Made in Florida: alle origini del death metal

Il death nasce in Florida, non altrove. E’ una verità storica e va riconosciuta, senza se e senza ma. E’ inutile, d’altra parte, ricercare altri inconsapevoli ‘precursori’.

Quando è nato il death metal? E soprattutto dove? Negli Stati Uniti, in Svezia? Questo articolo mira ad andare alle radici del genere, quando era ancora solo un fenomeno puramente underground.

Ogni volta che si parla di origini culturali del death metal, si dice correttamente che il genere è sorto nella seconda metà degli anni Ottanta. Più problematico diventa localizzarlo, dal punto di vista tanto geografico quanto precisamente temporale in maniera esatta. Al riguardo, i pareri restano discordi: secondo alcuni, primo gruppo death sarebbero stati i Possessed, autori nel 1985 dello storico debut Seven Churches, emblematico e sin dalla copertina. Tuttavia, riguardo al gruppo californiano non ci sembra possibile parlare di puro death per come in seguito lo si è inteso: abbondano infatti i rimandi al thrash della Bay Area da cui la band di Larry Lalonde e Jeff Becerra proveniva e Seven Churches è più che altro un grandioso ed epocale album di thrash-death, di passaggio, dall’uno all’altro genere musicale.
Anche riguardo ai grandissimi Celtic Frost permangono alcuni dubbi circa l’appartenenza al death: il seminale act svizzero produsse a inizio carriera capolavori indiscussi di thrash-black primordiale, con tocchi dark, doom e sperimentali (al più, volendo cercare una definizione, proto-death: discorso che potremmo fare anche per i primissimi Bathory in Svezia e i Kreator in Germania, o ancora per gli Hellhammer, primo nucleo dei Celtic Frost). Né basta avere intitolato una canzone Death Metal (come nel caso dei fantastici thrashers inglesi Onslaught) per individuare a fortiori un’appartenenza voluta e soprattutto consapevole al genere.
Taluni citano come primo gruppo death i Master, di Paul Speckmann. Anche qui tuttavia non si può essere del tutto d’accordo. Il primo demo della peraltro imprescindibile band di Chicago (sorta nel 1983) data 1985, lo stesso anno in cui vide la luce anche l’unico nastro dell’altra creatura di Paul, i Death Strike. Nondimeno, quello dei due gruppi era più che altro un thrash-death, a base di Venom, Slayer e Motorhead (le linee vocali non erano, infatti, ancora growl, ma molto alla Lemmy). Stesso discorso per gli Abomination, sempre dell’Illinois, o per i Necrophagia degli inizi, spostandoci in Ohio.
Il death nasce in Florida, non altrove. E’ una verità storica e va riconosciuta, senza se e senza ma. E’ inutile, d’altra parte, ricercare altri inconsapevoli ‘precursori’. Nel 1986, in Florida, i Morbid Angel incidono il loro Abomination of Desolations.

Il disco, purtroppo, non viene stampato subito (uscirà per la Earache solo nel 1991), poiché il gruppo non era soddisfatto di suoni e registrazione. Pertanto il primo vero ed esplicito album di death metal è Scream Bloody Gore (1987) dei Death, formati dal grande e compianto Chuck Schuldiner, addirittura tra il 1981 e il 1982. Quello è il disco che di fatto, uscito per la Combat, crea il death metal e ne fonda il movimento, a livello non solo musicale, ma anche lirico ed iconografico (inclinazioni horror comprese). La base. Una base su cui – e sempre in Florida – in quegli stessi anni o di lì a pochissimo tempo, una autentica legione di leve si sviluppa e cresce in termini esponenziali.

Ricordiamo la prima incarnazione dei Deicide, gli Amon, creatura di Glenn Benton e dei fratelli Hoffmann, il cui primo demo tape apparve sempre nel 1987 (ristampato, insieme alla seconda cassetta di due anni dopo, con il titolo Sacrificial dalla Vic Records).

La Florida, per il death, funge da luogo di partenza e centro d’irradiazione. Nel 1987 si costituiscono i Nocturnus ed i Malevolent Creation, nel 1988 Acheron, Atheist e DVC. Nel 1989 esce Slowly We Rot degli Obituary per la Roadrunner: un manifesto.

Nel 1990 nascono i Monstrosity e trovano un’identità definitiva i Massacre, sorti come gruppo di thrash slayeriano sei anni prima. Moltissimi di questi gruppi passano, poi, per le mani del geniale Scott Burns – produttore, ingegnere del suono, addetto a missaggio e masterizzazione – che presso i Morrissound Studios di Tampa, in Florida, si dà a forgiare quello che rimane il primo ed indimenticabile death-sound.

Con Burns – ricordiamolo – hanno lavorato pure i death-progsters Cynic, gli inglesi Cancer, i Sepultura di Arise e Beneath the Remains, i newyorkesi Suffocation e Cannibal Corpse, gli olandesi Pestilence, i canadesi Gorguts, i grinders britannici Napalm Death (per il capolavoro Harmony Corruption del 1990) e i Terrorizer, i floridiani Six Feet Under, i tedeschi Atrocity di Hallucinations (1990), gli Exhorder, i Devastation, i Coroner, gli Psychotic Waltz ed i Sadus di Steve Di Giorgio, forse il più grande bassista death metal in generale. A quanti hanno sostenuto che Burns avrebbe fornito, alle band che hanno lavorato con lui, un suono sempre uguale e quindi in ultima istanza standardizzato, si può rispondere che: 1) non è del tutto vero, dato che i gruppi in questione sono tutti riconoscibilissimi e distinguibili fra di loro; 2) Burns ha avuto un ruolo determinante non solo nell’ambito del primo death floridiano e mondiale ma anche in quello imparentato con la fusion progressiva (Atheist, Cynic, i lovecraftiani Pestilence di Testimony of the Ancients, Gorguts), in quello fantascientifico (gli indimenticabili Nocturnus, tra Asimov e Crowley) e nella genesi storica dello stesso brutal death metal (Cannibal Corpse, Deicide dal 1995 in avanti), ed infine 3) vista la centralità e rilevanza indiscutibili, se anche il sound di tante death metal band della prima ondata può apparire forse similare, viene da pensare che sia stato, alla fine, un bene, per il quale essergli profondamente grati.

Se oggi, grazie ai fenomenali Kataklysm, il brutal americano ha saputo unirsi con quello melodico (di scuola svedese), lo dobbiamo in maniera indiretta a chi – i gruppi della Florida tra fine anni ’80 e primissimi ’90, che lavorarono con Burns – ha posto le fondamenta.

Closer – Event Horizon

Un bellissimo lavoro di metal moderno, potente e melodico, ben costruito e ottimamente arrangiato, da parte di una band da tenere d’occhio.

Quello dei Closer è un metal moderno, fatto di potenza e di melodia, attento alle scelte timbriche e davvero molto ben suonato, oltre che ottimamente prodotto.

La band è nata a Verona nel 2011 ed è al secondo lavoro, dopo il debutto autoprodotto (My Last Day, 2014). I Closer suonano un heavy di rara intensità, spesso arricchito da inflessioni post-grunge – qualcuno ricorda i Chamber 69 dell’ex Coroner e Kreator Tommy Vetterli? – e molto epico, non lontano per capirci dagli Alter Bridge. Non ci sono letteralmente pause in Event Horizon e il disco scorre molto bene, in tutti i suoi dodici brani, con un ottimo songwriting e liriche non banali. I suoni sono squadrati e quasi geometrici, con basso e batteria che sostengono, puntualmente, il lavoro delle due chitarre. Un tappeto sonoro sul quale si staglia la bellissima voce di Simone Rossetto. Idee, qualità, belle armonie in stile Metallica, tocchi più moderni alla 30 Seconds to Mars e Nickelback arricchiscono questo come-back, di quelli da non lasciarsi davvero scappare.

Tracklist
1- Here I Am
2- Illusion
3- The Call
4- Mistakes
5- Battle Within
6- Beyond the Clouds
7- Wait For Me
8- Masquerade
9- Untouchable
10- Sand in Hand
11- Moments and Eternity
12- Event Horizon

Line-up
Simone Rossetto – Vocals
Andrea Bonomo – Guitars
Nicola Salvaro – Guitars
Manuel Stoppele – Bass
Danilo Di Michele – Drums

Opera Oscura – Disincanto

Stupendo disco di dark metal progressivo, sinfonico e classicheggiante, intriso di lirismo e con parti toccanti di voce e piano

Gli italiani Opera Oscura propongono un interessante e riuscito prog venato di metal, che si esprime attraverso la costruzione sonora di belle e ricercate atmosfere, non prive – come anticipa il nome del gruppo – della giusta dose di oscurità (mai tetra, peraltro). Stile e suoni sono piuttosto moderni, con un’ottima produzione di supporto, e valide qualità tecniche messe in mostra dai musicisti.

Anche se la componente progressive appare essere più marcata, rispetto a quella di matrice invece più heavy, non dubitiamo che gli amanti dei Dream Theater più liquidi e dei Queensryche più intimistici potranno, senz’altro, apprezzare questo lavoro. A tratti, possono venire in mente i passaggi più melodici dei tedeschi Ivanhoe – metà anni Novanta, altri tempi – che furono abili e pionieristici nel sapere abilmente mixare soluzioni dal gusto fortemente sinfonico e passaggi maggiormente duri. Tuttavia, qui il contesto è infinitamente più classicheggiante, con massicce e meravigliose parti di pianoforte e una voce femminile da brividi, non senza una ragguardevole eleganza e raffinatezza, che i brani di Disincanto fanno apprezzare di sé in sede sia compositiva, sia esecutiva. Gli Opera Oscura aggiornano, dunque, le formule del rock progressivo, evitando sterili e vuoti virtuosismi fini a se stessi, guardando sia alla forma sia in particolare alla sostanza e trovando un riuscitissimo connubio ed equilibrio artistico tra le due. Il che non è certo poco e si traduce in un altro punto a favore del CD in questione, intriso oltretutto di opportuni quanto apprezzabili umori di matrice dark rock, immaginifico e cinematografico. Nei brani degli Opera Oscura troviamo, altresì, squarci operistici, oscurità strumentali, giochi musicali di luce e ombra, testi teatrali, con un’onirica dolcezza che si sposa ad un pathos a volte prossimo a quello del drama rock più colto.

Tracklist
1- A picco sul mare
2- La metamorfosi dei sogni
3- Il canto di Sirin
4- Pioggia nel deserto
5- Gaza
6- Dopo la guerra
7- Resti

Line-up
Alessandro Evangelisti – piano / tastiere
Francesco Grammatico – programmazione / basso
Umberto Maria Lupo – batteria
Serena Stanzani – voce
Francesca Palamidessi – voce
Alfredo Gargaro – chitarre
Leonardo Giuntini – basso
Andrea Magliocchetti – chitarra classica

OPERA OSCURA – Facebook

Pat Heaven – To Heaven Again

Un pezzo importante nella storia dell’hard & heavy made in Italy, ristampato su CD in formato 45 giri da collezione.

Una ristampa attesa trent’anni.

I goriziani Pat Heaven nacquero nel 1986 e si conquistarono presto un folto seguito, anche e soprattutto grazie alla attività concertistica, in Italia e non solo (suonarono anche nell’allora Jugoslavia). Una vera rarità divenne il loro unico disco, uscito in tiratura limitata per la Docam nel 1988. E a tiratura limitata è anche questa fondamentale riedizione, che esce grazie alla Andromeda Relix di Gianni Della Cioppa. Il quintetto era composto da Massimo Deviter (alla voce), Roberto Gattolin (alla chitarra), Luca Collovati (al basso), Gianandrea Garancini (batteria) e Dario Trevisan (alle tastiere). Il loro era un ottimo hard rock, sulla scia di Deep Purple e Rainbow e, quindi, giocato sull’interplay chitarra-tastiere, tra parti rocciose e melodie accattivanti, figlio della grande tradizione inglese degli anni Settanta e dei primi Ottanta. All’epoca non furono in moltissimi a poterlo apprezzare, il che rende questa benemerita ristampa ancora più interessante, testimonianza di quanto ricca e florida fosse la scena hard & heavy nostrana lungo gli Eighties. Un disco che non potrà non incontrare, pertanto, i favori di tutti coloro che amano senza riserve l’hard rock più puro e classico. Possiamo così riscoprire un’altra grande voce italiana del passato. Quel passato che, come diceva William Faulkner, non passa mai. Giustamente e per fortuna, aggiungiamo noi non senza una grande gioia. Dedicato al tastierista del gruppo, Dario Trevisan, da poco scomparso.

Tracklist
1 Runnin’ Alone
2 The Rush of the Thunder
3 Loneliness of Rock
4 Zero
5 Don’t You Know
6 Never Cry
7 Hope For a Man
8 The Rush of the Thunder (reprise)
9 The Second
10 Here Is My Love
11 Hey You
12 Reach Me Now
13 Doctor Doctor
14 Break in the Cages
15 Mistreated

Line-up
Massimo Deviter – voce
Roberto Gattolin – chitarra
Luca Collovati – basso
Gianandrea Garancini – batteria
Dario Trevisan – tastiere

PAT HEAVEN – Facebook

Arte a luce rock: Giger dal prog al metal

Lo svizzero Hans Rudolf Giger (1940-2014), artista conosciutissimo per avere creato l’iconografica figura del mostro di Alien (portato per la prima volta sugli schemi, da Ridley Scott, nel 1979), ha riservato molti dei suoi lavori alle copertine di numerosi musicisti e band dell’universo rock.

Le sue creature surreali – ai limiti del body horror, di cronenberghiana memoria – erano fatte di carne e di meccanica. Mostri partoriti da una mente visionaria, lovercraftiana, di infinito orrore e bellezza. Si può capire, dunque, perché questo artista estremo abbia trovato un così largo consenso, nel mondo musicale, tanto che oltre alla sua copertina capolavoro di ELP (Brain Salad Surgery, 1973) con quel volto femminile triste e regale presagio di un mondo futuro infernale e tecnologico, abbia avuto poi al suo attivo lavori con i Korn, con Debbie Harry (in Koo Koo), con gli svizzeri Shiver, i francesi Magma, band black metal (come gli elvetici Celtic Frost, Triptykon), gothic-death metal come gli Atrocity, dark-punk come i Danzig e Dead Kennedys. La freddezza metallica della sua arte, unita alla dimensione tecnologica e fantascientifica, ne hanno fatto un’icona imprescindibile, per tutti quei gruppi rock e metal che si sono avvicinati e si avvicinano all’estremo.
E’ un estremo visuale e sonoro, quello di Giger e delle band che si sono avvalse dei suoi favori. Nel 1973, Brain Salad Surgery di ELP fu un disco avveniristico e contro-corrente per l’epoca: infatti, se pensiamo che, in quell’anno, i Genesis pubblicavano il melodico e romantico Selling England by the Pound, un album come quello di Emerson e compagni rappresentava un qualcosa di antitetico: un disco futuristico ed oscuro, elettronico e fantascientifico, forse persino troppo in anticipo sui tempi, per venire compreso ed apprezzato allora sino in fondo. Naturale pertanto che a firmare la copertina sia stato appunto Giger, la cui inquietante pittura era perfettamente confacente a quel sound, nero ed atmosferico, cinematografico e magniloquente, zeppo di tessiture per sintetizzatore e freddissimo sul piano formale. In assoluto, uno dei più grandi dischi della storia del rock, con la Jerusalem del grande poeta William Blake (1757-1827) e la suite Karn Evil 9 sugli scudi.

Quattro anni dopo, nel 1977, Giger venne anche invitato a realizzare la cover per Pictures, debutto e unico album dei suoi connazionali Island, band di culto, molto influenzata dai Van der Graaf, assai dark oltre che progressive, quindi. In copertina, con due anni d’anticipo sul film, troviamo già Alien, all’interno di un scenario, e orrorifico e biomeccanico, che precorre la cultura cyber-punk degli anni Ottanta.

Nel 1978 furono i Magma a chiamare a collaborare Giger in occasione del loro Attahk. Certo non si tratta del loro lavoro migliore, tuttavia valido ed importante, un ulteriore tassello, nella storia dello zeuhl francese ed europeo dei Seventies. Del resto, la band del grande Christian Vander non poteva, vista la propria proposta artistico-musicale, non avvalersi del talento visionario e proto-cibernetico di Giger, artista davvero alieno per un gruppo dichiaratamente altrettanto alieno.

Se negli anni Settanta la nuova frontiera del rock era stata soprattutto il progressive, nel corso della decade successiva lo fu indubbiamente il metal, con tutte le sue branche ed in particolare coi legami intrattenuti dall’heavy con l’universo dell’esoterismo, dell’horror e delle scienze occulte. Giger era in proposito l’artista perfetto al quale chiedere una controparte visiva del tutto complementare a quella sonoro-musicale: una rappresentazione e materializzazione iconica di incubi, paure, terrori. I primi a valorizzarne il genio, durante gli Eighties, furono i Celtic Frost, guarda caso svizzeri come lui. La copertina di To Mega Therion (1985), con il demone che usa il crocifisso come fionda, è ancor oggi non poco disturbante. Quanto alla musica, quasi superfluo ricordare che quel disco, partendo da una base speed-thrash venomiana, ha aperto – direttamente o indirettamente, a seconda dei punti di vista – le porte a black e death primordiali.

E visto che abbiamo parlato di death metal, impossibile non citare a questo punto gli Atrocity, band tedesca davvero storica, il cui esordio Hallucinations, prodotto nel 1990 dal grande Scott Burns, fu illustrato da Giger: stavolta l’ispirazione veniva dal surrealismo francese del primo Novecento, e da Dalì in particolare, come appare evidente dall’uso deformante del tratto e dai connotati obliqui della raffigurazione, astratta e distorta insieme, al centro di una geometria impossibile che ha cessato del tutto di rispondere alle regole euclidee.

Due anni dopo, nel 1990, Giger collaborò con Danzig per il terzo capitolo della sua carriera solista: How the Gods Kills vide l’ex leader dei Misfits alle prese con un thrash gotico per il quale il pittore elvetico pensò ad un’ennesima variazione sul tema di Alien, vera sorgente inesauribile della sua arte estrema.

Nel 1993, furono gli inglesi Carcass a ricorrere a Giger, per il loro Heartwork, un capitolo storico del grindcore nordeuropeo, con in copertina il classico simbolo della pace rivisto in chiave horror e biomeccanica. Provocazione? Umorismo nero? O superiore disprezzo e stravolgimento dei luoghi comuni e dei canoni codificati? Da Giger tutto davvero ci si poteva aspettare.

Più di recente, Giger è voluto ‘tornare a casa’ – artisticamente e musicalmente parlando – tornando a collaborare con il suo vero alter ego in ambito metal, Thomas Gabriel Warrior (Fischer all’anagrafe) per Eparistera Daimones (2010) e Melana Chasmata (2014) dei Triptykon: due stupendi lavori di black-thrash, che aggiornano e conducono a definitiva maturazione l’itinerario principiato dai Celtic Frost a metà circa degli anni ’80. Vera demonologia in musica e perfetta conclusione della migliore e più inquietante meditazione artistico-musicale su spazi altri ed incubi cosmici.

Roberto Grassi – Warhammer

Lovecraft in Rock: una prima ricognizione

Gruppi e artisti che si sono rifatti a HPL sono stati innumerevoli, pertanto la presente ricognizione mira solo a rompere il ghiaccio (cosmico) e a sgrezzare la pietra (nera).

Un grandissimo scrittore come Howard Phillips Lovecraft – il padre del fantastico moderno e della fantascienza orrorifica – non poteva non ispirare, sul piano delle suggestioni letterarie e filosofiche, l’universo del rock, e del metal in particolare.

Due in particolare sono stati, della vasta narrativa del solitario di Providence, i filoni che hanno esotericamente nutrito l’immaginazione di infinite schiere di musicisti: l’orrore cosmico e quello marino. Lo vedremo più in dettaglio, in questa rassegna, che, tuttavia, non ha alcuna pretesa di completezza ed esaustività assolute (sarebbe impossibile).
Gruppi e artisti che si sono rifatti a HPL sono stati innumerevoli, pertanto la presente ricognizione mira solo a rompere il ghiaccio (cosmico) e a sgrezzare la pietra (nera).
Altri studi sull’argomento dovranno in seguito necessariamente venire, anche perché il tema si presta non soltanto ad un articolo (o ad una serie di articoli), quanto piuttosto a un libro vero e proprio, che a quanto ci risulta ancora manca nel panorama editoriale italiano.
Il discorso in merito finisce per riguardare anche il piano iconografico, visto che grandi illustratori che tanto hanno lavorato con band di area metal – Micheal Whelan, solo per fare qui un esempio – si sono rivelati largamente debitori verso l’immaginazione lovecraftiana e tutto ciò a cui essa mette capo (geometrie impossibili, altri mondi, entità aliene, minacce insondabili provenienti dallo spazio, mari oscuri popolati da mostri indicibili, nonché paesaggi onirici).
Iniziamo questa nostra ricognizione preliminare cogli imprescindibili pionieri H.P. Lovecraft, nati a Chicago sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso e divenuti, dopo i primi due dischi, molto più semplicemente Lovecraft.
Proponevano un hard prog primevo, influenzato dai maestri inglesi – Pink Floyd e Procol Harum in testa – incorporandovi altresì influenze più americane (leggasi Love, CSNY, Steve Miller).
Il loro Valley of the Moon guardava oltre che a HPL anche a Abraham Merritt (altro grande scrittore affine al solitario di Providence e, da lui, molto amato).
Degli H.P. Lovecraft, in questa sede, possiamo senz’altro consigliare le due raccolte At the Mountains of Madness (1988) e Dreams in the Witch House (2005), che fin dal titolo richiamano, in maniera esplicita e voluta, due dei maggiori racconti lovecraftiani, traducendoli in musica attraverso trame sonore assai suggestive ed eteree, con divagazioni folk e belle tastiere.
Gli stessi testi della band altro non erano se non veri e propri adattamenti delle poesie scritte da HPL (edite in Italia, da Agfa Press, con il titolo Il vento delle stelle qualche anno fa).

Restando nel periodo degli albori del progressive e spostandoci in Gran Bretagna, è impossibile non menzionare gli Arzachel di Canterbury, che nel 1969 dedicarono un brano del loro debutto (rimasto senza seguito: una vera meteora) al minaccioso Azathot.
Anche i Black Widow, nel loro capolavoro Sacrifice (1970), furono influenzati tra gli altri dagli incubi di HPL.
Né possiamo scordare gli High Tide del violinista Simon House, con il loro Sea Shanties (1969), ispirato agli orrori marini descritti in termini sublimi ed inquietanti da HPL in pagine di prosa barocca rimaste immortali, non solo per gli estimatori.
L’hard rock anglo-americano dei Seventies vide due gruppi soprattutto cimentarsi con liriche e temi di matrice lovecraftiana: ci riferiamo agli statunitensi Blue Oyster Cult (in più dischi) e soprattutto ai Black Sabbath, i quali inserirono nel loro esordio omonimo del 1970 un brano molto evocativo e rappresentativo, se non emblematico, come lo stupendo Behind the Wall of Sleep, impregnato sino al midollo di atmosfere evocative ed ancestrali rese con suoni oscuri e cadenzati. Il racconto Oltre il muro del sonno, si sa, data 1919 ed è una delle cose migliori scritte da HPL, allora agli inizi del suo percorso di autore.
Il vero revival lovecraftiano è tuttavia cominciato con gli anni Ottanta (per non cessare poi più).
Nel 1984, i Metallica omaggiarono HPL con lo strumentale The Call of Ktulu, nel loro storico secondo album Ride the Lightning, prodotto, come noto, da Fleming Rasmussen in Danimarca e dominato da ricerche sulle linee armoniche che hanno fatto veramente epoca ed aperto una strada a generazioni di musicisti.
I Metallica hanno successivamente composto almeno un altro brano, debitore verso il talento visionario e occulto di Lovecraft, The Thing That Should Not Be, omaggio a La maschera di Innsmouth.
Ma anche il loro ultimo lavoro, l’eccellente e sottovalutato Hardwired to Self-Destruct è intriso di aromi lovecraftiani: anche sotto questo profilo, un autentico ritorno al passato.
Rimanendo in ambito thrash e speed, possiamo annoverare i geniali Mekong Delta di The Music of Erich Zann (1988, omaggio dichiarato all’omonimo racconto di HPL) e i Necronomicon (pure loro tedeschi, da pochi anni riformatisi).

Fra epic metal e thrash, quello che è uno dei migliori dischi dei Manilla Road, Out of the Abyss (1989), celebra il sognatore di Providence fin dal titolo. Tra heavy classico e speed-thrash teutonico d’alta scuola rammentiamo quindi i Rage, con due lavori del tutto lovecraftiani, come il capolavoro Black in Mind (1995) e l’ottimo Soundchaser (2003).
Altrettanto si può affermare per la canzone Cthulhu incisa dagli Iced Earth, nel 2014, a mezza strada fra thrash-speed americano e dark metal epico anni Ottanta.
Il metal classico ha omaggiato HPL con gli Arkham Witch (tra Black Sabbath era Dio e primi Iron Maiden) e con gli ellenici Diviner di Fallen Empires (stile Accept-Judas Priest-King Diamond), fin dalla grafica di copertina e da certi testi.
Lovecraftiani sono stati, in A’arab Zaraq / Lucid Dreaming (1997), gli svedesi Therion, a cavallo tra hard sinfonico e gothic melodico (peraltro non certamente il loro prodotto migliore).
Su lidi contrassegnati da una bella ricerca melodica si collocano anche gli hard-glamsters Casablanca di Miskatonic Graffiti (al loro fianco troviamo Per Wiberg, tastierista di Spiritual Beggars e Grand Magus) e i finnici Eternal Silence di Chasing Chimera (2015), bel disco di pomp metal stampato dall’italiana Underground Symphony.
E’ stato specialmente nel settore dell’extreme metal che l’influenza di HPL si è fatta di più sentire. Il death metal nella fattispecie è stato moltissime volte più lovecraftiano di altri generi.
Basti pensare alle discografie di numeri uno, quali Morbid Angel e Hate Eternal. Floridiani come loro sono stati anche gli storici Massacre, tra i padri del death a stelle e a strisce, che si sono apertamente rifatti al genio di Lovecraft per il loro seminale debutto, del 1991, sin dal titolo (From Beyond) e dalla cover (opera di un mago del disegno horror, Ed Repka).
Altri acts di death lovecraftiano da ricordare sono i messicani Shub Niggurath (uno dei Grandi Antichi) con A Deadly Call from the Stars e gli iberici Graveyard (su etichetta War Anthem Records).
Anche gli alfieri del brutal più tecnico e epico, cioè i californiani Nile, hanno tratto gran frutto e giovamento dalla lettura, attenta e competente, dei Miti di Cthulhu.
Altro grande ammiratore di HPL è stato in America il chitarrista James Murphy, che con l’unico disco dei suoi Disincarnate ha fornito una colta e fedele ricreazione in chiave death dei temi e delle tetre atmosfere lovecraftiane, ispirandosi dichiaratamente pure a Brian Lumley, tra i migliori continuatori nel secondo Novecento dell’opera di HPL.
In generale, tra quei gruppi che attingono in ambito death ad elementi fantastici e fantascientifici (gli orizzonti aperti in Florida, a inizio anni ’90, dai seminali Nocturnus), una delle fonti più citate è proprio quella costituita dai racconti di HPL.

In questi ultimi anni, sono infatti cresciute di numero le band dedite esclusivamente all’esplorazione in chiave death di scenari come quelli dello scrittore di Providence: poniamo mente agli Starspawn, ai Sulphur Aeon di Gateway to the Antisphere, agli Chthe’ilist di Le Dernier Crépuscule, così come agli svedesi – e con svariati album in carniere – Puteraeon, o ancora ai francesi Monsterbrau (fra death e grindcore), ed i brasiliani Sanctifier.

Vengono, invece, dal techno-death, i Gigan di Tampa: per loro sono già quattro i compact, dal suono spaziale e progressivo, cosmico e violentissimo, cupo e sperimentale. Una delle migliori band degli ultimi anni, non soltanto per i richiami a HPL.

Sempre death, ma colombiani, gli apocalittici Yogth Sothoth. Un nome, una garanzia.
Passando al black metal, qui i nomi da fare sarebbero persino troppi. Scegliamo di segnalare almeno gli statunitensi Dagon (la divinità sumera degli oceani primordiali che ispirò l’omonimo racconto di Lovecraft ed il seguito di Fred Chappell, pubblicato nel nostro paese da Urania), i fantastici Great Old Ones dalla Francia, gli US blacksters Necronomicon (da non confondersi con i colleghi thrash della Germania) con il loro mix di Dimmu Borgir e Behemoth.
Evidentemente il nichilismo del BM ha trovato nella letteratura di marca lovecraftiana terreno fertile da investigare e da rappresentare in musica, in particolare relativamente al nichilismo anti-antropocentrico ed alla glaciale alterità di un universo caotico e negativo, rovesciato di segno rispetto al più rassicurante quadro teologico della astronomia gravitazionale newtoniana sei e settecentesca, codificata dalla cultura dell’Illuminismo, francese ed europeo, nel XVIII secolo.
Argomenti che molto stavano a cuore a Lovecraft, come la sua sua biblioteca – il cui catalogo è stato da poco pubblicato – ed i suoi carteggi provano senza più ombra alcuna di dubbio.
Tra black post-industriale e dark ambient elettronico si sono mossi poi gli inglesi Axis of Perdition,
autori di svariati lavori assai astratti e complessi, quasi una traduzione in chiave futuristica (usando i campionamenti e la programmazione tecnologica in una chiave aggressiva e modernista) di liriche e ambientazioni lovecraftiane.
Il dark ambient più astratto ha omaggiato diverse volte, da parte sua, il genio di HPL: si ricordino i Kammarheit di R’lyeh (2002) e Cthulhu (2014), quest’ultimo un tetro e inquietante abisso sonoro, fatto di tonalità oscure, realizzato in collaborazione con altri quattordici artisti ed edito dalla Cryo Chamber.
Né vanno dimenticati, nel genere, gli Aklo di Beyond Madness (2005) ed i notturni e ritualistici Dead Man’s Hill di Esoterica Orde de Dagon (2008), molto bello anche come confezione (in formato libro).
Molto di HPL anche nel doom. Pensiamo solo ad una canzone come Dunwich degli inglesi Electric Wizard, a un disco come Raised by Wolves (2011) dei Serpentcult (ottimi interpreti belgi di sludge e doom atmosferico), allo stoner-doom degli Space God Ritual, nonché ai grandiosi Ahab, gruppo eccezionale e responsabile del cosiddetto ‘nautic funeral doom’, che tanto deve agli orrori marini, sia di Lovecraft, sia del suo maestro britannico William Hope Hodgson.
L’ultimo disco degli Ahab, non a caso, si intitola The Boats of Glen Carrig, opera magna di Hodgson che Fanucci tradusse nel 1974 in italiano.
Più antico nelle scelte timbriche e ostentatamente retrò il dark-doom sepolcrale e sinistro dei Bloody Hammers, mentre sono da apprezzare anche i Doom’s Day, i Void Moon, i Wo Fat  di Psychedelonaut, i Fungoid Stream, i Bretus di The Shadow Over Innsmouth e gli High on Fire di De vermis mysteriis: il libro maledetto attribuito da HPL e dal suo amico e discepolo Robert Bloch alla fantomatica e leggendaria figura dell’alchimista-negromante Ludwig Prynn, vissuto tra il XVI e il XVII secolo.

Sempre in campo heavy-doom, vanno menzionati anche i lovecraftiani Demon Eye, anche loro assai validi.
Nel funeral doom più intransigente, evocativo e materico, vanno inclusi poi i Catacombs americani, che hanno dedicato il loro unico lavoro, In the Depth of R’lyeh (2006), alla città sommersa ove dorme il suo sonno millenario Cthulhu.
Fra doom atmosferico, post-metal, prog e math-rock lovecraftiano, infine, gli interessantissimi Labirinto di Gehenna (2016), tra le sorprese più accattivanti e da seguire dell’ultimo quinquennio.
Esplicitamente lovecraftiano è il progetto internazionale Space Mirrors, della tastierista russa Alisa Coral, cui di deve uno space rock elettronico e metallizzato, con inserti post-black.
Da avere almeno la trilogia di Cosmic Horror (2012-2015).

Più classicamente prog – nel senso analogico, valvolare e caldo del termine – la proposta dello svedese Annot Rhul (ora su Black Widow Records), che nello splendido Leviathan omaggia tanto HPL quanto la grande scuola nordica di Anglagard, Anekdoten e Landberk: un grande esempio di dark prog, non dissimile da quello dei nostrani Ingranaggi della Valle, che nel loro Warm Spaced Blue – sempre della scuderia Black Widow – si sono consacrati ad una intensa e raffinata rilettura musicale dei Miti di Cthulhu.
Restando in Italia, rammentiamo pure i fiorentini Goad, tra hard prog e dark wave – non senza echi folk alla Paul Roland, altro artista di scuola lovecraftiana – i quali a HPL hanno dedicato tra l’altro il loro bucolico The Wood (2006), un disco intriso di poesia arcana e riferimenti letterari.
Metal e non solo metal, come vediamo. Lovecraft ha ispirato infatti anche artisti zeuhl e euro-rock, come i belgi Univers Zero, che gli hanno tributato la cameristica La Musique d’Erich Zann, grande improvvisazione dissonante e crimsoniana, contenuta nel loro Ceux du Dehors (1981).
Altro pezzo improvvisato è la jam dedicata nel 1988 dai Bevis Frond al fiume Miskatonic, del New England, la cui geografia di fatto HPL riscrisse in versione immaginaria e fantastica.
Astratti ed avveniristici, i francesi Shub-Niggurath hanno preso il nome – come i loro colleghi deathsters meso-americani – da una delle creature di Lovecraft.
Musicalmente vicini ai Magma più caotici e destrutturati, hanno intitolato a Yog-Sothoth una composizione, di oltre undici minuti, presente sul loro disco omonimo, uscito per Musea nel 1985.
Persino il crust punk e l’hardcore più weird non hanno mancato di rivolgersi all’universo di HPL.
Al riguardo, possiamo citare i fenomenali Rudimentary Peni, gruppo davvero oltranzista e feroce, che a Lovecraft ed al suo mondo si è rivolto in un lavoro quali Cacophony, da molti punti di vista vicino nelle sonorità al grindcore di primi Napalm Death, Heresy e Unseen Terror, nonché al punk-metal di Broken Bones, Discharge e (Charged) GBH.
Veniamo alle compilation. Da possedere assolutamente The Stories of H.P. Lovecraft, cofanetto in 3 CD, pubblicato dalla francese Musea, che tributa in chiave prog il solitario di Providence.
Figurano, fra i partecipanti all’operazione, Glass Hammer, Karda Estra, La Coscienza di Zeno, Guy Le Blanc (keybords-wizard dei canadesi Nathan Mahl e anche negli ultimi Camel), Sithonia, Daal e Nexus tra gli altri.
Altro CD collettivo che gli appassionati non potranno obliare è di certo Yogsothery, edito da I Voidhanger: quattro band – Jaaportit, Umbra Nihil, Aarni e Caput I,VIIIm – che tra dark ambient e post black atmosferico-escatologico esplorano, con un brano ognuna (la durata delle tracce va dagli undici ai ventinove minuti), l’universo d’uno dei più grandi scrittori del XX secolo.

Deicide – Overtures of Blasphemy

Dodicesimo album della storica death metal band floridiana, più brutale e tecnica che mai, a cinque anni di distanta dall’ultimo disco.

Tornano a farsi sentire i Deicide, ad un lustro di distanza da In the Minds of Evil, mentre tutto il loro catalogo 1990-2001 è ora in corso di riedizione e mentre sta per essere finalmente ristampato anche quanto fatto dagli Amon, nella loro poco nota ma interessante storia parallela.

Il nuovo disco della creatura del malefico Glenn Benton conferma, di fatto, in termini di sonorità la svolta impressa dopo Legion (1992): grande velocità, blast beats, scenari musicali (e lirici) estremi, produzione stellare e la conferma di quante e quali doti tecniche servano per suonare brutal death, soprattutto oggi. Basta ascoltare, al riguardo, songs come l’opener One With Satan, All That Is Evil, Seal the Tomb Below, il singolo Excommunicated o Crawled From the Shadows. Ma anche la seconda parte del CD, forte di brani quali Anointed in Blood, Defying the Sacred e Flesh Power Dominion non appare di certo da meno. Tutto è molto e volutamente old school – come nel caso degli Slayer, dei Cannibal Corpse, e dei ritrovati Morbid Angel – e la cosa non dispiace affatto. Senza dubbio, qualcuno potrà affermare che senza variazioni questo genere può risultare tedioso e ripetitivo, oppure che questo nuovo disco non aggiunge nulla di nuovo a quanto sinora fatto dai Deicide. In realtà, la band americana dimostra una volta di più integrità e coerenza artistiche. Che cosa si vuole che facciano? Che virino, di colpo, verso altri lidi? Che si rimettano in discussione, a ventotto anni dall’esordio? Sarebbe, a mio avviso, del tutto assurdo. I Deicide continuano a fare quello che meglio sanno fare, da sempre. Ed è per tale motivo che il loro pubblico li ama. Ricordiamo che quando i Morbid Angel si sono spostati verso un sound più industrial, con il controverso e discusso Illud Divinum Insanus, hanno finito soltanto per scontentare tutti: i vecchi fans si sono sentiti traditi e l’attenzione da chi ascolta generi (e suoni) più moderni non è arrivata. Anche per questo i Morbid Angel sono tornati alle origini, con il loro ultimo lavoro. Sono anche queste le ragioni che magari devono avere spinto i Deicide a confermare il loro profilo, sotto ogni punto di vista. Questo è il brutal death metal, di maestri che hanno fatto la storia, ed altro non ha senso chiedere o aspettarsi.

Tracklist
1- One With Satan
2- Crawled From the Shadows
3- Seal the Tomb Below
4- Compliments of Christ
5- All That Is Evil
6- Excommunicated
7- Anointed in Blood
8- Crucified Soul of Salvation
9- Defying the Sacred
10- Consumed By Hatred
11- Flesh, Power, Dominion
12- Destined to Blasphemy

Line up
Glenn Benton – Bass, Vocals
Steve Asheim – Drums
Kevin Quirion – Guitars
Mark English – Guitars

DEICIDE – Facebook

Deceptionist – Initializing Irreversible Process

Spettacolare esordio di una band laziale dedita a un brutal tecnicissimo e futuristico, zeppo di idee e soluzioni avveniristiche, davvero entusiasmante.

Con colpevole ritardo, recensiamo questo CD d’esordio di una band nostrana veramente fenomenale e preparatissima.

I romani Deceptionist – fondati da ex membri di Novembre, Hideous Divinity e dei Fleshgod Apocalypse – sono un vero e proprio super-gruppo (come si diceva una volta), che in (purtroppo) poco più di mezz’ora sciorina un techno-death brutale e pieno di soluzioni ed inserti di carattere industriale e cibernetico, che trova una perfetta controparte lirica nei temi trattati nei testi (biomeccanica e mutazioni umane). Di rado si esordisce con un capolavoro, ma questo è il caso, alla luce anche della caratura dei musicisti coinvolti. Le dieci tracce di Initializing Irreversible Process, spaziali e futuristiche, marziali e chirurgiche, sperimentali e pesantissime ad un tempo, incanteranno gli amanti di Atheist, primi Fear Factory, Necrophagist e ultimi Sadus. Siamo come detto a livelli di altissima qualità, con suoni pazzeschi, una produzione sopraffina (così vuole il genere, del resto) e capacità di scrittura – oltre che di esecuzione – nettamente al di sopra della media. Il discorso resta il solito: se fossero americani o tedeschi, riscontri ed attenzione sarebbero di altro segno. Ma siamo in Italia. Al di là di questo, comunque, i Deceptionist – che attendiamo fiduciosi e trepidanti a nuove ed ulteriori prove – sono un autentico spettacolo di valore internazionale, e non solo per chi ama il techno-brutal, l’industrial metal e il cyber-death mutante. Cangianti, cinematici e dai mille colori: da avere senza discussioni.

Tracklist
1. It’s Just Begun
2. Through the Veil
3. Quest For Identity
4. When Humans Began to Be Machines
5. Final Innovation / Automatic Time
6. The Confession
7. Irreversible Process
8. Sunshine
9. Industrivolutionaction
10. Operation Nr. 3

Line-up
Andrea Di Traglia – Vocals
Claudio Testini – Drums
Fabio Bartoletti – Guitars
Antonio Poletti – Guitars

Stefano Franceschini – Bass Section

DECEPTIONIST – Facebook

Tamarisk – The Ascension Tape

Nastro di culto, da parte di uno sfortunato ma pionieristico gruppo inglese, tra i primissimi a lanciare il new progressive britannico a inizio degli Eighties.

Il new prog inglese inaugurato ufficialmente nel 1983 dai debutti sulla lunga distanza di Marillion e IQ nasce in realtà alla fine degli anni Settanta, con il desiderio di riproporre in forma aggiornata le sonorità del rock sinfonico nato al principio del decennio precedente.

Tra il 1978 e il 1979 nascono i grandiosi Twelfth Night, per certi aspetti i Van Der Graaf degli anni Ottanta. Nel 1981, escono poi i primi dischi dei francesi Edhels, dei norvegesi Kerrs Pink (tra Camel e Pink Floyd) e degli olandesi Light, mentre i Lens (primo nucleo degli IQ) ripropongono e modernizzano certo space progressive, con il loro primo ed unico nastro, Seven Stories Into Eight. La scena londinese è anch’essa in pieno fermento: dal nord-est della capitale inglese, giungono i Tamarisk. Nel 1982, incidono il loro primo demo, The Ascension Tape: solo tre composizioni, ma di eccellente qualità e molto rappresentative del nascente movimento e della declinazione artistica che il Regno Unito inizia a fornirne. Riusciti intrecci di chitarra fluida e tastiere pompose, ottimo gusto, raffinatezza e melodia, azzeccati inserti più hard rock – in anticipo di tre anni sul gioiello medievaleggiante Different Breed dei Beltane Fire – contribuiscono a codificare l’approccio stilistico dei Tamarisk. L’anno seguente il quintetto inglese registra una seconda cassetta, Lost Properties, nuovamente di tre pezzi. A quel punto, il materiale per realizzare un LP c’è, ma il contratto non arriva e la band si scioglie. Dalle sue ceneri nasceranno i Dagaband – una sorta di ELP in versione più hard – e successivamente Quasar (attivi tra il 1984 ed il 1988, autori di due splendidi dischi: lo storico Fire in the Sky e Lorelei) e Landmarq, questi ultimi tutt’ora sulla breccia, dal vivo in particolare. Membri dei Tamarisk, inoltre, hanno poi lavorato con i Jadis e gli Enid del grande keyboards-player Robert Godfrey. Oggi, chi volesse risalire alle origini del new prog albionico riascoltando i Tamarisk non deve più fare molta fatica: tutte le incisioni del gruppo, finalmente, sono state riversate su compact disc prima con il titolo di Frozen in Time (2012) e quindi – risuonate per l’occasione, del tutto remixate e rimasterizzate – come Breaking the Chains, pubblicato proprio quest’anno dalla Cult Metal Classics assumendo come titolo quello del migliore brano di Ascension Tape.

Tracklist
– Ascension
– Christmas Carol
– Breaking the Chains

Line up
Andy Grant – Vocals
Richard Harris – Drums
Steve Leigh – Keyboards
Peter Munday – Guitars
Mark Orbell – Bass

1984 Autoprodotto

Voivod – To The Death

Cassetta di culto, per un gruppo chiave del thrash mutante, allora agli esordi. La nascita di un mito, a tutti gli effetti.

Nel 1982, nel Quebec settentrionale, nascono i Voivod. Il primo demo, del 1983, è Anachronism, ma è, tuttavia, To the Death a rivelare il devastante potenziale dei quattro ragazzi canadesi.

I giorni del post metal sperimentale e del prog spaziale pinkfloydiano sono ancora lontani, anche se si intravede già il talento di Away e compagni, che qui si esprime con una furia iconoclasta e rumoristica di raro impatto, specie per quell’epoca. Il nastro viene inciso all’inizio del 1984 (risuonati e riregistrati, molti suoi pezzi andranno a comporre War and Pain, che uscirà, a giugno, in quello stesso anno). Thrash-black primordiale e slayeriano (non a caso sono presenti cover di Venom e Mercyful Fate), hardcore e crust punk violentissimo, di matrice inglese (e non per nulla il demo è stato ristampato, pochi anni fa, dalla Alternative Tentacles di Jello Biafra dei Dead Kennedys): i primi Voivod devono, in effetti, moltissimo ai Discharge e ricordano anche i connazionali Razor; questi primi loro incubi futuristici, intrisi di dissonanze e paranoie distopiche, prefigurano comunque qualcosa del SCI-FI metal. Qui la sensibilità del quartetto la incanala semplicemente in una direzione aggressiva, velocissima nei suoi schemi ritmici strettissimi, brutale e violenta negli esiti sonori. A ricordarci – caso mai ce ne fosse ancora bisogno – quanto thrash e black metal debbano al punk britannico e all’hardcore primigenio: l’alba della storia, voivodiana e non solo.

Tracklist
– Voivod
– Condemned to the Gallows
– Helldriver
– Live For Violence
– War and Pain
– Negatation
– Buried Live (Venom cover)
– Suck Your Bone
– Blower
– Slaughter in a Grave
– Nuclear War
– Black City
– Iron Gang
– Evil (Mercyful Fate cover)
– Bursting Out (Venom cover)
– Warriors of Ice

Line up
Piggy – Guitars
Blacky – Bass
Snake – Vocals
Away – Drums

Negli Abissi del Fato: l’epopea dei Manilla Road

La recente scomparsa di Mark Shelton (1957-2018), voce e chitarra dei Manilla Road, immensa e storica cult band, impone – non solo agli appassionati ed ai conoscitori – una adeguata opera di ricostruzione e di ripensamento circa quanto da lui magnificamente realizzato con la sua band, nel corso di oltre quattro decenni.

I Manilla Road nascono nel Kansas, a Wichita nel 1976. Inizialmente, vista l’epoca, sono influenzati dal classico hard rock americano, ma subito mostrano, per precisa volontà di Shelton, il proposito di forgiare uno stile personale, che possa permettere di individuarli in maniera precisa, tra i moltissimi colleghi d’oltreoceano. La formazione, un trio, è composta, oltre che da Shelton, dal fedele bassista Scott Park e dal batterista Rick Fisher. Tra il 1977 ed il 1978, il gruppo si fa conoscere attraverso le sue infuocate esibizioni dal vivo, per lo più nei locali del suo stato d’origine. Nel 1979, la band entra in sala di registrazione, per incidere un nastro, i cui pezzi, all’insegna di un hard prog molto potente e d’ispirazione fantascientifica, vanno a far parte, di lì a breve, del mini-LP Invasion (pubblicato nel 1980, dalla Roadster), forte dei primi classici: la spaziale Far Side of the Sun, che oltrepassa gli otto minuti, la breve ma eroica Centurian War Games, la suite di quattordici minuti The Empire.

Sempre nel 1979, in dicembre, il combo di Shelton suona nella sua città natale: la testimonianza su compact di quel concerto uscirà, per la Shadow Kingdom, nel 2010, con il titolo After Midnight: solo cinque brani, ma Pentacle of Truth, Chromaphobia e Herman Hill già lasciano il segno e fanno intravedere i futuri giorni di gloria, plumbei ed affascinanti, come il fuoco che alimentava secoli fa il crogiolo degli alchimisti.
Nel 1981, i Manilla Road registrano quindi il più oscuro e tenebroso Mark of the Beast, permeato di influenze vagamente sabbathiane e tra le primissime realizzazioni del nascente US metal. Il disco, rimasto allora inedito, verrà pubblicato solo moltissimi anni dopo, dalla Monster (che, insieme alla Rockadrome, ha ristampato anche classici dimenticati di Winterhawk, Sorcery, Poobah, Jerusalem, Saint-Anthony’s Fyre, Ashbury, Militia, Anvil Chorus, Full Moon e Legend, tra gli altri). Materiali da Mark of the Beast si ritrovano oggi anche in Dreams of Eschaton, raccolta doppia di inediti live e studio, risalenti tutti al periodo 1979-1981 dei Manilla Road, fatta uscire recentemente dalla sempre benemerita HR Records.
In questa prima fase del loro percorso artistico, i Manilla Road cominciano a dare corpo al loro stile epic metal. La cosa emerge soprattutto dall’ascolto di Metal (1982) e Crystal Logic (1983). Canzoni quali Enter the Warrior, Defender (da quel momento parola magica per ogni true metal fan), Queen of the Black Coast, Cage of Mirrors, la tetra Necropolis, Flaming Metal System e l’evocativa Veils of Negative Existence segnano un’epoca ed aprono una strada, incarnando attraverso il pentagramma gli scenari della tradizione guerriera di matrice sword and sorcery – quella per capirci di scrittori del calibro di Robert Erwin Howard (il creatore tra gli altri di Conan il Barbaro e Kull di Valusia), Lyon Sprague de Camp, Lin Carter e Fritz Leiber – fatta di maghi e sortilegi, spade e incantesimi, torri e contrade medievali, draghi e mostri da combattere. E’, di fatto, l’invenzione di un genere, per nulla pacchiano o autoindulgente, in anticipo sui Manowar. Una terra altra per tutti coloro che avvertono il disagio della realtà e il bisogno spirituale di evaderne verso altri mondi.

 


Intanto, la creatura di Shelton partecipa alla raccolta US Metal III, curata da Mike Varney, e tramite un tour statunitense in compagnia di Krokus e Ted Nugent vede crescere la propria fama. Nel 1984, l’arrivo del nuovo bassista Randy Foxe sposta l’asse ritmico dei Manilla Road verso lidi più veloci: ne è la prova il capolavoro Open the Gates, più moderno nel suono, puro come cristallo di roccia, vero grande classico a cavallo tra speed ed epic metal. Forte anche di un’ottima produzione, il disco è il primo della band a venire distribuito anche in Europa, grazie alla francese Black Dragon. Al LP viene inoltre allegato un extended play di dodici pollici e sedici minuti in tutto. Lo stile elaborato da Open the Gates – che, tramite pezzi come Metalstrom, la title-track, la cosmica Astronomica, Fires of Mars, The Ninth Wave, le antesignane del fantasy metal The Road of Kings e Hour of the Dragon, dà voce musicale e narrativa a leggende arturiane e miti nordici – si trova confermato dai due lavori successivi: The Deluge (1986) e Mystification (1987). Il primo è consacrato al diluvio biblico ed ai misteri e terrori del mare, con tracce splendide, quali Shadow in the Black, Isle of the Dead, Eye of the Sea, Taken by Storm (che apre la via al pirate metal dei Running Wild), The Drowned Lands e la più inquietante Hammer of the Witches, traduzione in musica del Malleus Maleficarum (1484) degli inquisitori domenicani Sprenger e Kramer. Il secondo disco è, invece, un omaggio al grande Edgar Allan Poe: un brano come Masque of the Red Death, tratto appunto dal racconto La Maschera della Morte Rossa (portato sugli schermi, negli anni Sessanta, da Roger Corman, con la fotografia barocca di Nicholas Roeg) è altamente rappresentativo ed emblematico in tal senso, ma non sono da meno la iniziale Up From the Crypt, Children of the Night, Haunted Palace e Dragon Star, tutte intrise d’una suggestiva atmosfera esoterico-occulta e neo-gotica. Perché anche questo è dark-sound, la cosa non va mai dimenticata. Nell’estate del 1988 esce poi Roadkill, una raccolta dal vivo che conferma i MR al massimo della forma pure sul palcoscenico.
Dopo Poe, Lovecraft. Dal solitario di Providence e dalla sua saga di orrore fantascientifico, il colto e raffinato Shelton tra l’ispirazione letteraria per Out of the Abyss, apparso nel 1989 per la Leviathan e capace di affiancare al solido verbo dell’epic metal inattese ma opportune aperture thrash. Return of the Old Ones – i Grandi Antichi di HPL, appunto – è il brano-simbolo del disco. Nondimeno echi lovecraftiani risuonano altresì in From Beyond e A Touch of Madness, pezzi forti (insieme a Book of Skelos ed alla mitologica The Prophecy) del successivo capitolo in studio: The Courts of Chaos, pubblicato nel 1990. Intanto, il messaggio musicale dei MN veniva in parte raccolto ed aggiornato dai floridiani Iced Earth.
Il primo progetto solista di Shelton – prima cioè dei più dark Hellwell e di Obsidian Dreams – vide la luce nel 1991, intitolato The Circus Maximus, ma pubblicato ancora a nome Manilla Road. Mark, evidentemente, sperava con questo disco di far finalmente raggiungere al proprio gruppo la meritata notorietà, anche al di fuori dei confini americani. Purtroppo, il 1991 fu l’anno in cui i Metallica, con il pur buono black album, tradirono il thrash, messo in crisi – insieme a epic, speed e class metal – da Nevermind dei Nirvana e dall’avvento della moda alternative. Quasi nessuno si accorse pertanto di The Circus Maximus, ispirato all’antica Roma e ai suoi fasti gladiatorii, e si aprì, per tutto l’heavy più classico e tradizionale, una crisi decennale. Vittima dell’indifferenza generale, Shelton si ritrovò costretto a sciogliere temporaneamente i Manilla Road, in attesa di tempi migliori. Questi vennero al principio della nuova decade, che vide come sappiamo letteralmente una rinascita di ogni branca – epic metal incluso, dunque – della nostra musica. I Manilla Road tornarono così alla grandissima, nel 2001, con Atlantis Rising, che, edito dalla Iron Glory, attingeva in quattro libri – quattro suite, di fatto – tanto ad Atlantide e Lemuria, quanto alle leggende scandinave ed a Tolkien. Un vero classico moderno, si potrebbe dire.
Le fortezze nascoste, i castelli imponenti e misteriosi ed i duelli all’ultimo sangue furono, già dalla bella copertina, gli elementi che fornirono la trama a Spiral Castle, uscito nel 2002, per la nostrana Black Widow. Ormai Mark aveva ritrovato la sua originale vena creativa. O, se si vuole, ri-creativa (di miti, leggende e tradizioni arcane e ancestrali, provenienti dal Grande Passato, rese con un metal roccioso e stentoreo, elegante ed all’occorrenza sepolcrale, enfatico e magniloquente). Anche Gates of Fire (stampato dalla Battle Cry, nel 2005) non fu di certo da meno: tre complesse ed articolate trilogie, che guardavano questa volta, oltre che alle gesta dei re (un leitmotiv ricorrente nell’universo dell’epic metal e dei Manilla Road in particolare), ai Giganti del racconto biblico e dell’archeologia spaziale, nonché alle antiche virtù dei combattenti di Roma e Sparta.
Nel 2007 apparve nei negozi il mini Clash of Irons, split dal vivo registrato l’anno prima, giusto per riempire il vuoto temporale in attesa della nuova fatica dei MR. La My Graveyard Production – nel 2008 – si incaricò di licenziare il fantastico Voyager, con cui Shelton e compagni (dalla rinascita vi fu una autentica girandola di musicisti nella line-up dei Manilla) si misuravano, questa volta, con le storie vichinghe e norrene, nonché con il fascino dell’ignoto, racchiuso negli oceani solcati secoli fa dai drakkar dei navigatori nordici.
Ottimi sono stati pure i due lavori successivamente realizzati dal gruppo di Shelton: Playground of the Damned (2011) e il criptico Mysterium (2013), quest’ultimo pubblicato dalla Golden Core. Nel primo, riecheggia ancora il fantasma di Poe (Into the Maelstrom) e in Fire of Asshurbanipal Shelton si confronta la storia della monarchia assiro-babilonese. Nel secondo abbiamo un’ulteriore manciata di anthems epici: The Battle of Bonchester Bridge, la crowleyana Do What Thou Will, The Calling, la title-track e Only the Brave. Come se il tempo non fosse mai passato, cristallizzatosi nello spazio altro dell’immaginazione fantastica e della storia più lontana possibile dallo squallido presente.

Realmente instancabile e con un fuoco creativo sempre acceso, Shelton, nel 2012, dà vita a un side project, denominato Hellwell, dove la necessità primaria è quella di suonare su tematiche più vicine al classico horror, accompagnato da E.C. Hellwell (keyboards, synth) e da Johnny Benson (drums). L’opera Beyond the boundaries of sin presenta brani dominati dall’interplay tra la chitarra del leader e le tastiere, mentre i suoni sono molto più oscuri e pesanti, rispetto alla band madre. Le tematiche sono incentrate su storie orrorifiche ben diverse dai “soliti” testi, come in Eaters of the dead, tratto dall’omonimo racconto di Michael Crichton o come in Acheronomicon, suite basata su una breve storia, mai pubblicata, del sodale E.C. Hellwell. Come affermò Shelton, i Manilla sono l’alfa e gli Hellwell rappresentano l’omega, che si ripresentò, nel 2017, con un secondo capitolo Beyond the demon’s eyes, ancora più intricato ed elaborato, abbracciando anche forti influenze dark prog (The last rites of Edward Hawthorn); in questa seconda opera, si rivede anche un drummer storico dei Manilla, Randy “Trasher” Foxe, attivo nella band dal 1985 al 1990. Gli Hellwell non hanno mai svolto concerti live ed hanno rappresentato una diversa faccia della medaglia di un uomo che ha sempre avuto un forte impulso creativo, sempre all’insegna di una musica di qualità figlia di letture e di una cultura superiore. Nel 2015, Mark pubblica un progetto molto sentito, Obsidian Dreams, dove sono racchiuse nove songs composte in circa quindici anni; quest’opera non ha nulla a che fare con il metallo epico dei Manilla, ma esplora le sue personali radici, dai genitori entrambi musicisti alla provenienza dal Kansas, stato di country music. Songs di bellezza adamantina, pure, vere rette da una chitarra che disegna terse melodie e dà una voce particolarmente sentita ed a suo agio anche in traiettorie molto diverse; sentire oggi Burned o Blood upon the snow, per citarne solo due, è come una lama che si conficca profondamente nel cuore. Disco passato totalmente inosservato, anche perché lo stesso anno i Manilla Road tornano con un progetto importante come The Blessed Curse, incentrato sull’epopea di Gilgamesh; disco doppio, con una prima parte nel tipico ed ispirato stile, grande chitarra sempre suonata magistralmente e vocals giocate tra Mark e “Hellroadie” Patrick, splendide songs come Tomes of Clay o come The Muses Kiss dimostrano che la classe è cristallina e che i Manilla sono imprescindibili. Il secondo disco, chiamato After the Muse, non legato al concept, presenta una serie di brani, sempre gradevoli, ma dediti a un suono con influenze southern e predilige aromi acustici in alcuni tratti. Attività live intensa e si arriva al 2017, quando puntuale la band si ripresenta con To Kill a King, purtroppo, alla luce dei recenti fatti, ultima opera, e la classe rifulge ancora una volta proponendo grandi songs fluide, intense, sincere. Non ci sono altre parole, “chapeau” ad un Artista che in quarant’anni di musica ci ha donato momenti indimenticabili, proponendoci la sua incontaminata arte. La stessa che rifulge anche nel progetto Riddlemaster (del 2017), con Shelton ed il primo batterista dei Manilla, Rick Fisher: un solo disco dal titolo Bring the Magick Down, più legato a sonorità hard rock anni Settanta. Quasi un ritorno alle origini. La parola Origine, del resto, riveste come noto, per chi ha trasposto in musica la più epica sword and sorcery, un grande ed autentico significato.

Warhammer – Massimo Pagliaro

DEMETRA SINE DIE

La fantascienza oscura dei Demetra Sine Die: nuovo disco e intervista al gruppo

Oltre il black, oltre il kraut, oltre molti limiti o vincoli, sperimentazione, spirito d’avventura nella creazione musicale, superamento dei confini raggiunti: tutto questo è il nuovo Demetra Sine Die, Post Glacial Rebound. Un titolo che indica atmosfere spaziali e fantascientifiche. Ne abbiamo parlato con Marco Paddeu e Adriano Magliocco.

ME Marco, cosa rappresenta per voi questo nuovo capitolo della vostra storia?

In primis è una testimonianza della nostra amicizia. Riuscire ad arrivare al terzo disco attraverso anni complessi e periodi difficili è una grande soddisfazione. In più anche questo capitolo rappresenta una evoluzione del nostro modo di comporre e si stacca per molti versi da quanto fatto in passato.

ME Il vostro suono e la vostra identità artistica paiono in continua evoluzione, in linea del resto con il nome che vi siete dati…

Marco: L’evoluzione artistica è parallela alla nostra come persone. Tutti e tre siamo molto curiosi: ascoltiamo molta musica e non ci piace restare fermi e ripeterci. Una traccia dai tratti puramente kraut rock come Eternal Transmigration è significativa da questo punto di vista. Non avevamo mai fatto nulla del genere ma è nata spontaneamente e penso stia alla perfezione nella scaletta che abbiamo scelto. La circolarità ritmica che trovi nel kraut rock è un elemento che amiamo e che abbiamo interiorizzato… sarebbe bello un giorno fare un disco tutto così… ah ah ah ah.

Adriano: non so dirti da cosa dipenda, sicuramente da quello che ascoltiamo ma anche dalle vicende della vita; come puoi vedere non siamo ragazzini e con l’età via via cose ne capitano, alcune belle, magari hai più soldi a disposizione, ma anche tante brutte e non sono più i drammi esistenziali che ti colpiscono da giovane, sono proprio mazzate che ricevi e spesso non ci puoi fare nulla, e credo che in Post Glacial Rebound si sentano proprio tutte.

ME In questo nuovo disco sono presenti anche elementi post-black…

Si, amiamo un po’ tutti i generi “estremi” e alcune caratteristiche del black e del death metal sono state inglobate nel nostro suono in funzione di una migliore rappresentazione di ciò che sentivamo nel momento in cui stavamo componendo il disco. Gravity in questo senso è black metal calato nello spazio più profondo, con connotati fortemente psichedelici specialmente nella prima parte.Questa traccia, così come Stanislaw Lem, è stata fortemente influenzata dalla lettura di Solaris.

ME Cosa ascoltate ultimamente e quali sono stati, secondo te, i lavori migliori di questi ultimi anni?

Marco: Ultimamente ascolto tanto jazz, in particolare Miles Davis, Herbie Hancock e John McLaughlin. Inutile dire che quando questi tre si ritrovarono a suonare insieme per Miles Davis nacquero dei capolavori senza tempo, come “In a Silent Way”, “Bitches Brew” e “A tribute to Jack Johnson”… Poi continuo sempre ad essere vorace nel “nostro genere”, quindi potrei dirti che apprezzo molto il percorso dei finnici Oranssi Pazuzu e dei loro compagni Dark Buddha Rising. Adoro i God Speed You Black Emperor, Dylan Carlson e i suoi Earth, Neurosis, Converge, Wolves in the Throne Room, Anna Von Hausswolf… Comunque la cosa più bella è continuare a scavare nell’underground, dove si trovano cose stupende e dove la creatività continua ad essere protagonista in antitesi alle proposte di massa propinate dalle major.

Adriano: recentemente ascolto molto rock lento, doom o funeral doom, chiamalo come vuoi, tipo Ahab, Pallebearer, Mournful Congregation, ecc., ma anche un po di black metal “panteista”, come gli ormai ex Agalloch, ora i Pillorian, i Wolves in the Throne Room.

ME In generale, a tuo parere, che cosa fa sì che un album lasci un segno e indichi una strada?

Oggi è sempre più difficile lasciare un segno e tracciare una nuova strada in ambito artistico-musicale. Di sicuro i signori di cui parlavo sopra lo hanno fatto perché erano e sono dei geni dotati però di una personalità volta a mettersi sempre in discussione. Miles Davis avrebbe potuto andare avanti con i suoi standard jazz, senza spostarsi più di tanto dal meraviglioso “A kind of blue”, ma non lo fece e sul finire degli anni ’60 si lasciò influenzare dal rock psichedelico e dai sintetizzatori andando poco a poco a plasmare cose mai sentite prima, che portarono alla fusion e al funky. Lo stesso discorso vale per Herbie Hancock: se ascolti i primi dischi e arrivi a Mwandishi, Crossings, Sextant e Head Hunters non puoi che rimanere stupefatto del talento e della visione globale di un altro artista che ha lasciato il segno e anche qualcosa in più.

ME Come è andato il tuo progetto solista, Morgengruss?

Sono molto soddisfatto del primo disco. Mi ha lasciato tanti ricordi, mi ha fatto crescere sotto molti aspetti e le poche date ma estremamente qualitative: mi hanno dato la possibilità di conoscere artisti stupendi. Il secondo disco è in cantiere e verrà registrato entro il 2018.

ME Sappiamo che suoni anche in un’altra band più prossima al drone-doom, i Sepvlcrvm: quali sono le novità all’orizzonte, se ci puoi anticipare qualcosa?

Sepvlcrvm ha molto materiale pronto per essere pubblicato. Abbiamo almeno un paio di dischi di cui uno doppio. Sarà diviso in un disco di studio e uno live inciso un paio di anni fa qui a Genova. Non posso rivelare molto ma sarà un concept interamente dedicato al cosmo, suona Sepvlcrvm anche se è qualcosa di piuttosto differente rispetto a quanto fatto in passato.

ME Nel vostro approccio – accanto a dark wave, drone doom, post black, noise, sludge e kraut – si possono percepire non pochi echi di matrice progressive: tuttavia, cosa è prog per te?

Ho sempre accostato il termine progressive alla una rottura degli schemi precostituiti sia della musica rock che del pop. Quindi la volontà di andare oltre la classica forma canzone penso sia una caratteristica quasi imprescindibile per questo tipo di approccio.

Hollowscene – Hollowscene

Gli Hollowscene sono una grande band lombarda di progressive rock. Il loro è un prog di stampo vintage, caldo e analogico, capace di guardare alla grande tradizione – britannica, soprattutto – degli anni Settanta.

Gli Hollowscene sono una grande band lombarda di progressive rock.

Recentemente si sono esibiti al FIM 2018 insieme a Prowlers, Anekdoten e La Fabbrica dell’Assoluto. Il loro è un prog di stampo vintage, caldo ed analogico, capace di guardare alla grande tradizione – inglese, soprattutto – degli anni Settanta. Non stupisce quindi, al riguardo, che questo loro interessantissimo lavoro sia uscito per Black Widow, da sempre attentissima al suono valvolare e primigenio di ciò che è progressive rock. Il disco si apre con la suite in cinque atti Broken Coriolanus: un vero e proprio caleidoscopio di suoni e sensazioni, di creatività ed emozioni, guidate dalla doppia tastiera e dalla doppia chitarra, sorrette da una sezione ritmica inappuntabile, non senza opportune spezie folk dovute al flauto. La suite è multiforme e cangiante, densa di cromatismi sonori e cambi di situazione, nello stesso tempo oscura e melodica, non priva di una tensione quasi drammatica e vagamente teatrale. Molto bella ed azzeccata poi l’idea di inserire, in chiusura dell’album, una cover di The Moon Is Down dei mitici Gentle Giant, con cui gli Hollowscene confermano una volta di più, non solo a livello timbrico, la ascendenza della loro visione musicale. Davvero un bellissimo disco.

Track list
1 Broken Coriolanus
2 The Worm
3 The Moon Is Down

Line up
Andrea Massimo – Guitar, Vocals
Walter Kesten – Guitar, Vocals
Demetra Fogazza – Flute, Vocals
Lino Cicala – Piano, Keyboards
Andrea Zani – Piano, Keyboards
Tony Alemanno – Bass
Matteo Paparazzo – Drums

HOLLOWSCENE – Facebook

Demetra Sine Die – Past Glacial Rebound

Una vera lezione di stupendo post-black sperimentale, con intrusioni dark, noise, drone e doom. Un nuovo ed ulteriore volto dei Demetra Sine Die, fedeli a sé stessi eppure sempre capaci di rinnovarsi.

E’ a dir poco strepitoso il nuovo capitolo dei Demetra Sine Die, eccellente gruppo italiano, giunto al terzo full-length, pubblicato dalla inglese Third I Rex.

Il lavoro si dipana attraverso sette tracce, tutte all’insegna di una grande varietà sonora. Post Glacial Rebound è – come anticipa il titolo – freddo e cerebrale, ma anche emozionale ed evocativo, intenso ed attento alle suggestioni che la musica – un grandioso mix di post-black, drone doom, noise e dark prog sperimentale – sa evocare ad ogni solco in maniera sublime. Quasi alla stregua di un film, le composizioni di questo nuovo CD dei Demetra Sine Die – nei suoi quarantasette minuti di durata complessiva – si presentano come una sorta di viaggio nello spazio, un’esplorazione cinematica che può ricordare, con il suo post-metal mutante, Tool, Virus e in particolare Oranssi Pazuzu. Si ascoltino al riguardo, tra loro collegate, l’opener Stanislaw Lem – il suo Solaris è stata una fonte d’ispirazione letteraria fondamentale – e la quarta traccia, Gravity: nelle due composizioni i sintetizzatori (tutti analogici, a cominciare dal Korg MS20) rendono atmosferico e fantascientifico il sound. Un taglio futuristico che non è tuttavia privo di calore, come sottolinea la sezione ritmica (il batterista Marcello Fattore, abilissimo nelle sue tessiture percussive, e il bassista Adriano Magliocco, dal tocco, a tratti, quasi grunge). I riverberi e gli squarci materici della chitarra di Marco Paddeu fanno il resto, compattando e variegando il magma sonoro esplorato dai Demetra Sine Die, declinandolo in termini ora tesi e drammatici (Lament), ora più melodici (Liars). Anche le linee vocali sono assai varie: abbiamo parti recitate (quelle iniziali di Eternal Transmigration hanno un che di pinkfloydiano), clean vocals ed uno screaming di stampo più classicamente black (in veste di ospite partecipa Luca Gregori dei torinesi Darkend), il che dona un tocco weird al tutto. La title-track conclusiva riassume tutte le caratteristiche della band ligure e di questo suo nuovo magistrale lavoro, densa e concettuale, spirituale e cangiante, pulitissima nelle soluzioni timbriche adottate di volta in volta e potente nell’impatto. La grafica di Anna Levytska, che ha collaborato tra gli altri con i Blut Aus Nord, incornicia il tutto. Capolavoro, tra i dischi dell’anno.

Tracklist
1 Stanislaw Lem
2 Birds Are Falling
3 Lament
4 Gravity
5 Eternal Transmigration
6 Liars
7 Post Glacial Rebound

Line up
Adriano Magliocco – Bass, Synthesizers
Marco Paddeu – Vocals, Guitar, Korg MS20
Marcello Fattore – Drums

DEMETRA SINE DIE – Facebook

Ancient Veil – Rings of Earthly… Live

Una summa dal vivo che permette di ripercorrere lo splendido itinerario musicale di Eris Pluvia ed Ancient Veil. Una grande dimostrazione di vitalità e spessore del prog di casa nostra.

Nel 1991, tra i simboli della rinascita progressiva nel nostro paese, usciva Rings of Earthly Light dei liguri Eris Pluvia, stupenda opera di prog pastorale e bucolico, intriso di aromi canterburyani.

Oggi, gli Ancient Veil – che dagli Eris Pluvia sono derivati, con il vocalist e chitarrista Alessandro Serri, il sassofonista Edmondo Romano e la cantante Valeria Caucino – omaggiano quel luminoso passato, così storicamente importante, riproponendo altresì in versione live brani degli stessi Ancient Veil. Il CD in questione è così la registrazione del bellissimo concerto tenuto alla Claque di Genova l’11 di novembre del 2017: una stupenda alternanza di composizioni vecchie e nuove, un ponte gettato fra passato e presente, con il filo rosso rappresentato dall’amore per la musica di qualità a tener insieme i giorni di ieri e quelli di oggi, senza peraltro alcun compiacimento nostalgico o autoindulgente. La prestazione degli Ancient Veil è impeccabile e sentita (si nota la presenza di Fabio Zuffanti), mentre l’incisione è ottima. Da Rings of Earthly Light vengono riproposte la suite omonima e due brani, il resto è materiale Ancient Veil. E da questo imperdibile concerto emerge come le esperienze dell’uno e dell’altro gruppo si ricolleghino vicendevolmente senza soluzione di continuità. La creatività, del resto, non ha tempo.

Track list
1- Ancient Veil
2- Dance Around My Slow Time
3- The Dance of the Elves
4- Creature of the Lake
5- Night Thoughts
6- New
7- Ring of Earthly Light
8- Pushing Together
9- In the Rising Mist
10- I Am Changing
11- If I Only Knew
12- Bright Autumn Dawn

Line up
Alessandro Serri – Vocals, Guitars, Flute
Edmondo Romano – Reeds
Fabio Serri – Vocals, Piano, Keyboards
Massimo Palermo – Bass
Marco Fuliano – Drums
Valeria Caucino – Vocals
Marco Gnecco – Oboe
Fabio Zuffanti – Guitar
Stefano Marelli – Guitar

ANVIENT VEIL – Facebook

Una Stagione all’Inferno – Il mostro di Firenze

Un inquietante viaggio musicale nella storia di un mistero italiano forse mai del tutto risolto, reso in musica attraverso altrettanto inquietanti barocchismi, oscuri e progressivi.

Non poteva che essere la Black Widow di Genova, forte della sua competenza in materia, a distribuire questo disco, vero gioiello di dark prog d’alta scuola.

Il nome scelto dal gruppo – accompagnato da diversi e prestigiosi ospiti, tra i quali Roberto Tiranti e Pier Gonella – rimanda a Rimbaud, mentre il titolo ai drammatici e tragici fatti di cronaca nera che insanguinarono il capoluogo toscano dalla metà circa degli anni ’80. Una Stagione all’Inferno vuole mettere pertanto in musica quegli inquietanti e mai troppo distanti avvenimenti, la cui radice riporta al fondo buio dell’animo umano: un’impresa non facile, ma anche una scommessa vinta sul piano artistico e musicale. Classico e moderno nello stesso tempo, Il Mostro di Firenze – una sorta di concept, la cui tessitura complessiva non consente quasi di separare i singoli momenti che lo vanno a comporre – si rivela un gran bel disco di oscuro rock sinfonico (è forse questa la migliore definizione possibile dell’intero lavoro), quasi un viaggio barocco nelle tenebre condito da eccellenti parti strumentali e malinconiche melodie, in un sapiente alternarsi di situazioni, ora più pompose ed ora più intimiste. Veramente un ottimo lavoro, superbo sotto il profilo sia della scrittura sia dell’esecuzione.

Track list
1. Novilunio
2. La ballata di Firenze
3. Nella notte
4. Lettera anonima
5. Interludio macabro
6. L’enigma dei dannati
7. Serial Killer Rock
8. Il dottore
9. Plenilunio

Line up
Laura Menighetti – Vocals, Keyboards
Fabio Nicolazzo – Vocals, Guitars
Roberto Tiranti – Bass, Chorus
Pier Gonella – Guitars
Marco Biggi – Drums
Paolo Firpo – Sax, Akai Ewi 4000S
Kim Schiffo, Daniele Guerci, Laura Sillitti – Strings

UNA STAGIONE ALL’INFERNO – Facebook

Goad – Landor

Nuovo lavoro da parte dello storico gruppo toscano, interprete di un incantevole hard prog gotico, dalle inflessioni ora più folk ora più doomeggianti. Puro romanticismo dark in musica, malinconico e melodico insieme.

In pista ormai dal lontano 1983, i fiorentini Goad confermano con questo loro nuovo lavoro tutta la propria creatività artistica, forti di un’identità che li vede pressoché unici nel panorama musicale di casa nostra.

La persistenza della tradizione: forse solo così si potrebbe definire la loro musica, erede del prog (King Crimson, Pink Floyd, VDGG), dell’hard rock anni Settanta (Led Zeppelin, Triumph, Rush, primi Uriah Heep) e del dark più occulto (High Tide, Atomic Rooster, Goblin, Devil Doll). In questa nuova opera – la dicitura non è casuale, in quanto Landor è una sorta di mono-traccia d’oltre cinquanta minuti suddivisa in tredici parti (o movimenti, se si vuole) – l’amore dei quattro toscani, a cui si aggiunto in veste di pianista e ingegnere del suono il lucchese Freddy Delirio (tastierista già con i Death SS e solista notevolissimo), per tematiche romantiche e decadenti trova una ulteriore e nuova declinazione, sonora e canora: progressive tastieristico, doom e impasti folk (con la passione per il gotico a fare, ogni volta, da collante) intersecano i loro piani, in quello che è un concept dalla struggente bellezza, letteraria, oltre che musicale. Non a caso, il secondo CD di questo doppio è un omaggio a Edgar Allan Poe, registrato dal vivo, al Parterre di Firenze, nel luglio dell’oramai lontano 1995: un documento davvero storico, quindi, inciso da una formazione della quale è rimasto solo il vocalist, che arricchisce ulteriormente questa pubblicazione. Alchimisti e teatrali interpreti dell’hard prog, non senza una profonda consistenza materica (si veda l’uso della doppia batteria in Landor), i Goad allora come oggi erano e restano da apprezzare senza riserve, coraggiosi e coerenti.

Tracklist
1- Written on the First Leaf of My Album
2- On Music
3- To One Grave
4- Bolero
5- Goodbye, Adieu
6- Life’s Best
7- Where Are Sights
8- Decline of Life
9- An Old Philosopher
10- The Rocks of Life
11- Defiance
12- Brevities
13- Evocation
14- I’ll Celebrate You
15- Fairyland
16- Dream Within a Dream
17- The Sleeper
18- To One in Paradise
19- Dreamland
20- Alone
21- The Haunted Palace
22- The City in the City
23- The End

Line up
Alessandro Bruno – Guitars, Reeds, Violin
Maurilio Rossi – Vocals, Bass, Guitar, Keyboards
Paolo Carniani – Drums
Enrico Ponte – Drums

GOAD – Facebook

Militia – Regiments of Death

Nastro di una band forse minore, ma comunque molto interessante, del thrash americano della metà degli Eighties: tra l’altro, un caso rilevante di gruppo non proveniente dalla Bay Area.

Gli americani Militia sono tra quegli sfortunati ‘grandi fra i minori’ che non hanno mai raggiunto la possibilità di pubblicare un disco in vita.

Texani, si formarono ad Austin, nel 1984, e rimasero attivi solo sino al 1986 (per riformarsi poi molti anni dopo, come accadde a tanti dei loro colleghi). Il loro primo demo tape vide la luce nel 1985, con il titolo di Regiments of Death, ad opera di un manipolo di musicisti che avevano o avrebbero militato in gruppi più noti (Watchtower, SA Slayer, la band di Rhett Forrester dopo la sua uscita dai Riot). Il nastro conteneva solo tre pezzi, peraltro eccellenti ed altamente rappresentativi di quello che era l’heavy a stelle e a strisce, a metà degli anni Ottanta: per un verso ottimo thrash metal, in linea con le aree di San Francisco e Los Angeles; per un altro molte propensioni speed e segnatamente US metal, stile Metal Church-Vicious Rumors per intenderci. La cassetta, divenuta assai presto introvabile, è stata infine ristampata, su compact, dalla Rockadrome – nel 2008 soltanto, peraltro – con il titolo Released, insieme ad altro materiale di provenienza demo: cinque brani del 1986, due del 1984 e altrettanti dal vivo. La migliore occasione per una doverosa e utile operazione di recupero storiografico. Perché anche questa è archeologia musicale.

Track list
1. Metal Axe
2. Search For Steel
3. Regiments of Death

Line up
Mike Soliz – Vocals
Tony Smith – Guitars
Robert Willingham – Bass
Phil Acham – Drums

1985 – Autoprodotto

Destruction – Bestial Invasion From Hell

La cassetta che, nel 1984, creò il thrash in Germania: un crogiolo primordiale di cattiveria e belluina velocità di ascendenza venomiana, non senza già una certa personalità.

In principio vi erano i Knight of Demon, sorti nel 1983. Pochi mesi e mutarono monicker. Nacquero così, agli inizi del 1984, i Destruction.

Il trio tedesco affilò immediatamente le armi e lo fece con un demo tape che, di fatto, fondò il thrash in Germania. Bestial Invasion From Hell, pubblicato il 10 di agosto del 1984, proponeva sei tracce che avrebbero trovato in seguito posto (sino al 1986) sugli LP dei Destruction, ponendo le basi del thrash teutonico, e le fondamenta del mito di Schmier e sodali: rispetto ai modelli americani della Bay Area, le sonorità erano più tetre e oscure, nere e tenebrose. Il thrash si abbeverava in Baviera alla fonte maligna del dark-black inglese di Venom ed Angel Witch, per uscirne se possibile ancora più veloce e claustrofobico, tracciando una strada percorsa in quegli stessi mesi pure dagli amici Sodom, a nord del paese. I venti minuti scarsi di Bestial Invasion From Hell, nel 2000, sono stati interamente risuonati dai Destruction: la band ha aggiunto la registrazione, come bonus-cd, alla prima edizione di All Hell Breaks Loose, il disco che ha segnato il loro grande e definitivo ritorno fra i maestri indiscussi del genere. Un ponte fra passato e presente, fra giovinezza e maturità, fra innocenza e meritato successo.

Tracklist
1- Mad Butcher
2- Total Desaster
3- Antichrist
4- Front Beast
5- Satan’s Vengeance
6- Tormentor

Line up
Mike Sifringer – Guitars
Schmier – Bass / Vocals
Tommy Sandmann – Drums

Descrizione breve

1984 – Autoproduzione

Beyond the Wall of Blues: Jack Bruce e Ginger Baker dopo i Cream

Dopo lo scioglimento dei Cream, a fine anni Sessanta, secondo molta stampa specializzata e diversi giornalisti rock, Jack Bruce e Ginger Baker – rispettivamente basso e batteria, si sa, della band che rese famoso Eric Clapton – avrebbero disperso il proprio genio, in una miriade di dischi solisti e di troppi progetti, fra loro stilisticamente disomogenei.

Questo, almeno, quel che fin da allora di solito si dice. Forse, però, la verità può essere anche un’altra. E la parola chiave per accedervi, al posto di dispersività – potrebbe risultare versatilità musicale. O anche intraprendenza artistica. Proviamo qui a riscrivere, pertanto, una storia che si crede a torto esser nota. O, peggio ancora, sepolta.
Cominciamo da Jack Bruce: l’effervescente e talentuoso bassista, che suonava il proprio strumento come fosse una chitarra, iniziò la carriera solista con Things We Like, passando dal British Blues al neonato Jazz Rock davisiano. Per il disco, uscito nel 1970, volle non casualmente alla chitarra l’astro nascente John McLaughlin, di lì a poco fondatore della Mahavishnu Orchestra. L’anno dopo (1971), Bruce lavorò con John Marshall, ex batterista dei Nucleus (poi nei Soft Machine). L’intenzione era chiara: portare avanti e nello stesso tempo oltrepassare, in direzione fusion, l’eredità di Bluesbreakers, Cream e John Mayall. Ad ogni buon conto, Bruce non dimenticò del tutto il rock, partecipando al classico Berlin di Lou Reed (1973), grande capolavoro di art-glam sinfonico-orchestrale del decennio, e dando vita con Leslie West e Corky Laing dei Mountain ad un sodalizio molto più hard rock (indimenticabile la calda performance di Live ‘n’ Kickin’, nel 1974). Il sentiero da percorrere, anzi la strada maestra, era tuttavia per Bruce quella del jazz rock, sia quello mutante e provocatorio di Frank Zappa (Overnite Sensation, uscito nel 1973 con la collaborazione, tra gli altri, di Jean-Luc Ponty al violino) sia nelle vesti di solista (il suo nome del resto lo precedeva insieme alla fama). Videro così la luce due dischi che la critica ha sbagliato grossolanamente a voler dimenticare in fretta: How’s Tricks (registrato nel 1976, pubblicato nel 1977) e Jet Set Jewel (1978), due ottimi lavori di fusion settantiana, incisi con il ricercatissimo drummer Simon Phillips e con un tastierista tanto abile quanto sempre sottostimato e sacrificato a più altisonanti nomi, Tony Hymas (poi con Jeff Beck, negli anni Ottanta). Né Bruce si fermò qui, collaborando nel 1979 con il grande sassofonista inglese John Surman, in quegli anni (anche nei SOS e con Terje Rypdal) impegnato a individuare inediti punti di contatto tra il free jazz nordeuropeo e l’elettronica tedesca.

Nel 1980, Bruce – insieme a Billy Cobham ed al tastierista David Sancious (autore, con A Forest of Feelings, di uno dei più bei dischi di space prog americano di sempre) – licenziò il fenomenale I’ve Always Wanted to Do This, un capolavoro assoluto di hard/fusion, un album da ritenere giustamente storico: fresco e fantasioso, tecnico e potente, melodico e ritmico (lo si ascolti nella ristampa della Esoteric). Nel 1981, con Allan Holdsworth ed altri, Bruce fu poi nei riformati Soft Machine di Land of Cockayne, altro lavoro da riscoprire, senza pregiudizi o paraocchi. Sempre nel 1981, Bruce suonò il basso nel fantastico Tilt di Cozy Powell, ancora una volta tra hard e fusion – i suoni sono molto alla Jan Hammer – con il validissimo apporto di Sancious alle tastiere.
Gary Moore, nel 1982, volle quindi Bruce bassista (insieme a Neil Murray, ex Gilgamesh e futuro Black Sabbath) nel suo eccellente Corridors of Power: per l’ex Cream fu l’occasione di ritornare al blues e in particolare all’hard rock metallizzato di scuola britannica. Nel medesimo anno Bruce ebbe anche modo di scoprire le nuove tecnologie elettroniche allora imperanti nel Regno Unito (erano gli anni di gloria del synth-pop): dapprima collaborò infatti con l’ex vocalist degli Yes, Jon Anderson, al suo Animation, gioiellino di new wave sintetica (1982), e di lì a breve fornì la propria versione del pop elettronico con l’album solista Automatic (1983), realizzato con i fedeli Hymas e Phillips: molto progressive in certe aperture, che conservano ancora oggi intatto tutto il loro fascino e non perdono soprattutto mai di vista l’anima rock di fondo (a differenza di quanto accadde allora a molti).
Ancora nel 1983, Bruce partecipò insieme ad un altro immenso bassista, Jeff Berlin, a Road Games, mini-LP di Holsdworth, successivamente rinnegato dall’autore. Tutte queste collaborazioni, tuttavia, lo confermavano, al di là della classe fuori discussione, come un session-man non appariscente. Al quel punto, il suo migliore disco solista restava forse Out of the Storm, apparso nel novembre 1974, per la RSO, impreziosito dalla splendida chitarra di Steve Hunter (Detroit, Alice Cooper, Lou Reed fra i tanti). Seguirono dunque sei anni anni di ritiro dalle scene, di solitudine e di problemi. Solo nel 1989 il bassista scozzese ne uscì, tornando alla grande al suo maggiore amore, il jazz rock, con lo stupendo A Question of Time, affiancato da uno stuolo di musicisti illustri, tra i quali gli amici Allan Holdsworth e Tony Williams: il disco è moderno e tradizionale insieme, attestazione di coerenza e integrità artistica, dall’altissimo spessore qualitativo. In seguito, prima che la morte ce lo strappasse, nel 2014, il lavoro migliore di Bruce è stato, probabilmente, Moonjack (1995), un particolare funk sperimentale per sole tastiere, non privo di reminiscenze mutuate dai Manfred Mann o dai Lifetime dei tempi che furono. Assai interessante altresì la partecipazione a Industrial Zen (2006) di John Mc Laughlin, manifesto della nuova fusion del terzo millennio, con scenari digitali e campionatori Hi-tech, freddi sintetizzatori Yamaha ed ospiti illustri: Bill Evans (Miles Davis), Gary Husband (Level 42) e Vinnie Colaiuta (Zappa). In questo disco, Bruce mette in mostra un variopinto suono ottantiano e brillanti passaggi di basso alla Jaco Pastorius (periodo Weather Report e Word of Mouth). Il degno epitaffio d’una carriera superba.
Dal canto suo, scioltisi i Cream, Ginger Baker, uno dei big five della batteria del Novecento (insieme naturalmente a John Bonham, Tony Williams, Keith Moon e Neil Peart), si buttò prima nei Blind Faith (1969), quindi fondò i suoi Air Force: due grandi dischi di jazz rock nel 1970 (tre con il postumo Live in Offenbach) e ben tre sassofonisti in formazione. Tra il 1971 e il 1972, mentre stava lavorando alla realizzazione del suo esordio da solista con Stratavarius, l’eclettico e formidabile batterista fece la conoscenza di Fela Kuti e con quest’ultimo realizzò tre lavori che di fatto crearono l’afro-beat, sorta di ponte tra Oriente e Occidente, tra rock e Africa, armonizzazioni anglo-americane e ricerche ritmiche sincopate: a dire poco storico il Live che i due incisero in particolare nel 1972: qui il batterista dei Blues Incorporated di Alexis Korner e dei Cream riportava letteralmente a casa il retaggio di Art Blakey, Elvin Jones e Max Roach, aprendosi con ciò alle modalità strumentali dei percussionisti africani, coadiuvato dalla chitarra elettrica di Peter Animasbaun e da una nutrita sezione fiati, che dialoga con i poliritmi delle congas, riscoperte in quegli anni anche da Santana.
Nel 1973 Baker suonò la batteria in Band on the Run dei Wings di Paul McCartney e l’anno dopo si buttò in un nuovo super-gruppo, i Baker Gurvitz Army, con ex membri di Gun e Three Man Army: il primo disco, uscito per la Vertigo nel 1974, offre un entusiasmate ed incandescente hard prog, tra i migliori di tutto il decennio, autenticamente spettacolare e libero dai vincoli commerciali. Aiutati dal cantante Snips (ex Sharks) e dal geniale tastierista-sintetista fusion Peter Lemer (Seventh Wave e Gong) al mini-moog, i BGA registrarono successivamente il più blues Elysian Encounters (1975) e il più melodico Hearts on Fire (1976), ambedue per la piccola Mountain Records. Si sciolsero per lo scarso successo incontrato.

Nel 1979, Baker entrò a far parte dei rinati Atomic Rooster di Vincent Crane e nel 1980 degli space-rockers Hawkwind, nel magnifico Levitation. Uscito tuttavia dal gruppo di Dave Brock, il batterista si ritirò a vita privata, riemergendone solo anni dopo, in Album (1986) dei Public Image Limited del funambolico John Lydon, che lo volle membro di una vera all-star band, comprendente Steve Vai alla chitarra, Bill Laswell al basso, Ryuichi Sakamoto alle tastiere, Ravi Shankar al violino e Tony Williams alla seconda batteria. Fu in quell’occasione che Baker, conosciuto Laswell, decise di voler collaborare con lui nel progetto newyorkese No Material (1989): un album dal vivo, davvero molto post, intriso di funk obliquo e dissonante, destrutturato e a tratti quasi atonale (collabora non a caso il sassofonista Peter Brotzmann, alfiere del più coraggioso free jazz tedesco (altri nomi al riguardo: Anima e Annexus Quam, sia detto per inciso).
Per il resto, Ginger Baker ci ha lasciato numerosi dischi solisti, nessuno dei quali in verità davvero indimenticabile. Sono rimaste invece realmente nella memoria le sue infuocate esibizioni dal vivo a Monaco di Baviera (1972 e 1987), Berlino (1978) e Milano (1980 e 1981), oggi tutte ristampate su CD e pertanto di nuovo disponibili. Concerti davvero indescrivibili, da avere a tutti i costi. Inoltre, Baker ha collaborato anche con Bill Frisell, Andy Summers, Jens Johansson (Silver Mountain, Dio, Malmsteen, Stratovarius, Mastermind, Allan Holdsworth e Rainbow) e BBM (in trio, con il grande Gary Moore e l’amico ritrovato Jack Bruce). L’ultimo grande disco di Ginger Baker resta senz’altro African Force (2001), capace di riprendere e portar avanti, a ormai trent’anni di distanza, il discorso avviato tempo addietro con il nigeriano Fela Kuti. E dimostrando quanto il connubio rock e Africa, tutt’oggi, abbia ancora da dire e da dare. I pezzi di African Force attualizzano altresì il messaggio di Peter Green (End of the Game, 1970) e di Stuart Copeland (l’estroso The Rhythmatist, 1985), due dei musicisti britannici che tra i primi precedettero (Green) e seguirono (Copeland) la via indicata da Baker e Kuti. Né si possono o devono dimenticare, al riguardo, i concerti tenuti in Zaire nel 1974 da James Brown. A proposito di Kuti, va infine rammentato che mentre Baker si rivolgeva al post-punk e alla dark-wave eterodossa dei PIL, nel 1986, il musicista africano si esibiva a Detroit con gli Egypt 80, continuazione ed aggiornamento di quanto fatto con l’ex batterista dei Cream nel 1971.