Temtris – Rapture

Torna a ruggire la pantera Genevieve Rodda, graffiante e selvaggia vocalist dei Temtris, band storica del metal classico australiano.

Torna a ruggire la pantera Genevieve Rodda, graffiante e selvaggia vocalist dei Temtris, band storica del metal classico australiano.

Attivo dall’ alba del nuovo millennio, il quintetto arriva con questo roccioso nuovo lavoro intitolato Rapture al quinto album su lunga distanza, succedendo all’ottimo Enter The Asylum, uscito un paio d’anni fa.
La formula è quella tradizionale e segue le coordinate di un heavy metal roccioso ed oscuro, debitore di quello americano conosciuto come U.S. power metal e per questo fortemente legato a gruppi come Metal Church ed Iced Earth.
Anche Rapture, quindi, non delude i fans del genere, mostrando una raccolta di brani tellurici nei quali la singer ben figura, con la sua voce potente e d’impatto.
L’album parte sgommando con una serie di bombardamenti sonori, iniziati con la title track e che non trovano tregua fino alla semiballad Serpent, brano in crescendo che risulta uno dei più riusciti dell’album.
Si prosegue tra telluriche ritmiche heavy/power, nelle quali la singer dà prova d’essere una belva al microfono e la band che si produce in una prestazione sul pezzo anche a livello tecnico.
Parasite ricorda gli americani Benedictum di Veronica Freeman, cantante che ha non poche somiglianze vocali con la pantera dei Temtris, mentre Breathe e Fight sono cannonate metalliche di una potenza impressionante.
Grande vocalist, ottima band ed album che non può che essere un nuova esplosione heavy/power targata Temtris: consigliato.

Tracklist
01. Rapture
02. Flames Of Defiance
03. Wings Of Death
04. Run
05. Serpent
06. Parasite
07. Breathe
08. Carry You
09. Fight
10. Rise Of Dawn

Line-up
Genevieve Rodda-Vocals
Anthony Fox-Guitar
Nik Wilks -Bass
Youhan AD.- Drums
Anthony Hoffman- Guitar

TEMTRIS – Facebook

Horehound – Holocene

Holocene si insinua dentro di noi, ammantato da una vena doom/stoner che raccoglie molti degli input naturalmente assimilati di questi tempi dal genere, accompagnandoli con le immancabili sfumature sludge/psichedeliche, marchio di fabbrica degli Horehound.

Il lento incedere sabbathiano viene potenziato da scariche di potente sludge/stoner metal, l’atmosfera evocativa si scontra con quella estrema creando un muro sonoro di notevole spessore con la voce che alterna litanie a rabbiose parti in growl.

Holocene si insinua dentro di noi, ammantato da una vena doom/stoner che raccoglie molti degli input naturalmente assimilati di questi tempi dal genere, accompagnandoli con le immancabili sfumature sludge/psichedeliche, marchio di fabbrica del combo statunitense.
Gli Horehound sono un quartetto di Pittsburgh attivo dal 2015, il primo album omonimo uscì un anno dopo, ed ora Holocene torna a far parlare del gruppo lungo i suoi quarantacinque minuti di musica del destino.
The Kind apre le danze, lenta ed atmosferica traccia che mette subito in risalto la potenza sludge che affiora a tratti, mentre veniamo trasportati in un lungo viaggio psichedelico, accompagnati dal canto della vocalist e violentato da rabbiosi interventi in growl che a loro volta accentuano il lato estremo del sound.
L’Appel Du Vide è il singolo e video che accompagna la nuova avventura firmata Horehound, traccia più varia nella struttura e con un ottimo lavoro ritmico risulta il brano che più alterna i vari elementi che formano la musica del gruppo, mentre con la mastodontica Sloth si torna in lidi sabbathiani.
Gli Horehound si rivelano una monolitica e potente macchina doom/stoner metal, e tra le note spesse e fangose dell’album convivono in un mondo parallelo, nel quale anche il tempo scorre lento, i Black Sabbath, gli Sleep e i Kyuss, uniti attraverso un mood psichedelico e fissati da catene sludge metal in Holocene.

Tracklist
01. The Kind
02. Dier’s Dirge
03. L’appel du Vide
04. Sloth
05. Anastatica
06. Highball
07. Hidden Track

Line-up
JD Dauer -Drums
Brendan Parrish – Guitars
Shy Kennedy – Vocals
Nick Kopco – Bass

HOREHOUND – Facebook

Jack Brain – The Seeker

The Seeker è un buon lavoro, interessante per chi ha amato gli impulsi dettati dal rock americano degli anni novanta e ancora freme per le uscite di quelle band e artisti che hanno portato il genere nel nuovo millennio.

Giacomo “Jack” Casile, alias Jack Brain, è un musicista e compositore calabrese noto nella scena underground per aver fondato realtà come Insomnia Creep, Greetings From Terronia,H.S. e No More Nothing.

Lo scorso anno è uscto il suo primo lavoro, da lui stesso interamente registrato, composto e arrangiato nei Lex Audiolab ed intitolato Epic Spleen, ora raggiunto dalla prima parte di The Seeker, opera che vede il nostro alle prese con diciotto brani divisi in due album.
Il sound del disco si rifà al rock alternativo dei primi anni novanta, e la Seattle del grunge è presente con una manciata di icone ad ispirare il musicista nostrano in questa raccolta di brani diretti.
Suoni distorti e chitarre sature di elettricità sono le peculiarità di brani che si muovono tra Alice In Chains, Nirvana e Screaming Trees, con l’unica variante newyorkese rappresentata dai seminali Sonic Youth.
Dalla title track, passando per Relive, Out Of The Box e The Frame, l’alternanza tra il grunge e l’alternative rock è ben in evidenza e sapientemente dosata da Jack Brain, il quale non rinuncia ad una dose di urgenza punk noise in Higher e qualche scarica elettrica di matrice Nine Inch Nails in Dissolute Guy.
The Seeker risulta un buon lavoro, interessante per chi ha amato gli impulsi dettati dal rock americano degli anni novanta e ancora freme per le uscite di quelle band e artisti che hanno portato il genere nel nuovo millennio.

Tracklist
1.The Seeker
2.Relive
3.Roger Rabbit
4.Out Of The Box
5.Higher
6.The frame
7.Dissolute Guy
8.Zen
9.Oroboro

Line-up
Giacomo Jack Casile – Voce,chitarre,basso,drum programming

JACK BRAIN – Facebook

KrashKarma – Morph

Morph è un album piacevole che qualche anno fa avrebbe fatto probabilmente più proseliti, mentre oggi rischia d’essere leggermente in ritardo sulle tabelle di marcia, non così tanto però per negargli un ascolto.

I KrashKarma sono un duo statunitense, formato dalla cantante/batterista Niki Skistimas e dal chitarrista/cantante Ralf Dietel, indicato come una sorta di The White Stripes del metal che, però, con la rock band di Jack e Meg White non hanno nulla a che fare.

Niente rock’n’roll,blues o garage per la coppia, che invece ci travolge con un hard rock moderno, ispirato dall’alternative metal a cavallo dei due millenni, e da qualche più poderosa ispirazione nu metal.
Il primo vagito della band risale al 2009 con il primo ep, seguito da due full length, Straight To The Blood del 2011 e Paint The Devil del 2015 che hanno portato buoni giudizi e quel pizzico di popolarità che sicuramente verrà rimpinguata dopo l’uscita di Morph, ultimo lavoro composto da una dozzina di brani da buon appeal, con il buon uso delle voci che si alternano in tracce dure e melodiche, pregne di chorus che catturano fin dal primo ascolto.
Ai KrashKarma non manca certo la carica metallica, su cui si strutturano brani dal buon impatto, e le ispirazioni si muovono tra le top band del periodo in cui il genere faceva sfracelli sui canali e radio satellitari, con accenni più o meno espliciti a Linkin Park, Avril Levigne e Disturbed.
A tratti ci vanno giù veloci e diretti i ragazzi: Morph Into A Monster alterna infatti ritmiche veloci e dirette a chorus di pesantissimo nu metal, risultando il brano più devastante di un lotto di brani che, imperterrito, continua ad alternare melodia e violente sciabolate di hard rock moderno, con la voce della Skistimas in grado di alzare la temperatura quando si fa carico dei chorus.
Morph è in definitiva un album piacevole che qualche anno fa avrebbe fatto probabilmente più proseliti, mentre oggi rischia d’essere leggermente in ritardo sulle tabelle di marcia, non così tanto però per negargli un ascolto.

Tracklist
1. Wake Them Up
2. Stranded
3. Footsteps Of A Lemming
4. The Forgotten Man
5. R.I.O.T.
6. Mechanical Heart
7. Children Of The Never
8. Morph Into A Monster
9. Bury Me Alive
10. Way In/Way Out
11. War
12. Picture Perfect

Line-up
Niki Skistimas – Vocals, Drums
Ralf Dietel – Vocals, Guitars

KRASHKARMA – Facebook

Riverside – Wasteland

Wasteland conferma i Riverside come una delle band cardine dei nuovi suoni progressivi sviluppatisi nei primi anni del nuovo millennio.

Tornare sul mercato con un nuovo album dopo una tragedia come quella capitata ai Riverside non è sicuramente compito facile, così come la scelta di continuare come trio dopo la perdita del chitarrista Piotr Grudziński, deceduto nel 2016.

Il successore del bellissimo Love, Fear and The Time Machine suscita sicuramente la curiosità di chi segue da anni il percorso musicale del gruppo polacco, una band diventata di culto per i progsters da quando, nel lontano 2003, esordì con Out Of Myself.
Mariusz Duda, Michał Łapaj e Piotr Kozieradzki, aiutati da una manciata di ospiti, continuano il loro personale viaggio nel mondo della musica progressiva con Wasteland, poetica, tragica ed ombrosa opera che non lascia spazio a molte critiche ed ammalierà i fans del genere.
Introverso, concettualmente durissimo, sferzante di nobile metallo ed attraversato da un’atmosfera di malinconica poetica rock, Wasteland è aperto dall’intro The Day After, sorta di presentazione dei nuovi Riverside e del mood che aleggerà nell’album, che parte invece rabbioso con Acid Reign, spettacolare brano progressive metal.
Lament è un altro brano top del disco: la voce melanconica si erge su un tappeto sonoro che alterna bordate elettriche ad arpeggi delicati e dark, mentre The Struggle For Survival è uno splendido strumentale di oltre nove minuti che, di fatto, divide l’album e lascia al tenue incedere di River Down Below il compito di accompagnarci nella parte conclusiva dell’opera.
La title track è uno straordinario esempio di metal progressivo, in cui oscure atmosfere di matrice folk sono spazzate da venti metallici in un saliscendi emozionale intenso e coinvolgente.
L’album si chiude con le raffinate note dark del pianoforte in The Night Before, traccia che scrive la parola fine di un’ opera molto suggestiva, confermando i Riverside come una delle band cardine dei nuovi suoni progressivi sviluppatisi nei primi anni del nuovo millennio.

Tracklist
1. The Day After
2. Acid Rain Part I. Where Are We Now? Part II. Dancing Ghosts
3. Vale Of Tears
4. Guardian Angel
5. Lament
6. The Struggle For Survival Part I. Dystopia Part II. Battle Royale
7. River Down Below
8. Wasteland
9. The Night Before

Line-up
Mariusz Duda – vocals, electric and acoustic guitars, bass, piccolo bass, banjo, guitar solo on ‘Lament’ and ‘Wasteland’
Michał Łapaj – keyboards and synthesizers, rhodes piano and Hammond organ, theremin on ‘Wasteland’
Piotr Kozieradzki – drums

RIVERSIDE – Facebook

Sweeping Death – In Lucid

In Lucid è un album nel quale la tecnica importante dei protagonisti è al servizio di brani che non lasciano spazio alla banalità, rifacendosi a band storiche del genere ma con la dovuta dose di personalità.

Il precedente ep dal titolo Astoria ci aveva presentato una band assolutamente in grado di dire la sua nell’affollato panorama del metal progressivo europeo, grazie ad un sound maturo ed affascinante che univa thrash metal nobile alla Mekong Delta, intricate parti progressive ed heavy che molto avevano dei maestri Savatage, alternate a devastanti ripartenze classiche di scuola Annihilator.

Tornano così gli Sweeping Death con il primo full length, un’opera straordinariamente riuscita e perfettamente calata in un contesto metallico e progressivo di assoluto valore.
In Lucid risulta quindi un album nel quale la tecnica importante dei protagonisti è al servizio di brani che non lasciano spazio alla banalità, rifacendosi a band storiche del genere ma con la dovuta dose di personalità.
Squadra che vince non si cambia, e la line up è la stessa del precedente lavoro, con il vocalist Elias Witzigmann a scuotere le fondamenta dietro al microfono con una prestazione emozionante, i due Bertl (Simon ed Andreas, alla chitarra e al basso) coadiuvati da Markus Heilmeier (chitarra) e Tobias Kasper (batteria e piano) a formare una band che sanno il fatto suo, dimostrandolo in ogni passaggio.
Heavy/thrash metal progressivo, drammatico e a tratti teatrale, è quello che ascolterete tra le note di In Lucid, composto da nove brani uno più intenso dell’altro, a cominciare dalla magnifica Blues Funeral, per attraversare i cinquanta minuti a disposizione del gruppo tra atmosfere di tensione palpabile, tragiche note progressive e splendide partiture estreme che compongono le varie Suicide Of A Chiromantist, Resonanz e la title track, la quale aggiunge alle ispirazioni già citate gli Evergrey e i Symphony X.
In Lucid è un album fortemente raccomandato agli amanti del metal progressivo dalle atmosfere teatrali ed oscure.

Tracklist
1.Eulogue
2.Blues Funeral
3.Horror Infernal
4.Suicide of a Chiromantist
5.Purpose
6.Resonanz
7.Antitecture
8.Lucid Sin
9.Stratus

Line-up
Elias Witzigmann – Leadvox
Simon Bertl – Guitar / Backingvocals
Markus Heilmeier – Guitar
Tobias Kasper – Drums/Piano
Andreas Bertl – Bass

SWEEPING DEATH – Facebook

Giuseppe Calini – Verso L’Alabama

Verso L’Alabama è un piacevole viaggio verso le strade del rock impolverate dalla sabbia del deserto, magari non proprio sul caldo asfalto della Route 66, ma tra le colline e le valli del centro Italia.

Rock targato Italia o Stati Uniti, dipende dai punti di vista, fatto sta che Verso L’Alabama, nuovo album del musicista Giuseppe Calini, risulta un piacevole viaggio verso le strade del rock impolverate dalla sabbia del deserto, magari non proprio sul caldo asfalto della Route 66, ma tra le colline e le valli del centro Italia.

Calini prova a farci sognare l’America: a tratti ci riesce, in altri frangenti lascia che il rock da classifica, che da anni spadroneggia nelle radio della penisola, si riprenda il comando di uno spartito con gli angoli bruciati dal sole e dal calore delle marmitte di vecchie Harley, con troppi chilometri a far faticare pistoni e cilindri.
Verso L’Alabama è il diciassettesimo album del rocker di Legnano, un numero davvero importante per un musicista che si è sempre mosso in un mondo nel quale i soliti nomi non hanno mai lasciato troppo spazio a rocker veri, duri e puri come lui.
L’album è una raccolta di brani che alternano, dunque, ruvido rock’n’roll valorizzato da atmosfere che sicuramente possiamo definire southern, a episodi i più leggeri, ma pur sempre sporcati dall’attitudine di Calini, rocker d’annata, dal tocco hard sulla chitarra e la voce che tradisce una vita spesa sui palchi a suonare.
Le ballate infrangono la dura scorza di noi uomini duri e i brani raccontano storie mentre la chitarra graffia, i riff si fanno spessi e la frontiera è sempre più vicina, simbolo di una libertà ormai dono per pochi.
L’opener Il Rock Degli Anni 70, la title track, Sangue Nervoso, Io Sono Il Tuo Capitano e la conclusiva Rock’n’roll sono le canzoni migliori di questo lavoro piacevole, per chi, dopo tanto metal, sente il bisogno di un po’ di sano e sanguigno rock classico.

Tracklist
1.Il Rock Degli Anni 70
2.Take It Easy
3.Mettimi Di Buon Umore
4.Una Lunga Strada Da Casa
5.Il Sogno Non C’è
6.Tu Sei Qui
7.Verso L’alabama
8.Marco E Marina
9.Ho Finito Le Cartucce
10.Io Sarò Con Te
11.Un Altro Giorno Perfetto
12.Sangue Nervoso
13.Quando Gira Male
14.Io Sono Il Tuo Capitano
15.Peter Pan
16.Rock’n’roll

Line-up
Giuseppe Calini – voce, chitarra, batteria, basso

Guests:
Matt Laugh
Simone Sello
Johnny Tad
Leonardo di Bernardini

GIUSEPPE CALINI – Facebook

Louna – The Best Of

Trattandosi di una raccolta, i brani mantengono una buona qualità media, rivelandosi melodici e ruvidi il giusto per non apparire troppo pop.

La Sliptrick Records ci presenta un’altra alternative band proveniente dalla Russia: dopo i Nookie, progetto solista della singer Daria Stavrovich, è la volta dei Louna, anch’essi capitanati da una giovane cantante, Lousine Gevorkian.

The Best Of è una raccolta dei migliori brani che andavano a comporre i tre lavori usciti a nome Louna: Сделай громче! (Let’s Get Louder!) il debutto del 2010, Время Х (Time Of The X), licenziato un paio di anni dopo, e Behind The Mask, ultimo urlo alternative del 2013.
Molto conosciuti nel loro paese, i Louna in questi anni hanno raggiunto una buona popolarità, presenti a molti festival in terra russa, con apparizioni anche negli Stati Uniti.
Il sound del quintetto non si discosta molto dall’hard rock moderno di estrazione statunitense, un classico se si suona alternative: molto meno originale e più commerciale di quello dei Nookie, l’album riesce a convincere per un appeal elevato e sicuramente più indirizzato alle radio.
Lineare è forse la parola più adatta per descrivere la musica dei Louna, belle canzoni con qualche sfuriata metal, ma in generale adagiata su un innocuo alternative rock da classifica, appunto piacevole ma nulla più.
Ovviamente, trattandosi di una raccolta, i brani mantengono una buona qualità media, rivelandosi melodici e ruvidi il giusto per non apparire troppo pop: cantati in lingua madre ma assolutamente non ostici, hanno dalla loro un’anima rock’n’roll che risulta la parte più ribelle e graffiante della musica prodotta dal gruppo di Mosca e che, affiancata a quella più pop, lascia buone sensazioni a chi si avvicina per la prima volta alla musica dei Louna.

Tracklist
01.My – eto LOUNA
02.Boytsovskiy klub
03.Vremya X
04.Biznes
05.Lyudi smotryat vverkh
06.Noch, doroga i rok
07. Shturmuya nebesa
08. S toboy |
09. Moy rok-n-roll
10. 1.9.8.4.
11.Vo mne feat. Dmitriy Rishko
12. Mama
13.Doroga boytsa
14.Sdelay gromche! | Bonus tracks:
15.Svoboda |
16.Put k sebe (acoustic)

Line-up
Lousine Gevorkian – Vocals
Vitaly Demidenko – Bass
Rouben Kazariyan – Guitar
Sergey Ponkratiev – Guitar
Leonid “Pilot” Kinzbursky – Drums

LOUNA – Facebook

https://sliptrickrecords.com/louna-album-the-best-of-out-today/

Ehfar – Everything Happens For A Reason

Metal alternativo, hard rock progressivo, impulsi moderni e classe sopraffina al servizio delle canzoni che Titta Tani interpreta con la solita bravura e quel trasporto che sottolinea quanto di suo abbia messo in questo lavoro.

Dopo tanto scrivere e suonare per gli altri Titta Tani ha deciso di fare qualcosa di completamente proprio e sono nati gli Ehfar, quartetto che si completa con Emiliano Tessitore alla chitarra (Stage Of Reality), Matteo Dondi al basso (Theia) e Andrea Gianangeli alla batteria (Dragonhammer).

Ex di DGM ed Astra (tra gli altri), batterista dei Claudio Simonetti’s Goblin e cantante degli Architects of Chaoz, Titta Tani è sicuramente una delle figure più importanti e carismatiche nella scena metal/rock tricolore, un musicista dall’enorme talento confermato anche in questo suo nuovo progetto.
La band debutta con Everything Happens For A Reason, album composto da nove brani che spaziano tra i generi in cui il mastermind si è dedicato in questi anni: quindi nell’album troverete metal alternativo, hard rock progressivo, impulsi moderni e classe sopraffina al servizio delle canzoni che Titta Tani interpreta con la solita bravura e quel trasporto che sottolinea quanto di suo abbia messo in questo lavoro.
A Man Behind The Mask risulta la traccia più classica dell’opera, con Oliver Hartmann (Avantasia, At Vance, Iron Mask) che compare come ospite al microfono, mentre il resto dell’album mantiene un approccio moderno, progressivo e a tratti durissimo, schegge impazzite di metal tecnicamente ineccepibile, tra atmosfere drammatiche ed un approccio melodico sopra le righe.
Everything Happens For A Reason ci riserva una escalation di emozioni che dalle prime note dell’opener Shout My Name, passando per il groove della seguente Night After Night, esplodono nelle due spettacolari e bellissime tracce poste verso la fine dell’opera (Victims e Master Of Hypocrisy), le quali in pochi minuti uniscono Alice In Chains, Symphony X e Savatage nello stesso splendido e drammatico spartito, prima che il crescendo di emozioni della splendida Losing You concluda questo bellissimo lavoro.
Nel mezzo tanta ottima musica metal moderna, melodica e progressiva, dura e pulsante che vi avvicinerà al mondo di questo bravissimo musicista e songwriter nostrano.

Tracklist
01. Shout My Name
02. Night After Night
03. A Man Behind the Mask
04. Dead End Track
05. Once Upon a Time
06. Someone Save Me
07. Victims
08. Master of Hypocrisy
09. Losing You

Line-up
Titta Tani – Vocals
Emiliano Tessitore – Guitars
Matteo Dondi – Bass
Andrea Gianangeli – Drums

EHFAR – Facebook

Cast The Stone – Empyrean Atrophy

Il non essere proprio dei novellini fa dei Cast The Stone un esempio assolutamente credibile, lasciando che la passione per il genere unita all’esperienza produca swedish death di altissimo livello.

I deathsters statunitensi Cast The Stone sono attivi dal lontano 2002 come progetto nato dalle menti di Derek Engemann (Scour, ex-Cattle Decapitation), Mark Kloeppel (Misery Index) e Jesse Schobel (Scour).

Il loro unico lavoro Dark Winds Descending fu licenziato nel 2005 e la speranza di rivedere sul mercato estremo un altro album targato Cast The Stone si era affievolita col passare degli anni.
Invece i tre musicisti, accompagnati dall’ottimo vocalist Andrew Huskey e con Dan Swanö alla produzione, tornano con questa mezz’ora di death metal scandinavo che si rifà in toto a quanto fatto dal guru svedese con gli Edge Of Sanity nella prima parte di carriera (Unorthodox, The Spectral Sorrow).
Ovviamente, il non essere proprio dei novellini, fa dei Cast The Stone un esempio assolutamente credibile, lasciando che la passione per il genere unita all’esperienza produca swedish death di altissimo livello.
In mezz’ora scarsa ma intensa, la band americana si lascia indirizzare verso la giusta via dal maestro svedese e ne esce un granitico pezzo di metal estremo scandinavo, rigorosamente marchiato a fuoco dai primi anni novanta, estremo e melodico come nella migliore tradizione.
Ottimo e convincente il growl di Huskey, in effetti simile a quello di Swanö del periodo citato, di gran classe le parti melodiche che ricamano oscure tracce death metal come The Burning Horizon, commovente la somiglianza con i leggendari Sanity nella diretta A Plague Of Light e dura e pura la title track, swedish death di origine controllata.
La cover di JesuSatan, originariamente incisa dagli Infestdead, chiude questo ep assolutamente da archiviare come lavoro old school e genuino tributo ad un genere che continua, malgrado lo scorrere del tempo, a regalare grande musica estrema.

Tracklist
1.As the Dead Lie
2.The Burning Horizon
3.Standing In the Shadows
4.A Plague of Light
5.Empyrean Atrophy
6.Jesusatan (Infestdead cover)

Line-up
Andrew Huskey -vocals
Derek Engemann-bass/vocals
Jesse Schobel-drums
Mark Kloeppel-guitar/vocals

CAST THE STONE – Facebook

Ash Of Ashes – Down The White Waters

Album che piacerà agli amanti dei suoni folk metal, epici e black, Down The White Waters ci chiede di riservare un po’ del nostro tempo alle sue composizioni, così da ritrovarci in un altra dimensione, galleggiando in un mare di emozioni pagane ed epiche.

Cultura pagana ed heavy metal, un connubio che negli anni ha donato grande musica epica, poi attraversata da tempeste estreme arrivate dal grande nord.

Epic folk metal dai rimandi pagani è a grandi linee il sound del duo tedesco Ash Of Ashes, al debutto con Down The White Waters, lavoro degno di menzione in virtù dell’esibizione di un buon talento nel creare mid tempo epici e guerreschi in un contesto atmosferico.
Ovviamente la parte metal è di derivazione viking black, poi alleggerita da una valanga di melodie che lasciano spazio anche agli ascoltatori di generi meno estremi, grazie anche alla voce evocativa, che duetta per gran parte dell’album con quella di stampo estremo.
In Down The White Waters l’epicità si tocca con mano, l’alternanza tra parti viking black metal, folk e melodic death è l’arma con cui il duo conquista le terre nemiche, creando un’atmosfera leggendaria.
Molto belli sono i brani che riescono a far convivere tutte le anime del sound sotto la spessa coltre di epicità: la band sorprende per il songwriting di buon livello già dal primo album, con picchi come Flames Of The Horizon, Sea Of Stones e gli ultimi due movimenti prima della chiusura: le splendide The Queen’s Lament (The Lay Of Wayland) e Chambers Of Stone (The Lay Of Wayland).
Album che piacerà agli amanti dei suoni folk metal, epici e black, Down The White Waters ci chiede di riservare un po’ del nostro tempo alle sue composizioni, così da ritrovarci in un altra dimensione, galleggiando in un mare di emozioni pagane ed epiche.

Tracklist
01. Down The White Waters
02. Flames On The Horizon
03. Ash To Ash
04. Sea Of Stones
05. Springar
06. Seven Winters Long (The Lay Of Wayland)
07. In Chains (The Lay Of Wayland)
08. The Queen’s Lament (The Lay Of Wayland)
09. Chambers Of Stone (The Lay Of Wayland)
10. Outro

Line-up
Skaldir – Vocals, guitars, keyboards, bass
Morten – Lyrics, vocals

ASH OF ASHES – Facebook

Malthusian – Across Deaths

Un album difficile, non aiutato da una produzione che ne soffoca il suono e troppo impegnata a risaltare i bassi, magari anche voluta ed in linea con l’assoluto mood estremo di un sound che alterna (nei momenti più intensi e riusciti) furia death/black e litanie doom.

Un vento freddo e terribile spira da nord, portando con se la musica dei death/blacksters Malthusian, gruppo estremo di Dublino che mette in musica le teorie di Thomas Malthus, sotto la spinta di un metal estremo che risulta un caos primordiale, una tempesta di suoni death metal resi ancora più estremi e caotici da sferzate black metal.

I Malthusian sono un quartetto attivo dal 2012 che ha già espresso il proprio concept con un demo ed un ep uscito tre anni fa (Below the Hengiform).
Con musica e tematiche di difficile digeribilità anche per chi non è nuovo ad ascolti estremi, Across Deaths si sviluppa su cinque brani per quaranta minuti di tsunami musicale, tra brani medio lunghi che raggiungono durate importanti come i dodici minuti abbondanti di Primal Attunement-The Gloom Epoch, cuore di questo lavoro che ci riserva una varietà nel songwriting più accentuata, con atmosfere che rallentano fino a toccare lidi doom/death.
Un album difficile, non aiutato da una produzione che ne soffoca il suono e troppo impegnata a risaltare i bassi, magari anche voluta ed in linea con l’assoluto mood estremo di un sound che alterna (nei momenti più intensi e riusciti) furia death/black e litanie doom.

Tracklist
1. Remnant Fauna
2. Across the Expanse of Nothing
3. Sublunar Hex
4. Primal Attunement – The Gloom Epoch
5. Telluric Tongues (Roaring Into the Earth)

Line-up
PG – Bass, Vocals
JK – Drums
AC – Guitars, Vocals
MB – Guitars, Vocals

MALTHUSIAN – Facebook

Deathcall – Eternal Darkness

Prodotto assolutamente underground e di interesse per i fans accaniti del genere, Eternal Darkness supera abbondantemente la sufficienza e porta così all’attenzione il giovane gruppo di Dunedin.

Le vie del death metal sono infinite e ci portano in Nuova Zelanda per fare la conoscenza dei Deathcall, quartetto di Dunedin con un ep omonimo licenziato nel 2016 e questo full length uscito lo scorso anno dal titolo Eternal Darkness.

Accompagnato da una copertina che ispira fantasie doom, l’album risulta invece un esempio discreto di death metal old school, un macigno estremo che di cimiteriale ha il growl, oscuro e cavernoso (la copertina raffigura una gentil donzella seduta su di una tomba con tanto di teschio tra le mani) e poi tira dritto verso lidi estremi dove velocità e potenza la fanno da padrone.
Qualche accenno di groove nelle ritmiche e tanto death metal ispirato ai primi anni novanta, macabro e composto da una serie di brani che non lasciano soluzioni diverse se non qualche mid tempo a variare una proposta che se convince nei primi brani (l’opener Modified ed Enslaved), alla lunga perde in freschezza, faticando leggermente in dirittura d’arrivo.
Un peccato che si perdona al gruppo neozelandese, comunque da premiare per l’onda d’urto creata da tracce in cui il growl brutale ed animalesco del singer Dean Anderton (anche alla chitarra) ricorda come fonti di ispirazione Macabre e Morbid Angel.
Prodotto assolutamente underground e di interesse per i fans accaniti del genere, Eternal Darkness supera abbondantemente la sufficienza e porta così all’attenzione il giovane gruppo di Dunedin.

Tracklist
1.Modified
2.Imbecile
3.Enslaved
4.Halls Of Assumption
5.Burning hatred
6.Blood And Steel
7.Control
8.Cauldron Of Conspiracy
9.Repercussions
10.Eternal darkness
11.The Widow
12.Wargames

Line-up
Euan anderton – Bass
Shayne Roos – Drums
John Parker – Guitars
Dean Anderton – Vocals, Guitars

DEATHCALL – Facebook

Man With A Mission – Chasing The Horizon

Musica che passa, lascia poco o nulla di sé e scompare, tradita da chi promette senza mantenere, prodotta e creata per meravigliare e divertire, ma alla quale manca l’anima.

In Giappone il metal ed il rock hanno sempre trovato un rifugio sicuro, quando le cose (commercialmente parlando) si mettevano male, specialmente per quanto riguarda l’altalenante popolarità che ha caratterizzato in tutti questi anni il metal classico e l’hard rock.

Lo stesso si può dire del nu metal e del rock alternativo più commerciale, almeno ascoltando questo Chasing The Horizon, ultimo album dei Man With A Mission.
Nata nel 2010 e nascosta da maschere raffiguranti il lupo, la band arriva al sesto full length di una discografia composta da numerosi ep, due raccolte e una lista importante di singoli in soli otto anni.
Nu metal, elettronica da discoteca futurista e rock alternativo, vengono manipolati dal quintetto che aggiunge rap, parti techno ed una sfrontata attitudine dance per divertire i ragazzotti persi tra le luci delle sale da ballo di una Tokio hi-tech.
Quello che ne esce è un sound che nulla ha dello spirito di cui si tratta sulle pagine di MetalEyes: le note industriali sono lontane, il metal con una lente di ingrandimento lo si scorge in qualche riff, all’ombra di una cascata di ritmi ballabili, stordenti, sicuramente cool, ma che non si avvicinano a toccare la benché minima corda emozionale.
Musica che passa, lascia poco o nulla di sé e scompare, tradita da chi promette senza mantenere, prodotta e creata per meravigliare e divertire, ma alla quale manca l’anima.
Quattordici brani per quasi un’ora di musica, confezionata perfettamente per i minori di quattordici anni e nulla più: il rock violentato da scariche elettroniche, pericoloso ed estremo, nato nei sobborghi delle metropoli o figlio della musica elettronica degli anni ottanta, non è contemplato da questi lupacchiotti dagli occhi a mandorla, passiamo oltre.

Tracklist
1.2045
2.Broken People
3.Winding Road
4.Hey Now
5.Please Forgive Me
6.Take Me Under
7.Freak It!Featuring – 東京スカパラダイスオーケストラ*
8.Break The Contradiction
9.My Hero
10.Dead End In Tokyo
11.Chasing The Horizon
12.Find You
13.Dog Days
14.Sleepwalkers

Line-up
Tokyo Tanaka – Vocal
Jean-Ken Johnny – Guitar, Vocal, Rap
Kamikaze Boy -Bass, Chorus
Spear Rib – Drums
DJ Santa Monica – Djs, Sampling

MAN WITH A MISSION – Facebook

Apophis – Virulent Host

Virulent Host è un’opera di death metal melodico a cui non manca nulla se non la voce, di cui non si sente comunque la mancanza grazie al talento di Cibich nel saper far parlare la sua chitarra, assoluta protagonista nei vari episodi che si susseguono, emozionanti e trascinanti lungo tutta la sua durata.

Ci eravamo occupati degli Apophis lo scorso anno in occasione dell’uscita del primo lavoro, Under A Godless Moon.

Dietro a questo oscuro monicker (Apophis è il dio serpente, divinità che incarna il male e le tenebre nelle credenze dell’antico Egitto) si cela il polistrumentista australiano Aidan Cibich, talentuoso musicista e songwriter che con Virulent Host conferma le ottime impressione suscitate con l’album precedente.
Questo nuovo lavoro è un’opera mastodontica, con più di un’ora di death metal melodico strumentale che non lascia scampo, il dosaggio perfetto di una tecnica strumentale assolutamente ragguardevole, ma concentrata sulla forma canzone: dodici brani medio lunghi, un’attitudine progressiva ben marcata ed una raccolta di brani strutturati come cavalcate metalliche dalle melodie che passano con disinvoltura ad atmosfere epiche, bellissimi intermezzi acustici grazie ad un lavoro chitarristico curato nei minimi dettagli, fanno di Virulent Host un album affascinante, da ascoltare con la dovuta calma ma comunque adatto anche a chi non è in confidenza con gli album strumentali.
In ultima analisi, Virulent Host è un’opera di death metal melodico a cui non manca nulla se non la voce, di cui non si sente comunque la mancanza grazie al talento di Cibich nel saper far parlare la sua chitarra, assoluta protagonista nei vari episodi che si susseguono, emozionanti e trascinanti lungo tutta la sua durata.
Appunto, non fatevi spaventare dalla lunga durata di Virulent Host, il musicista australiano ha creato una raccolta di brani che hanno il pregio di non stancare affatto, tra accelerazioni metalliche, cavalcate in crescendo e trame atmosferiche, ora acustiche, ora levigate da sfumature tastieristiche.
La straordinaria Engulfing Tranquility, Memory Cove e la conclusiva e progressiva Wherein Wolves Die sono tra le più splendenti perle strumentali di questo bellissimo lavoro, assolutamente da non perdere.

Tracklist
1.Sunlight Drowns In Apathy
2.Virulent Host
3.Cyclothymic
4.Beyond Fathomless Depths
5.Memory Cove
6.Seas Of Fervent Wings
7.The Widowmakers 06:06
8.Calignosity
9.Engulfing Tranquility
10.Abandoned Kingdom From The Sky
11.Demons Of Derailment
12.Wherein Wolves Die

Line-up
Aidan Cibich – All instruments

APOPHIS – Facebook

Hence – Hence

Licenziato dalla Volcano Records, questo omonimo ep di debutto si compone di cinque brani che si rifanno ai generi descritti, con quel tocco attuale che si traduce in una potenza controllata lasciata libera di esprimersi in un contesto indie rock raffinato.

Il mondo del rock alternativo è più vasto di quello che si può credere superficialmente, essendo capace di superare confini musicali all’apparenza irraggiungibili.

Dal rock duro al crossover, dall’indie al noise, passando dal post dark e dalla new wave, per non dimenticare le ultime tendenze progressive, il rock ha molte strade per esprimersi, ed una di queste porta nella provincia di Reggio Emilia da dove provengono gli Hence.
Attivo prima come Wheresmyplanet, il trio composto da Francesco Giro (batteria), Filippo Bonacini (chitarra) e Matteo Iotti (basso) ha unito le forze con il tastierista Edoardo Vandelli creando questa nuova realtà musicale che si muove nel mondo del rock alternativo con il passo elegante del post rock e della new wave.
Licenziato dalla Volcano Records, questo omonimo ep di debutto si compone di cinque brani che si rifanno ai generi descritti, con quel tocco attuale che si traduce in una potenza controllata lasciata libera di esprimersi in un contesto indie rock raffinato.
Seguendo le note alternative, a tratti liquide e sfumate di elettronica che compongono piacevoli brani come Castaway, l’indie rock dell’opener From a Star to AnotherOne o della conclusiva Untitled, ci si ritrova nel mondo colorato di tenui colori rock del gruppo emiliano, in parte graffiato da chitarre più robuste, o valorizzato dal pop/rock del gioiellino Letters From The End Of The World, brano emozionante nel suo crescendo emotivo nel quale non viene smarrita un’oncia dell’innata eleganza compositiva degli Hence, gruppo decisamente consigliato agli amanti dei suoni indie rock ed alternativi.

Tracklist
Edoardo Vandelli – Keyboards, Synth, Lead Vocals
Filippo Bonacini – Guitar, Backing Vocals
Matteo Iotti – Bass Guitar, Backing Vocals
Francesco Giro – Drums, Pads

Line-up
1.From a Star to AnotherOne
2.I’ve Been Looking Inside of Me
3.Letters from the End of the World
4.Castaway
5.Untitled

HENCE – Facebook

Samuli Federley – Lifestream

Siamo lontani dai classici guitar heroes e Samuli Federley, come molti suoi colleghi della nuova generazione, punta più sulle emozioni e la sua musica se ne giova, anche se, quando le dita cominciano a scorrere sul manico della chitarra, esce prepotentemente tutta la sua bravura strumentale, rendendo il lavoro meritevole senz’altro di un ascolto.

Samuli Federley è un virtuoso chitarrista finlandese, membro dei prog metallers Reversion, che ha dato vita al suo solo project strumentale qualche anno fa.

Nel 2012 uscì il full length Quest For Remedy e oggi Federley torna con un nuovo ep di quattro brani dal titolo Lifestream, un viaggio tra la musica rock metal ispirata dalla tradizione orientale, elegante e progressiva senza esagerare con virtuosismi fine a sé stessi.
Il chitarrista originario di Helsinki alterna con sagacia raffinate sfumature progressive rock a più grintose parti metal, in un arcobaleno di colori sfumati nella terra del Sol Levante, senza dubbio la sua massima ispirazione.
L’intro Red Horizon e la seguente title track preparano il campo al cuore del mini cd, quella Guitar KungFu che risulta un susseguirsi di sorprese e voli progressivi, presi per mano dalla chitarra di Federley, bravissimo nel saper dosare l’irruenza talentuosa della chitarra metal con l’armoniosa atmosfera orientale che da anima e corpo all’opera.
Waves Of Sound continua a brillare della luce calda del sole rosso, padrone di paesaggi musicali dove progressive e tradizione popolare si alleano e guidano le mani del musicista nordico, delicate o grintose a seconda dell’umore dei brani, cangianti e vari come i colori che compongono gli splendidi quadri paesaggistici nelle lontane terre del Sol Levante.
Siamo lontani dai classici guitar heroes e Samuli Federley, come molti suoi colleghi della nuova generazione, punta più sulle emozioni e la sua musica se ne giova, anche se, quando le dita cominciano a scorrere sul manico della chitarra, esce prepotentemente tutta la sua bravura strumentale, rendendo il lavoro meritevole senz’altro di un ascolto.

Tracklist
1.Red Horizon
2.Lifestream
3.Guitar KungFu
4.Waves Of Sound

Line-up
Samuli Federley – Guitars

SAMULI FEDERLEY – Facebook

Bonehunter – Children Of The Atom

Speed metal, thrash, black e punk formano una miscela esplosiva che ha come padrini i soliti nomi di chi suona il genere, e i Bonehunter sanno come miscelare per bene questa bomba in musica, trascinando i fans in un vortice di metal ignorante, senza compromessi e blasfemo.

Trio proveniente da Oulu ed attivo dal 2011, i finlandesi Bonehunter pubblicano il terzo full length che va a rimpinguare una discografia abbondante, specialmente per quanto riguarda ep e split.

Children Of The Atom è il nuovo lavoro sulla lunga distanza, successore di Evil Triumphs Again uscito nel 2015 e del secondo massacro licenziato lo scorso anno dal titolo Sexual Panic Human Machine.
Syphilitic Satanarchist (voce e basso), Witch Rider (Guitars) e S.S Penetrator (batteria) suonano un thrash/black old school mosso da uno spirito demoniaco e punk: il loro nuovo album risulta una mazzata estrema di chiara ispirazione ottantiana, con un sound alimentato dalla confluenza di generi che ancora oggi si nutrono di anime nell’underground metallico mondiale.
Speed metal, thrash, black e punk formano una miscela esplosiva che ha come padrini i soliti nomi di chi suona il genere, e i Bonehunter sanno come miscelare per bene questa bomba in musica, trascinando i fans in un vortice di metal ignorante, senza compromessi e blasfemo.
Children Of The Atom parte sgommando e non si ferma più: il gruppo scarica mitragliate metalliche dove le ritmiche non danno tregua, l’attitudine punk risveglia sensazioni motorheadiane mentre Lucifero si crogiola tra invocazioni alla distruzione totale, alla guerra e al caos.
Tempestoso e velocissimo inno estremo, l’album gode di una produzione discreta e di dieci brani ispirati dove Venom, Slayer e Motorhead sono chiamati alle armi dai Darkthrone per dare vita ad una raccolta che vede Sex Messiah Android, la title track e Spider’s Grave quali momenti migliori di questa totale e violenta aggressione di matrice old school.

Tracklist
1.Initiate The Sequence
2.Demonic Nuclear Armament
3.Sex Messiah Android
4.Children Of The Atom
5.The Reek Of Reaper’s Scyte
6.Black Star Carcass
7.Spider’s Grave
8.Cybernetic Vampirism
9.Man Of Steel (Spiritus Mortis cover)
10.Devil Signal Burst

Line-up
Syphilitic Satanarchist – Vocals, Bass
Witch Rider – Guitars
S.S Penetrator – Drums

BONEHUNTER – Facebook

Hardcore Superstar – You Can’t Kill My Rock’N Roll

You Can’t Kill My Rock’N Roll si mantiene su livelli consoni alla fama del gruppo, arrivando alla fine senza intoppi e con una manciata di canzoni, quindi i fans del gruppo possono dormire sonni tranquilli, almeno finché il tasto play non darà nuovamente fuoco alla miccia del rock’n’roll targata Hardcore Superstar.

Turbonegro, The Hellacopters, Gluecifer, Backyard Babies e Hardcore Superstar sono solo le più importanti e seguite band, in arrivo dalla Scandinavia, che presero a spallate il mercato discografico tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio a suon di rock’n’roll irriverente, esagerato, ribelle ed assolutamente travolgente.

Come sempre succede nel mondo del rock, finita la scorpacciata, andò scemando l’entusiasmo per questa nuova ondata di band che, ognuna con il proprio stile, tornava a battere le strade sporche che videro diversi anni prima gli Hanoi Rocks quali sovrani incontrastati,.
Ne è passato di tempo da quando gli Hardcore Superstar irruppero sul mercato con Bad Snakers And A Pina Colada, seguito dall’ottimo Thank You (For Letting Us Be Ourselves): un ventennio circa ed altri otto album, nove con questo dinamitardo lavoro intitolato You Can’t Kill My Rock’N Roll.
Ovvio che l’entusiasmo dei primi anni del millennio abbia lasciato al mestiere e all’esperienza il comando delle operazioni: la band di Goteborg risulta comunque una garanzia di divertimento, anche se nel corso della carriera qualche passo falso c’è stato.
Per i fans del gruppo il nuovo lavoro permette di godere degli Hardcore Superstar in una delle vesti migliori degli ultimi tempi: Jocke Berg e soci sono tornati con un songwriting ottimo e per lunga parte di You Can’t Kill My Rock’N Roll si respira aria di potenziale hit ad ogni traccia.
Prodotto dal gruppo nei pressi di Goteborg e mixato a Stoccolma da Dino Medanhodzic, l’album si presenta con l’irriverente copertina dove tre suore votate al rock fumano e bevono, magari ascoltando la band, intenta a darci dentro con Electric Rider o con i riff metal delle possenti My Sanctuary e Hit Me Where It Hurts.
It’s only rock ‘n’roll, mai frase può risultare più adatta per The Others, uno dei brani più belli dell’album, e Baboon, uno dei singoli già usciti sul mercato per alzare il livello di attesa tra i fans del gruppo.
L’album, come scritto, si mantiene su livelli consoni alla fama del gruppo, arrivando alla fine senza intoppi e con una manciata di canzoni irresistibili (da citare ancora Have Mercy On Me), quindi i fans del gruppo possono dormire sonni tranquilli, almeno finché il tasto play non darà nuovamente fuoco alla miccia del rock’n’roll targata Hardcore Superstar.

Tracklist
1.ADHD
2.Electric Rider
3.My Sanctuary
4.Hit Me Where It Hurts
5.YCKMRNR
6.The Others
7.Have Mercy On Me
8.Never Carred For Snobbery
9.Baboon
10.Bring The House Down
11.Medicine Man
12.Goodbye

Line-up
Jocke Berg – Vocals
Vic Zino – Guitars
Martin Sandvick – Bass
Adde Andreasson – Drums

HARDCORE SUPERSTAR – Facebook

Ashen Fields – Ashen Fields

Inutile fare paragoni con il passato, gli Ashen Fields sono in tutto e per tutto una nuova realtà che si muove sempre nel panorama estremo melodico, ma con un’attenzione particolare per gli arrangiamenti sinfonici ed epici.

Un paio di anni fa, la Genova metallica regalava uno degli esordi più incisivi in campo estremo di quell’anno almeno per quanto riguarda la scena underground tricolore, Fearytales dei genovesi Path Of Sorrow.

La band, dopo molti concerti e tanti complimenti, si separa da tre dei suoi componenti, i chitarristi Davide e Jacopo ed il batterista Alessandro e, di fatto, nel 2017 nascono gli Ashen Fields.
I tre musicisti vengono in seguito raggiunti dal cantante Julio e dal bassista Fabio con i quali registrano i tre brani che vanno a formare questo ep omonimo.
Inutile fare paragoni con il passato, gli Ashen Fields sono in tutto e per tutto una nuova realtà che si muove sempre nel panorama estremo melodico, ma con un’attenzione particolare per gli arrangiamenti sinfonici ed epici, unendo al melodic death metal di matrice scandinava soluzioni symphonic power, in un crescendo di atmosfere epiche e suggestive.
Moonlit Ashes è uno strumentale, che funge da intro ai due brani seguenti, con il quale band riempie di aspettative l’ascoltatore grazie ad orchestrazioni dal sapore cinematografico, prima di entrare nel vivo della proposta con The Darkness That I Command, traccia che evidenzia l’importanza della parte sinfonica nel sound di un quintetto che si muove a suo agio tra soluzioni melodic death e power.
E’ splendida The Gods’ Vessel, epica, magniloquente, efficace sia nella parti orchestrali che in quelle metalliche, con una parte atmosferica che ne eleva tremendamente il tasso suggestivo, prima di accelerare e chiudere al meglio questo primo lavoro targato Ashen Fields.
Tracce di Amon Amarth, Omnium Gatherum, ultimi Nightwish nelle parti orchestrali, ma anche dei leggendari Bal Sagoth, si intravedono nel sound del gruppo genovese, una nuova realtà estrema da seguire con attenzione.

Tracklist
1.Moonlit Ashes
2.The Darkness That I Command
3.The Gods’ Vessel

Line-up
Davide – Guitars
Jacopo – Guitars
Alessandro – Drums
Julio – Vocals
Fabio – Bass

ASHEN FIELDS – Facebook