. Dancing in the Burning Mirror
4. Ichnography on Delusion
5. Virtuoso of the Atmosphere
6. Perish by Luminos Dullness
7. The Constellation of Shadows
8. The Name of Tragedy
9. The Noumenon I Carved

Line-up:
Gash – Guitars
Material Pneuma – Vocals (lead)
Confyverse – Drums
Reverof – Bass, Vocals (backing)
Senyt – Guitars
Arthenic – Violin
Zyim – Keyboards

DARK MIRROR OV TRAGEDY – Facebook

Dogmate – Hate

Tutto da ascoltare il debutto dei romani Dogmate, un metal/stoner colmo di groove dall’ottimo impatto.

L’etichetta romana Agoge Records licenzia il debutto dei suoi concittadini Dogmate, band che strappa applausi a scena aperta con questo fottutissimo Hate, lavoro che sprizza groove da tutti i pori, con una riuscitissima amalgama di suoni stoner e grunge violentati da mazzate al limite del thrash; metallico il giusto per piacere non solo a chi è più orientato a suoni hard rock “alternativi”, l’album consta di dieci brani dal tiro pazzesco, suonati con un piglio da band navigata dai quattro musicisti.

I Dogmate nascono nel 2012 e ne fanno parte Ivan Perres (Ivn) alla batteria, che con l’aiuto di Roberto Fasciani (Jeff) al basso compone una sezione ritmica potentissima, Stefano Nuccetelli (Sk)che, alla sei corde, dichiara guerra con un chitarrismo che passa inesorabilmente molto vicino all’approccio degli axeman statunitensi del genere (Zakk Wylde ma anche il compianto Dimebag Darrell) ed il vocalist Massimiliano Curto (Mad Curtis), interprete doc per la musica della band con la sua tonalità sporca, a metà strada tra il citato Zakk e Pepper Keenan, ex-Corrosion of Conformity.
Si comincia con Buried Alive ed il gruppo ci va giù pesante, la sezione ritmica tiene il passo con bordate stoner belle grasse che si accentuano nei brani dove il sound si velocizza, strizzando l’occhio al metal panterizzato (Inflated Psychotic). Nel corso dell’album sono molteplici le band alle quali i Dogmate fanno riferimento, ma rimane a mio parere (e qui sta il bello) ad aleggiare su Hate il fantasma dei Corrosion of Conformity, sia quelli più hardcore degli esordi (“Technocracy”), sia nella veste alternativa del capolavoro “Blind”, per arrivare infine allo stoner da “Deliverance” ai giorni nostri; in più i nostri aggiungono riff panteriani ed elementi pescati dalla musica di Seattle per un risultato che a tratti ho trovato esaltante.
In questo esordio i Dogmate risultano una band compatta, i loro brani che non lasciano respiro ed affondano il colpo ad ogni passaggio e nella loro totalità spiccano la bellissime Witness of the Shamelessness, Hunter’s Mind, Mesmerizing Truth e la ballad conclusiva Black Swan, nella quale il vocalist lascia le consuete tonalità per avvicinarsi al Chris Cornell solista dell’intimista e maturo “Song Book”.
Disco da avere e da ascoltare, ennesima prova che ormai la differenza tra le nostre band underground e quelle del sogno americano si è ridotta al minimo.

Track list.
1. Buried Alive
2. Inflated Psychotic
3. Witness of the Shamelessness
4. Stripped & Cold
5. Dark in the Eyes
6. Me-Stakes
7. Hunter’s Mind
8. Mesmerizing Truth
9. World War III
10. Black Swan

Line-up:
Massimiliano “Mad Curtis” Curto – Voce
Stefano “Sk” Nuccetelli – Chitarra
Roberto “Jeff” Fasciani – Basso
Ivan “Ivn” Perres – Batteria

DOGMATE – Facebook

Fragarak – Crypts Of Dissimulation

Ottimo lavoro, indicato per gli amanti degli Opeth, con il quale i Fragarak vi sorprenderanno.

Non male l’album di debutto di questa band, nata a Nuova Dehli nel 2012 ed arrivata all’esordio discografico lo scorso anno (l’album e’ datato 2013).

I Fragarak sono protagonisti di un death metal progressivo sullo stile dei primi Opeth, specialmente nelle numerose parti atmosferiche ma, mentre la band svedese nei primi album univa alla componente dark una forte connotazione black metal, gli indiani sono più orientati verso un old school death comunque sempre di matrice scandinava. L’album consta di sei brani dall’ottimo piglio, a partire dall’apertura acustica della bellissima Savor the Defiance, dove l’intro viene spezzato dall’entrata della ritmica e dall’urlo disumano del bravissimo singer Supratim Sen, ottimo sia nel cavernoso e animalesco growl sia nell’uso a tratti dello scream. Atmosfere drammatiche dall’impronta dark ed ottimi momenti acustici incontrano sfuriate elettriche dove la band, con cambi di tempo ed il buon uso delle soliste, riesce ad emozionare e quando l’acustica sfuma si riparte a mille con Insurgence, brano dall’impatto ultra heavy, dalle ritmiche vicine al black, per poi tornare a deliziarci con cambi di tempo, mentre sono sempre i due axeman (Arpit Pradhan e Ruben Franklin) a guidare il gruppo con solos drammaticamente malinconici. Stupendo il momento acustico che ci regala Effacing the Esotery, prima che il brano esploda in un vortice di suoni ed il basso introduca l’ennesima cavalcata chitarristica. Continua alla grande l’altalena tra momenti acustici ed altri elettrici (Dissimulation: An Overture), così l’album risulta affascinante e mai noioso, grazie al sapiente uso da parte della band di cangianti momenti tra calma apparente e furia death (Cryptic Convulsion). Tecnicissimi tutti i musicisti coinvolti, anche se la bravura tecnica non inficia l’emozionalità di un lavoro veramente ben riuscito. Crypts Of Dissimulation si chiude con un’altra perla acustica dal titolo Psalm of Deliverance, che mette la parola fine ad un disco sorprendente inciso da una band che merita d’ essere scoperta.

Tracklist :
1. Savor the Defiance
2. Insurgence
3. Effacing the Esotery
4. Dissimulation: An Overture
5. Cryptic Convulsion
6. Psalm of Deliverance

Line-up:
Kartikeya Sinha – Bass
Sagar Siddhanti – Drums
Ruben Franklin – Guitars
Arpit Pradhan – Guitars
Supratim Sen – Vocals

FRAGARAK – Facebook

Morbo – Addiction To Musickal Dissection

Death metal puro ed incontaminato per l’esordio dei Morbo.

E’ incredibile come nella musica non si debba mai dare nulla per scontato.

Dopo anni in cui il death metal è stato usato come base di partenza per arrivare ad altre sonorità, contaminandolo con qualsivoglia diavoleria, ora come dal nulla spuntano, ovunque, band che tornano a suonarlo puro, incontaminato, ovvero quello che oggi viene riconosciuto come l’old school death; un po’ come il thrash, due generi che il destino ha voluto fossero i più utilizzati dalle nuove band per trovare una propria strada nel groviglio di vie che compongono la Highway to Hell della musica estrema di oggi. Quando ormai tutti davano per morti i due generi a livello classico ecco che da ogni parte le radici del male tornano a spuntare dal terreno ed i germogli di questa malefica pianta ricominciano a distribuire nell’aria il putrido lezzo del frutto metallico. I Morbo sono una band di Roma, al debutto per Memento Mori, etichetta che ha dato non poche chance ai gruppi che si cimentano nel death classico, hanno all’attivo un demo del 2010 dal titolo “Eternal City of the Dead” e ci danno in pasto questo massacro senza compromessi, vicino al sound di Autopsy e Benediction. Produzione senza orpelli, molto asciutta e otto brani per mezz’ora di devastante viaggio nel più puro modo di concepire il genere. Growl da manuale, solos sparati e rallentamenti al limite del doom fanno di questo lavoro un must per gli amanti del genere, che troveranno tra i solchi di Abominangel, Pagan Seducer, Dawn of the Dying Living e Anesthesia Awareness attitudine da vendere, legata ad un buon songwriting, il che rende il debutto della band romana l’ennesimo pugno in faccia assestato dal genere a chi pensa che il death metal classico sia ormai di questi tempi obsoleto. Se ne ricomincia a parlare frequentemente nell’underground di band come i Morbo e di album come Addiction to Musickal Dissection, ora aspettiamo la benedizione dei luminari del mainstream metallico per la totale conferma che il death metal è tornato ad essere cool, così forse riusciremo a non pronunciare più quel fastidioso “old school”.

Tracklist:
1. Abominangel (Let Them Stink of Fear)
2. Decomposmopolitan
3. Pagan Seducer
4. Dawn of the Dying Living
5. Kaleidoscopic Incubus
6. Rending the Ephemeral Veil
7. As Sharp as the Blade of Blasphemy
8. Anesthesia Awareness

Line-up: Giorgio – Guitars, Bass
David – Drums
Andrea “Corpse” Cipolla – Guitars
Mirko “Offender” Scarpa – Vocals

MORBO – Facebook

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Infest – Cold Blood War

Quinto full length del combo serbo degli Infest, devastante monolite death/thrash dai rimandi slayerani.

Jagodina, Serbia centrale, sulle rive del fiume Belica: il death/thrash si chiama Infest, combo dalla ormai nutrita discografia che conta dall’anno di esordio (2002) due demo, un Ep e quattro full-length.

Il loro ultimo, malefico parto si intitola Cold Blood War, un carro armato che schiaccia sotto i suoi micidiali cingoli i nostri poveri padiglioni auricolari a forza di mitragliante death thrash, diviso in parti uguali tra la tradizione dell’Est europeo e il metal estremo di scuola Slayer. Ne escono trenta minuti di belligeranza musicale dove i nostri sguazzano come soldati in un campo di battaglia, tra violentissime accelerazioni collocate in un songwriting già di per sé votato alla velocità e alla pura violenza sonora; death metal che non lascia spazio a nessuna traccia di melodia, per attaccarci con sfuriate metalliche precise mirate a uccidere senza nessuna pietà. Questo devastante platter, oltretutto, è suonato in maniera impeccabile dai quattro musicisti, ormai con la dovuta esperienza per far risultare il loro suono estremamente godibile nella sua furia iconoclasta, partendo dalle vocals di Zoran Sokolovic, neo Tom Araya perfetto con il suo vocione rabbioso, dalle graffianti rasoiate dell’axeman Tyrant e finendo con una sezione ritmica composta dal martellante drumming della piovra Zombie e dal basso di Warlust. In tutto questo monolitico e spaccaossa lotto di brani spiccano Destroyer of Their Throne, song successiva alla classica Intro dai tratti horror apocalittici, Among the Fallen Ones, la superba e unica traccia dove la velocità lascia spazio ad un accenno di ritmica leggermente più cadenzata ed intitolata Demonic Wrath, la title-track dal riff più modernista che si trasforma in un macigno thrash/death che tutto travolge e il razzo terra-aria Terror Lord, esaltante brano dal riff esplosivo che sarà colpevole di spaccare non poche teste in sede live. Album da avere se siete amanti di queste sonorità, uno dei più riusciti degli ultimi mesi, senza se e senza ma.

Tracklist:
1. Intro
2. Destroyer of Their Throne
3. Of Everlasting Hate
4. Kill Their Weakness
5. Among the Fallen Ones
6. Demonic Wrath
7. Nuclear Warlust
8. Cold Blood War
9. Terror Lord
10. Neka Vatre Gore (bonus)

Line-up:
Tyrant – Guitars (lead)
Vandal – Vocals, Guitars
Zombie – Drums
Warlust – Bass

INFEST – Facebook

Hour Of Penance – Regicide

Capolavoro brutal death confezionato dalla band romana Hour Of Penance.

Devastante sotto ogni punto di vista, il nuovo album dei romani Hour Of Penance è a tutti gli effetti un prodotto di livello internazionale e si iscrive di diritto alla sfida per il miglior album del genere in questo 2014.

Un’avventura, quella del combo della capitale, iniziata nel 2000 ed arrivata al sesto full-length che segue “Sedition”, pubblicato due anni fa.
E’ cambiata la sezione ritmica, con gli innesti di Marco Mastrobuono al basso e della macchina da guerra James Payne, dietro le pelli nell’ultimo album degli Hiss From The Moat ed autore di una prova eccezionale.
Si ha la sensazione di trovarci ad un livello talmente alto che, per descriverne il sound a chi ancora non li conoscesse, non si deve parlare di influenze ma, al limite, di somiglianze, proprio perché gli Hour Of Penance hanno dalla loro una personalità da grande band che li aiuta ad avere un loro suono distinguibile; il loro brutal death, che definire tecnico è un eufemismo, a questo giro fa meraviglie risultando un macigno nichilista, di una profondità e magniloquenza disarmante.
Copertina da ultimi fotogrammi dell’apocalisse, con un ultimo processo inferto dai suoi tirapiedi al figlio dell’altissimo e una bordata sonora che annichilisce, una discesa senza freni tra drumming disumano, assoli e riff spettacolari e suonati alla velocità della luce, accenni di canti gregoriani che arricchiscono l’atmosfera di devastazione con un quid sinistro di epico disfacimento (Desecrated Souls, Sealed Into Ecstasy).
Non c’è speranza né il benché minimo accenno di salvezza, l’atmosfera di caos è sovrana e il gruppo sguazza in questo sfacelo, lasciando che il growl da Oscar di Paolo Pieri infligga il colpo mortale ai nostri poveri padiglioni auricolari.
Senza un attimo di respiro si fugge inseguiti dai quattro, che continuano il massacro senza soluzione di continuità, la sezione ritmica offre la sensazione di un palazzo che crolla, precisa e potente asseconda le due chitarre (lo stesso Paolo Pieri e Giulio Moschini) che come mitragliatori impazziti sparano riff sull’ascoltatore sterminando chiunque e non lasciando prigionieri.
Album che alla fine lascia la gradevole sensazione di aver potuto godere della prova di una delle migliori band brutal in circolazione, inutile dire che l’acquisto è assolutamente obbligato.

Tracklist:
1. Through the Triumphal Arch
2. Reforging the Crowns
3. Desecrated Souls
4. Resurgence of the Empire
5. Spears of Sacred Doom
6. Sealed into Ecstasy
7. Redeemer of Atrocity
8. Regicide
9. The Sun Worship
10. The Seas of Light
11. Theogony

Line-up:
Paolo Pieri – Vocals, Guitars
Marco Mastrobuono – Bass
James Payne – Drums
Giulio Moschini – Guitars

HOUR OF PENANCE – Facebook

Thrash Bombz – Mission Of Blood

Thrash metal senza compromessi per l’esordio decisamente riuscito dei siciliani Thrash Bombz

Mi è capitato spesso di parlare di thrash metal e molte volte mi sono scontrato con chi confonde i gruppi che alla loro musica aggiungono solo elementi riconducibili al genere (come nel death o ultimamente nel metalcore) e chi invece il thrash lo suona per davvero, puro ed incontaminato.

È il caso dei siciliani Thrash Bombz e del loro esordio sulla lunga distanza dal titolo Mission Of Blood, arrivato a noi tramite la label tedesca Iron Shield Records, quaranta minuti di thrash metal tout-court proveniente direttamente dagli anni ‘80.
La band di Agrigento ci spara in faccia dodici brani dove non c’è spazio per nulla che non sia metal suonato a velocità sostenuta, facendo propria la lezione delle band americane,che di questo genere sono le regine, primi Metallica, Exodus e compagnia di distruttori.
In quest’album i fan troveranno pane per i loro denti, grazie a vocals rabbiose come vuole la tradizione ad opera di Leonardo Botta, una sezione ritmica devastante composta da Vincenzo Lombardi dietro alle pelli e Angelo Bissanti (Bloodevil) al basso e due chitarre taglienti come rasoi suonate da Giuseppe Peri e Salvatore Li Causi.
Basterebbe lo strumentale The Curse per convincervi di essere al cospetto di una band che sa il fatto suo, semplicemente straordinaria nelle sue melodie chitarristiche ed esempio lampante di quanto il vecchio thrash , se suonato bene, non ha nulla da invidiare a generi considerati più”nobili” ma, fortunatamente il bello non finisce qui, e Thrash Bombz (la song), Necrosis, City Grave, Dead Body Hanged esplodono in tutta la loro potenza, regalando spunti di metal suonato con gli attributi, passione e buona tecnica, come si faceva una volta.
Sicuramente questo ottimo album non avvicinerà nessuno che non sia fan del genere, ma è sicuramente una buona alternativa ai soliti nomi e ancora una volta è una band italiana a portare fiera la bandiera del thrash metal classico in un periodo, Death Angel a parte, di vacche magre dove le band di maggior fama stentano con dischi scialbi e poco incisivi; ma a noi poco importa e ci godiamo Mission Of Blood.

Tracklist:
1. Mosh Tank
2. City Grave
3. Thrash Bombz
4. Human Obliteration
5. Mission of Blood
6. Command of Injury
7. Dead Body Hanged
8. Fear of the Light
9. Necrosis
10. A.H.B
11. The Curse
12. Toxic Waste

Line-up:
Giuseppe “UR” Peri – Bass, Guitars (rhythm), Vocals (backing)
Salvatore “Skizzo” Li Causi – Drums, Guitars (lead)
Leonardo “Thrash Maniac” Botta – Vocals
Angelo “Destruktor” Bissanti – Bass, Vocals (backing)
Vincenzo “Vihol” Lombardi – Drums

THRASH BOMBZ – Facebook

Hangarvain – Best Ride Horse

Esordio bomba per i napoletani Hangarvain con il loro Best Ride Horse, hard rock zeppo di influenze southern e post grunge.

Comincio ad avere un’età, e botte di vita come questo disco lasciano il segno su un vecchio sognatore metal/rocker come me che, per non farsi mancare nulla, deve anche spiegare le sensazioni provate nell’ascoltare una decina di canzoni che ti entrano nelle vene e cominciano a circolare nell’organismo: la pressione si alza, le tempie sembrano esplodere ed è quasi impossibile rimanere seduti e insomma, tutto questo quando non si è più dei ragazzini può anche far male …

La Red Cat immette sul mercato questa bomba sonora dei napoletani Hangarvain, dal titolo Best Ride Horse, dieci brani nei quali  l’hard rock americano ricamato di fantastiche sfumature southern ed il post grunge si incontrano e, amoreggiando, danno alla luce una creatura perfetta, una raccolta di hit da infilare nell’autoradio del vostro “cinquefette” (beh siamo in Italia, non scordiamolo) e partire liberi, dalla Valtellina alla Sicilia, trasformando le vie della nostra penisola nelle infinite super strade americane. Sergio Toledo Mosca è il fantastico cantore di tanta meraviglia, voce dal tiro micidiale che diventa malinconicamente southern nelle splendide ballad che profumano di Lynyrd Skynyrd, strappando più di una lacrima al vecchio di cui sopra. Alessandro Liccardo, alla sei corde, è invece colpevole di far saltare le coronarie a suon di riff su riff stracolmi di groove, per poi tornare ad imbastire accordi acustici al limite del roots; Alessandro Stellano al basso e Andrea Stipa alle pelli sono la gettata di cemento su cui è costruito il sound degli Hangarvain, una sezione ritmica tostissima, piena, sempre presente e aiutata da una produzione da top band ad opera dello sesso chitarrista. Dai primi due pezzi (Through the space and time e Get on) si intuisce subito che l’album non farà prigionieri, con due bordate hard rock trasudanti groove, con quel quid post grunge (su tutti i Creed) che piacerà anche ai più giovani, ma a mio parere sono le ballad a fare la differenza e la prima di queste è già un capolavoro (Turning back on my way). Free bird e Knock back doors tornano su ritmi sostenuti ma più vicini alla frontiera americana, mentre Way to salvation è l’ennesima buona ballad; Hesitation sorprende per l’uso della doppia voce, una creediana e l’altra che sembra provenire direttamente dai primi anni settanta, prima che Father to shoes ci avvolga nel più confortevole spirito southern: un brano capolavoro con inizio acustico e la chitarra che prende per mano il pezzo con riff da applausi a scena aperta. Last time e la conclusiva A life for Rock’n’roll mettono la parola fine a un disco di assoluta eccellenza, da far ascoltare e riascoltare a chi ci chiede perché amiamo tanto il rock: Best Ride Horse è la migliore risposta.

Tracklist:
1.Through the space and time
2.Get on
3.Turning back on my way
4.Free bird 5.Knock back doors
6.Way to salvation
7.Hesitation
8.Father shoes
9.Last time
10.A life for rock’n’roll

Line-up:
Sergio Toledo Mosca – Vocals
Alessandro Liccardo – Guitars,Backing Vocals
Alessandro Stellano – Bass, Backing Vocals
Andrea Stipa – Drums

Sercati – The Rise Of The Nightstalker (Tales Of The Fallen PT II)

Continua la saga del Nigthstalker, concept atmospheric black metal ideato dai belgi Sercati.

Secondo capitolo della saga del Nightstalker ad opera dei belgi Sercati, trio black metal molto atmosferico, che esordì con due demo nel 2009 ed arrivò al primo capitolo intitolato “Tales Of the Fallen” nel 2011.

La storia fantasy raccontata in questa saga parla di un angelo e della sua discesa sulla terra per salvare se stesso e l’umanità, aiutato e protetto da un’entità, appunto il Nightstalker.
Il trio di Liegi, musicalmente, è molto vicino al dark/gothic più che al black: l’album, infatti, risulta molto melodico e solo lo screaming, peraltro punto debole del lavoro, avvicina l’album al black metal.
Le orchestrazioni sono ben congegnate, l’uso del piano e degli strumenti acustici, che in questo lavoro trovano molto spazio,rendono l’ascolto molto vario.
Anche nelle parti dove la band velocizza il suono, l’aura e’ sempre atmosferica e non si va oltre ad una ritmica cadenzata; peccato, ripeto, per lo screaming da folletto (sullo stile del primo Mortiis) che rovina un po’ l’eleganza mostrata dal songwriting.
Accenni al dark (Hunt Between Fallen) e poi tanta melodia per un lavoro, che potrebbe risultare appetibile a molti fan dai gusti diversi, ma anche spunti vicini al folk metal ed uno spirito prog che aleggia su gran parte di un disco oggettivamente ben suonato dai ragazzi belgi, peraltro ancora molto giovani.
Meritano un accenno Until My Last Breath, strutturata su un riff classico, l’appendice acustica di In Equilibrium, accompagnata da delicate tastiere, bissata da My Legacy, anch’essa di chiara ispirazione primo Mortiis e la conclusiva The Hero We Don’t Deserve, brano che racchiude tutte le atmosfere di un lavoro da ascoltare in completo relax per farsi accompagnare, sulle ali dell’angelo, dentro i meandri della musica dei Sercati.

Tracklist:
1. Rememberance
2. Hound from Hell
3. Until My Last Breath
4. Hunt Between Fallen
5. In Equilibrium
6. My Legacy
7. Face to Face
8. No More Fear
9. The Hero We Don’t Deserve

Line-up:
Steve “Serpent” Fabry – Bass, Vocals
Yannick Martin – Drums
Florian Hardy – Guitars

SERCATI – Facebook

The Sunburst – Tear Off The Darkness

Gran bel disco l’esordio dei savonesi The Sunburst, il meglio dell’ultimo ventennio di hard rock alternativo tutto in un unico album.

Questo è il classico album che, se registrato da una band americana, farebbe sfracelli occupando anche le copertine della stampa specializzata, quella con le copertine lucide e le recensioni da tre righe, ma, purtroppo per loro, i The Sunburst sono liguri (Savona) e allora, pur avendo concepito un gran disco d’esordio, sono destinati a lottare e non mollare mai.

Il loro Tear Off The Darkness è un album di hard rock alternativo nel quale le influenze del passato si sentono chiaramente pur risultando un disco moderno, fresco, suonato benissimo, cantato ancora meglio, che non ha (appunto) nulla da invidiare ai pur ottimi prodotti che giungono dagli States. Curiosi? Bene, allora fare un passo indietro è doveroso per conoscerli meglio: la band nasce nel 2012 da un idea della coppia Davide Crisafulli (cantante e chitarra ritmica) e Luca Pileri (chitarra solista), ai qiuali si aggiunge la sezione ritmica composta da Stefano Ravera alla batteria e, in questo 2014, Francesco Glielmi al basso. In quello stesso anno, con la prima line-up, registrano un Ep ai Nadir Studios di Tommy Talamanca ottenendo recensioni positive, facendo diverse date dal vivo e, dopo uno stop di qualche mese, i The Sunburst riprendono la strada che porta a Tear Off The Darkness. L’inizio dell’album è da ovazione, con Follow Me che riempie la stanza con un riff corposo ed un ritornello cantabile già al primo ascolto, talmente è bello e memorizzabile; scopriamo così che alla band piace andare giù pesante, grazie ad assoli melodici e accelerazioni ritmiche non così distanti dal metal, con Davide che si conferma un signor cantante: la sua voce bella e carismatica affascina e rapisce, e siamo solo alla prima traccia. Infatti arrivano Something Real e la stupenda The Flow, dal riffone alla Black Label Society a farci ormai innamorare di questo bellissimo lavoro; si continua a viaggiare su territori di eccellenza con Be Yourself, con le chitarre ora all’unisono, ora con parti soliste melodiche ad ergersi a protagoniste del brano, altro potenziale singolo, così come Left Behind. Gli Alter Bridge sono forse il riferimento che ad un primo ascolto più di altri escono maggiormente allo scoperto, soprattutto a mio parere l’uso della voce di Davide, dallo stile più metallico come accade nella band americana, ma è un po’ tutta la scena degli ultimi vent’anni ad essere assimilata dai nostri. Louder Than Love, il disco più bello dei Soundgarden, è tutto nel riff di Rising, conclusiva e stupenda song che inizia come e meglio di Hands All Over, picco di quel magnifico lavoro, per poi virare su umori più personali con un rallentamento a metà brano ed una sfuriata conclusiva con la quale tutta la band si congeda alla grande. Prodotto benissimo, l’album è stato registrato ai Greenfog Studios di Mattia Cominotto a Genova per poi essere masterizzato e mixato ad Imperia negli Ithil World Studios da Giovanni Nebbia. Mai avuto dubbi sulle qualità delle nostre band quando si tratta di rock alternativo ma un lavoro come questo, assieme a quello degli Swallow My Pride recensito ultimamente, dimostrano ancora una volta che in Italia ci sono tutte le potenzialità per giocarsela alla pari con il resto del panorama musicale internazionale, basta volerlo e supportare una scena che lo merita.

Tracklist:
1.Follow me
2.Something real
3.The flow
4.Be yourself
5.Left behind
6.Unforgiven
7.Another day
8.Rising

Line-up:
Davide Crisafulli – Voce,Chitarra ritmica
Luca Pileri – Chitarra solista
Stefano Ravera – Batteria
Francesco Glielmi – Basso

THE SUNBURST – Facebook

TEMPERANCE – Intervista

Quattro chiacchiere con Marco Pastorino, chitarrista e compositore dei Temperance, band rivelazione dei primi mesi del 2014 con l’omonimo album d’esordio, nonchè pilastro dei Secret Sphere.

I Temperance hanno tutte le carte in regola per diventare la new sensation del metal tricolore: il loro disco di esordio omonimo stupisce per freschezza compositiva ed un appeal commerciale elevatissimo. fornendo al symphonic power metal un approccio moderno che si discosta dalle uscite classiche del genere, andando a competere sullo stesso piano delle top band internazionali.
Ne abbiamo parlato con Marco Pastorino compositore, chitarrista e cantante, conosciuto anche per la sua militanza nei grandi Secret Sphere, disponibilissimo nel raccontarci nascita e sviluppo del progetto Temperance.

IYE Ciao Marco, quando nasce il progetto Temperance?

Ciao Alberto! I Temperance nascono verso agosto 2013. Ci siamo ritrovati in sala prove per cercare di sviluppare un certo tipo di sound che nessuno di noi cinque aveva mai avuto la possibilità di approfondire. Dopo pochi istanti , ci siamo resi conto di avere in mano un’ottima band; mi preme poi sottolineare quanto in brevissimo tempo tutti noi siamo riusciti a legare umanamente. Una cosa scontata ma che molti sottovalutano sempre.

IYE Al di là della provenienza di 4/5 dei musicisti dai Bejelit, esiste una sorta di continuità musicale tra le due band oppure i Temperance vanno considerati una realtà del tutto a sè stante?

Le due band sono assolutamente due cose completamente diverse. Contrariamente al passato, Temperance è un nome nato prima di tutto da una forte passione, una band che dal primo momento ha visto un mood di lavoro completamente diverso. Ma non ci fermiamo qui; in tutti noi c’è la gioia di suonare, confrontarsi e prima di tutto, divertirsi.

IYE Ho trovato entusiasmante la prova di Chiara Tricarico, quali sono state le modalità del suo coinvolgimento?

Chiara è stata la prima persona a cui personalmente ho pensato quando stava venendo fuori la possibilità di provare, come ti dicevo, a sviluppare un certo tipo di sound. Ricordo benissimo quando mi ha mandato i primi provini di qualche pezzo e siamo rimasti folgorati. Alla prima prova in sala , ha portato una prima bozza di quella che è diventata Lotus, e non abbiamo fatto altro che innamorarci della sua voce. Con il passare delle settimane poi, ci siamo resi conto di aver trovato la persona giusta non solo dal lato musicale, ma soprattutto quello umano.

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IYE Come si è sviluppato il lavoro di composizione?

Io e Giulio abbiamo scritto interamente tutte le musiche nel giro di poche settimane. L’ispirazione del momento era tale da averci permesso tutto ciò, diciamo. Poi noi due, insieme al grande apporto di Chiara, abbiamo dato vita a tutti i testi del disco; mi preme sottolineare questo lavoro, perché forse per la prima volta ho avuto la possibilità di entrare totalmente nella stesura di essi e devo ammettere che molte parti che Chiara e Giulio hanno scritto, mi emozionano come non mai.

IYE Simone Mularoni alla produzione è ormai una garanzia di qualità. Il fatto che anch’egli sia un rinomato chitarrista, che genere di valore aggiunto può portare?

Simone per me ormai è il numero uno assoluto delle produzioni, non ha nulla da invidiare a tanti producer più celebrati, a mio parere. Il suo essere un ottimo chitarrista, nonché un grande compositore, non fa che alzare il livello sonoro finale; vuoi per piccoli consigli su arrangiamenti, alcuni lavori di post produzione, nonché nel consigliare alcune scelte a livello di mix naturalmente.

IYE L’album è un eccellente mix di brani con un feeling moderno e altri più in linea con il symphonic power tradizionale: quali sono le band della scena che preferisci e che, magari, possono rappresentare per voi un eventuale punto di riferimento?

Ti ringrazio molto per le belle parole. Personalmente rimango legatissimo a Nightwish e Within Temptation, parlando di symphonic metal, ma potrei citarti decine e decine di band. Il fatto che tutti noi abbiamo vastissimi ascolti penso che possa solo portare una ventata di freschezza al sound in generale.

IYE “Temperance” possiede un appeal davvero elevato grazie ad una vena melodica straordinaria: quali aspettative avete dal punto di vista commerciale?

Noi mettiamo al primo posto le melodie forti, che possano coinvolgere appieno l’ascoltatore; da fan assoluto di tantissimi cantanti pop, non posso far altro che scrivere una buona melodia e costruirci sopra una canzone. Le nostre aspettative sono quelle di portare avanti e in giro per il mondo la nostra musica, quello che poi ne arriverà sarà la semplice conseguenza di ciò. Suonare è la cosa che amiamo di più nella vita; prenderemo quello che arriverà con il massimo dell’entusiasmo.

IYE Ormai da diversi anni sei uno dei protagonisti della scena italiana: quale opinione hai dello stato di salute del metal nostrano in questa prima parte del nuovo millennio?

Il metal e il rock italiano godono di ottima saluta, come non mai a mio parere, grazie anche al lavoro incessante di tantissime band , che siano i più conosciuti Lacuna Coil, Elvenking o Fleshgod Apocalypse, piuttosto che Ready Set Fall, Overtures, Hell In The Club o quant’altri. Sta crescendo piano piano il supporto per le band della nostra penisola ma, purtroppo, siamo ancora lontani anni luce da quello che succede in Scandinavia, Germania, ecc. . Però sicuramente il livello qualitativo si è alzato in maniera pazzesca.

IYE Spesso le band tricolori hanno la possibilità di suonare all’estero di fronte a platee numericamente importanti, mentre ciò non accade, se non di rado, dalle nostre parti: secondo te questo accade per un problema culturale che mette ai margini la musica metal, per la congiuntura economica sfavorevole o, ancora, per quella deprecabile forma mentale che privilegia l’attenzione solo nei confronti di quei pochi, soliti, grandi nomi?

Purtroppo sono poche le band, italiane e non, che hanno un budget per cui i locali possano fare investimenti. Lo stesso discorso a mio parere vale anche per le band più undeground. Come fa un locale a pagare 2-3 band a sera se sa per certo che non avrà ingressi? La crisi c’è per tutti, dal localino italiano, fino all’arena europea. Il problema sta a mio parere nel fatto che il supporto per la musica live è molto sceso negli ultimi anni e parecchia gente predilige magari supportare pochi eventi o festival, piuttosto che delle piccole date durante l’anno. Naturalmente ci sono alcune eccezioni, per fortuna; le band che lavorano in una certa maniera, ti porto l’esempio dei Destrage, ancora nel 2014 riescono a suscitare una grande attenzione e un grande interesse nei confronti del pubblico. Il lavoro paga sempre a mio parere.

IYE Quello che vi porta a dare sempre il 100%di fronte a 50 persone come dinnanzi a 2000 deriva più dalla passione o dalla professionalità?

Si ricollega totalmente al discorso di prima; non dovrebbe mai cambiare nulla nel suonare di fronte a 10 o 50.000 persone. Quelle 10 persone hanno pagato un biglietto e sono venute per vedere la tua band, è giusto mostrargli uno spettacolo al top, come se ci fossero appunto 50.000 spettatori. Anche questo dà i suoi frutti; negli anni ho visto band suonare di fronte ad una manciata di persone per poi passare in pochi anni a farlo di fronte a platee immense. Penso che tanti si ricordino, per esempio, molti vecchi show dei Gotthard che 15 anni suonavano di fronte a 50 persone mentre ora, non così tanto tempo dopo, si esibiscono davanti a platee composte da migliaia di spettatori.

IYE L’estate è ormai alle porte, avete già programmato delle date dal vivo o la partecipazione a qualche festival?

Certo, suoneremo in diversi festival italiani che annunceremo a breve, tra cui Il Metal Camp Sicily ad agosto in compagnia di Korpiklaani, Marduk ecc. Siamo appena entrati in campo, ma non vediamo l’ora di calcare più palchi possibili.

pastorinogrande

IYE Oltre ad essere un ottimo chitarrista sei anche un cantante decisamente dotato: nei Temperance e nei Secret Sphere ti ritrovi a fianco di due grandi vocalist come Chiara (per noi una piacevole novità) e Michele Luppi (che invece non ha certo bisogno di presentazioni). Quali differenze ci sono nell’accompagnare una voce femminile rispetto ad una maschile?

Ti ringrazio per le belle parole. Lavorare con Chiara e Michele è naturalmente un qualcosa di diverso a livello totale. Li lega però la passione nel canto e nella musica che, personalmente, è quello che cerco di più nelle persone con cui suono o collaboro. Michele era uno dei miei cantanti preferiti da quando avevo 16 anni, ho sempre ammirato la sua completa dedizione al canto, e quando abbiamo iniziato a suonare insieme è stato come un sogno che si trasforma in realtà; al suo fianco ho potuto imparare un sacco di cose, e molte altre ne imparerò ancora.
Chiara è giovanissima ma possiede un grande talento pronto ad esplodere; negli anni ha avuto la possibilità di confrontarsi con diverse situazioni e penso che i Temperance gli abbiamo dato l’opportunità di maturare ulteriormente e di aprire la sua voce a nuove influenze e prospettive.

IYE Per finire una domanda doverosa: ci sono novità in casa Secret Sphere?

Attualmente stiamo definendo gli ultimi dettagli per “A Time Never Come”, il nostro secondo album, che uscirà nei prossimi mesi completamente risuonato dalla nuova line-up con Michele alla voce, naturalmente. Ma oltre a questo stiamo lavorando a molte cose, tra cui la stesura del successore di “Portrait Of A Dying Heart” che vedrà la luce prossimamente.

Holy Shire – Midgard

Interessante debutto per i lombardi Holy Shire,che si allontanano dai soliti clichè symphonic per un album folk/epic metal d’autore.

Interessante debutto sulla lunga distanza per i milanesi Holy Shire, freschi di firma con Bakerteam e autori di un album che di questi tempi riesce ad essere originale, allontanandosi dai soliti clichè power, gothic e symphonic cari a molte band della scena, mostrando un approccio più ottantiano, meno pomposo ma altrettanto riuscito.

Fondato nel 2009, con all’attivo un demo ed un Ep (“Pegasus” – 2011), il gruppo è composto da ben otto elementi; Midgard, che si rifà per la maggior parte, a livello di tematiche, alla saga “Il trono di spade”, opera Fantasy di George R.R Martin, è un’opera prima affascinante e molto raffinata. Di non semplice lettura, il lavoro come detto è spogliato da tutti quegli elementi che caratterizzano le classiche opere che tanto vanno di moda in questi tempi, qui l’heavy metal dalla forte epicità è levigato da una spiccata connotazione folk cantautorale e da tanto Rock; i suoni, mai troppo magniloquenti nelle orchestrazioni, rendono il disco sognante, maturo nel saper trasmettere le atmosfere senza forzare la mano, arrivando all’ascoltatore in modo genuino. Gli Holy Shire sanno anche essere incisivi, infatti chitarre metalliche e ritmiche più heavy sono protagoniste in brani potenti ed epici come l’opener Bewitched, The Revenge of The Shadow e Holy War, mentre il flauto e le tastiere ricamano melodie che si fanno a tratti incantevoli nelle magnifiche Winter Is Coming e Holy Shire. Buone le voci delle vocalist e di spessore le prove dei musicisti, in particolare quella di Ale che coinvolge con il suono del suo flauto, strumento protagonista indiscusso di tutto il lavoro e che, a tratti, riprende sonorità provenienti direttamente dagli anni ’70 (Jethro Tull). È indubbio che l’epic metal ottantiano faccia parte del background della band, così come penso siano ascolti abituali per il gruppo quelli di cantanti folk come Loreena McKennitt, elemento che contribuisce a fornire quel tocco di originalità rendendo quello che poteva essere un “semplice” album metal un lavoro d’autore. Complimenti alla band, quindi, così come alla Bakerteam per aver dato fiducia ad un gruppo dalle sonorità leggermente fuori dagli schemi abituali. Senza ombra di dubbio, buona la prima.

Tracklist:
1. Bewitched (My Words Are Power)
2. Winter Is Coming
3. Gift of Death
4. Overlord of Fire
5. Holy Shire
6. The Revenge of the Shadow
7. Beyond
8. Holy War
9. Midgard

Line-up:
theMaxx – Drums
Reverend Jack – Keyboards
Aeon – Vocals (lead)
Ale – Flute
Andrew Moon – Guitars (lead)
Ed Gibson – Guitars (rhythm)
Piero Chiefa – Bass
Sisiki – Vocals (choirs)

HOLI SHIRE – Facebook

Ancient Bards – A New Dawn Ending

Gli Ancients Bards si confermano come una delle band di riferimento per il symphonic power metal con un album stupefacente.

Magnifico è la parola che più di altre può descrivere un’opera come il terzo album dei nostrani Ancient Bards: i musicisti romagnoli, ormai considerati una delle band di punta del power sinfonico europeo, non deludono fan e addetti ai lavori e se ne escono con un disco che si candida fin da ora come il top nel genere in questo anno di grazia 2014.

Per chi ancora non li conoscesse, gli Ancients Bards sono attivi dal 2006 e hanno all’attivo, prima di questo, due album: l’esordio del 2010 “The Alliance Of The Kings”, che ne faceva intuire le grandi potenzialità, ed il bellissimo “Soulless Child”, del 2012. Il nuovo A New Dawn Ending supera la più rosee aspettative, confermando le qualità della band e regalando al metal una nuova regina: Sara Squadrani. La vocalist, di ritorno dall’esperienza con Anthony Lucassen sul nuovo album del suo progetto Ayreon, sfodera una prova magnifica: il suo contributo in personalità e talento fa di questo lavoro, già di per sè bellissimo, un oggetto che, al di là dei gusti, dovrebbe essere presente sullo scaffale di qualsiasi appassionato di metal. Hanno fatto passare tre anni prima di tornare sul mercato, ma è valsa la pena attendere visti i risultati; infatti, il gruppo torna più che mai consapevole della propria forza e l’ascoltatore così si trova davanti ad un album devastante sotto ogni profilo: una produzione stupefacente, un songwriting grandioso, musicisti al top ed un sound epico, magniloquente e sinfonicamente cinematografico, dove il power metal è spogliato dei soliti clichè rivestendolo di un’eleganza metallica fuori dal comune. Allora va da sè che, dall’intro Before The Storm, verrete investiti da questa travolgente esperienza e i settanta minuti circa di durata vi sembreranno un attimo, presi per mano dalla stupenda voce di Sara che vi accompagnerà in questo sogno fatto di orchestrazioni, accelerazioni, emozionanti atmosfere epiche, bordate di cannoni power scagliate dalle mura del castello del quale la vocalist è magnifica sovrana. A Greater Purpose, l’esaltante Across This Life, In My Arms ,scelta come singolo, The Last Resort, dove appare in qualità di ospite “Re” Fabio Lione, ed i sedici minuti della conclusiva title-track, sono solo alcuni dei passaggi di quest’album che rimarrà nel mio stereo per molto, molto tempo. Mette i brividi pensare all’evoluzione di questi ragazzi in soli tre full-length e se, come leggenda vuole, il terzo album per una band è quello della conferma e della consacrazione, allora siamo senza dubbio davanti ad una delle migliori realtà symphonic metal del pianeta, punto.

Tracklist:
1. Before the Storm
2. A Greater Purpose
3. Flaming Heart
4. Across This Life
5. In My Arms
6. The Last Resort
7. Showdown
8. In the End
9. Spiriti Liberi
10. A New Dawn Ending

Line-up:
Martino Garattoni – Bass
Daniele Mazza – Keyboards
Claudio Pietronik – Guitars
Sara Squadrani – Vocals
Federico Gatti – Drums

ANCIENT BARDS – Facebook

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