Exumer – A Mortal in Black

Mitico gruppo del thrash teutonico, tra i top 20 del genere negli Eighties tedeschi, e primo passo in direzione di una carriera che, se è vero che non l’ha mai visti protagonisti assoluti, li ha in ogni caso indiscutibilmente immortalati come gli Slayer di Germania.

Provenienti da Nordenhamm, vicino a Francoforte, gli Exumer sorsero dalle ceneri dei Tartaros.

Nel 1985, la creatura del bassista-cantante Mem Von Stein e del chitarrista Ray Mensch – coadiuvati dal secondo chitarrista Bernie, e dal batterista Syke Bornetto – debuttò, con uno storico demo tape, dal titolo A Mortal in Black: otto brani velocissimi e oscuri, soffocanti e cupi, figli degli Slayer di Show No Mercy ed Hell Awaits, uscito in America proprio in quell’anno, per la Metal Blade. Gli Exumer, con questo nastro, misero subito in bella mostra il loro thrash-black primordiale e chiarirono quale – e di quale valore – fosse allora l’underground nella Germania occidentale, specie nell’ambito speed e thrash metal. La cassetta è stata riedita su CD, nel 2014, insieme a tutta la prima parte del catalogo degli Exumer, dalla benemerita HR Records e non occorre pertanto impazzire per reperirla. I brani, tra l’altro, sono quelli che – ma reincisi – sono andati poi in parte a costituire l’album Possessed by Fire, ancora oggi ritenuto, da tutti, il capolavoro dell’act di Mem Von Stein, da alcuni anni di nuovo in pista, con gli Exumer, come se il tempo non fosse passato. E questo, insieme all’orgoglio, solo la musica può darlo. Riascoltate per l’occasione la title-track, la malinconica Reign of Sadness, i vagiti spaziali (nel senso letterario e lovecraftiano) delle nichiliste Journey to Oblivion e Xiron Darkstar, o le più venomiane (oltre che slayeriane) Silent Death, Fallen Saint e Destructive Solution. Questa è, davvero, Storia. Specialmente per chi ama il thrash tedesco alla Assassin-Tankard-Deathrow-Holy Moses, nonché la scuola nordamericana (Nuclear Assault, Hirax, Exodus, Sacred Reich, Razor), gli Artillery e gli Onslaught.

Tracklist
1- Possessed by Fire
2- Journey to Oblivion
3- Reign of Sadness
4- Xiron Darkstar
5- Fallen Saint
6- Destructive Solution
7- A Mortal in Black
8- Silent Death

Line up
Mem Von Stein – Bass / Vocals
Bernie – Guitars
Syke Bornetto – Drums
Ray Mensch – Guitars

1985 – Autoprodotto

Adam and the Ants – Dirk Wears White Sox

Prima di svoltare verso un pop rock ballabile e più commerciale, Adam Ant e il suo gruppo furono tra i protagonisti della nascente new wave inglese, con un bellissimo e interessante esordio tra punk, dark e sperimentazione.

Nel 1976, il giovanissimo punk londinese Stuart Leslie Goddard assiste al primo concerto dei Sex Pistols, quella sera spalla dei suoi Bazooka Joe, restando grandemente impressionato e dalla musica e dall’immagine provocatoria della creatura di Malcolm MacLaren.

Il ragazzo si ribattezza pertanto Adam Ant e fonda il suo gruppo punk, i B-Sides, che tra il 1977 ed il 1978 diventano Adam and the Ants. Il regista Derek Jarman li riprende, per il suo film Jubilée (per la colonna sonora del quale la band incide, appositamente, due pezzi, prima di registrare due sessions live alla BBC, e di effettuare la prima tournée in Europa). Finalmente, nel 1979, preceduto dal 45 giri Young Parisians, e da altri provini radiofonici, per John Peel, esce, in autunno, il debutto del gruppo sulla lunga distanza. Dirk Wears White Sox vede la luce per la Do It, sussidiaria punk della Decca: undici brani che abbinano alla proverbiale ruvidezza del primo punk britannico strutture già più elaborate (la copertina è bella e molto concettuale, da art rock) che preludono alla migliore new wave. Di fatto, il disco è tra quelli che contribuiscono a definire e codificare il post-punk inglese, screziato di suggestioni gothic-dark e sperimentali, asciutto ed elegante insieme. Colpisce nel segno, in particolare, un tribalismo (ben due sono le batterie) che anticipa di poco i Killing Joke e che riesce incredibilmente a andare a braccetto con un gusto piuttosto raffinato. Questa seconda componente della musica, in vero alquanto creativa e originale per quegli anni, proposta non senza personalità da Adam and the Ants, avrà di lì a breve il sopravvento nei successivi Kings of the Wild Frontier (1980) e Prince Charming (1981), che volano rispettivamente al primo e al secondo posto delle charts nazionali. A quel punto Goddard si decide a proseguire da solo, con il solo e fedelissimo Marco Pirroni alla chitarra quale ospite fisso: Friend or Foe (1982), Strip (1983), Vive lo Rock (1985) e Manners and Physiques (1990) completano, ma con esiti commerciali decrescenti, la parabola dell’artista, che si dà anche – senza troppo successo, pure in questo caso – al cinema. L’autentico verbo di Adam and the Ants è quindi racchiuso in questo LP, seminale e rappresentativo d’una esaltante scena/stagione, ristampato ancora di recente.

Tracklist
– Cartrouble I / II
– Digital Tenderness
– Nine Plan Failed
– Day I Met God
– Tabletalk
– Cleopatra
– Catholic Day
– Never Trust a Man
– Animals and Men
– Family of Noise
– The Idea

Line up
Adam Ant – Vocals / Guitars / Piano
Dave Barbarossa – Drums
Jon Moss – Drums
Andrew Warren – Bass
Matthew Ashman – Guitars / Piano
Marco Pirroni – Guitars / Bass

ADAM ANT – Facebook
Link Youtube

1979 – Do It (ristampa Columbia)

Ghost Rider – Rehearsal ’84

Le origini dei Necrodeath: un black contaminato con il thrash e le melodie del metal classico. Un demo da leggenda.

Prima di ridenominarsi Necrodeath e di scrivere pagine storiche del metal italiano, non solamente in ambito estremo, c’erano i Ghost Rider, attivi tra Rapallo e Recco.

Nel 1984 incisero un nastro, che è davvero riduttivo definire storico: quel demo tape è in assoluto la prima registrazione di black metal in Italia e fa veramente data nelle cronache dell’heavy, non soltanto nostrano. Il gruppo di Peso era agli inizi, ma le idee erano già molto chiare: attingere alla velocità oscura dei Venom, incarnando un black (soprattutto a livello lirico e iconografico) che flirtava con certe strutture del neonato thrash – la stessa cosa accadde tre anni dopo ai Mayhem di Deathcrush – e del metal più classico. Insomma, una cassetta per ogni adoratore di Bulldozer, Hellhammer, Bathory, primi Slayer e Samhain. Cinque canzoni in tutto, dark quanto basta per scolpire il nome dei Ghost Rider nell’empireo degli iniziatori e dei precursori. La FOAD di Genova, nel 2011, ha pubblicato una nuova versione su compact, del tutto risuonata, remixata e rimasterizzata per l’occasione, nonché (appositamente) reintitolata The Return of the Ghost.

Track list
– The Exorcist
– Curse of Valle Christi
– The Return of the Ghost
– Perkele666
– Victim of Necromancy
– Ride For Your Life
– Doomed to Serve the Devil
– Black Archangel
– Hell Is the Place
– Power From Hell (Onslaught cover)
– Deep in Blood

Line up
Zarathos – Guitars
Helvete – Bass / Vocals
Mark Peso – Drums

1984 – Autoprodotto

Cryptopsy – Ungentle Exumation

La mitica cassetta che ha contribuito a fondare, nei primi anni Novanta, la scena canuck del techno-deathcore, da allora una seminale fonte di ispirazione per molti epigoni.

I canadesi Cryptopsy – da Montreal, Québec – sono oggi giustamente celebri tra gli addetti ai lavori ma sulle loro origini ci si sofferma sempre poco.

Il gruppo nacque nel 1988 e solo un lustro più tardi incise il demo tape Ungentle Exumation. Quel nastro fondò a conti fatti la scuola del death metal nel Canada francese: un techno-death brutale e orrorifico, opportunamente sporcato di hardcore (anzi: il death-core venne in pratica creato da loro, prima di diventare una moda). I brani del nastro sono una vera e propria manna, per tutti coloro che amano Suffocation, Origin, Malignancy ed i connazionali Gorguts, nonché le sfuriate grind di Cephalic Carnage e Dying Fetus e le progressioni iper-tecniche degli spagnoli Wormed. Detto altrimenti, in Ungentle Exumation troviamo una fusione incredibile e davvero pionieristica di brutal death e inflessioni prog mutuate dai Pestilence di Spheres (da poco e finalmente ristampati, insieme a tutto il catalogo degli olandesi). Postilla conclusiva per completisti: la violenza ossimorica e futuristico-ancestrale dei Cryptopsy riecheggia oggi anche nei mai troppo lodati Rage Nucléaire: due eccezionali dischi di black-war, che attinge anche a Marduk, 1349, Dark Funeral, Anaal Nathrakh e Immortal, con appunto Lord Worm dei Cryptopsy tra i ranghi. La stirpe continua.

Track list
1. Gravaged
2. Abigor
3. Back to the Worms
4. Mutant Christ

Line up
Lord Worm – Vocals
Flo Mounier – Drums
Kevin Weagle – Bass
Dave Galea – Guitars
Steve Thibault – Guitars

1993 – Autoprodotto

Astrolabio – I paralumi della ragione

La dimostrazione che il vero prog può esistere ancora, anche e soprattutto nel nostro paese, dove la tradizione al riguardo di certo non manca.

Veronesi, gli Astrolabio esistono dal 2009 (sono sorti dalle ceneri degli Elettrosmog, autori nel 2007 del buonissimo Omologando).

Il quartetto propone un validissimo rock progressivo italiano, cantato quindi in lingua madre (e non a caso questo I paralumi della ragione esce per la Andromeda Relix di Gianni Della Cioppa, che tanto ha scritto e ha fatto per il rock tricolore di qualità, specialmente underground). L’orientamento della band scaligera è da subito molto analogico e settantiano, caldo e valvolare. Liricamente, si va da squarci più intimi a testi più impegnati, anche qui in linea, del resto, con i nostri anni ’70. La libertà espressiva si candida, in questi solchi, ad essere la vera e propria cifra stilistica del gruppo veneto, che rifugge dai vincoli legati al genere e spazia non poco, anche a livello strumentale, oltre che di songwriting. Poca elettronica comunque, e moltissimo rock classico, scritto e arrangiato appunto in chiave prog. Tra Osanna e Locanda delle Fate (e gli Astrolabio hanno suonato dal vivo, fra l’altro, con entrambi): questi gli orizzonti del lavoro, che senz’altro incontrerà i favori di quanti giustamente amano queste sempreverdi ed eterne sonorità, belle e senza tempo. Un invito, quasi, a meditare, sull’oggi e sullo ieri. Rock e poesia in nome del prog, detto altrimenti. Un esperimento davvero riuscito.

Tracklist
1- Dormiveglia 1
2- Nuovo Evo
3- Una Cosa
4- Pubblico Impiego
5- Arte(Fatto)
6- Otto Oche Ottuse
7- La Casa di Davide
8- Sui Muri
9- Dormiveglia 2

Line-up
Michele Antonelli – Guitars / Vocals / Flute
Alessandro Pontone – Drums
Paolo Iemmi – Bass / Vocals
Massimo Babbi – Keyboads

https://it-it.facebook.com/AstrolabioRDI/

Osiris – Futurity and Human Depressions

Il migliore gruppo olandese di thrash, tra gli anni Ottanta e i primissimi Novanta, tra i pochi in vero del genere nella terra dei tulipani, di certo più nota per la scena death (Pestilence, Asphyx e Sinister).

L’Olanda non è mai stato un paese che ha dato tantissimo alla causa del rock: le punte dell’iceberg, si sa, sono state il new prog melodico tra la fine degli anni Ottanta ed i primi Novanta (Ywis, Egdon Heath, Cirkel, Last Detail, Timelock) ed il classico hard & heavy melodico (Vandenberg, nonché i Vengeance, da cui sono derivati in seguito gli space metal progsters Ayreon).

Un gruppo davvero di culto sono rimasti poi gli Osiris, autori di uno strabiliante techno-thrash progressivo, sulla scia degli statunitensi Watchtower e dei tedeschi Sieges Even, non lontano da suggestioni oscure, mutuate dai primi Judas Priest o dai Merciful Fate, ma altresì sensibili alla Bay Area meno oltranzista (si legga Laaz Rockit). Il quintetto olandese si costituì tra il 1985 e il 1987 e solo nel 1991, per la Shark, vide la luce il primo (ed unico) disco degli Osiris, dal suggestivo titolo Futurity and Human Depressions (che, al pari di titoli e testi, si segnala positivamente, per la distanza dai clichés, allora imperanti in ambito estremo): superbe ed intricate architetture sonore, spiraliformi, degne dei Voivod e dei Fates Warning di No Exit o Perfect Simmetry. L’album è stato di recente ristampato dalla Divebomb, che è nota agli appassionati anche per altre riedizioni laser di pregio (tra queste, i tedeschi Skeptic Sense e i britannici Arbitrater). Agli otto splendidi pezzi dell’originale, in un secondo CD, ne sono stati poi aggiunti altri nove, sostanzialmente le versioni demo degli stessi, versioni apparse all’inizio soltanto su cassetta (Inextricable Reversal, 1989, ed Equivocal Quiescence, 1991), e con tre ottime canzoni rimaste all’epoca inedite: False Insinuation, Agony and Hate e la conclusiva Christopher. Per chi se li è persi allora (e sono-siamo tanti), un’occasione imperdibile per rimediare e dare il giusto tributo a un validissimo gruppo, che ebbe il solo ‘torto’ di uscire nell’infausto (per la scena) anno 1991.

Track list
1- Futurity
2- Something To Think About
3- Mass Termination
4- Inextricable
5- Out of Inspiration
6- Inner Recession
7- Fallacy (The Asylum)
8- Frozen Memory

Line up
Maurice – Guitars
Geert – Guitars
Marc – Drums
René – Bass
Bram – Vocals

2015 (prima stampa 1991) – Divebomb Records

Vento di Nord-Est: ricordando il prog italiano anni Novanta

Quando ormai la bella storia del new prog inglese degli anni Ottanta andava avviandosi verso il suo malinconico tramonto, gli echi – opportunamente rivisitati – cominciarono ad attecchire anche nel nostro paese.

Tra la fine del decennio e il principio del successivo, alcune coraggiose formazioni, su tutti i Men of Lake (i quali si ispiravano al progressive britannico dei Rare Bird ed al kraut rock dei primi Tangerine Dream) e i Jester’s Joke (dal nome marillioniano, pure loro arruolati dalla francese Musea) iniziarono a muovere i primi passi, dapprima su cassetta. Erano, del resto, gli anni dei demo tapes, e non solo per il metal. I più longevi sarebbero stati i Twenty Four Hours, ancora su Musea, in bilico tra i Pink Floyd di A Saucerful of Secrets ed atmosfere magniloquenti ispirate ai primi King Crimson, con il mellotron sugli scudi. Impossibile è dimenticare poi i fiorentini Nuova Era (lanciati dalla mitica Contempo Records) e lo storico ed ottimo debut inciso dai genovesi Eris Pluvia (Rings of Earthly Light, Musea, 1991), dai quali sono derivati, in seguito, Narrow Pass ed Ancient Veil, oggi ancora sulla breccia, e con ottimi dischi di matrice canterburyana. Da ricordare anche i toscani (di Livorno, per la precisione) Egoband, che, con Trip in the Light of the World (1992), incantarono non solo i fans del new prog alla Marillion, ma anche quelli di sonorità più hard e dark, alla Van der Graaf-Peter Hammill, prima di virare coi lavori susseguenti verso un anonimo r ‘n’ b psichedelico.

Sul finire degli Eighties, uno dei gruppi italiani più promettenti erano senz’altro i Black Jester, nati a Treviso e responsabili d’un entusiasmante hard prog, con magnifici impasti di chitarra e di tastiere, suoni barocchi e la particolarissima voce di Alex ‘The Jester’ D’Este (poi negli Snowblind, una cover band dei Black Sabbath). Dopo un promettente nastro omonimo, nel 1990, i Black Jester firmarono per la WMMS di Peter Wustmann, la label tedesca che – sino alla cessazione delle attività, tra 1996 e 1997 – tanto e bene avrebbe fatto, al fine di promuovere il nuovo progressive italiano. Nel 1993 e nel 1994, rispettivamente, i Black Jester pubblicarono i loro due capolavori: Diary of a Blind Angel e Welcome to the Moonlight Circus, felicemente impregnati di un pomp rock metallizzato, sinfonico e favolistico. Il gruppo si sciolse dopo avere tentato la difficile trasposizione di Dante su disco (The Divine Comedy, 1997). Alcuni dei suoi membri hanno successivamente suonato, con ex componenti delle Orme, nei più intimistici Faveravola (2006) ed, in particolare, nei Moonlight Circus. Questi ultimi hanno rilasciato Outskirts of Reality (2000) e Madness in Mask (2007): a tutti gli effetti, una ripresa e una continuazione, aggiornata al nuovo millennio, di quanto realizzato dai Black Jester nel 1994, assieme al paroliere Loris Furlan, oggi editore musicale, con la sua Lizard Records, presso la quale incidono interessanti artisti nostrani di prog, post rock, avanguardia e jazz rock.

Affini ai Black Jester, per provenienza geografica e genere musicale di appartenenza, erano pure gli Helreid, nati anche loro a fine anni Ottanta. Esordirono solo nel 1997, con lo stupendo Mémoires e, quattro anni più tardi, sempre per la piemontese Underground Symphony, realizzarono Fingerprints of the Gods (il titolo veniva dal classico di archeologia spaziale di Graham Hancock, Impronte degli dèi). Gli Helreid, di cui resta realmente nella memoria Mark the Wizard, sono da pochi anni in pista di nuovo: il disco del ritorno (aggiungendo una ‘h’ alla fine del loro nome) è stato Fragmenta, uscito nel 2012, idealmente in linea con gli esordi, come se il tempo non fosse mai passato.
La breve ma meritata stagione di gloria dei Black Jester, nella prima metà degli anni Novanta, fece altresì da traino per tutta una scena validissima ed in fermento, come quella del Nord- Est italiano di allora. L’epicentro era Treviso, dove tra il 1988 e il 1990 furono attivi gli Spleen (recuperati poi nel 1994 dalla Mellow), da cui sorsero i Marathon. Questi furono di fatto i Rush italiani. Dopo il demo World of Trend (1991), i Marathon si accasarono anche loro presso la WMMS e pubblicarono due strabilianti lavori, di metal-prog, melodico ed iper-tecnico: Impossible Is Possible (1993) e Sublime Dreams (1994), con la collaborazione di alcuni membri dei tedeschi Manner.

Il gruppo però forse più importante – non solo di Treviso e dell’Italia nord-orientale, ma di tutto il new prog italiano – rimangono di certo gli Asgard. Nati nel 1984 e quindi ispirati ai Marillion era-Fish, parteciparono alle compilation Italian Rock Invasion (1987) ed Exposure (1988) e si esibirono spesso in concerto: ancora oggi c’è chi ricorda con misto di emozione e nostalgia la loro suite in due parti The Light Spring, tra l’altro mai messa poi su disco. Dopo anni di concerti e di crescita costante gli Asgard furono il primo gruppo italiano a firmare per la WMMS. Il debutto, Gotterdammerung, vide la luce nel 1991. Fu una vera rivelazione, uno stupendo incrocio di retaggi marillioniani e echi della mitologia germanica in musica, un disco che inaugurava il nuovo decennio del prog italiano ed illuminava una scena, in quei giorni, in espansione davvero pronunciata. L’anno successivo, apparve il mini-CD Esoteric Poem, che, in tutto e per tutto, teneva fede al titolo. Alcuni puristi storsero non poco il naso – lo rammento bene, come rammento quegli anni – per gli inserti dark-ambient (molti allora ragionavano intendendo i generi alla stregua di compartimenti stagni), tuttavia gli Asgard avevano dimostrato, solo e semplicemente, di voler progredire lungo la loro strada. Arcana, apparso nel 1993, trovò il perfetto punto di contatto tra lo stile del primo disco e le atmosfere del secondo, preparando la strada alla svolta. Nel 1993, sempre per la WMMS, uscì Imago Mundi: il sound si era indurito e faceva incontrare le origini neo-prog della band con il prog-metal dei Queensryche e dei Dream Theater, con risultati potenti e sublimi. Lo stesso percorso, sia detto per inciso, dei tedeschi – anche loro su WMMS – Ivanhoe, i quali – specie con Visions and Reality (1994) e Symbols of Time (1995), prima di perdersi nel banale heavy maideniano di Paralized (1997) – si mossero tra Rush e Marillion, Dream Theater e Queensryche. Imago Mundi fu uno dei migliori dischi dell’anno 1993, ma anche il canto del cigno di una stagione. Infatti, tra problemi di line-up e ritardi nell’incidere le canzoni del nuovo album, gli Asgard si arenarono e tornarono sulle scene, per una piccola etichetta, solo sette anni dopo. Per quanto discreto, Drachenblut (2000) soffriva del tentativo in verità un po’ artificioso di riportare in vita lo spirito bucolico dei primissimi Genesis, quando ormai il momento magico era passato e l’occasione per un successo su più larga scala purtroppo perduta. Membri degli Asgard, nel 1994, collaborarono altresì alla realizzazione di quello che resta uno dei migliori dischi di pomp rock anni Novanta (insieme A Blueprint of the World, degli americani Enchant, 1993). Mi riferisco ad Hunting the Fox di Ines, bella e brava tastierista tedesca, accompagnata tra gli altri pure da componenti degli storici progsters Anyone’s Daughter e dei friulani Garden Wall (i soli ancora attivi oggi di quella scena, autori di molteplici eccezionali lavori, fra thrash, dark, prog e elettronica robotica). Quanto ad Ines, dopo quel magico esordio, non seppe più confermarsi: Eastern Dawning (1996) esibì una piatta new age, alla Lanvall, appena innervata da spunti per radio FM e momenti di blando soft prog (alla Rebekka), mentre The Flow (1999) denunciò una crisi d’identità notevole e fin più preoccupante, all’insegna di una insignificante world music, etnica e modaiola. Il quarto lavoro, Slipping Into the Unknown (2002), tentò se non altro di tornare all’hard rock, con ballate acustiche e influenze pop desunte dai (peraltro prescindibilissimi) dischi solisti di Phil Collins e Tony Banks.

Nei primi anni ’90, in Veneto, furono attivi anche i Top Left Corner, di Padova. Anche per loro un demo tape omonimo (1994), e due buonissimi dischi, per la WMMS: Mystery Book (1994) – col suo progressive epico alla Rush-Yes-Asgard – e Nowhere (1996). Sempre dal Nord-Est venivano inoltre i friulani Barrock, autentici maestri del prog sinfonico, guidati dal grande Walter Poles. Tre lavori, oltre alle tante cassette registrate tra il 1983 e il 1988: L’alchimista (inciso nel 1990 e pubblicato in Giappone dalla Moon Witch, l’anno dopo), Oxian (edito dalla olandese SI Music nel 1995) ed infine La strega, licenziato dalla ligure Mellow Records, nel 1999, proprio in conclusione della decade. In Friuli, ad Udine, furono attivi anche i Last Warning, nati nel 1987. Dopo il demo Bloody Dream (1992-1993), incisero per la WMMS il fantastico From the Floor of the Well (1994), a metà strada fra Threshold e Crimson Glory, per poi proseguire su Underground Symphony. Di Udine sono pure gli straordinari Quasar Lux Symphoniae, tra i maggiori e forse sottovalutati gruppi italiani di prog barocco ed orchestrale. Formatisi nel lontano 1976, incisero sempre per la WMMS due capolavori, quali la rock opera Abraham (1994) e il mitologico The Enlightening March of Argonauts (1997). E la loro discografia non si ferma qui.
Affini al vento che soffiava da Nord-Est furono poi i varesini Court, che si fecero notare col demo-tape Live, nel 1992. Il loro And You’ll Follow the Winds (1993) fu un autentico gioiellino hard-folk, che rimpiazzava senza rimpianti le tastiere (virtualmente assenti) con chitarre acustiche e flauto alla Jethro Tull. Fenomenali dal vivo – condivisero il palco fra Italia e Germania con i Black Jester e gli Ivanhoe, nell’estate 1994 – i Court smarrirono purtroppo quasi subito la propria identità: Distances (1997) mise in mostra soltanto un rock annacquato, con momenti di sbadiglio o addirittura irritanti, pochissimo prog e un vago orientamento psichedelico mal metabolizzato. Anche il successivo Frost of Watermelon (2007), ispirato ai Caravan, non lasciò il segno. Da riscoprire comunque il debutto, insieme a quello dei modenesi Lie Tears – i quali, dopo i nastri Hypnotic Mind (1995) e Lost Sand Sad (1997) – pubblicarono per la Underground Symphony A Gate for Another Life (1999), davvero bellissimo nei suoi riusciti intrecci di hard melodico inglese e new prog appena metallizzato.
Oggigiorno, quel mondo e quella scena musicale, che specie nel Nord-Est italiano dei primi anni ’90 vide emergere ottimi gruppi, non esistono più. Restano solo i ricordi. In generale, il new prog – sia inglese, sia europeo ed italiano – pare avere ormai esaurito la sua linfa vitale. Consiglio nondimeno di dare un ascolto a chi, nella nostra penisola, ancora ci crede e realizza CD validi e interessanti. Si ascoltino in particolare i Cage, i riformati CAP, gli Archangel (con Clive Nolan dei Pendragon, alle tastiere, in qualità di ospite), i Sithonia, i Gran Turismo Veloce, gli scoppiettanti Flower Flesh e, soprattutto, i grandissimi Graal, forse i migliori eredi in termini compositivi dei Black Jester, epici e gotici, con il loro hard prog pomposo e fantasy, che – attraverso quattro meravigliosi album – cita e riprende in una maniera originale, creativa e personale, l’eredità perenne di Uriah Heep, Magnum, Rainbow e Dio. Perché la fiamma non si spegne mai.

Aftermath – Words That Echo Fear

Se oggi abbiamo gli immensi Vektor, è anche perché in passato vi è stato chi, come gli Aftermath, ha seminato in fertile maniera i campi elisi del techno-thrash progressivo. Da riscoprire.

Nel 1985, a Chicago, nell’Illinois, si costituirono gli Aftermath. Dopo due nastri amatoriali (1986-87) ed un acerbo split (1988), i cinque americani si fecero notare con il loro terzo demo, dal titolo – bellissimo e poetico, davvero – Words That Echo Fear, messo in circolazione nel 1989: solamente quattro tracce, ma di spessore assoluto, intricate e melodiche, tecniche e progressive.

I modelli del thrash filosofico ed intellettuale degli Aftermath erano, senz’altro, i Coroner di fine anni Ottanta, gli Anacrusis, i Blind Illusion, Voivod di Dimension Hatross, i maestri Watchtower e i grandi alfieri del techno-death più colto ed evoluto, raffinato e sperimentale (Atheist naturalmente, ma anche i troppo poco celebrati Believer). I pezzi, splendidi ed articolati, brillano ancora oggi, di luce purissima. Chi li volesse ascoltare ed apprezzare – ne vale la pena, seriamente – può recuperare la ristampa che la Shadow Kingdom (di solito specializzata in doom) ha fatto nel 2015 dell’unico full-length realizzato dagli Aftermath, il fantastico e futuristico Eyes of Tomorrow, uscito in origine nel 1994: infatti, nella riedizione laser, oltre all’album è presente Words That Echo Fear e un altro demo (omonimo) uscito con quattro composizioni, nel 1996, poco prima che il gruppo cambiasse il proprio nome in Mother God Moviestar. Una perla nascosta.

Track list
– Words That Echo Fear
– A Temptation to Overthrow
– Being
– Experience

Line up
Charlie Tsiolis – Vocals
Ray Schmidt – Drums
Dan Vega – Bass
John Lovette – Guitars
Steve Sacco – Guitars

1989 – Autoprodotto

Abomination – Demo 1988

Autentica storia underground. Per chi ama Deceased, Incubus, Slaughter, Massacre, Krabathor, One Machine, Iced Earth e Cripple Bastrads.

Statunitensi di Chicago, Illinois, nati nel 1987, gli Abomination debuttarono su cassetta con il demo tape eponimo del 1988: sei pezzi veloci ed oscuri, non senza tenui echi doom, tra i primi che, verso la fine degli anni Ottanta, cominciarono a traghettare la tradizione del thrash americano verso i lidi del death metal, insieme ai Devastation e agli amici Master (con i quali gli Abomination, sovente, si scambiavano i musicisti).

Il demo del 1988, insieme a quello del 1989, è stato ristampato su cd dalla Doomentia (che ha rieditato anche i due classici degli stessi Master) ed oggi è dunque di facilissima reperibilità. In queste due cassette è racchiuso un verbo che gli Abomination hanno poi messo su LP con l’esordio omonimo del 1990, un capolavoro che tutti conosciamo. Si tratta di un gruppo grande e storicamente assai importante, non dissimile poi dai Dream Death e dagli Impulse Manslaughter, anche se questi ultimi erano, rispettivamente, più orientati verso il thrash-doom i primi e l’hardcore-crossover i secondi. Tutti, comunque, grandi lavori. Da avere.

Track list
– Victim of the Future
– Social Outcast
– Rape of the Grave
– Possession
– Doomed By the Living
– The Truth

Line up
Paul Speckmann – Bass, Vocals
Aaron Nickeas – Drums
Mike Schaffer – Guitars

1988 – Autoproduzione

Tra Mozart e Lovecraft: le molte vite artistiche dei Mekong Delta

Questo straordinario gruppo, soprattutto ad inizio carriera, ha sempre saputo creare, attorno a sé, un alone di mistero, specie circa le sue origini e la sua prima formazione.

Il nome, Mekong Delta, è da riferirsi alla foce di un fiume del Vietnam, mentre l’intero progetto venne organizzato dalla mente, a dir poco geniale, di Ralph Hubert, ingegnere del suono di Living Death, Warlock e Steeler, nonché proprietario e factotum dell’etichetta discografica Aaarrg dal 1985.
I primi demo tapes dei Mekong Delta furono incisi da una line-up composta dal cantante Wolfgang Borgmann, dalle due asce dei Living Death (Reiner Kelch e Frank Fricke), da Hubert al basso (sotto lo pseudonimo di Bjorn Eklund) e da Jorg Michael, in quel momento già batterista di Avenger, Rage e Paganini (e in seguito con Tom Angelripper, Axel Rudi Pell, Headhunter, Schwarzarbeit, Running Wild, Grave Digger, Stratovarius e Saxon, tra i molti altri). Con questa formazione, i Mekong Delta realizzarono nel 1987 il loro primo album omonimo, contenente un thrash metal durissimo e vicino alla scuola newyorkese degli Anthrax.

Nel 1988 apparve il capolavoro del gruppo, il concept album The Music of Erich Zann, prodotto dal medesimo Hubert, bissato dal mini Toccata, sul finire dell’anno. Con questi due lavori, in pratica, i Mekong Delta si posero come gli ELP del thrash. I testi e la copertina si ispirano alla fantascienza horror dell’omonimo racconto lovecraftiano ed offrono qualcosa di diverso ai tanti thrashers europei di fine anni Ottanta. In ambito techno-thrash, del resto, i precedenti erano pochissimi, solo Release From Agony dei connazionali Destruction e Killing Technology dei Voivod, oltre ai Watchtower. In anticipo pertanto su Coroner, Megadeth, Annihilator, Deathrow e Despair, i Mekong Delta mettono in mostra un approccio di tipo orchestrale, che necessita di ascolti ripetuti, per essere capito. Tempi dispari, riff imprevedibili, controtempi e cambi improvvisi di tempo abbondano. L’energia dei MD è inesauribile: si ascoltino Age of Agony, Confession of Madness, Prophecy e Memories of Tomorrow, oppure il thrash sinfonico dello strumentale Interludium (una versione riarrangiata della musica che Bernard Hermann scrisse per Psycho di Hitchcock, tratto dal noto romanzo di Robert Bloch, amico e discepolo di Lovecraft). Per dirla altrimenti, The Music of Erich Zann dimostra quanto la band di Ralph Hubert fosse “avanti” nella concezione musicale, sperimentale come negli Eighties sono stati in fondo pochi (vengono giusto in mente, per stare in territori metal, Celtic Frost e Prong).
La band tedesca si conferma con il terzo disco, The Principle of Doubt (1989), apparso per la Major Records, label sorta dalla fusione tra la Aaarrg e la Atom H degli Accuser. Intanto, Mark Kaye, alla chitarra, ha preso il posto di Kelch. Per il lavoro di scrittura, registrazione e produzione del quarto lavoro, Dances of Death (1990, di nuovo per la sola Aaarg) i Mekong Delta si chiudono in studio e per un anno intero: il segno del modo di lavorare di Ralph Hubert, certosino e maniacale, attento ai dettagli ed alle sfumature anche più minute. Il Robert Fripp del metal, verrebbe da dire, anche se il techno-thrash mutante e progressivo dei Mekong Delta è maggiormente debitore verso il fantasioso gusto emersoniano del virtuosismo, mai fine a se stesso e spesso giostrato sulle scale minori.

Nel 1991, mentre il thrash canonico si avvia ad entrare in crisi, i Mekong Delta celebrano, alla loro maniera, i vent’anni di Pictures at an Exhibition di ELP – lo storico e personale omaggio, in chiave pomp rock, reso dal celeberrimo trio inglese a Mussorgsky, nel 1971 – con il concerto di Live at an Exhibition. E’ la spia del fatto che ormai la creatura partorita dalla mente di Ralph Hubert intende da par suo guardare oltre, non solo i confini del thrash tradizionale, ma altresì quelli dello stesso metal, per abbeverarsi, sorretta del resto da doti tecniche e di scrittura impressionanti, alla scuola del prog anglo-britannico e della stessa musica classica, che lo aveva ispirato, in moltissimi casi. Escono così dischi coraggiosi e sperimentali, innovativi ed avventurosi, originali e creativi, come Kaleidoscope (1992) e soprattutto Vision Fugitives (1994), forse l’apice del gruppo: un post-thrash ipertecnico con archi, di ispirazione settecentesca e segnatamente mozartiana. Un lavoro realmente incredibile, a cui peraltro manca, oramai, un pubblico in grado di apprezzare e davvero le complesse quanto intricate stratificazioni armonico-melodiche dei Mekong Delta e le loro ricerche ritmiche sulle strutture degli accordi. Forse, il gruppo si è paradossalmente spinto troppo oltre e inevitabile arriva un temporaneo scioglimento.
Nella seconda metà degli anni Duemila, Hubert ha infine rimesso in piedi i MD ed ancora una volta ne sono venuti quattro dischi strepitosi: Lurking Fear (2007), Wanderer on the Edge of Time (2010), Intersections (2012) e In a Mirror Darkly (2014), forse meno orientati al techno-thrash degli esordi e più in linea con un comunque strabiliante ed eclettico metal prog neo-classico. Musica che rimane aristocratica e d’élite, esoterica (nel senso etimologico del termine), e quindi per pochi iniziati e non per tutti: di certo superbi esperimenti di metal sinfonico, da riscoprire.

Morbid Saint – Destruction System

Un ottimo gruppo statunitense, poco conosciuto dai più, che seppe traghettare il thrash verso i lidi del death metal floridiano.

I Morbid Saint – originari di Sheboygan, Wisconsin, e poi trasferitisi a Chicago – si formarono nel 1982 sotto le insegne del nascente US Metal.

L’avvento del thrash californiano cambiò loro la vita e il debutto del 1990, intitolato Spectrum of Death, fu folgorante. L’anno successivo, si sa, Nevermind dei Nirvana e l’omonimo dei ‘Tallica mandarono in crisi il thrash più tradizionale e i Morbid Saint si trovarono costretti a registrare solo su cassetta, in versione demo, il loro secondo disco, Destruction System, pubblicato su compact, insieme all’esordio, soltanto nel 2015 dalla Keltic, con distribuzione Century Media: otto tracce durissime e cattivissime, tra Slayer, primi Kreator, Sepultura, Possessed, Dark Angel e Sadus. Non mancavano contaminazioni con il black metal (primissimi Sodom, nonché Infernal Majesty) e nello specifico con il death di Malevolent Creation, Vader e Merciless (ormai la nuova frontiera dell’estremo in musica all’alba dei Novanta). Destruction System è dunque, oltre che una attestazione di indelebile coerenza ed integrità artistica, anche una significativa e preziosissima testimonianza storica circa l’evoluzione parallela ed intrecciata di thrash e death al principio dei ’90: un prodotto quindi assolutamente da avere.

Tracklist
– Darkness Unseen
– Death of Sanity
– Final Exit
– Destruction System
– Disciples of Discipline
– Halls of Terror
– Living Misery
– Sign of the Times

Line up
Pat Lind – Vocals
Jay Visser – Guitars
Jim Fergades – Guitars
Lee Raynolds – Drums
Gary Beimel – Bass

1991 – Autoprodotto

Iron Angel – Legions of Evil

Nastro di culto, per un gruppo chiave del thrash tedesco anni Ottanta, appena dietro la sacra triade rappresentata da Kreator-Sodom-Destruction.

Nel 1980 nacquero ad Amburgo i Metal Gods, sin dal nome devoti al verbo della NWOBHM e dei Judas Priest in particolare.

Tre anni dopo, al momento del loro scioglimento, alcuni membri diedero vita ad una nuova formazione, gli Iron Angel. Questi ultimi – amici dei Kreator di Mille Petrozza, a fianco dei quali suonarono diverse volte in concerto – prima di rilasciare il capolavoro d’esordio, dal titolo Hellish Crossfire, nel 1985, incisero tre demo tape, tutti registrati nel 1984: il migliore rimane senza dubbio Legions of Evil. Il gruppo, capitanato dal cantante Dirk Schroeder, suonava uno speed-thrash cupo ed occulto, non troppo dissimile da quello di molti connazionali di allora (Risk, Living Death, Vendetta, Paradox, Angel Dust, primissimi Blind Guardian), ma aperto anche ad influenze di ascendenza americana (principalmente Laaz Rockit, Flotsam and Jetsam e Nasty Savage, peraltro a quell’epoca anche loro appena agli inizi). L’intro Return From Hell, con i suoi rintocchi funerei, ben rappresentava il potenziale dark del quintetto germanico – messo poi da parte dalla svolta molto più melodic-power del secondo disco (Winds of War, 1987) – e lasciava presto il posto ad autentici inni, quali Metallian, la title-track, Heavy Metal Soldiers, la più priestiana Sinner e l’oscura e sabbathiana Church of the Lost Souls. Chiudeva infine la cassetta Rush of Power, incisa dal vivo durante uno dei molti gig che la band teneva in quel periodo in patria. Legions of Evil – abbinato all’altro demo tape, Power Metal Attack, sempre del 1984 e in realtà di puro thrash – è stato ristampato su CD dalla HR Records nel 2017, con la stessa grafica meravigliosamente spartana del nastro originario. Una vera e propria chicca per intenditori.

Track list
– Opener: Return From Hell
– Metallian
– Legion of Evil
– Church of the Lost Souls
– Sinner
– Heavy Metal Soldiers
– Rush of Power (live)

Line up
Dirk – Vocals
Sven – Guitars
Peter – Guitars
Thorsten – Bass
Mike – Drums

1984 – Autoproduzione

Breve storia di un grande gruppo: gli Holy Moses

Quando si parla di thrash in Germania vengono subito in mente i big four tedeschi (Kreator, Sodom, Destruction e Tankard). Eppure, se non altro per longevità, si potrebbero aggiungere anche gli Holy Moses, dalla discografia davvero nutritissima. Andiamo, pertanto, a riscoprirli, tramite questa breve retrospettiva.

Gli Holy Moses furono fondati da Raymond Brusseler, nel lontano 1979, influenzati dall’hard rock e dall’heavy britannico di quel periodo. Per un quinquennio il gruppo vivacchiò e la vera svolta arrivò solo nel 1984, quando entrarono in formazione i due coniugi Classen, Sabina alla voce ed Andy alla chitarra. Con loro vennero incisi due nastri, Walpurgis Night e The Bitch, che fruttarono un contratto con la Aaarrg Records (la label dei connazionali Mekong Delta e Living Death e dei belgi Target). Il 1986 vide l’esordio degli Holy Moses sulla lunga distanza, con Queen of Siam, ancor oggigiorno un piccolo classico. L’anno del vero salto di qualità fu tuttavia il 1987, quando apparve il loro Finished With the Dogs, che conquistò i fans del thrash. I pezzi sono colmi di carisma e molto oscuri, classici dello speed teutonico con il basso martellante, riff secchi e decisi, sorretti da una produzione ferrosa e metallica. La title-track ha inoltre una carica punk che è degna degli Exploited più tirati. Fortress of Desperation si inoltra invece nel doom: i risultati sono a dire poco grandiosi e inquietanti. Anche il mosh-core di Six Fat Woman, con una doppia cassa chirurgica, non è di certo da meno, con ottimi effetti nel dialogo tra la voce solista ed il coro, nel refrain. Da parte sua, Rest in Pain possiede poi un’atmosfera indubbiamente più orrorifica, arricchita da numerose dissonanze genuinamente sinistre e rallentate. L’iconografia generale del disco è sempre cupissima, fatta di vetri rotti, lastre di metallo arrugginite, rifiuti e cemento: un espressionismo volutamente sgraziato, degno sul palco dei migliori Killing Joke.

Nel settembre del 1987, anche per cavalcare l’onda del successo, gli Holy Moses licenziarono l’EP-picture disc Road Crew, con due nuovi pezzi sul retro: Current of Death e Life’s Destroyer. Il fine, evidente, era quello di promuovere il successivo tour in Germania occidentale insieme a DRI e Holy Terror. Nel frattempo, mentre la situazione interna alla band rimaneva non poco burrascosa e molti avvicendamenti di line-up si susseguivano con una certa frequenza, l’istrionica cantante si esibì con ottimi riscontri nelle vesti di presentatrice del programma televisivo dedicato alla musica Mosh.
Nel 1988, vista l’attenzione del pubblico e le buonissime vendite, gli Holy Moses firmarono con la WEA ed entrarono negli studi di registrazione Horus di Hannover per incidervi il loro terzo album, prodotto dal famoso ed affermato Alex Perialas (Anthrax, SOD ed Overkill tra gli altri). I problemi, peraltro, non mancarono: durante le registrazioni il chitarrista Thilo Hermann se ne andò per tornare nei Risk e venne sostituito da Reiner Laws, il quale però su The New Machine of Lichtenstein non suonò affatto, responsabile soltanto della grafica di copertina. La nuova formazione si presentò, con una esibizione davanti a ventimila persone, al Dynamo Open Air, nel maggio del 1989. Il disco però non ebbe il successo sperato e la WEA ruppe il contratto. Fallita l’esperienza con una major, la band tedesca si accasò presso la Virginia Records e, nel rapido volgere di pochi mesi, confezionò l’ottimo World Chaos (1990), in tutto e per tutto un ritorno ai suoni ed allo stile di tre anni prima, forte anche dell’ottima prova finalmente fornita dalla sezione ritmica (Thomas Becker al basso e Uli Kusch alla batteria).

Gli Holy Moses – a differenza di altri colleghi, in patria ed all’estero – non subirono particolarmente il contraccolpo della crisi innescatasi, nel movimento thrash, a partire dal 1991, realizzando ancora Reborn Dogs (1992), l’antologia Too Drunk to Fuck (1993) e No Matter What’s the Cause (1994). Il calo di interesse verso il genere tuttavia prostrò alla fine anche la loro carriera. Riemersero soltanto all’alba del nuovo millennio, con l’entusiasmante Master of Disaster (2001), seguito dai validissimi Disorder of the Order (2002), Strenght Power Will Passion (sin dal titolo una vera dichiarazione di intenti, realizzato tra il 2004 e il 2005) e Agony of Death (2008). Nel 2012 uscì anche la raccolta In the Power of Now, utilissima per chi si volesse accostare loro la prima volta: venti classici del loro repertorio, ri-registrati ex novo, con due brani inediti, aggressivi e asciutti come da tradizione, con il thrash tedesco old school che si rivolge anche a metal classico e hardcore-death, attraverso momenti più elaborati e vari. Notevole, infine, è pure il nuovo capitolo in studio, Redifined Mayhem (2014), forte di una maturità tecnico-compositiva e di una classe identitaria ormai inossidabili.

AAVV – Marc Bolan, David Bowie: a tribute to the madmen

Il giusto e splendido tributo a due grandi immortali della musica novecentesca, senza se e senza ma, omaggiati da una pletora di artisti di spessore.

Nel 1977, appena trentenne, moriva in un incidente d’auto Marc Bolan. Nell’inverno del 2016, quasi 40 anni dopo, se n’è andato David Bowie.

Ai due immensi artisti (nel senso vero della parola), che nel 1971 – con Electric Warrior il primo, con Hunky Dory il secondo – inventarono il glam rock, oggi rende omaggio la Black Widow di Genova. E lo fa con un cofanetto tributo davvero entusiasmante: tre CD, un poster, un magnifico libretto illustrativo in formato 45 giri ed una spilla. Ad omaggiare Bolan e Bowie, la label ligure ha chiamato gruppi e solisti (non solo della propria scuderia) di area prog, hard rock, folk, doom e dark. E’ davvero straordinario ascoltare, alle prese con Bolan e Bowie, Paul Roland, Bari Watts, Adrian Shaw, i Danse Society, i Kingdom Come di Victor Peraino, Franck Carducci, i Death SS, i Presence e La Fabbrica dell’Assoluto (nel primo cd), Joe Hasselvander (ex di Pentagram e Raven), i Blooding Mask, il Segno del Comando, gli Aradia di Sophya Baccini, Silvia Cesana e la sua band, gli Oak, i Witchwood e gli Elohim (nel secondo cd), i Northwinds, i General Stratocuster & the Marshals, Freddy Delirio, i Mugshots, gli Electric Swan, Rama Amoeba, i Blue Dawn e i Landskap (nel terzo ed ultimo cd). In tutto sono 59 canzoni: ogni classico di Bowie e dei T. Rex è presente e non mancano inoltre le sorprese. Commentare ogni singolo rifacimento è certo impresa impossibile e non intendo rovinare il piacere all’ascoltatore. Una cosa, però, va detta: ogni artista o band rispetta fedelmente l’originale, rileggendolo comunque in chiave personale e creativa, senza snaturarlo e portando, semmai, il bagaglio musicale del proprio stile o genere d’appartenenza: scusate se è poco! Un’opera magna e doverosa, che tributa il genio e il suo ruolo nella storia.

Tracklist
CD 1
1. PAUL ROLAND Meadows Of The Sea
2. PAUL ROLAND The Prettiest Star
3. BARI WATTS By the light of a magical moon
4. BARI WATTS Lady Stardust
5. ADRIAN SHAW Jeepster
6. ADRIAN SHAW It’s ain’t easy
7. THE DANSE SOCIETY Ride A White Swan
8. THE DANSE SOCIETY Scary Monster
9. V. PERAINO KINGDOM COME Monolith
10. V. PERAINO KINGDOM COME Panic In Detroit
11. La FABBRICA DELL’ASSOLUTO Metropolis
12. La FABBRICA DELL’ASSOLUTO Big Brother
13. DEATH SS 20th Century Boy
14. DEATH SS Cat People (Cutting Out Fire)
15. PRESENCE Children Of The Revolution
16. PRESENCE We are the dead
17. FRANCK CARDUCCI The Slider
18. FRANCK CARDUCCI Life On Mars

CD 2
19. THE HOUNDS OF HASSELVANDER Chariot Choogle
20. THE HOUNDS OF HASSELVANDER Cracked Actor
21. BLOODING MASK Beltane Walk
22. BLOODING MASK The Hear’st Filthy Lesson
23. IL SEGNO DEL COMANDO Mambo Sun
24. IL SEGNO DEL COMANDO Ashes To Ashes
25. SOPHYA BACCINI’S ARADIA Cosmic Dancer
26. SOPHYA BACCINI’S ARADIA Velvet Goldmine
27. SILVIA CESANA Girl
28. SILVIA CESANA Heroes
29. O.A.K. Cat Black
30. O.A.K. The man who sold the world
31. WITCHWOOD Child Star
32. WITCHWOOD Rock’n’roll Suicide
33. ELOHIM Ride A White Swan
34. ELOHIM Let’s dance

CD 3
35. NORTHWINDS Childe
36. NORTHWINDS Space Oddity
37. FREDDY DELIRIO Buick Mackane
38. FREDDY DELIRIO Rebel Rebel
39. GENERAL STRATOCUSTER & The MARSHALS Metal Guru
40. GENERAL STRATOCUSTER & The MARSHALS Moonage Daydream
41. THE MUGSHOTS Pain And Love
42. THE MUGSHOTS China Girl
43. ELECTRIC SWAN Midnight
44. RAMA AMOEBA Telegram Sam
45. RAMA AMOEBA Dandy in the Underworld
46. LANDSKAP Ballroom Of Mars
47. LANDSKAP Look Back In Anger
48. BLUE DAWN Rip Off
49. BLUE DAWN Warszawa

BLACK WIDOW – Facebook

False Witness – False Witness

Un ottimo gruppo canadese, ignoto ai più, rimasto sempre ingiustamente ai margini e precocemente scioltosi nell’indifferenza generale, responsabile di un heavy-speed metal per veri defenders, sulla scia dei connazionali Exciter ed Anvil.

Originari di North Delta, nella Columbia britannica, i False Witness si formarono nel 1989 e, dopo sette anni di inutili tentativi, gettarono la spugna.

Il gruppo canadese ebbe infatti la grande sfortuna di costituirsi solo alla fine di quello che è stato il decennio aureo del metal mondiale, per vivere la sua difficile esistenza negli anni infelici segnati dalle mode alternative. Il primo ed unico demo tape del quartetto nordamericano apparve, omonimo, nel 1990: un favoloso concentrato di speed metal e di heavy classico, assolutamente figlio degli anni Ottanta in termini di composizioni e di suono, non senza reminiscenze prog (di marca inglese) e, soprattutto, US power (in particolare i grandi e storici Exxplorer). La cassetta del 1990, registrata sul finire dell’anno prima, comprendeva soltanto quattro pezzi (Laughing to the Skies, Confessions, Wall of Shame e la stupenda ed epica Crestfallen King); nel 2008 la piccola ma volitiva Arkeyn Steel Records ha ristampato il nastro, su CD, in mille copie, aggiungendo anche tre brani, incisi a Vancouver nel novembre 1989, ed altrettante tracce da provini risalenti al periodo compreso tra il 1993 e il 1995, rendendo quindi ancora più succulento il piatto e intitolando la compilation Crestfallen King. E’ l’occasione per rifarsi, sia pure a distanza di tempo, per rendere il giusto onore ai False Witness. Magnifica, dark e suggestiva, tra l’altro la grafica del cd.

Track list
1.Laughing to the Skies
2.Confessions
3.Wall of Shame
4.Crestfallen King

Line up
Michael Rieger – Vocals
George Mahee – Guitars
Scott Aquino – Drums
Rob Bretty – Bass

1990 – Autoproduzione

Infamous Sinphony – Manipulation

Indimenticabile esordio, nel panorama underground americano di fine anni Ottanta, imperdibile per gli amanti del thrash più estremo e brutale, nero e tirato.

Una leggenda. Truci e feroci. Grezzi e violentissimi, soprattutto per gli standard degli Eighties.

Da Los Angeles, gli Infamous Sinphony (è questa la grafia originaria del nome), esordirono nel 1989 su demo tape, con un prodotto volutamente sgraziato e lancinante, peraltro ottimamente registrato. La band si era fatta le ossa con anni di gavetta e concerti di spalla a Exploited, Beowulf, DRI, Blast ed Adolescents. Questa vicinanza a band hardcore punk andò molto ad influenzare il suono sporco ed estremamente rude, oscuro e orrorifico, del quintetto californiano. Manipulation presentava in tutto sedici velocissime tracce, che spingevano il thrash americano di allora in una direzione quasi proto-grind, con appena un paio di rallentamenti, più prossimi al doom. Sotto il profilo vocale, facevano sembrare Wattie degli Exploited un edulcorato maestro di sensibilità canora, il che già la dice lunga a proposito della loro furia cieca: pezzi che paiono un vero assalto all’arma bianca, senza tregua ed all’insegna di una insistita corrosività musicale. Puro underground, insomma. Dopo quella granitica e fulminante cassetta ed una fase di oblio, il gruppo si è riformato, incidendo altri dischi. Tuttavia – nella memoria di chi scrive, come in quella di molti thrashers – è vivo, quasi soltanto, il ricordo del formidabile Manipulation, ristampato poi su CD prima dalla Wild Rags e poi dalla Xtreem Music, nel 2014, con tre bonus-track.

Track list
– Manipulation
– Let’s Move to Another Planet
– Process of Denial
– Siamese Twins
– Outa the Black
– Cadavers-n-stiffs
– Dead Bumble Bees
– Get Out
– Sniveller
– Retribution
– Executioner
– Meth Lab
– Anti-buse
– Persian Gulf
– Blood Orgy
– Incapacitated

Line up
Greg Raymond – Vocals
Paul Leoncini – Guitars
J-sin Platt – Guitars
Anthony Chuck Burnhand – Drums
Scott Nelson – Bass

1989 – Autoprodotto

Armoured Angel – Baptism in Blood

Storico nastro di un gruppo tanto grande quanto poco conosciuto, anche per via della discografia su compact quasi inesistente. Eppure un piccolo grande must per i cultori del più classico speed-thrash ottantiano.

Australiani – come Hobbs Angels of Death e Nothing Sacred – e nati nel 1982 sotto le insegne di un heavy classico, di matrice anglosassone, gli Armoured Angel di Camberra, prima di sciogliersi (nel 2001) sono stati uno dei gruppi in assoluto più talentuosi e sfortunati di tutto il metal anni Ottanta.

Il loro primo demo tape uscì nel 1985: Baptism in Blood, con sei bravi e meno di mezz’ora di durata, aveva tutte le carte in regola per strappare un contratto con una major. Purtroppo, a penalizzare non poco la band, fu soprattutto la provenienza geografica, che tenne il quartetto sempre ai margini della scena. Eppure, quella prima audiocassetta possedeva qualità da vendere: uno speed-thrash articolato e già maturo, non esente da contaminazioni con il metal classico di quegli anni (siamo, quindi, dalle parti degli Agent Steel) ed in particolare capace di unire melodia ed oscurità, quest’ultima mutuata in prevalenza dagli Angel Witch più duri e tenebrosi.
Quattro anni dopo, la band rilasciò un secondo demo (Wings of Death), sulla stessa falsariga. Poi, nel 1990, apparve un altro splendido nastro, dal titolo Communion: un thrash cristallino e potente, che fece sensazione, sulle riviste specializzate. Il 1991 fu però come noto l’anno in cui il genere entrò in crisi ed il tanto atteso esordio, con i due mini Stigmartyr (1992) e Mysterium (1994), si rivelò per gli Armoured Angel un autentico boomerang.
Il demo omonimo del 1995 non ottenne più alcun tipo di riscontro e il primo unico cd pubblicato dalla band, Angel of the Sixth Order, vide la luce solo nel 1999 (a ben diciassette anni dalla formazione e, ormai, con una line-up più volte rimaneggiata, ed un solo componente originario rimasto: il bassista Glen Luck).
Il suono si era fatto più death, stile Asphyx-Bolt Thrower, forse in cerca d’una notorietà che, comunque, non giunse e gli Armoured Angel si sciolsero, appena due anni più tardi.
Esiste una rara antologia circa tutta la loro carriera, Hymns of Hate (2012). Ma è meglio, forse, ripiegare sulla ristampa su cd di Baptism in Blood, uscita per la Abysmal Sounds nel 2009: la migliore e più giusta maniera per rendere il dovuto omaggio ad un gruppo tanto grande quanto misconosciuto.

Track list
– Iron Legions
– (I Am) the Beast
– Deathwitch
– Demon Kings
– Thunder Down Under
– Rip

Line up
Rick Owers – Vocals
Rowan Powell – Guitars
David Devis – Drums
Glen Luck – Bass

1985 – Autoproduzione

Damnation Gallery – Black Stains

Ottimo esordio su lunga distanza per questa eccellente band italiana di metal occulto. Un vero must per chi ama Death SS e Mercyful Fate ed in generale i suoni anni Ottanta.

Nuovo gruppo italiano, di Genova per la precisione, alla ribalta. E nuovo, validissimo debutto su lunga distanza.

Abbiamo potuto apprezzare i Damnation Gallery già al Teatro Carignano del capoluogo ligure, a inizio maggio 2017, occasione nella quale la band presentò di fatto il proprio mini cd d’esordio. Ora quei brani, risuonati e remixati, figurano accanto a nuove tracce su questo ottimo Black Stains, all’insegna di un solido e tradizionale dark metal, che sa rileggere la grande eredità (musicale ed iconografica) dei Death SS e dei Mercyful Fate – tematiche horror incluse, pertanto – sposandola ad elementi black, thrash e HM classico anni Ottanta. Il disco è quindi vario, la scrittura musicale già matura, le qualità tecniche di sicuro pregio, la voce della bravissima Scarlet tanto inquietante quanto splendida. Oscuri e melodici, cadenzati e potenti, oppure veloci ed aggressivi a seconda delle situazioni, i Damnation Gallery ci regalano un tributo in musica al fascino delle tenebre che, sin dal primo impatto, colpisce nel segno e promette ulteriori e interessanti sviluppi sonori. Pezzi come l’iniziale Equilibrium et Chaos, Transcendence Hymn, la title-track, Dark Soul e la kantiana Noumeno illuminano un percorso – sia artistico, sia lirico – davvero notevole e da seguire con la dovuta attenzione. Un gran bel disco e non solo per gli appassionati di doom e dintorni.

Tracklist
1. Equilibrium et Chaos
2. Damnation Gallery
3. Black Stains
4. Evil Supreme
5. Transcendence Hymn
6. Rest in Pestilence
7. Dark Soul
8. Noumenon
9. Addiction
10. Psychosis

Line-up
Scarlet – Vocals
Lord Edgard – Guitars
Low – Bass
Lord of Plague – Guitars
Coroner – Drums

DAMNATION GALLERY – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=VdV6DVUvwhc

Headcrasher – Nothing Will Remain

Ristampa a lungo attesa dello storico esordio, targato 1989, di una band fondamentale nel panorama thrash-core italiano di fine anni Ottanta.

La Punishment 18, da oltre dieci anni, porta avanti un serio e professionale lavoro di valorizzazione del patrimonio underground, tanto italiano, quanto estero, specie in ambito thrash-death-black.

Ne è l’ulteriore ed eccellente riprova la realizzazione di questo Nothing Will Remain, ristampa – a lungo attesa, davvero – di un disco realmente storico del panorama nostrano, pubblicato nel 1989, e subito diventato oggetto di autentico culto. Il quartetto italiano proponeva, infatti, uno speed-thrash metal, ottimamente elaborato e notevolissimo sotto il profilo tecnico, che da un lato guardava al messaggio tradizionale (ed inevitabile) dei primi giorni della Bay Area, soprattutto ai Metallica di Kill ‘Em All, dall’altro lo contaminava con intelligenti e sempre molto costruite aperture di stampo hardcore (sia quello inglese dei Discharge, sia quello americano, di area newyorkese, il che rende gli Headcrasher apprezzabili anche da parte di quanti adorano Anthrax e Nuclear Assault). Come si diceva, i dodici brani di Nothing Will Remain sono assai strutturati e vari, ancorché rocciosi e granitici. Né mancano variazioni sul tema, come l’opener fantascientifico Blood From the Sky, il grind aspro e inatteso (di scuola Napalm Death) di F.F.W., il rap-core screziato di funk metal di Bath Man, a metà strada fra i Death Angel di Act III e i Faith No More della pietra miliare The Real Thing. Il gruppo riusciva nel non facile intento, alternando sfuriate veloci ed opportuni rallentamenti, di aggiungere qua e là una vaga attitudine fun e skate-punk ad una proposta complessiva, altrimenti, legata al miglior thrash e all’allora nascente metal-core. Un disco veramente pionieristico e personale, oltretutto si se pensa al fatto che esso risale alla fine degli Eighties, per di più in Italia. I quattro possedevano, senza dubbio, doti compositivo-esecutive superiori alla norma ed erano artefici di un sound possente e quasi epico nella sua insopprimibile rabbia di fondo. La riedizione della Punishment è resa ancor più succulenta dalla presenza di un secondo CD, che contiene i sei pezzi dell’inedito promo registrato nel 1991 e in più, come bonus-track, In Our Times, appositamente incisa, nel 2017, da tre quarti della formazione originale degli Headcrasher. Mai banali, ancora oggi, aggressivi ed articolati come i Megadeth. Ora, il pubblico ha finalmente la possibilità di riscoprire questo seminale gruppo calabrese, che, sorto nel 1984, ha fatto la storia ed ha saputo anche anche emozionare, come nella toccante e indimenticabile Good Morning Amazzonia o nell’inno Dead in the USA.

Tracklist
1. Blood From the Sky
2. Live Or Die
3. Waiting 4 an Answer
4. FFW
5. Bath Man
6. The Cemetery of the Lost Cross
7. Overlook Hotel
8. SK8 Life
9. Good Morning Amazzonia
10. Dead in the USA
11. The Final Attack
12. Flebo’s Country
13. In Our Times
14. Lost Money
15. HIV
16. Selling Happiness
17. Childhood Stairs
18. Subliminal Pain
19. Within the Mirror

Line-up
Gianpaolo Brunetti – Guitars
Claudio Gentile – Vocals
Roby Vitari – Drums
Italo Le Fosse – Bass

HEADCRASHER – Facebook

Thrash 1991: l’inizio di un decennio di crisi

Come cambiano in fretta ed improvvisamente, a volte, le cose. Anche per la musica.

Il 1990 fu per il thrash un anno formidabile, con le uscite di Souls of Black dei Testament, Persistence of Time degli Anthrax, Seasons in the Abyss degli Slayer, The American Way dei Sacred Reich, When the Storm Comes Down dei Flotsam and Jetsam, Can’t Live Without It dei Gang Green, Live Scars dei Dark Angel, In The Red dei CIA (progetto di Glenn Evans, dei Nuclear Assault), The Edge of Sanity degli Hexenhaus, Rust in Peace dei Megadeth, Violent by Nature degli Atrophy, Speak Your Peace dei Cryptic Slaughter, Faded Glory degli Acrophet, Beg to Differ dei Prong, Lights Camera Revolution dei Suicidal Tendencies, Twisted Into Form dei Forbidden, Idolatry dei Devastation, Best of Wishes dei Cro-Mags, Act III dei Death Angel, Vanity/Nemesis dei Celtic Frost, Condemned to Eternity dei Re-Animator, Psychomorphia dei Messiah, For Those Advantage degli Xentrix.

In Germania videro la luce Coma of Souls dei Kreator, Cracked Brain dei Destruction, Better Off Dead dei Sodom, The Meaning of Life dei Tankard, Dances of Death dei Mekong Delta, World Chaos degli Holy Moses, Urm the Mad dei Protector e Parody of Life degli Headhunter. In Canada, gli Annihilator bissarono il già straordinario esordio con Never Neverland.
Il mega-tour mondiale Clash of the Tytans, inoltre, incendiò molti palchi e nulla pareva poter fare presagire una qualunque crisi di sorta. Il genere – per dirla altrimenti – pareva più vitale ed in forma che mai. Oltretutto, diverse band – sia di prima sia di seconda fascia – avevano sensibilmente migliorato le proprie qualità tecniche ed erano maturate non poco, il che lasciava ben sperare in vista del futuro. Eppure, riflusso ed oblio erano dietro l’angolo, come un triste destino e un malaugurato esito ultimo.

Nel 1991 due autentici boom discografici, almeno sul piano delle vendite, furono il black album dei Metallica e Nevermind dei Nirvana. Il primo, pur buono, tradì un genere, una carriera fino ad allora a dir poco ineccepibile e un’intera scena musicale. Il secondo lanciò la nefasta moda dell’alternative e del grunge. Le case discografiche più importanti iniziarono ad interessarsi, quasi solo, di camicie a scacchi e finti depressi.
I gruppi cosiddetti ‘minori’ (ma non sempre per valore artistico) si sciolsero uno dopo l’altro in un clima di crescente e ingiusta indifferenza musicale. I maggiori, come vedremo nel corso di questa inchiesta, dovettero sovente reinventarsi. L’estremo sopravvisse altrove: il black rinacque in Norvegia e terre scandinave, assumendo caratteristiche e tratti peculiari tutto sommato a sé stanti; l’hardcore si trasformò spesso in crossover (altro trend), mentre il grind (che, storicamente, veniva dal crust punk britannico) si uniformò quasi ovunque al death: quest’ultimo, a sua volta, non smise di vivere i suoi anni grandi in Florida ed in generale oltreoceano, ma nel vecchio continente o smussò gli spigoli (pensiamo agli svedesi Entombed, dopo i primi due favolosi LP) o si ammorbidì, con innesti gotici, prog e sinfonici (tre grandi nomi, su tutti: Therion e Dark Tranquillity, per stare sempre in Svezia; Atrocity, se vogliamo spostarci più a sud in terra tedesca).

In effetti, la svolta impressa dai Metallica del 1991, perlomeno nell’immediato, pareva essere senza ritorno (e non solo per i Four Horsemen, che unicamente da Death Magnetic sarebbero ritornati al thrash). Per gli altri loro colleghi, la scelta fu triplice: o sciogliersi (come accadde a tante apprezzate seconde leve statunitensi), o rivolgersi a soluzioni più commerciali, o indurire la proposta.
Dopo il 1991, nulla fu più come prima e si aprì una decade di delusioni ed incertezze. Intendiamoci: l’heavy classico andò anche lui in crisi (solo parzialmente riscattato, da metà anni Novanta in poi, dal power melodico e dal prog-metal). Idem dicasi per il glam, l’epic, il pomp rock e l’AOR, ma per il thrash le cose assunsero una piega forse ancora peggiore e più drammatica.
I Death Angel abbandonarono la partita, così come i Dark Angel di Gene Hoglan, il cui capolavoro, l’indimenticabile Time Does Not Heal, ebbe la sfortuna di uscire proprio nel 1991. I Megadeth, dal canto loro, realizzarono il loro black album con Youthanasia (nel 1995) e chiusero il decennio con il pessimo Risk. Gli Anthrax, con John Bush degli Armored Saint, alla voce, tennero ancora botta con l’ottimo Sound of White Noise (peraltro, molto più industrial), quindi si smarrirono in modo del tutto inatteso (Stomp 442 è tra le autentiche oscenità dei Nineties ed a dirlo non è di certo un purista).

Gli Annihilator modificarono il loro stile, con inflessioni dapprima di ascendenza Dream Theater (Set the World on Fire, 1993) ed in seguito industriali (Remains, 1997). Celtic Frost, Sabbat, Sanctuary e Nasty Savage si separarono, chi temporaneamente e chi per sempre. I Pantera si diedero al groove metal. I Corrosion of Conformity presero la via del southern e dello sludge sperimentale. I Flotsam and Jetsam, tra l’ancora buono Cuatro (1992) e Unnatural Selection (1999), realizzarono due dischi davvero anonimi di piatto e scialbo HM. I Sacred Reich portarono inizialmente avanti il discorso da loro avviato nel 1990, incidendo l’interessante ed originale Independent (1993), che, tuttavia, quasi nessuno allora notò più. E pure per loro la parola fine venne scritta presto.
Con coerenza ed integrità, rimasero in pista Overkill e Metal Church, entrambi dediti nei Novanta a un fecondo e nobile intreccio di retaggio speed-thrash ed elementi di derivazione US metal. Sia gli Overkill, sia i Metal Church, peraltro, furono seguiti quasi soltanto dai fedelissimi e dai defenders di provata intransigenza alle nuove mode. Il techno-thrash mutante non morì (pensiamo ai Voivod e ai Coroner) ma per alcuni esordienti – in Finlandia gli ARG, in Austria i Ravenous – debuttare proprio nel fatidico ’91 fu quanto mai deleterio (ancora oggi infatti sono rimasti nomi di nicchia e di culto, per pochi estimatori).

Esemplare, al riguardo, la parabola dei tedeschi Sieges Even: un fenomenale esordio nel 1988, con il techno-thrash iperconcettuale e cinematico di Lifecycle, quindi il passaggio, guarda caso appunto dal 1991, a un prog metal assai melodico e blandamente jazzato.
Visto che, con i Sieges Even, siamo arrivati a parlare di Germania, vediamo un poco più in dettaglio che cosa accadde nel paese che, dopo gli Stati Uniti, aveva dato di più alla causa del thrash. Dopo il 1991, la scena tedesca subì veramente il colpo. Se da un lato i Kreator cominciarono a sperimentare con intelligenza e coraggio nuovi approcci sonori, di matrice industrial e dark-wave elettronica, ed i Sodom riuscirono a stare sulla breccia sporcando ulteriormente il loro stile, con ruvidi innesti, prima death e poi hardcore punk, moltissimi gruppi – in vero, quasi tutti – che avevano gravitato, attorno a loro, nel ricco panorama thrash germanico scomparvero oppure cambiarono genere, virando verso il power melodico (gli Angel Dust, ad esempio).
I Destruction, da parte loro, rimasero in silenzio per quasi quattro anni, il che già la diceva lunga, circa la loro crisi, e tra il 1994 ed il 1995 pubblicarono due sconcertanti EP, lontanissimi dal genere che li aveva visti tra i grandi protagonisti, convertiti ora ad un groove metal modaiolo e di scarsa qualità. Pessimo fu pure il disco edito nel 1996, dalla Brain Butcher, The Least Successful Human Cannonball: un tradimento bello e buono della antica causa, giustamente e coerentemente rinnegato in seguito dall’act tedesco, tornato a nuova vita a partire dal 1999-2000. Durante i Nineties, in Germania, si persero le tracce di Asgard, Assassin, Brainfever, Darkness, Assorted Heap, Vectom, Deathrow, Despair, Exumer, Grinder, Iron Angel, Living Death, Risk, Vendetta e Violent Force. L’underground speed-thrash pareva scomparso. La rinascita giunse solo, nel 2001, con il ritorno al thrash da parte dei Kreator: il combo di Mille Petrozza, con Violent Revolution, aggiornava, con classe, stile e potenza, l’universo sonoro e anche l’iconografia di Coma of Souls, dando vigore e slancio nuovi a una scena da quel momento in via di resurrezione artistico-musicale.

Il peggio era, ora, alle spalle. Ma ritorniamo al 1991, vero e proprio annus horribilis per il movimento thrash, in particolare per quello della Bay Area di San Francisco.
A conti fatti, i grandi che seppero resistere e ripartire furono coloro che accettarono la sfida, per un verso ammettendo (sia pure a malincuore) che una stagione – durata poi solo otto anni, da Kill ‘Em All e da Show No Mercy all’anno del black album – s’era comunque ormai conclusa e che solamente incattivendo in maniera ulteriore il suono era possibile dar nuova vita e almeno in parte nuovo volto al thrash tradizionale, alzando l’asticella in direzione death e stando così al passo con i tempi, senza però rinnegarsi. E’ quanto fecero i Sadus di Steve Di Giorgio (forse il più grande bassista metal del mondo dopo la scomparsa di Cliff Burton), i Sepultura (non senza flirtare, qua e là, col nu metal più creativo), i Testament (i cui album incisi per la Spitfire non saranno all’altezza dei classici degli anni ’80, ma tuttavia tengono il passo e preparano alla rinascita, anche dell’intero movimento), gli Slayer (i quali, nel 1991, pubblicarono il granitico doppio live A Decade of Aggression, seguito da tutta una serie di album seri, professionali e assolutamente inappuntabili sino ad oggi) e volendo i Demolition Hammer di New York.
Oggi, si sa, il thrash è letteralmente risorto, fra ritorni di vecchi eroi e nuovi promettenti gruppi. Gli Slayer, i Metallica, i Megadeth e gli Anthrax (i così detti Big Four) sono di nuovo in gran spolvero e lo stesso può dirsi di Testament, Death Angel e Annihilator (a dicembre del 2017 apprezzati al Live Club di Trezzo sull’Adda), di Exodus ed Hexx, Laaz Rockit, Prong, Whiplash, Flotsam and Jetsam e dei tedeschi Kreator, Destruction, Sodom, Tankard, Accuser, Protector, Holy Moses, Necronomicon e Paradox. Tutti nuovamente sulle ali della meritata ribalta, non senza una maturità, sia compositiva, sia esecutiva, che è inevitabilmente figlia degli anni e del tempo frattanto trascorso.
Oggi abbondano finalmente le ristampe. La scena italiana è nutritissima e di vivo spessore. Il black-thrash è tornato in auge con Inquisition, Akroterion, Condor, Evil Spirit, Ulvedharr e Bunker 66 (e a breve dovrebbe arrivare l’atteso come-back dei Possessed). Gruppi di culto del passato, oltre a veder finalmente riediti su CD i propri dischi, si sono inoltre ricostituiti, pubblicando nuovi lavori, come nel caso dei californiani Dream Death (non senza consistenti componenti doom) e Detente.

Vi è poi una rinnovata e prolifica scena di nomi nuovi, da seguirsi con la dovuta attenzione: Skeletonwitch, Bonded by Blood, Warbringer, Gama Bomb, Havok, Vektor, Power Trip, Enforcer, Evil Invaders e Ranger in primis. Ma occhio, altresì, a Resistance, Lair of the Minotaur, Without Waves, Black Fast, Revocation e Municipal Waste in America, a Dew-Scented, Disbelief, Grantig, Ravager, Reflection, Repent, Running Death, Septagon, Stormhammer, Valborg, Vulture e Zombie Lake in Germania, ai neozelandesi Stalker, ai russi Hell’s Thrash Horsemen, agli indiani Kryptos, ai finlandesi Ranger, ai polacchi Raging Death, ai brasiliani Woslom, agli ungheresi Ektomorf, agli ellenici Sacral Rage e Chronosphere, agli svizzeri Excruciation (con influenze Killing Joke e post-punk), agli australiani Destroyer 666, Envenomed, Hidden Hintent, Harlott, In Malice’s Wake e soprattutto Meshiaak, agli svedesi Armory e Night Viper, ai danesi Battery ed ai canadesi Droid, Warsenal, Untimely Demise e Arckaic Revolt, senza dimenticare i sempreverdi e inossidabili Onslaught in Inghilterra, sovente in tour e dal catalogo adesso quasi tutto disponibile.
Insomma, la crisi innescatasi nel lontano 1991 è stata positivamente superata. E’ divenuta un ricordo, che sa comunque di storia. Vera e vissuta.